Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

Il tarantismo nel Salento di ieri

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica  arte (1644) del P. Atanasio Kircher
Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 di Ermanno Inguscio

Sembra trascorso un secolo da quando lo studioso Ernesto De Martino, calato nel Meridione con la sua  équipe di studiosi, interessandosi con perizia scientifica al fenomeno del tarantismo, aveva finito col definire il Salento “terra del rimorso”. Egli aveva così inseguito e rintracciato gli ultimi esempi viventi, donne provenienti da ceti popolari, ma anche uomini,  che legavano i propri disagi psicofisici al mito dell’onnipotente  paterfamilias  e si rifugiavano nell’illusione della cappellina di San Paolo in Galatina (Lecce), per mezzo del ballo della pizzica pizzica,  che fosse l’unico strumento di sollievo e persino di guarigione dai propri mali. Ed era quasi impossibile avere testimonianze dirette  o riferite delle contraddizioni della vecchia civiltà contadina al cui interno, e sembra passato più di un secolo, esplodevano conflittualità di ruoli socio-familiari e di contesti economico-culturali di un tempo ormai svanito dietro la massificante opera dei mezzi della odierna comunicazione sociale.

Ma è proprio di ieri, in quel di Ruffano, dove oggi la locale biblioteca comunale “Don Tonino Bello” organizza un incontro culturale con l’Università del Salento dal titolo  Racconti di una tarantata. Ruffano e il tarantismo di Michela Margiotta, che mi è occorso di dover ascoltare una storia singolare di un mio vecchio compagno di scuola. Costui, non me ne aveva mai fatto cenno, nel ricordarmi di fare un salto in biblioteca ad ascoltare sul tema l’antropologo Eugenio Imbriani, moderatrice Monia Saponaro, mi riferisce di essere rimasto orfano di madre in tenerissima età, una tarantata con tipici disturbi ricorrenti, finita suicida in un pozzo d’acqua, dopo che le preghiere al Santo dei serpenti e della tarantola, San Paolo di Tarso, fatte ogni anno a Galatina, nella sua cappellina, accanto al “pozzo dei miracoli”, si erano tragicamente rivelate vane.

L’amico mi racconta con foga che lo scetticismo del padre lo aveva portato,  anche per dare un taglio all’appuntamento annuale con la visita al Santo,  da fare in traino col cavallo fino a Galatina, a cercare di dissuadere la povera moglie spesso in preda  alla micidiale trance: da un  muretto di pietre era sbucata una serpe nera, che si era attorcigliata attorno alle gambe della povera donna. Se n’era liberata soltanto dopo avere promesso di tornare a pregare il Santo dei tarantolati. L’allora bambino di tre anni, finito poi in collegio come conseguenza dell’orfanezza, solo da adulto aveva potuto più volte  ascoltare il racconto del triste destino della povera madre.

Sono rimasto di sasso  all’ascolto di tale tragica esperienza e ho dovuto rimarcare che il tema del convegno, il fenomeno del tarantismo nel nostro Salento, che mi ha visto impegnato in ottobre scorso  in un  Convegno Internazionale a Lisbona, non è poi una tematica tanto lontana dalla nostra vita.

In effetti spunto dell’incontro lo ha offerto un vecchio libro di Annabella De Rossi,  Lettere da una tarantata (De Donato Editore, 1970), che nel proprio nel1963, venendo a Ruffano, nel territorio dove insiste Torrepaduli , nota per la pizzica scherma del “ballo di San Rocco”, aveva conosciuto Michela Margiotta, anch’essa tarantata,  e ne aveva trascritto le lettere, appuntate dalla povera vecchia ormai quasi settantenne, tra errori grammaticali ed espressioni idiomatiche, che pure riuscivano ad aprire uno squarcio su  delicati dissidi interiori.

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del   P. Kircher (1673)
Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

Ma “la Margiotta”, Michela Margiotta, per noi ragazzini terribili dissacratori di ogni cosa, al tempo della cosiddetta infanzia felice, era l’oggetto dello  scherno e degli schiamazzi nella vecchia piazza del paese ad ogni suo passaggio per recarsi in qualche suo podere. Faceva un po’ paura, di bassa statura, vestita di nero, scura in volto e baffuta, con una sporta di vimini dove qualche adulto vociferava albergassero aracnidi di ogni tipo e talvolta piccoli rettili, tagliava in un baleno lo slargo “Carmelitani”, dopo avere indicato le campane della vicina Confraternita e minacciando i più discoli di farli sparire nel sacco di iuta sulle sue spalle. Un vero terribile spauracchio, utilizzato dalle giovani mamme di fronte ai capricci dei più piccoli. Ma per  quegli scavezzacollo di ragazzini più grandicelli, il passaggio in paese della Margiotta costituiva una implacabile palestra dello sberleffo. Quel micidiale coraggio dello scherno gratuito non allignava in me, ragazzino, che osservava dietro le finestre di casa il passaggio di quello strano personaggio, nella centrale via San Rocco.

Non ho mai saputo, da bambino, che in Michela si celassero disagi e dissidi degni almeno di umana pietà e commiserazione. Oggi il convegno, voluto nella sua patria, all’interno della rassegna culturale “Librare tra storia, cultura e società”, mette sotto la lente dell’analisi storica un personaggio della nostra società di ieri. Non vi era certo il benessere di oggi, ma era tuttavia il tempo del vero focolare domestico, tra il calore del camino e i racconti dei nonni, tra le caldarroste di San Teodoro e una fetta di pane arrostito all’olio appena  prodotto nell’oliveto di famiglia.

Ricordi di adulti, ricordi di bambino, come quello mio personale quando, e fu l’unica volta della vita, in cui accompagnai mia madre, negli anni Sessanta, alla festa di San Paolo a Galatina. Tanto caldo, tanta gente sconosciuta, odore rancido di candele bruciate nella chiesa parrocchiale, ne riferii nel mio volume “La Pizzica scherma di Torrepaduli” (2007): ho visto donne, vestite di nero, strisciare con la lingua sul pavimento a chiedere la grazia ai Santi Pietro e Paolo, come le ho poi riviste soltanto a Madrid nel 2005 e piccoli venditori di nastrini colorati da utilizzare nelle danze delle tarantate.

Nella festa del Santo delle “pizzicate”, San Paolo, non ho visto serpi far capolino dal pozzo, né donne in cerca di guarigione né in trance né danzare né con violinisti, tantomeno con guaritori e parenti. Ma ho nelle orecchie, ancora oggi, il fremito assordante dei tamburelli, forse a mimetizzare tragedie sopite e da nascondere. Come mi nascondevo io al passaggio di Michela Margiotta, che per me non era certo una tarantata. E dire che pensavo di non averne mai conosciute: nell’anno Duemila, poi,  non potevano essercene.

Ma mi sbagliavo. Le tarantate erano tra noi, vicino alle nostre dimore. Ma quell’amico, che ha perso da bambino sua madre suicida nel pozzo,  la tarantata, l’essere che gli aveva dato la vita, glielo vedo negli occhi, ce l’ha ancora nell’anima.

Origine e discendenza dei carmati ti Santu Pàulu

ELSHEIMER ADAM, S. Paolo a Malta

 

RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

ORIGINE E DISCENDENZA DEI
CARMATI TI SANTU PAULU

 Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:

“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.

Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.

Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu
e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa
mpéssime an core loru si ticìanu:
ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!

Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!

Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.

Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu
la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta,
lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu,
la facce ti li sierpi ja cangiàta.

No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte,
ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu,
criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte,
mmansùte comu àunu ‘mpena natu.

Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.

Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza

La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta
tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru
tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta
la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.

E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu
si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa
quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu
pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.

La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.

Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).

dal libro di Brizio Montinaro “San Paolo dei serpenti”, Sellerio, Palermo 1996

Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

 

Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).

San Paolo
S. Paolo Apostolo. Cartapesta del 1800 custodita in Galatina nella “cappeddhra ti li tarantate”

La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 

GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36)
con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994

Tarantismo salentino e antico culto ellenico di Asclepio

Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio

di Romualdo Rossetti

Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.

Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.

Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.

Galatina, cappella di San Paolo, particolare della tela del santo omonimo

Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.

L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.

Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzoomphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.

Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.

Esculapio

Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di  barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un

I tarantati secondo Teresina

di Josè Pascal

Gli anni ’50 nei paesini del Sud Salento me li hanno solo raccontati. Ai ricordi di mia nonna devo la mia memoria della miseria più nera, di quella quotidianità oggi chiamata folklore e delle tante braccia partite a cercar fortuna.
Mi sembra di vederli i tarantati, puntuali alle soglie di ogni estate, che si dimenano nelle piazze, tra il clamore concitato della gente ed il ritmo serrato dei tamburelli. Quando nonna Teresina ne parla, comincia sempre dicendo: “Succedia ca certi cristiani tuttu de paru scuppàvane an terra – accadeva che alcune persone all’improvviso stramazzassero a terra posseduti da una forza soprannaturale – anche qui, a Comuncè c’era gente pizzicata da taranta o colpita dai guai de Santu Dunatu. C’era a CONSIJA SSUNTAMIJIA – persona per mia nonna normalissima – ca passava de sutta i pali de segge, scinnia de scale tutta curcata stisa – che strisciava in maniera scomposta tra le gambe delle sedie, si introduceva nei posti più angusti e scendeva dalle scale distesa – se girava de na vanna e de l’autra, sturcia anterra poi cuntava cu Santu Dunatu – si contorceva con fare frenetico e poi rivolgeva richieste e preghiere a San Donato. C’erane quiddi ca sunavane pizziche cu li passa u male. E poi dopu ure li passava e diventavane normali sti cristiani – spesso per esorcizzare questo male si ricorreva ai tamburellisti, ai suonatori di organetto e fisarmonica, perché una danza scatenata ed estenuante era l’unico modo per liberarsi da questo stato di isteria e tornare in se stessi.

Arrivata a questo punto della sua storia nonna Teresina diventa malinconica e reticente – Basta, sta me sentu fiacca cu le cuntu ste cose – non insisto perché continui il suo racconto. La lascio al suo silenzio. So già che con la mente è tornata a quel torrido pomeriggio di giugno; era ancora bambina e davanti la sua casa saltellava attorno a suo nonno che suonava il tamburello. Non poteva sapere, Teresina, che quel suo ballo spensierato e vivace si sarebbe trasformato in una lotta per la sopravvivenza, circondata dagli zombi della sua infanzia.

 

Lo pseudo lettore scrivente
Jose Pascal

In parole semplici – Scatola di latta virtuaculturale
http://parolesemplici.wordpress.com

Link di riferimento:
http://parolesemplici.wordpress.com/2010/05/22/i-tarantati-secondo-teresina/

Le tradizioni paoline dal meridione al mondo: una recensione su un lavoro di Brizio Montinaro

Recensione su San Paolo dei serpenti (Sellerio, Palermo 1996) pubblicata su The Times del 30 luglio 1996

by Norbert Ellul Vincenti

Un serparo

This is not a book about St Paul as such about the traditions connected with him and Malta. And not about all the traditions, but around those having to do with serpents and folklore.
Who is Montinaro? No other than an actor who has worked with Lattuada, Comencini and Zeffirelli. Of no mean standing, you could say, as an actor.
He is a student of cultural anthropology and is interested in particular in the dialectics of religious phenomena.
This is a book that is respectful of the depositum and the texts and documents. The author has carefully read all that there is to be read and carefully noted it.
He acknowledges help from Can. John Azzopardi of the Cathedral Museum, the Collegiate Chapter, the Commission for the Museum of the Cathedral, Mdina, Mr Patrick Galea for some illustrations, and Alfonso M. Di Nola, “anthropologist and historian of religions”.
The same Alfonso M. Di Nola has a longish preface, in which he pays tribute to the work of his student.
The book not only makes claim to scientific procedure, but is actually so. This is a careful piece of work, well worth reading and studying. As Di Nola himself shows, the author is not given to interpretative games or wild exhibitionism one so often meets hiding under scientific names. He writes, of course, from a scientific and lay point of view.
The first chapter is dedicated to Saint Paul of the serpents and headed with the words of the Acts of the Apostles: Et cun evasissemus tunc cognovimus quia Melita insula vocabatur (and as we escaped we knew the island was called

Galatina. Breve nota irriverente e fantasiosa su San Paolo e le tarantate

di Massimo Negro

Ho dei buoni motivi per ritenere che San Paolo in fin dei conti non abbia mai avuto vita facile a Galatina. Anzi forse avrebbe fatto anche a meno di essere presente in quella città.

Non che a Roma le cose fossero state tutte rose e fiori. Lasciamo perdere il martirio che nella vita di un Santo, specialmente nei primi anni del cristianesimo, era una scelta quasi obbligata. A preoccuparlo erano stati soprattutto i rapporti iniziali con il Santo pescatore.

Paolo pur con qualche difficoltà aveva alla fine accettato questa coabitazione come santo patrono della città eterna. Avrebbe preferito, in virtù della sua cittadinanza romana, che si dicesse “Santi Paolo e Pietro”, ma alla fine se l’era fatta passare.
Così come, pur se con qualche borbottio, aveva accettato che la sua Basilica venisse posta fuori le mura anziché in centro.
Più di qualche borbottio, riferiscono santi a lui vicini,  c’era stato quando il vescovo di Roma (per intenderci il Papa) aveva scelto come sede San Giovanni, ma qualcuno gli aveva fatto prontamente notare che trattavasi pur sempre del cugino del Maestro e del discepolo “che Egli amava”.
Dopo i primi momenti e le difficoltà iniziali, si può dire che a Roma era riuscito a trovare un suo spazio, una sua dimensione. Sempre pronto a sfoderare la spada, ma il suo carattere si era con il tempo ammorbidito.

Ma questo non accadeva quando pensava a Galatina. Lasciamo stare il fatto che il ritrovarsi anche nel Salento in compagnia di Pietro non l’avesse entusiasmato, e forse lo stesso Pietro, che per primo ci aveva messo piede, non era contentissimo. Ma dopo tanti anni di coabitazione romana alla fine i due conoscevano pregi e difetti l’uno dell’altro e sapevano come “prendersi” e come all’occasione evitarsi.
Chi non riusciva assolutamente a sopportare erano due donne. Due comuni mortali ma che non c’era verso di scalzare nel cuore della gente. Francesca e Polisena Farina.

Eppure, ripeteva ai suoi amici, lui poteva vantare miracoli provati e documentati, anzi nello specifico, un miracolo era stato anche riportato negli “ Atti degli Apostoli”. Lui a Malta era riuscito, pur se morso da una vipera, a non riportare alcuna conseguenza e, da allora, era invocato dalle genti di tutto il mondo a protezione dai morsi degli insetti e delle serpi. In tutto il mondo tranne a Galatina.
A Galatina accorrevano persone da ogni dove, morse da tarantole, scorpioni o serpi, non per chiedere a Lui la guarigione, bensì per rivolgersi a quelle due sorelle che, con pratiche ancestrali e arti magiche, tra sputi e rituali vari, riuscivano a far espellere il veleno dal corpo del malcapitato o malcapitata.
Alla fine dovette aspettare che morisse anche l’ultima delle due sorelle, senza che lasciassero discendenza femminile.

Ma proprio quando stava per gioire,  sia beninteso , non della loro morte ma per il semplice fatto che l’ordine naturale e sovrannaturale delle cose pareva essersi ristabilito, qualcuno gli aveva fatto notare qualcosa che, se possibile, l’aveva incupito ancora più di prima.
L’ultima delle due sorelle prima di passare a miglior vita si era preso il fastidio di sputare la propria saliva guaritrice nell’antico pozzo. Per cui accadeva che la gente tarantata, che ora accorreva in massa a chiedere la protezione a Santu Paulu miu de le tarante, dopo aver ballato, essersi contorti per terra o arrampicati sull’altare, alla fine del rito di espiazione si avvicinava al pozzo e beveva proprio quell’acqua benedetta dalla saliva della guaritrice.
Si mosse tutta la chiesa compatta ma non ottenne nulla. La gente continuava a bere l’acqua di quel pozzo.
Una vita da separati in casa. Lui da una parte, il ricordo delle due sorelle dall’altro.

Il quadro che un pittore parente delle due sorelle dipinse e che pose all’interno della cappella sembra quasi rappresentare questa situazione. Si nota un San Paolo in posa altera e maestosa e ai suoi piedi un poveretto malaticcio sorretto dalle due sorelle che cercano di far bere a questi l’acqua del pozzo. Se notate, San Paolo non degna di uno sguardo i tre, quasi a dire “ti sei rivolto a loro? ora sono fatti tuoi”. E delle due sorelle, una non lo degna di uno sguardo porgendo l’acqua del pozzo al malato, mentre l’altra sembra dire, guardando San Paolo, “che vogliamo fare?”.
Quando sul letto di morte, qualcuno chiese al pittore il perché di quella rappresentazione, questi, proprio mentre stava per esalare l’ultimo respiro, disse “non si sopportavano … non si sopportavano”.
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dopo 2

Le due sorelle Farina, Francesca e Polisena, sono le due sorelle descritte dall’Arcudi nel finire del ‘600 come le due guaritrici che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti. Il pittore Francesco Lillo che dipinse il quadro nel 1795 dovrebbe essere un discendente del marito di Francesca, Donato Lillo.
Le storie sul tarantismo si perdono nell’antichità dei tempi. Tra l’altro abbiamo letto in una delle mie precedenti note, come nel brindisino si ricorresse all’intercessione di San Francesco per guarire dai morsi della tarantola.
La chiesetta di San Paolo, i cui lavori iniziarono nel 1791, fu completata nel 1795. Molto dopo la morte delle due sorelle. Da quanto riferiscono studi condotti nel Salento, prima del ‘700 il culto di San Paolo era molto limitato e ristretto a poche chiese.
E’ probabile che, proprio in virtù del miracolo dal morso della serpe a Malta raccontato negli Atti degli Apostoli, la Chiesa abbia deciso di intervenire con tutto il suo peso non solo religioso ma anche culturale, ponendo San Paolo come santo protettore di questi malati, cercando di far scomparire o limitare, ma inutilmente, tutti gli aspetti non canonici legati ai riti di guarigione.
_____________

La chiesetta dopo circa un anno di restauro, iniziati grazie all’Amministrazione Provinciale allora retta dal sen. Pellegrino e dall’Amministrazione Comunale allora retta dalla dott.ssa Antonica, è stata riaperta al pubblico nei giorni scorsi in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo (o Paolo e Pietro!).
Non era mai stata sconsacrata per cui la riapertura è stata accompagnata dalla celebrazione di una messa all’interno della chiesetta.
I lavori di restauro hanno interessato, in particolare, il rifacimento del vespaio per cercare di arginare l’umidità di risalita e la posa della nuova pavimentazione. Riguardo l’altare, anch’esso attaccato dall’umidità, gli interventi son stati limitati a rafforzarne la struttura e a interventi di pulitura per eliminare dove possibile la calce che ricopriva i colori originali dell’altare. Non è stato effettuato un vero e proprio restauro dell’altare anche a causa della particolare friabilità della pietra usata nella sua costruzione.
La tela del pittore Saverio Lillo (1795) era stata già restaurato circa due anni fa; per l’occasione è stata posizionata nella sua collocazione originaria, cioè sull’altare, dopo esser stata per lungo tempo esposta all’interno del Museo cittadino.
La chiesetta restaurata merita una visita e vi consiglio di visitare anche il vicino Museo sul Tarantismo sito in Corso Porta Luce.

dopo 1

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