di Alfredo Romano
Qui a Civita Castellana la festa di San Martino non dice nulla: un giorno come un altro. Ma io fremo a questa indifferenza, provo fastidio che il giorno in cui si stappano le botti per dare incominciamento al vino nuovo qui nessuno se ne curi. E ritorno ai giorni della mia infanzia, quando una botte di tre quintali faceva bella mostra di sé in cucina e mio padre se la guardava e se la guardava in attesa del fatidico 11 novembre, data in cui ogni anno si ripeteva il miracolo del mosto trasformato in vino. E in paese l’aria era di festa, quasi come il giorno di Natale. A tavola apparivano le prime verdure di stagione: le cicore cu quiddhi beddhi schiattuni, li fenucchi ca nduràvanu te anice e che erano la base per i primi assaggi di quel mitico rosato ricavato da uve negramaro che s’attestava come minimo sui 13 gradi. E mio padre non sbagliava mai a fare il vino, collaborava anche mia madre al buon risultato, ed era una gara con i vicini di casa a chi faceva quello più buono. Possedevamo mezzo ettaro di vigna in colonìa in località Rumatizze sulla via per Galatina, la stessa zona dove oggi si trovano le vigne dei Vallone, oggi produttori di eccellenti vini. Benché bambini, mio padre ci coinvolgeva in quel rito del primo assaggio e, sebbene in quantità modica, ci faceva degustare quel vino frutto dei suoi saperi e delle sue fatiche. A distanza di tanti anni, mi porto sempre appresso quell’aria di festa del giorno di San Martino e mi rammarico che qui non possa condividerla con nessuno. In ogni caso, sulla mia tavola non è mai mancato un buon bicchiere di vino, quasi un rito, e mi chiedo sempre: ma come ci si può cibare senza quel prezioso nettare un tempo così caro anche agli dèi? Per non dire del carattere simbolico che riveste nella tradizione cristiana?
Una volta, in Turchia, disponendo di poche lire turche, dovetti scegliere tra mangiare senza vino oppure bere vino senza mangiare: scelsi quest’ultima soluzione. Oh, sarei stato triste tutta la sera altrimenti!
Ma ci fu un San Martino di quando avevo otto anni che me lo ricorderò per tutta la vita. Facevo la seconda elementare. La sera della festa papà aveva invitato degli amici a cena e io e mia madre facevamo la spola tra la cucina e la sala da pranzo servendo il vino ai commensali spillato dalla botte. Insomma fiumi di vino, tanto che mia madre storceva un po’ il naso: «Ca cu banu sse mbriàcanu a casa loru!».
La mattina dopo mi alzai regolarmente per andare a scuola. Mamma mi preparò per colazione una fetta di pane con vino e zucchero, come era d’uso allora. Ma, passando in cucina, la visione della botte ebbe per me l’effetto di una folgorazione. Sarà che la sera prima il chiasso e l’allegria di papà e dei suoi amici mi avevano bellamente impressionato, sarà per qualche altro motivo, sta di fatto che, di nascosto da mia madre, presi un bicchiere, ci spillai il vino dentro e lo bevvi tutto d’un fiato. Non contento, me ne feci un altro: forse volevo emulare papà e i suoi amici della sera prima, chissà. Sta di fatto che, come niente fosse, mi avviai con la mia cartella di cartone a tracolla in direzione della scuola che distava da casa 150 m.
C’è da premettere che da due settimane circa, agli inizi delle lezioni, in classe si svolgeva sempre lo stesso rito. Si dà il caso che la signorina Ada, la bella maestrina che veniva da Lecce, arrivava a scuola a bordo di una fiammante Seicento bianca accompagnata da Enrico, un fusto di fidanzato con tanto di baffi. Questi aveva l’abitudine di entrare in classe con la maestrina (a quei tempi non era cosa strana) e più o meno per un quarto d’ora si divertiva a interrogare noi poveri ragazzi sulle tabelline e altri vari quesiti di aritmetica. Ma se non rispondevi subito, se titubavi con quel solito eeeh… eeeh… non riusciva a godersela. Quando arrivava il mio turno, però, gli rispondevo di botto senza neppure fargli finire la domanda.
«6×9?» «54».
«Tre dozzine?» «36».
«Cinque dozzine?» «60».
Ecco, con le dozzine se la spassava di più. Sicché, dopo qualche giorno, diventai il suo trastullo, e, appena metteva piede in classe, per prima cosa ordinava: «Si alzi il grande Alfredo! » E io lesto in piedi con le braccia ben stese lungo i fianchi e lo sguardo fisso a mo’ di statua.
Ma quella mattina che mi recavo a scuola, ragazzino di otto anni, con ben due bicchieri di vino in corpo di quel buon rosato di uve negramaro di almeno 13 gradi, era proprio un’altra mattina. Il colore della mia faccia tendeva al rosso porpora e l’incedere era alquanto incerto. Posso solo ricordare che mi recavo a scuola tranquillo tranquillo e chi mi osservava aveva l’impressione di trovarsi di fronte alla faccia di un beato nelle grazie del Signore, tipo san Domenico Savio o, se si vuole, san Giuseppe, il nostro santo dei voli, in estasi a bocca aperta.
Non appena il fusto di fidanzato coi baffi fece ingresso in aula con la bella maestrina, subito ordinò:
«Si alzi il grande Alfredo!». Stavolta non mi levai dal banco di scatto, non allungai le braccia tese sui fianchi, né proiettai lo sguardo su un punto fisso a mo’ di statua.
«Quattro dozzine?».
«Eeeh… eeeh…».
«Beh?, grande Alfredo!… Ma… ».
«Eeeh… eeeh…».
Il fusto di fidanzato coi baffi non credeva ai suoi occhi e volle avvicinarsi per vedere se ero effettivamente io, il grande Alfredo, o chissà chi. Ma, a un passo da me, fu inondato da un effluvio non certo misterioso e, ancora più sconcertante, la mia faccia, piuttosto paonazza, propendeva a un sorriso da ebete. Si abbassò allora per ispezionarmi a un palmo dal naso e, per tutta risposta, mi esibii in un rutto così irrispettoso, che tutta la classe, la maestrina in specie, si voltò a fissarmi incredula.
«Enrico, ma me voi ddici cce sta ssuccete a llu vagnone? Cce, nu’ stae bonu?» chiese la maestrina con apprensione.
«None, Ada, a cquai su’ cose serie: lu vagnone mbriacu vae! Tene nu fiezzu ca nu’ mbòju tte ticu!».
«Madonna mia! L’Alfredo? None, nu’ è pussibile!»
E la maestrina, sgomenta, s’approssimò per rendersi conto di persona. A quel punto, io, ostentando sempre la mia faccia da ebete, quasi per vantarmi biascicai ridendo:
«Signora, m’àggiu bivutu do’ bicchieri te vinu stamatina!». Svelai così candidamente l’origine del fattaccio.
«Eh, non è più il grande Alfredo!» sentenziò Enrico, il fusto di fidanzato coi baffi nello sgomento generale.
Si può immaginare il trambusto a seguire, con mia madre che, chiamata al riguardo, incredula anche lei, non mi risparmiò la giusta razione di botte e io che non capivo cosa avessi fatto di male, anzi mi giustificavo col dire che la sera prima ia vistu li cristiani a casa nòscia ca s’ìanu sculati na otte te vinu! E allora percé a mie mazzate e a quiddhi none?
E così, da allora, io non fui più il grande Alfredo e il fusto di fidanzato coi baffi non ebbe più piacere di trastullarsi con me, né tanto meno coi miei compagni. Finì col non fare più ingresso in classe con la sua fidanzata: niente più dozzine, né tabelline, né altri strani quesiti da cruciverba.
Con la maestrina che veniva da Lecce ci sentiamo al telefono ogni tanto. Il suo Enrico non c’è più da tanti anni e la maestrina Ada è rimasta sola. Era un uomo brillante e suonava anche il pianoforte. Molti anni più tardi, una volta che andai a trovare a Lecce la mia maestrina, si offrì di cantarmi Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. Nel tempo, ci siamo scritti tante lettere con la maestrina e lei è sempre stata orgogliosa di me. A volte, però, anche al telefono, non manca di mettere il dito nella piaga:
«Alfredo, ma lo bevi sempre il vino?».
«Certo, cara maestra, il vino è la mia passione».
«Ah, brutto fetente!»