Raffigurazioni di San Giuseppe a Tutino di Tricase

di Fabrizio Cazzato

 

A TE O BEATO GIUSEPPE

…stretti dalla tribolazione ricorriamo e fiduciosi imploriamo il tuo patrocinio insieme con quello della tua santissima sposa…

Questa ricorrente preghiera è una delle più antiche e più belle dedicate a San Giuseppe che spesso molti di noi hanno recitato in chiesa o ascoltato dalle nostre nonne e riportata su moltissimi libri di preghiera.

Quest’anno la Chiesa, per volere del Santo Padre Francesco, con lettera apostolica Patris Corde, ha voluto dedicare alla sua figura un periodo speciale di indulgenza plenaria fino all’8 dicembre c.a., in concomitanza del 150° anniversario della proclamazione di Patrono Universale della Chiesa avvenuta l’8 dicembre del 1870 dalle mani di Papa Pio IX.

Giuseppe, dall’ebraico Yosèf (che significa “accresciuto da Dio”), era un discendente della stirpe di David; accettò la maternità divina di Maria e rispose alla chiamata del Signore. Di lui abbiamo poche notizie storiche e a tratti lacunose. Sappiamo che svolgeva principalmente il lavoro di falegname nella sua bottega di Nazareth; la sua vita nascosta si svolse all’ombra del figlio Gesù e rivelò spirito di fedeltà, di povertà e di umiltà , ma soprattutto rappresentò il simbolo dell’accettazione della fede. L’evangelista Matteo, rivelando la divinità di Cristo e la missione di Maria, pose l’accento su Giuseppe chiamato ad essere consapevole collaboratore del mistero di Dio che si fece uomo. Fu definito ” Uomo giusto”.

Protegge i falegnami, i lavoratori, i papà e i moribondi. Dichiarato patrono della Chiesa Universale da Pio IX l’8 dicembre 1870, è festeggiato il 19 marzo e il 1° maggio. In suo onore, soprattutto a partire dagli inizi dell’800 sorsero sotto il suo patrocinio chiese, altari, corporazioni, confraternite ed associazioni. La larga diffusione del suo culto permise anche una vastissima produzione di immagini di piccolo e grande formato e quella di manufatti e statue di diversi materiali e grandezza. In particolare quelle in cartapesta leccese destinate alle Chiese, ai pii sodalizi e per l’uso devozionale domestico (santi in campana) e non v’è chiesa al mondo che non abbia un altare, una statua o un’immagine a Lui dedicata.

Nella città di Tricase è ampiamente raffigurato nei luoghi di culto in varie sembianze, così come nella chiesa parrocchiale di Tutino il Santo è venerato presso l’altare a lui dedicato e raffigurato in una statua realizzata negli anni ’30 del secolo scorso dal maestro cartapestaio Antonio Febbraro da Taurisano (1885- 1965) per devozione di Addolorata Alfarano di Tutino.

L’impostazione iconografica ricalca principalmente i lineamenti classici rilevati quasi in tutte le immagini che si conoscono tranne qualche variante. Rappresentato quasi sempre in una posizione statica, insieme al Bambin Gesù che sorregge tra le braccia per il suo ruolo che ebbe di padre putativo, dal volto di uomo maturo, capelli folti ondulati e barba ricciuta, tunica color violaceo, mantello color senape e un virgulto di mandorlo fiorito.

Un’opera di discreta fattura restaurata nel 1997 nella bottega dei F.lli Gallucci di Lecce è attualmente conservata in una nicchia a muro nella sagrestia della chiesa parrocchiale e si presenta in buone condizioni.

San Giuseppe, statua in cartapesta, chiesa Madre di Tutino

 

L’ altare del Santo, del XVIII sec., privo di ornamenti architettonici si presenta nella sua classica semplicità; ha una mensa con due bassi dossali dai quali si innalzano due colonne in pietra leccese lisce con base e capitelli corinzi che sorreggono a loro volta un architrave sul quale è riportato il nome del benefattore, Francesco Saverio Forte, e l’anno di dedicazione, 1838.

Completano lo schema semplice e lineare dell’altare la piccola tela della Madonna del Carmine posta in alto tra due volute fogliate e quella al centro del Santo della prima metà del XIX sec. di ignoto autore, nella quale predomina la scena con Giuseppe seduto su una panca di legno, con sguardo intenso che sembra rivolto agli astanti, vestito con tunica color turchese e mantello color senape con effetti chiaroscurali, i piedi calzati da sandali. Sulle ginocchia sorregge il piccolo Gesù seduto su due cuscini ricamati, che con affettuosità sembra regalare una carezza al padre, mentre ai suoi piedi una cesta in vimini colma degli attrezzi di falegname identifica la sua mansione terrena; al lato della panca un libro chiuso alludendo a quello della Bibbia. Sul tavolo bardato da una tovaglia bianca con ampio merletto un angelo ha donato a Giuseppe un serto di fiori disposti su un vassoio, mentre sullo sfondo da una finestra si intravede un paesaggio collinare non del tutto locale.

Un drappeggio semiaperto sulla sua sinistra colma l’ambientazione domestica e dal quale due cherubini si sporgono delicatamente ad osservare la scena.

Recentemente, dai test eseguiti con alcune aperture stratigrafiche, si è potuto verificare che, sottostanti gli strati di calce, sono presenti le decorazioni originali dell’altare che in un prossimo futuro ci auguriamo vengano riportate in luce.

Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli

di Antonio Faita

 

Nell’ambito delle arti figurative e, in particolare, di quelle che si svilupparono meravigliosamente fra il XVII ed il XVIII secolo nel Regno di Napoli, la scultura lignea è sempre stata considerata a torto come arte minore[1]. A lungo trascurata rispetto alla pittura e alla scultura su marmo, in questi ultimi anni è divenuta oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi, sviluppando, in maniera esponenziale, un nuovo filone di ricerca rivolto allo studio della scultura lignea napoletana[2] nell’acquisita consapevolezza che si tratti di uno dei principali fenomeni storico-artistici dell’intero Meridione in Età Moderna.

A seguito della mia pubblicazione dedicata agli scultori Francesco e Giuseppe Verzella e alla loro bottega[3], è mio intento fornire un piccolo contributo in argomento, segnalando nelle pagine che seguono, un’opera inedita di un poco noto scultore napoletano, Giuseppe Sarno.

Meno nota, o quantomeno poco conosciuta dagli storici d’arte, è la statua di san Giuseppe con Gesù Bambino ubicata nella sacrestia della chiesa di santa Teresa in Gallipoli e per questo, poco visibile dalla gente. Sul lato corto della base pentagonale, cui poggia il simulacro, vi è apposta la firma e la data «Giuseppe Sarno Scultore Napoli 1797».

L’accento plastico delle figure è caratterizzato dall’incedere del santo e dalla distribuzione dei drappi, ricordando soluzioni adottate nel linguaggio pittorico di Francesco De Mura, tra dolcezza rococò e splendore neoclassico[4].

Proprio in questo linguaggio sono ispirate le sculture di Giuseppe Sarno, realizzandone diverse per le chiese di Napoli e nel Regno di Napoli, e qui egli fu attivo dal 1764 ai primi dell’Ottocento (1820, santa Sofia, Santuario omonimo ubicato in Poderia, frazione di Celle di Bulgheria, SA).

Le fonti ottocentesche, dal Filangieri al Perrone, lo menzionano come modellatore di animali e pastori in terracotta, di cui alcuni firmati[5], per la produzione presepiale che con l’avvento di Carlo di Borbone, a Napoli trovò terreno fertile, vedendo impegnati una numerosa schiera di artisti[6] delle varie arti. L’esiguo numero di opere datate non consente di stabilire con molta precisione quando iniziò a plasmare figure in terracotta, ma è certo che tale interesse ebbe a seguire quello per le sculture lignee[7].

E proprio in una fonte ottocentesca il Sarno viene citato per la prima volta a Gallipoli. Pietro Muisen (1811-1880), valtellinese di origine, e trasferitosi a Gallipoli, per motivi di lavoro, fu autore del libro “Gallipoli e i suoi dintorni”, pubblicato nel 1870. Il Muisen, nel descrivere la ‘Congregazione del SS. Crocifisso’, così scrive: «In questa chiesa si ammirano pure due eccellenti scolture in legno, nelle statue di S. Michele Arcangelo e della Vergine Addolorata, lavoro dello scultore mastro Sarno Napoletano»[8]. Il Muisen non riporta il nome, come neanche l’anno della loro realizzazione.

Consultando l’archivio storico della confraternita del SS. Crocifisso, e precisamente il ‘Domenicale 1794-1826’, si evince che nel 1796, in occasione della festività di san Michele Arcangelo, loro protettore, viene portata in processione per le vie della città la statua di san Michele[9]; il Venerdì Santo, del successivo anno, si fece la processione penitenziale per i Sepolcri, portando ‘La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli[10]. Come si può notare il nome del Sarno non compare sulle pagine del ‘Domenicale’. Si può ipotizzare che sia stata una dimenticanza del segretario verbalizzante oppure il passare del tempo abbia fatto affievolire la firma sulle basi dei rispettivi simulacri, fino a scomparire del tutto o, ancora, il nome dell’artista sia stato riferito da qualche anziano confratello al Muisen, durante la sua visita all’oratorio confraternale.

Fatto sta, che dagli interventi di restauro, eseguiti in questi ultimi anni, non è emersa nessuna scritta dai vari strati pittorici rimossi. Se così fosse, perché il Muisen si limita a riportare solo il cognome? In ambito storiografico, emergono alcuni nomi, come: Ignazio Sarno, allievo dello scultore Pietro Patalano, che a dire, da Borrelli, forse padre del nostro Giuseppe[11]; Luigi Sarno, il cui nome si evince, attraverso la firma segnata a tergo della pettiglia di un ritratto di uomo[12]; Giovanni Sarno, citato dal Mancini[13]. Tornando al simulacro di san Giuseppe e alla sua venerazione presso la chiesa delle suore teresiane, è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo[14].

Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe. Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva. È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe”.

Quarto, in Puglia, dopo quello di Lecce (1620), Bari (1630) e Brindisi (1672)[15], il monastero di Gallipoli, sotto il titolo dei SS. Nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, fu terminato il 23 aprile 1690, contestualmente alla chiesa intitolata alla santa di Avila, per devozione e volontà di mons. Antonio Perez de la Lastra,[16] vescovo di Gallipoli. Secondo quanto si può presumere, il culto di san Giuseppe fu introdotto nel monastero gallipolino, seguendo l’esempio e la dottrina della santa Madre Teresa, che lo venerava con affetto speciale. Alcune sorelle scelsero, da religiose professe, il nome del santo[17] e tutte si affidarono, con la preghiera, alla sua intercessione invocandolo quale provvido protettore della chiesa e dell’Ordine. Introdussero la celebrazione del «Patrocinio di san Giuseppe», una particolare festa concessa ai Carmelitani da Papa Innocenzo XI, il 6 aprile 1680.

Presso l’Archivio Storico della Curia Vescovile di Gallipoli, in alcuni registri degli introiti ed esiti a partire dal 1798, vi è traccia delle spese sostenute dalle sorelle per la festività del «Patrocinio di san Giuseppe»[18]. In particolar modo, nella minuta degli esiti del 1799 si rileva una cospicua spesa di ducati 29 e 55 carlini per la buona riuscita della festa[19]. Nell’anno successivo si aggiunse alla spesa del Patrocinio anche quella per l’acquisto di «Due aste nuove alla Bara di S. Giuseppe», corrispondente alla cifra di carlini 30[20]. Questo dato importante ci fa dedurre che la statua di san Giuseppe, dopo qualche anno del suo arrivo da Napoli, veniva portata in processione.

Tale festività è attestata in tutte le annate dei libri dei conti fino al biennio 1811/12, a parte un vuoto dal 1808/09 al 1810/11, in quanto mancanti[21].

Nel 1836 ne fa cenno anche Bartolomeo Ravenna: «Vi si celebrano annualmente le festività di Santa Teresa, del Carmine, e del Patrocinio di San Giuseppe»[22].

Custodito in una teca di legno e vetro, il simulacro è intagliato a tutto tondo con grande perizia e tecnica. Il Sarno, nel rispetto della tradizione iconografica, lo rappresenta in una postura classica, di mezza età, con un folto casco di capelli, la barba ricciuta e la fronte corrugata. Il santo indossa una tunica con bavero di colore marrone; è avvolto in un manto ocra e denso di pieghe che avvolge il corpo per poi girare dietro, cadendo sulla base, come sostegno del simulacro stesso. Giuseppe tiene fortemente tra le braccia il bambino Gesù, parzialmente coperto da un panno decorato a racemi vegetali su una pellicola pittorica di colore verde chiaro. Il Bambinello protende il braccio destro con la manina aperta delicatamente verso il mento del santo, invece il sinistro, sospeso, crea una perfetta simmetria con gli arti inferiori.

La tensione naturalistica del Sarno si è concentrata sui gesti e sull’espressione, in particolare nello sguardo intenso del Santo che non osserva il Bambinello ma, perso nel vuoto e con la bocca semiaperta, è in procinto di parlare. Nel complesso la scultura è caratterizzata da un vigoroso plasticismo ed evidente gusto per le ricche forme corpose. L’inedito san Giuseppe (firmato e datato), fino a pochi anni fa completamente ignorato dalla storiografia, dipende da uno schema d’imitazione intimamente assimilato dalle opere di Giuseppe Picano, al quale il Sarno si ispirava, attingendo dal repertorio tradizionale innervando quelle che erano le antiche forme.

Le conformità stilistiche di san Giuseppe con le altre opere note dell’artista in vari centri della Campania, Puglia, Calabria e oltre, fino alla Spagna (soltanto recentemente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un bellissimo san Michele Arcangelo firmato e datato 1775, presso il monastero di santa Clara di Hellín (Murcia), la cui scoperta si deve alla studiosa Isabella Di Liddo [23]), appaiono evidenti, specie nella resa del panneggio, nello studio dell’anatomia e nel movimento delle figure.

Il poco conosciuto Giuseppe Sarno doveva risultare, nel suo tempo, un maestro molto celebre, come risulta dalle numerose commissioni documentate e dalle tante opere a lui attribuite[24]. Ancora scarne sono le notizie e le citazioni biografiche per delineare un profilo e inquadrare la sua formazione e lo sviluppo della sua bottega[25]. Sulla scorta, di queste osservazioni e del san Giuseppe, opera ‘certa’, di Giuseppe Sarno, credo si debba ora procedere a un esame delle due statue del san Michele Arcangelo e della Madonna Addolorata, argomento di discussione per gli studiosi di storia locale, riguardo la loro autenticità: il raffinato intaglio del san Michele e la dolcezza della Vergine; lo studio meticoloso delle forme; l’attenzione scrupolosa alle giuste proporzioni fra le diverse parti del corpo; il vario atteggiarsi degli aspetti esteriori che assecondano l’espressione dei sentimenti rappresentati; la posizione delle mani; lo studio delle dita affusolate e bene intonate alla figura nell’insieme, per la similitudine con le altre opere, datate e documentate, si può determinare l’autenticità prima e la paternità poi, al ‘nostro’ Giuseppe Sarno.

La presenza di queste opere dell’artista a Gallipoli, considerato uno dei più sensibili interpreti delle moderne istanze rococò alla fine del XVIII secolo, stanno a testimoniare rapporti intensi tra lo scultore e la committenza gallipolina. A rendere ancora più significativa la circostanza è la restituzione al pubblico del san Giuseppe, opera importante, riemersa dall’oblio, che va ad arricchire quell’immenso patrimonio artistico di Gallipoli e ad aggiungersi, insieme al san Michele Arcangelo e alla Madonna Addolorata, a quelle opere del Sarno finora sconosciute dalla bibliografia.

 

Note

[1] U. Di Furia, Il “San Francesco Saverio” di Bernardo Valentinoa Calvello: Opera ineditadi un poco noto scultore napoletano, in Basilicata Regione Notizie, n. 119-120, Anno 2008, p. 217.

[2] G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli, Ed. Paparo, 2005; Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma, Ed. De Luca, 2007; I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma, Ed. De Luca, 2008; Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli, Ed. Paparo, 2009.

[3] A. Faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Galatina. Ed. Congedo, 2015.

[4] Cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti o poco noti, sì napoletani e siciliani, sì delle altre regioni d’Italia o starnieri, che operano tra noi, con notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio da studi e nuovi documenti, vol.II, Napoli, p.426.

[5] G Borrelli, Il presepe napoletano, Napoli, Ed. De Luca-D’Agostino, 1970, p. 236.

[6] F. Mancini, Il Presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello, Napoli, Ed. Sadea/Sansoni, 1967, s.n.

[7] G. Borrelli, op. cit., p. 107.

[8] bcg, p.muisen, Gallipoli e i suoi dintorni, Gallipoli, Tipografia municipale, 1870, p. 108; il nome del Sarno è citato da mons. Gaetano Muller nella visita pastorale effettuata all’oratorio confraternale il 7 luglio 1905, in adg, Visita pastorale di Mons. . Muller, Gen. 1903 – Lugl. 1907, p.319.

[9] acssg, Domenicale 1794-1826, Anno 1796 «8 detto [Maggio] giorno di Domenica dedicato alla festività del Glorioso S. Michele Arcangelo nostro Protettore si celebrò in detta nostra Congregazione la sua festa con pompa si celebrarono varie messe, e col Padre si cantò la messa con assistenza de ministri, e dopo si portò processionalmente alla Città la Statua di S. Michele. La tassa là fatta il Primo assistente Nicola Fontana ed il 2° assistente Domenico Pisanello», s.n.

[10] Ibdem, Anno 1797 «14 detto [Aprile] Venerdì Santo Radunati la matina li fratelli si fece la processione di penitenza per li Sepolcri, a Cappuccini portando La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli e dopo sene andarono in santa Pace», s.n.; g. f. mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Tuglie, Tip. 5EMME, 2003, p. 14.

[11] G Borrelli, op. cit., p. 56.

[12] Ibidem, p.100; a. di lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in La Rassegna d’Ischia, n. 9/1987, s.n.

[13] F. Mancini, op. cit., s.n.; m. liaci, Simulacri sacri. Statue in legno e cartapestadel territorio C.R.S.E.C. di Ugento, a cura di Regina Poso, Taviano, GRAFEMA, 2000, pp.198-201.

[14] l. di San Gioacchino, Il culto di San Giuseppe e l’Ordine del Carmelo, Barcellona, 1905, c. 2, p. 48.

[15] C. Casole, Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli, Manduria (TA), Tip. Tiemme, 1992, p. 63.

[16] Ibidem, p. 66.

[17] La prima fu proprio la cofondatrice e prima Maestra delle novizie, suor Maria di san Giuseppe, al secolo, Anna Maria Chirlingort, professata nel 1693.

[18] Acvg, Documentazione recuperata dal Nucleo Polizia Tributaria di Lecce, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1798-1799. Purtroppo non si dispone di altri documenti di introito ed esito antecedenti al 1798. Come ne anche presso l’archivio del monastero delle carmelitane.

[19] Ibidem, Patrocinio di S. Giuseppe: «Al Sigr. Chiriatti per la musica d.6; Panegirico d.2:50; Al Capitolo per l’assistenza d.7:50; Ai chierici, e Ministro della messa cantata c.80; facchino per i mantici, e sedie c.35; Al Fochista per mortaretti e Batterie d.9:50; Trombetta e due tamburri d. 1:90; Apparatura di chiesa d.1» tot. d.29:55

[20] Adg, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1799-1800. Minuta di spese.

[21] Ibidem, 1800/01, 1801/02, 1802/03, 1803/04, 1804/05, 1805/06, 1806/07, 1807/08, 1811/12.

[22] Cfr., B. Ravenna, Memorie istoriche della fedelissima città di Gallipoli, presso Raffaele Miranda, Napoli 1836, p. 385.

[23] I. Di Liddo, op. cit., p. 240.

[24] Cfr., E. Valcaccia, i Tesori Sacri di Castellammare di Stabia. La scultura del Settecento e dell’Ottocento, Castellammare di Stabia (NA), Ed. Longobardi, 2016, p. 48.

[25] Ibidem, p. 49.

 

L’articolo è stato pubblicato in Rassegna Storica del Mezzogiorno, n.2 – 2017/2018, pp.155-162

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

Sarà presentato Sabato 26 aprile il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

fronte

fronte retro

Libri. La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

E’ uscito in questi giorni il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

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