80° anniversario dell’armistizio dell’8 settembre

di Salvatore Coppola

 

Ricorre oggi l’80° anniversario dell’armistizio dell’8 settembre, che segnò – secondo alcuni storici – la morte della Patria.

L’8 settembre rappresenta, piuttosto, l’agonia delle classi dirigenti dell’epoca (monarchia e alte gerarchie militari che avevano contribuito, insieme con il governo fascista, allo sfascio della Nazione). Dopo l’ambiguo comunicato del capo del governo Pietro Badoglio («le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»), Vittorio Emanuele III, Badoglio, ministri, generali e alti ufficiali  presero la via dell’ignominiosa fuga verso Pescara e Brindisi lasciando le forze armate senza direttive precise.

Divennero spasmodiche la ricerca di abiti borghesi, l’assalto ai treni, la dispersione nelle campagne. Nei giorni successivi all’8 settembre crollò tutta l’organizzazione militare che – a parere di molti autorevoli storici – avrebbe potuto opporre una valida resistenza ai nazisti che fecero grandi retate di militari sbandati che rinchiusero in vagoni blindati e inviarono ai campi di concentramento.

Più di settecentomila militari, restii a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale di Mussolini, furono internati nei lager nazisti, privati di ogni forma di tutela che le Convenzioni internazionali garantivano ai prigionieri di guerra. La reazione nazista portò, già nei primi giorni successivi all’8 settembre, a crudelissimi atti di rappresaglia. Il sacrificio di coraggiosi ufficiali, sottufficiali e militari semplici, cui si affiancarono molti civili, insieme con quello dei militari di stanza a Cefalonia e Corfù, massacrati dai tedeschi, segnò il riscatto della Patria che fu alimentato dal vento del Sud che iniziò a spirare, a partire dal giorno successivo all’armistizio, dalla terra di Puglia, per poi divampare nelle zone del centro nord occupate dai nazisti.

Non si fa retorica se si ricorda che i primi episodi che segnarono la guerra di Liberazione videro protagonisti militari e civili, non solo a Roma, nella zona di Porta San Paolo, ma anche a Bari e in altre città della Puglia (Ascoli Satriano, Bitetto, Barletta, Candela, Castellaneta, Manfredonia, Serracapriola, Trani, Vieste) che, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre,  si liberarono dall’occupazione nazista a costo di enormi sacrifici in termini di vite umane. Quegli episodi alimentarono il vento del Sud che, nei mesi successivi, avrebbe portato all’organizzazione del Corpo Volontari della Libertà nell’Italia occupata.

Il Salento diede il proprio contributo ad attizzare la fiamma della Resistenza. Il 12 settembre 1943, il Fronte Nazionale di Liberazione del Salento, a seguito delle notizie giunte da Bari dove la popolazione civile e alcuni reparti militari avevano dimostrato «la volontà di resistere», lanciò un proclama per spronare i giovani a costituire una Legione Volontaria «a servizio della Patria». In quel proclama, l’antifascismo salentino individuò nella collaborazione tra militari e civili l’asse portante della guerra per la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista («Esercito e Popolo concordi e stretti contro le minacce tedesche, contro le insidie del residuato fascista»).

Il 18 settembre un proclama indirizzato ai «Giovani d’Italia» redatto dai Comitati Antifascisti di Puglia spronava a combattere il nemico nazista «in nome della libertà» e di quanti, negli anni della dittatura, avevano patito confino, esilio, carcere, segregazione e soprusi di ogni genere. Non solo vento del Nord, come per decenni è stata presentata la guerra di Liberazione, ma compenetrazione di esso con l’altrettanto importante vento del Sud che raggiunse la propria epopea con le quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1 ottobre 1943).

Negli ultimi decenni la ricerca storiografica ha fatto emergere quanto ricca e articolata sia stata la partecipazione dei salentini alla guerra di Liberazione. Ai tanti che combatterono e morirono nelle zone dell’Italia centro settentrionale militando nelle formazioni partigiane, occorre con reverente omaggio aggiungere il sacrificio dei figli del Salento che furono massacrati alle Fosse Ardeatine (i civili Ugo Baglivo da Alessano, Emanuele Caracciolo da Gallipoli, Antonio Pisino da Maglie, e i militari Ferruccio Caputo da Melissano, Antonio Ayroldi da Ostuni, Federico e Mario Carola da Lecce, il colonnello dei Carabinieri Ugo De Carolis, tarantino di adozione).

Il contributo dei salentini alla Resistenza, iniziata a Roma e a Bari il giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre, è stato degno delle migliori tradizioni del Risorgimento.

25 luglio 1943, caduta del fascismo e riflessi nel Salento

di Salvatore Coppola

Ricorre quest’anno l’80° Anniversario della caduta del fascismo, che la Storia fa coincidere con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi nella seduta del Gran Consiglio (iniziata nella tarda serata di sabato 24 luglio) e con il successivo arresto di Mussolini nel pomeriggio del giorno successivo. Questa la nuda cronaca dei fatti.

Una fonte (inedita) dell’Archivio Vaticano ci informa che Monsignor Luigi Maglione,  segretario di Stato di Pio XII, appresa la notizia dell’arresto di Mussolini, si adoperò per chiedere garanzie sull’incolumità del prigioniero e della sua famiglia. Il potente segretario di Stato, interessato a conoscere lo stato d’animo dell’uomo che per più di vent’anni aveva guidato il paese, riuscì a sapere qualcosa grazie alle informazioni “riservate” del medico che, nella tarda serata del 25 luglio e nella mattina del 26, visitò Mussolini in una cella della Caserma degli Allievi Carabinieri di Prati.

Seppe così che egli aveva chiesto di far pervenire al nuovo capo del governo Pietro Badoglio l’augurio di «riuscire nel gravissimo compito affidatogli».

Mussolini (che era «molto pallido, affaticato, lo sguardo morto, che di tanto in tanto diventava fisso») chiese al medico se nella città di Roma fosse accaduto qualcosa dopo la notizia del suo arresto («accade niente in città»?). Alla risposta negativa, Mussolini si lasciò andare ad alcune riflessioni sulla natura del popolo italiano che il medico riferì puntualmente a monsignor Maglione («è un popolo superficiale in tutte le sue manifestazioni anche quelle religiose, crede al santo solo quando gli faccia la grazia che chiede, applica il do ut des, si copre di una vernice che non approfonda e che non lascia nessuna traccia. Non è ancora un popolo maturo e unito, su questo ha avuto la sua azione negativa lo Stato Pontificio che è stato come un tumore maligno nel corpo dell’Italia; nel 1919 ho cercato di isolare il neoplasma. Anche ora col pretesto del bombardamento di Roma, centro del mondo cattolico, il clero ha cercato di gettare il seme di una ricostituzione del potere temporale che potrà dare il suo frutto a distanza di 20-30 anni»). Se Mussolini avesse chiesto «accade niente in Italia?», con riferimento a reazioni, da parte fascista, alla notizia della sua destituzione, la risposta negativa sarebbe stata uguale per tutte le città e tutti i borghi d’Italia.

Nel Salento, delle decine di migliaia di fascisti iscritti alle diverse organizzazioni che facevano capo alla Federazione provinciale non ci fu un solo segretario politico, una sola fiduciaria dei Fasci femminili, un solo presidente dei Dopolavoro o delle sezioni comunali della Gioventù Italiana del Littorio, non ci fu un milite, un capomanipolo, un centurione, un seniore, un console della Milizia a scendere nelle piazze per manifestare la propria solidarietà al duce.

Una sola voce, fuori dal coro, si materializzò con un editoriale che doveva essere pubblicato su Vedetta Mediterranea (settimanale politico e culturale della Federazione provinciale dei Fasci di Combattimento) del 26 luglio. Il direttore Ernesto Alvino, che, la sera di domenica 25, aveva appreso per radio la notizia dell’arresto di Mussolini, nell’articolo che preparò per il numero che, come ogni lunedì, sarebbe stato distribuito nelle edicole e spedito agli abbonati, espresse i sentimenti di sgomento, ma anche di orgoglio, dei fascisti della prima ora, ovvero di coloro che – come lui – i Fasci li avevano fondati nel 1919/1920 e che nel regime avevano creduto fino in fondo («Vogliamo ignorare gli “uomini furbi” che si sono arricchiti in questi tre anni di guerra e adesso sputano nel piatto ove hanno mangiato. Vogliamo non accorgerci di quanti oggi cercano un istituto di bellezza che rifaccia la loro verginità politica perduta. Ce ne freghiamo, infine, di quanti avranno già fissate, sulla nostra testa di fascisti che non vogliono pentirsi, taglie e ipoteche. Noi siamo sempre quelli di prima. Quelli della passione del 1919-1922. Quelli che dal partito non hanno ricevuto altro che dispiaceri e mai un sorriso. Che dal 1922 al 1943 si sono dilaniati a vicenda per una smania di perfezione ideale ed hanno per ciò solo permesso a quello che oggi tradisce, d’inserirsi come il proverbiale “terzo che gode” fra i due litiganti. Noi ci manteniamo fedeli a noi stessi e non ci aspettiamo né il primo, né il secondo e nemmeno il terzo canto del gallo per tradire Benito Mussolini. Ora sarai tu, popolo italiano, disposto a farti “liberare”? E allora arrenditi, ma non eviterai di veder continuare la guerra a tue spese e sul tuo suolo, fra tedeschi e loro e tuoi avversari»).

A Lecce, nel pomeriggio del 26 luglio scesero in piazza per festeggiare la ritrovata libertà gruppi di antifascisti che sventolavano il tricolore inneggiando alla pace. Non si registrarono plateali forme di vendetta contro elementi del cessato regime (a parte qualche lieve “incidente”) ad opera di antifascisti che avevano pagato con il carcere, il confino e altre misure repressive la propria fedeltà agli ideali democratici. Il vescovo di Lecce monsignor Alberto Costa, considerato – per le sue prese di posizione ufficiali – uno dei più prestigiosi punti di riferimento del fascismo salentino, attese qualche giorno prima di far conoscere ai fedeli, dalle pagine del settimanale L’Ordine, la propria posizione. Egli lanciò un appello a far prevalere «l’ordine, la concordia, la disciplina» e ad assecondare «le tappe della nuova era della Patria». Nella prima pastorale pubblicata dopo il crollo del regime, il vescovo Costa rivolse ai fedeli l’invito ad essere «ossequienti e ubbidienti all’Autorità, che doveva essere considerata un’emanazione del potere di Dio».

I funzionari pubblici (prefetto e questore) si premurarono, nei giorni seguenti, di comunicare al Ministero dell’Interno che la popolazione del Salento dimostrava di avere «piena fiducia nel Nuovo Ordine Nazionale», segnalando, al contempo, che non si era registrato alcun episodio di vendetta o ritorsione nei confronti dei gerarchi che avevano fino ad allora spadroneggiato in ogni paese della provincia, essendo invece prevalso in tutti «un certo desiderio di pace». Quanto agli elementi del disciolto Partito Nazionale Fascista, gli stessi funzionari statali (mantenuti tutti al loro posto), assicurarono che nessuno di loro voleva «contrastare il nuovo ordine». Nel breve volgere di pochi mesi, infatti, la stragrande maggioranza dei fascisti si sarebbe riciclata all’interno dei ricostituiti partiti democratici.

 

Eventi/ Il PCI, l’Italia e il Salento

 

Non si poteva far passare sotto silenzio il centenario del PCI. Non si voleva neppure ingigantire oltre il dovuto la ricorrenza, ma solo aprire una riflessione più distaccata con una presenza che, al di là dei diversi punti di vista, ha indubbiamente segnato nella storia d’Italia e del Salento una stagione positiva per l’affermazione della democrazia e per il riscatto sociale dei ceti meno abbienti. Settant’anni di storia (1921-91) che va rivisitata, riletta e reinterpretata alla luce dei processi di trasformazione e di sviluppo che hanno caratterizzato “il secolo breve”, attraversato da due guerre mondiali, dalla lotta al nazifascismo e dalla progressiva rivendicazione di diritti per lungo tempo negati…. (dalla Presentazione di Mario Spedicato)

Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)

di Mario Spedicato

La ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stata segnata da una ricca produzione storiografica che ha interessato anche la provincia salentina. Un bilancio definitivo ancora non si è potuto fare perché si attendono le pubblicazioni di atti di convegno e di monografie, nate spesso sulla scia di ricerche di settore che non hanno trovato posto in volumi miscellanei e/o dell’acceso dibattito multidisciplinare che hanno alimentato. Certamente si è vissuta una stagione intensa e proficua sul piano delle conoscenze e degli approfondimenti storici, soprattutto nel campo delle indagini periferiche, quelle che hanno affrontato il processo dell’unificazione nazionale con particolare riguardo alle ricadute politiche, sociali, economiche sulle popolazioni meridionali e, nel nostro caso, specificatamente salentine.

Tra queste ultime, le ricerche di Salvatore Coppola sono tornate di grande utilità non solo perché focalizzate tra il prima e dopo l’Unità, ma anche perché orientate a verificare l’impatto dello Stato nazionale nel primo decennio post-unitario, quando cioè si passa rapidamente dall’illusione alla delusione popolare, dagli slanci idealistici di tanti patrioti ai maneggi di basso conio e alla rassegnazione politica.

In questo volume si raccolgono alcuni saggi di Salvatore Coppola meritori di aver aggredito con indagini di largo respiro, costruite cioè su una pluralità di archivi centrali e periferici, il tema dell’Unità nel Salento, in una provincia periferica del Mezzogiorno anticamente denominata Terra d’Otranto. Pochi altri studiosi hanno avuto la sensibilità di compulsare una documentazione così diversa e così vasta, amalgamandola in un ordito in cui il racconto storico non perde certamente la sua inevitabile complessità, ma si arricchisce anche di dettagli non trascurabili e di dense riflessioni storiografiche che le sole carte conservate nell’archivio di Stato di Lecce non avrebbero aiutato a fare emergere e ad elaborare. Coppola si è avvalso della sua instancabile e collaudata esperienza di ricercatore per allargare in maniera mirata l’orizzonte delle sue indagini, scegliendo di seguire e di interrogare anche le tracce documentarie superstiti conservate nell’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma, nella Biblioteca della Camera dei Deputati, nell’Archivio Feltrinelli di Milano (Fondo Macchi) fino ad arrivare alle carte dell’Archivo Histórico del Ministerio de Asuntos Exteriores di Madrid, una novità inimmaginabile per gli studi disponibili, ma che, letta in un contesto più ampio, lega la storia del Salento a quella dell’Europa. Basterebbero queste poche ed essenziali segnalazioni archivistiche per qualificare le ricerche del Coppola, studioso che unisce al rigore scientifico una indubbia passione civile che ne esalta la statura umana. Dentro questo quadro di riferimenti documentari si snoda l’analisi del Coppola, che non a caso sceglie di aggrapparla al percorso biografico-politico di noti ed eminenti uomini del Risorgimento salentino, come Sigismondo Castromediano, Liborio e Giuseppe Romano, Giuseppe Libertini, Giuseppe Pisanelli, Bonaventura Mazza-rella, Oronzio De Donno ed altri, per declinare il difficile e contrastato processo di unificazione nazionale. Proprio attra-verso l’attività parlamentare svolta da alcuni di essi nel primo decennio post-unitario si riesce a comprendere il paradosso che sorregge il consolidamento dello Stato unitario, avvenuto a danno del Mezzogiorno, emarginato dai processi produttivi, incapace di far decollare la sua economia troppo esposta alla concorrenza interna ed estera, deluso dai mancati sostegni governativi, segnato da un disagio sociale diffuso e spinto verso forme di violenza alimentate dal clero e dalle forze più retrive legate al passato regime borbonico.

Un dato appare oramai accertato sul piano scientifico, al di là dei revisionismi di maniera che favoleggiano un regno delle Due Sicilie all’avanguardia in Europa (per porti, infrastrutture, ferrovie, fabbriche, ecc.) di una Napoli capitale al passo con Parigi, Londra, Vienna, ecc. Forse si può pure convenire che la città di Napoli al momento dell’Unità offriva un quadro in superficie “moderno” per i suoi lampioni, per il lungomare abbastanza curato e per qualche fabbrica tecnologicamente avanzata. Ma restano esempi isolati che nascondono la miseria e l’indigenza sociale delle classi meno abbienti. Se si volge poi lo sguardo al resto del regno rimane la triste realtà di un paese al collasso dal punto di vista sociale ed economico con strade di grande comunicazione pressoché inesistenti, ferrovie limitate ai 15 Km della Napoli-Portici (costruita per le passeggiate domenicali della famiglia reale), mentre in Toscana, Piemonte, Lombardia e persino nello Stato pontificio i Km ​di strade ferrate risultano, alla vigilia dell’Unità, molti di più. L’Unità andava costruita diversamente per ridurre il diverso sviluppo tra Nord e Sud d’Italia e di questo si mostrano fermamente convinti i parlamentari salentini che tuttavia scontano una certa impotenza se il loro impegno non va oltre la denuncia. Il fatto che tutti provano delusione e scoramento ne é una attendibile prova. Lo provano sia gli uomini schierati a Destra come Castromediano e De Donno, sia quelli della Sinistra moderata come Giuseppe e Liborio Romano, senza escludere quelli della Sinistra estrema e radicale come Libertini.

Le complesse regole di funzionamento del sistema parlamentare limitano invero la portata di alcune coraggiose iniziative promosse in particolare dal Castromediano e dai fratelli Romano (tra cui la liberalizzazione della coltivazione del tabacco, la cancellazione delle decime residuali, l’ampliamento della rete ferroviaria, la creazione di infrastrutture stradali e portuali efficienti, la concessione delle terre demaniali ai contadini, ecc.) che non trovano un positivo approdo per la resistenza delle potenti oligarchie politiche e finanziarie delle Deputazioni piemontese, lombarda e toscana. Non solo le innovative battaglie parlamentari dei politici moderati (di Destra e di Sinistra), ma anche quelle portate avanti dalla Sinistra estrema e radicale non producono risultati certi e significativi. Lo stesso Giuseppe Libertini, rappre-sentante autorevole di questo schieramento, pur ripetutamente eletto, rinuncia al protagonismo istituzionale, rifiutando di utilizzare il Parlamento come tribuna per portare avanti le battaglie per il riscatto del Mezzogiorno. Il suo radicalismo lo spinge persino a negarsi al giuramento in nome del re Vittorio Emanuele e, di fatto, a non partecipare alla vita del Parlamento, nonostante gli appelli di un altro mazziniano di primo piano (Agostino Bertani) a rivedere la sua posizione al fine di utilizzare l’aula parlamentare per far sentire le istanze delle popolazioni meridionali. L’azione politica del Libertini dentro queste contraddizioni si riduce a ben poca cosa e non sempre appare encomiabile, se si limita dopo il 1861 a “favorire” l’elezione di amici della Sinistra estrema, cercando con questo escamotage di emanciparsi dalle sue pregresse responsabilità e lasciando ad altri di realizzare “la rivoluzione interrotta”.

Sono queste alcune sommarie riflessioni suggerite da una rapida lettura dei saggi raccolti in questo volume. Ma Coppola offre un’analisi molto più articolata e complessa di quanto si è potuto brevemente richiamare. Per questa ragione siamo con-vinti della bontà di questa operazione scientifico-editoriale, le cui positive ricadute continueranno non solo ad alimentare il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano, ma anche a suggerire approfondi-menti che riguardano il personale politico che ha rappresentato il Salento nel primo decennio post-unitario (ed oltre).

 

Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)

di Alessio Palumbo

Con la presa di Roma del 1870, il processo di unificazione nazionale raggiungeva uno degli obiettivi più attesi ed agognati. Le terre (le celebri terre irredente) ottenute sui tavoli della conferenza di Versailles segneranno un ulteriore passo in questa eccezionale opera politica e militare, tuttavia fu forse Roma, con il suo valore storico, culturale e simbolico a rappresentare la conquista più prestigiosa e sperata da generazioni di patrioti italiani. Una conquista avvenuta a soli dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dopo una serie di tentativi falliti. Dieci anni di estrema importanza per la nascita e la strutturazione del nuovo stato unitario.

Il volume da poco edito da Salvatore Coppola, Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870), Castiglione Salentino, Giorgiani 2020, esamina questo decennio cruciale attraverso una serie di saggi incentrati sul ruolo avuto dai patrioti salentini nell’opera di consolidamento del processo unitario. Ciascuno con la propria storia e con le proprie idee: dai moderati unitari come Castromediano e Oronzio De Donno, ai repubblicani radicali come Libertini, dai federalisti-unitari come Giuseppe e Liborio Romano a uomini come Pisanelli, Mazzarella e altri che hanno accettato il compromesso con i Savoia pur di raggiungere l’Unità.

A centocinquanta anni da quelle idee e da quegli avvenimenti, è per Coppola giunto il momento di riflettere sulle delusioni e sulle crisi delle certezze di molti di quei protagonisti. L’accentramento invece del decentramento federale; la repressione manu militari dei fenomeni di ribellismo delle masse contadine al posto delle riforme sociali ed economiche auspicate soprattutto dai Romano, ma anche da Castromediano; il compromesso con l’Impero francese sul destino di Roma (Convenzione di settembre), che segnò il divorzio tra mazziniani radicali e governo centrale; la mancata attuazione di riforme strutturali nel Mezzogiorno; tutto questo (e altro ancora) ha portato la gran parte dei patrioti salentini a rimanere “delusi” per quanto in quel decennio si stava realizzando. Di qui il Noi speravamo, del titolo. Una delusione, quella studiata nei saggi di Coppola, che va oltre le banalizzazioni di certo revisionismo neoborbonico tanto di moda. Una disillusione che erompe in chi ha fieramente creduto nell’ideale nazionale, salvo poi vedere quello stesso ideale ridimensionato o cancellato nelle complesse dinamiche (governative, parlamentari, politiche) che animarono il primo decennio di vita del neonato Regno d’Italia.

Da qui l’importanza e la significatività di questo ulteriore studio di Salvatore Coppola nel contesto storico del Salento all’indomani dell’unificazione nazionale.

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (II parte)

di Salvatore Coppola

 

La verità giudiziaria

Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che si sarebbe concluso (tra appelli, ricorsi, sentenze di rinvio e nuovi ricorsi) nel maggio del 1969. Sul banco degli imputati finirono Berardino Cecchini (vice brigadiere dei carabinieri addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione e alla «prevenzione di incidenti»), Oronzo Zaccaria Pranzo (amministratore della ditta Villani Costantino & C. nonché titolare della licenza per l’utilizzo di solfuro di carbonio), Donato Colopi (chimico, direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dr. Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (determinati da «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di contravvenzioni per la mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di una serie di prescrizione in materia di impiego di gas tossici. Il dr. Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere «attestato falsamente in un certificato rilasciato il 21/5/1960 che i locali della ditta Villani Costantino e C., siti in Calimera alla via Martano 11, erano separati ed allestiti con tutte le cautele previste dall’art. 45 e segg. del Regolamento Speciale del 9/1/1927 sui gas tossici»[1].

La tragedia si consumò in pochi attimi alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S. Antonio). Le operaie erano intente a «travasare il solfuro di carbonio da un bidone posto su di un cavalletto in recipienti piccoli, così da potere gli stessi, riempiti del liquido, essere avviati (col sistema del passamano a catena) nell’interno degli ambienti e posti un po’ dovunque, sulle ballette di tabacco ivi ammassate», quando un cerino incautamente acceso dal vice brigadiere Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso del liquido, cui seguirono l’incendio e l’emissione di vapori tossici. Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dal gas. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Il Tribunale così descrive la drammatica scena:

[…] Le fiamme innanzi la porta d’ingresso, essendo la stessa stretta e con una impannata chiusa, crearono una barriera per chi si trovava dentro, ove per giunta, alcuni dei recipienti pieni si rovesciarono, aumentando il fuoco, il gas tossico e il panico. Le persone che erano all’interno restarono in trappola, chiuse nei vani, dalle fiamme che divampavano sul pianerottolo, impossibilitate a saltare dalle finestre sulla strada, in quanto queste erano munite di inferriate fisse, né vi erano altre uscite […][2].

 

Il Tribunale riconobbe la responsabilità del vice brigadiere Cecchini («con fare disattento ed inconsiderato, come avviene al fumatore che accende la sigaretta senza accorgersene, meccanicamente, mentre era in corso il travaso dell’infiammabilissimo liquido, si mise a fumare. Diede fuoco con un cerino alla sigaretta provocando immediato lo scoppio del solfuro che in gran copia era nei recipienti scoperti»). La sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» che si materializzò nella «inopinata accensione del cerino» non furono, tuttavia, da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficiente da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere gli altri imputati. L’inosservanza, infatti, di una serie di norme poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere, la cui presenza sul posto doveva essere di garanzia della regolarità e sicurezza delle operazioni.

In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco – di per sé pericolosissima – avrebbe dovuto svolgersi in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons (presi in affitto dal Pranzo per conto della ditta Villani Costantino & C.) che si trovavano vicini al centro abitato, in via Martano 11. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un fustino metallico collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima ad una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri). Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne chi vi si trovavano dentro «senza altra possibilità di uscita». Anche le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna via d’uscita dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio a cui le stesse non erano tenute in base alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro (il chimico Colopi), cui spettava l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di solfurazione, era assente («l’opera che si stava eseguendo e che non si portò a termine stante l’accaduto, avrebbe dovuto compiersi alla presenza del direttore tecnico, Colopi, dal principio alla fine»). Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Martina che si fece coadiuvare dall’operaio Murra. A parere dei giudici, se egli fosse stato presente non avrebbe consentito che le operaie – personale non idoneo e non autorizzato – partecipassero alle operazioni «inerenti alla solfurazione» e non avrebbe permesso che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola:

[…] Il Colopi avrebbe potuto consentire il lavoro solamente se le porte dei locali avessero potuto permettere la rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall’interno durante il lavoro. Siccome questi presupposti non sussistevano il direttore tecnico non doveva permettere la solfurazione. Non sembra al Tribunale che, non potendosi disporre del congruo numero di uscite, si dovessero porre le operaie di fronte ad un rischio che la legge sugli infortuni vieta debba essere affrontato; nella peggiore delle ipotesi, la solfurazione non doveva farsi in quel giorno ed in quel luogo […]. Non sarebbe stato difficile predisporre, con alcune finestre situate nel retro del fabbricato al primo piano comunicanti con due terrazze, delle uscite di sicurezza[3].

 

Il Tribunale ritenne che la colpa del solfuratore patentato Raffaele Martina consisté nell’essersi fatto aiutare, nell’operazione di disinfestazione del tabacco, da personale non abilitato (quali erano l’operaio Achille Murra e le undici operaie tabacchine):

[…] Ciò non avrebbe dovuto fare per ragioni di prudenza di facile comprensione, per non esporre quel tipo di personale, per di più quasi tutte donne, ad un rischio mortale. Consisté la colpa nel non avere considerato il Martina (negligenza, imprudenza) che, senza porte di sicurezza, era pericoloso porre al lavoro le persone, stante il pericolo di incendio e di emanazione di vapori mortali. La manovra del travaso del solfuro, dall’imputato organizzata ed eseguita in luogo angusto, fu altra imperdonabile imprudenza e negligenza, dovendo facilmente, il Martina, prospettare a sé stesso l’ipotesi di una combustione del liquido proprio in quel punto, sì che avrebbe chiusa ogni via di scampo a coloro che lavoravano nell’interno […][4].

Quanto all’amministratore Pranzo (titolare della licenza per l’impiego del solfuro), egli – a parere del Tribunale – non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le operaie, che egli aveva assunto per il tramite della capo operaia Maria Assunta Pugliese:

[…] La licenza per l’impiego del solfuro era stata rilasciata dal Questore a Pranzo in persona, sicché doveva il titolare della licenza personalmente presenziare alla solfurazione […] a lui incombeva fra gli altri l’obbligo di non impiegare personale non abilitato durante la solfurazione […]. Pranzo diede ordine alla capo operaia Pugliese di assumere le tabacchine per la disinfestazione […]. I lavori di sistemazione dei locali erano stati compiuti il 12 giugno, mentre restava solo da distribuire il liquido velenoso nei singoli vani: da ciò la necessità di chiamare undici tabacchine, che lavorarono col sistema del passamano a catena per far giungere i barattoli pieni di solfuro dal pianerottolo ove avveniva il travaso fin nel più lontano locale […] egli non doveva affidare a personale non abilitato a termini di regolamento lavori strettamente inerenti all’impiego del liquido tossico […] alle tabacchine, invece, fu dato ordine di permanervi, pur non essendo patentate, per tutto il tempo necessario alla distribuzione dei recipienti pieni, nei dodici ambienti […]. Fra gli accorgimenti tecnici, sarebbe bastato munire i locali del magazzino di tante uscite proporzionate al numero delle operaie, facendo sì che le aperture […] avessero trovato sfogo all’aperto, in atrii, terrazzi, cortili contenuti, questi, come accessori scoperti, entro l’ambito cintato e circoscritto del magazzino […][5].

Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento («la causa sopravvenuta posta in essere non sarebbe stata sufficiente da sé sola a determinare l’evento» senza il concorso di cause «precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati»):

[…] Così avvenne, quanto a Pranzo e Colopi, che predisposero gli ambienti senza possibilità di scampo o di fuga per chi si fosse trovato dentro; che fecero lavorare delle persone non abilitate al rischioso uso del solfuro di carbonio; che non le munirono di maschere antigas, né di indumenti refrattari al fuoco; che non corredarono i locali con meccanismi atti ad estinguere gli incendi […] Martina, dal canto suo […] si rese conto che le tabacchine non erano adatte a quel genere di lavoro, a loro vietato, tanto che la legge ne escludeva l’impiego. Pur vide, infine, che le tabacchine ed il suo aiuto Murra non avevano né maschere, né indumenti protettivi […]. La sola azione del Cecchini non avrebbe sortito l’effetto mortale, sol che il personale fosse stato munito di indumenti protettivi, non attaccabili dal fuoco e di maschere atte alla respirazione, in ambienti infestati da gas venefici; sol che avesse avuto, ognuno dei presenti, via libera per fuggire […] certamente le conseguenze non sarebbero state così disastrose; perché, se non tutti, si sarebbero salvati molti, specie dalla morte, con la fuga, con la respirazione attraverso le maschere antigas, con gli indumenti resistenti al fuoco[6].

 

Il Tribunale, sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento» inflisse ai quattro imputati la medesima condanna. Per il reato di omicidio colposo plurimo la pena inflitta fu di 6 mesi per ogni operaia morta (totale 36 mesi). Per le lesioni più gravi fu inflitta la pena di 9 mesi (3 mesi per ognuna delle tre persone ferite); per le lesioni meno gravi la pena inflitta fu di 4 mesi (1 mese per ognuna delle quattro persone ferite). In totale la pena complessiva fu determinata in 4 anni e 1 mese, cui si aggiunsero le ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse con formula piena (il fatto non costituisce reato) il dr. Tommasi giudicando che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas»; egli pertanto non aveva avuto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà»[7].

La Corte d’Appello, con sentenza del 15/12/1962, riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione, applicando nel contempo il beneficio della prescrizione per alcune contravvenzioni inflitte a Pranzo e Colopi. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). A seguito del rinvio (limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce) il processo finì davanti alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio del processo alla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 20/12/1968 accordò agli imputati Colopi e Martina il beneficio della prescrizione in merito al reato di delitto colposo. Un nuovo ricorso in Cassazione e la pronuncia della Suprema Corte (19/5/1969) posero la parola fine alla vicenda.

I nomi delle tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale al lavoro e al sacrificio di quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.

Note

[1] Asle, Tribunale civile e penale, Sentenze penali, sentenza n. 614 del 19/5/1962.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Ivi.

[7] Ivi.

 

Per la prima parte vedi qui:

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

 

“Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”.

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie,

una tragedia annunciata

 

di Salvatore Coppola

La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie, le più gravi delle quali sono state, in epoca fascista, la repressione a Tricase della manifestazione del 15 maggio 1935 (quando vennero uccise Maria Nesca, Cosima Panico e Donata Scolozzi), e, negli anni della democrazia, l’incendio che si sviluppò nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons di Calimera, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco), dalla ditta Villani Costantino & C.[1].

Il 13 giugno del 1960 un incendio divampò all’interno del locale provocando la morte di cinque operaie, quattro delle quali (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) perirono a causa delle gravi ustioni patite tra il 13 e il 14 giugno; un’altra (Epifania Cucurachi, di anni 27) morì il 16 luglio a causa dell’intossicazione, e l’ultima (Lucia Di Donfrancesco, di anni 30 al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricoveri in diversi ospedali. Luigia Bianco, Natalina (Lina) Tommasi e Lucia Di Donfrancesco erano nubili. Luigia Tommasi (moglie di Pantaleo Garrisi) lasciava orfani Brizio Antonio di anni 5 e Domenico di anni 1; Maria Assunta Pugliese (moglie di Paolo Greco) lasciava un figlio di anni 20; Epifania Cucurachi (moglie di Pasquale Palano) lasciava orfani Carmelo di anni 7 e Antonio di anni 2. Rimasero ferite le tabacchine Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone, Paola Lucia Montinaro e gli operai Achille Murra di San Pietro in Lama (aiutante del tecnico Raffaele Martina preposto alle operazioni di disinfestazione del tabacco) e Paolo Greco (marito della Pugliese) che cooperava a dette operazioni. Restarono leggermente feriti anche Paola Lucia Montinaro (madre di Lina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della CGIL, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.

Nel pomeriggio del 13 giugno, la Prefettura informò il Ministero degli Interni sulla tragedia che si era consumata a Calimera:

Verso ore 7.30 stamane, Comune Calimera, mentre procedevasi, con regolare licenza, at disinfestazione tabacco in foglie fabbrica Villani Costantino, mediante impiego solfuro carbonio, per cause non ancora accertate, sviluppavasi violento incendio causato da combustione gas. Circostanza sette persone riportavano gravissime ustioni et intossicazione, per cui venivano ricoverate presso Ospedale Civile con prognosi riservata. Di esse due versano imminente pericolo vita, mentre condizioni altre permangono gravissime. Successivamente altre cinque persone venivano ricoverate stesso nosocomio per intossicazione, ma loro stato non est preoccupante. Sul posto si sono recati immediatamente Vigili Fuoco per operazioni soccorso et spegnimento incendio. Autorità Giudiziaria, collaborazione Organi Polizia, procede accertamenti per stabilire cause grave sinistro. Ho visitato degenti Ospedale Lecce et disposto assistenza at favore famiglie infortunati […][2].

 

Il Comune (era sindaco Giovanni Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime[3].

Si trattò di una tragedia annunciata, come risulta dal verbale redatto dall’ingegnere Antonino Fiorica, comandante dei Vigili del Fuoco di Lecce, che denunciò la mancata osservanza delle più elementari norme in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, con riferimento soprattutto al DPR n. 547 del 27/4/1955 e al R.D. n. 147 del 9/1/1927; nel verbale inviato al Ministero degli interni e alla Prefettura, si legge, tra l’altro:

[…] Il locale dove si effettuava la disinfestazione è costituito da due grandi vani al primo piano ai quali si accede attraverso un vano di disimpegno che comunica con un’unica scala. Essi vani sono sovrastanti ad abitazioni ed i locali del pianoterreno adiacenti a queste ultime sono anch’essi adibiti ad abitazioni. Ai magazzini del primo piano si accede attraverso una scala a sbalzo in pietra leccese, che smonta ad un pianerottolo antistante al vano di disimpegno. I locali per disposizione dell’Ufficio Compartimentale Tabacchi sono dotati di un solo accesso e privi quindi di altra uscita, che, in caso di sinistro, possa servire come uscita di sicurezza nell’eventualità che venga a trovarsi ostruita la normale via di accesso (art. 13 del decreto DPR 27/4/1955, n. 547). Ciò si è verificato nel caso che si espone. Quella mattina si stava procedendo alla disinfestazione del locale con solfuro di carbonio, il quale venendo adoperato per le specifiche proprietà tossiche, è soggetto alla regolamentazione di cui al R.D. 9/1/1927 n. 147. Il titolare del magazzino, pertanto, in ottemperanza a quanto disposto dal sopracitato R.D. si era rivolto alla ditta Perrone e Colopi al fine di disinfestare sia il locale che il tabacco con solfuro di carbonio, il quale passando allo stato gassoso emette vapori tossici ed infiammabili. Essi vapori mescolandosi all’aria in determinate percentuali possono provocare anche esplosioni […]. Le operazioni relative all’impiego del gas tossico erano state iniziate alle ore sette circa, in assenza del Direttore Tecnico, e senza aver provveduto ad allontanare dai locali il personale non abilitato alla esecuzione delle operazioni relative all’impiego del gas tossico, come disposto dall’art. 46 del sopracitato R.D. Sembra anzi che gli operai si trovavano nell’interno del locale per aiutare il sig. Martina, unico abilitato alle operazioni di impiego del gas tossico, a trasportare e depositare sulle ballette di tabacco i recipienti contenenti solfuro di carbonio. E’ stato rilevato inoltre che nessun cartello con lo scritto “E’ vietato l’ingresso, Pericolo di morte”, […] era stato apposto all’ingresso dei locali. Gli operai non erano stati dotati di apparecchi per la protezione individuale contro l’azione tossica del gas (art. 40 R.D. sopracitato) e nemmeno tali apparecchi si trovavano nel locale, come prescritto dall’art. 369 del decreto del Presidente della Repubblica del 27/4/1955, n. 547. I recipienti in cui era stato trasportato il solfuro di carbonio non portavano i contrassegni relativi all’infiammabilità e alla tossicità del gas. L’incendio del solfuro di carbonio che ha causato le ustioni e le intossicazioni degli operai che si trovavano all’interno del locale si è verificato mentre si procedeva al travaso del liquido infiammabile da un fustino metallico in recipienti di latta. Detta operazione di travaso veniva effettuata sul pianerottolo della scala, antistante all’unico accesso ai locali per cui gli operai che si trovavano nell’interno si sono venuti a trovare con l’unica uscita sbarrata dalle fiamme e tutte le finestre chiuse e sigillate all’interno, con carta convenientemente incollata (per evitare fuoruscita dei vapori del solfuro di carbonio) e sbarrate con rete metallica e robusta cancellata in ferro all’esterno […][4].

 

La relazione indicava come possibili cause dell’incendio «l’incauto uso di fiamme libere sulla scala e nell’androne di ingresso sito al piano terreno», o le scintille provocate dallo «strofinio dei cerchi metallici del fustino con il pavimento del pianerottolo», o quelle provocate «dall’urto del fusto con i barattoli metallici» oppure le scintille provocate «dall’urto di scarpe chiodate o forzate con il pavimento in cemento»[5].

Lucia Di Donfrancesco, costretta a continui ricoveri negli Ospedali di Lecce, Bari e Napoli a causa dell’intossicazione patita, il 13 gennaio del 1961 indirizzò un accorata appello al prefetto per lamentare le gravissime condizioni di salute ed economiche in cui versavano lei e i propri genitori (Brizio Maria e Maria Addolorata Lefons che erano entrambi anziani e pensionati):

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto, anzi tutto mi scuso se mi rendo seccante, avevo saputo che doveva venire la Signoria Vostra a Calimera ed avevo mandato la mamma sul municipio ma invece le hanno detto che per questa domenica non l’è stato possibile, le cerco una preghiera quando verrà a Calimera che vorrei parlarle direttamente, sono sempre la solita martire che venne a trovarmi all’ospedale di Lecce, mi portarono di nuovo a Napoli credendo di migliorare, ma invece ho peggiorato son tornata di nuovo a Calimera che proprio oggi sono trascorsi 7 mesi di pene, è già un mese che sono a casa mia, con la mia vecchia mamma che mi assiste e mio padre pure è vecchio, ci campiamo con la loro vecchiaia, fin adesso ho avuto solo il suo aiuto e pregherò sempre per la sua bontà, non dimenticate che una sua visita è forse la mia salvezza desidererei tanto vederlo un’altra volta giacché speravo una mia guarigione per venire io personalmente a ringraziarlo di tutto, ma non ho più speranza sto peggio di prima, e di nuovo con l’ossigeno, e non so ancora quando finisco di soffrire, sono molto stanca. Le chiedo con tutto il cuore un suo conforto e se non le sarà possibile almeno un suo scritto che da oggi conto i giorni che ho scritto, aiutatemi. Distinti saluti, Lucia Di Donfrancesco, via Martano n. 55 […][6].

 

Il successivo 17 marzo, Lucia scrisse nuovamente al prefetto:

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto. Anzi tutto chiedo scusa se mi rendo seccante, sono Lucia Di Donfrancesco l’operaia che sono stata la più grave di tutte, credo che si ricorda quale sono, che Sua Eccellenza è venuta pure a trovarmi all’ospedale di Lecce, avevo scritto due mesi or sono ma non ho avuta riposta, se fossi in condizioni un po’ migliorate sarei venuta a trovarlo personalmente, ma le condizioni di salute non lo permettono, la prego ancora di non dimenticarmi che ho tanto bisogno ci campiamo con la vecchiaia dei miei vecchi genitori, non so a chi rivolgermi, la prego aiutarmi, non credo che non si ricorda chi sono, l’operaia del magazzino incendiato di Calimera […][7].

 

Lucia Di Donfrancesco cessò di vivere il 14 gennaio del 1962. Fu la sesta vittima dell’immane tragedia che aveva colpito Calimera il 13 giugno del 1960; non risulta che alle sue accurate lettere il prefetto avesse mai risposto. Qualche giorno dopo la sua morte, egli comunicò al sindaco che aveva disposto a favore dei genitori (74 anni il padre e 68 la madre) l’erogazione di un contributo di lire 50.000 e lo pregò di porgere loro il proprio cordoglio[8].

Note

[1] Sul drammatico episodio di Tricase, S. Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà, Giorgiani, Castiglione 2015.

[2] Asle, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 266, fasc. 3111 (telegramma del prefetto Di Cuonzo).

[3] Ivi, comunicazioni del prefetto e del comandante della Compagnia provinciale dei Carabinieri Aldo Favali; la Prefettura e l’APTI erogarono un contributo alle famiglie delle vittime e a quelle di coloro che erano stati ricoverati.

[4] Ivi, relazione redatta il 20/6/1960.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, lettera del 13/1/1961.

[7] Ivi, lettera del 17/3/1961.

[8] Ivi, lettera del 15/1/1962.

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (quarta parte)

di Salvatore Coppola

All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].

Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:

 

[…] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].

Masseria Petrose

 

Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].

 

L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.

Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].

Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:

[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].

Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].

Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:

 

[…] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].

campagna salentina (ph Fondazione TdO)

 

Note

[1] Ivi.

[2] Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.

[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).

[4] Fg, Archivio PCI, MF 0328.

[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.

[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.

[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

Per la terza parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Sulla vicenda complessiva dell’Arneo è opportuno fare alcune considerazioni. Il movimento contadino pugliese, fin dai primi anni del secolo scorso, e in modo clamoroso nel primo dopoguerra, si è sostanzialmente espresso in forme di lotta anarcoidi ed estremistiche tipiche di una regione caratterizzata dalla presenza di una grandissima massa di braccianti e contadini poveri, ai quali i governi che si sono succeduti dall’Unità d’Italia in poi non avevano saputo offrire alcuna seria alternativa alle loro durissime condizioni di vita. Improvvise esplosioni di collera popolare e forme di protesta anarchica e primitiva hanno costituito la forma di lotta tradizionale del bracciantato pugliese che, più che nel riformismo del PSI, aveva cercato una guida, una prospettiva ed un programma nella tradizione massimalista delle Leghe bracciantili che avevano assicurato un discreto consenso elettorale al PSI nelle elezioni del 1919 e del 1921. Nel secondo dopoguerra il movimento sindacale era ancora fortemente condizionato dalla tradizione massimalista che trovava la propria giustificazione nella tragica condizione dei braccianti e dei contadini poveri. Le lotte del periodo 1945-1949 ebbero come obiettivo le rivendicazioni immediate (il pane, il lavoro, il salario) più che i problemi delle riforme di struttura, del rinnovamento dello Stato e delle possibili alleanze di classe. Anche il movimento che si è sviluppato in Puglia tra il 1949 e il 1951, in concomitanza con l’occupazione delle terre in Calabria e in altre regioni del Mezzogiorno, non pose al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra e della riforma agraria generale, con l’unica eccezione del movimento di lotta che si è sviluppato sull’Arneo. Quel movimento ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad analoghi movimenti popolari e contadini della Puglia, ha posto al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra, della riforma agraria generale e delle alleanze con i ceti medi della campagna e della città. La lotta contro il più vasto latifondo borghese del Salento avrebbe potuto costituire un modello per le future azioni di lotta in tutta la regione, ma così non fu, e anzi, all’interno dello stesso movimento sindacale salentino, nella fase di attuazione della riforma agraria, emersero alcune incertezze programmatiche tipiche dell’intero movimento sindacale pugliese che stentava a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge di riforma. I dirigenti politici e sindacali salentini che guidarono il movimento di lotta sulle terre dell’Arneo dimostrarono di aver saputo individuare precisi obiettivi di riforma agraria che i gruppi dirigenti di altre province, come ad es. quelli di Bari e Foggia, non avevano saputo indicare.

Al di là dei risultati immediati conseguiti con la riforma agraria (il numero degli ettari di terre concesse e delle famiglie degli assegnatari, il reddito agrario conseguito dalle stesse, ecc.), è importante sottolineare il dato storico rappresentato dal fatto che la lotta contro il latifondo borghese, condotta soprattutto sull’Arneo e in qualche altra zona del Salento, ha rappresentato l’inizio della fine del regime feudale nelle campagne salentine, un sistema fatto di soprusi e di angherie, di gestione clientelare del mercato del lavoro, di prestazioni servili. Quella lotta ha costituito il primo passo per il definitivo riscatto politico, sociale, morale e culturale delle masse contadine del Salento. Con riferimento alla seconda fase dell’occupazione (1950/1951), così scriveva nel 1977 Antonio Ventura:

 

[…] i contadini lasciarono l’Arneo, a piedi: le loro biciclette contorte e bruciate erano rimaste sotto gli alberi d’ulivo, simbolo emblematico di una sconfitta che poteva non essere tale. E non lo fu se si guarda a ciò che quel movimento riuscì a conquistare, alle cose che riuscì a chiarire, alle alleanze che fece intravedere come possibili [… ] e se tali furono i risultati ottenuti là dove meno forte e organizzato era il movimento operaio, c’è da chiedersi a quali vette si sarebbe giunti, nel Salento e altrove, se alla lotta per la riforma agraria e per imporre un limite alla proprietà terriera, le zone più forti e le categorie più combattive avessero dato quel contributo che esse potevano dare in particolare[1].

Le riflessioni di Ventura rappresentano uno dei tanti contributi al dibattito sui risultati delle lotte per la riforma agraria che, negli anni cinquanta e sessanta, si è sviluppato all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali salentine come in ambito storiografico nazionale. Per quanto riguarda il Salento, la valutazione non può essere univoca. I limiti del movimento appaiono evidenti, e sono costituiti essenzialmente dalla mancata estensione della lotta alla vasta area del basso Salento (dove la stragrande maggioranza dei lavoratori agricoli fu costretta a cercare nell’emigrazione il proprio riscatto economico e sociale) e dalla insufficiente capacità delle forze politiche della sinistra di esercitare un efficace controllo sulla gestione della riforma che, sul piano politico, ha finito col favorire i partiti di governo, soprattutto la Democrazia cristiana. Questo partito riuscì, infatti, attraverso l’uso di strumenti pubblici quali gli Enti di riforma, la Cassa del Mezzogiorno e gli istituti di credito, a legare a sé la maggior parte delle famiglie dei coltivatori diretti. Nel corso di una delle tante cerimonie di assegnazione delle terre d’Arneo, alle quali partecipavano deputati e sottosegretari democristiani, autorità civili e religiose (chiamate queste ultime a benedire le terre concesse), un autorevole rappresentante della DC neretina dichiarava che «la riforma agraria si attua per opera della DC nell’ordine, nella legalità e nella libertà. Si ottiene contro i comunisti»[2].

 

In quegli anni di grandi passioni politiche e di scontri ideali e ideologici, la DC incassava i risultati di una riforma che sostanzialmente aveva voluto e per la quale, nelle prime elezioni successive all’adozione dei provvedimenti agrari, pagò un prezzo in termini elettorali perdendo voti a vantaggio sia delle destre (Partito liberale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale) sia dei partiti di sinistra (soprattutto il PCI, che nella lotta per la terra e per la riforma agraria aveva impegnato l’intero gruppo dirigente meridionale). Quello che la DC perse nell’immediato sul piano elettorale lo conquistò però sul piano politico nel periodo di media e lunga durata. All’interno della CGIL e dei partiti di sinistra (in particolar modo il PCI) si è sviluppata, negli anni successivi alla conquista della legge stralcio, una complessa e non facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Emergeva la consapevolezza che era stato un errore concentrare la lotta solo sulle terre del latifondo classico senza investire contemporaneamente le immense estensioni degli oliveti condotti in economia dai grossi agrari e con rese produttive largamente inferiori a quelle che si sarebbero ottenute se quelle terre fossero state concesse ai contadini con contratti di compartecipazione. Emergeva, altresì, la consapevolezza che era stato un errore concentrare gli sforzi solo su alcune zone (l’Arneo, la fascia adriatica a nord e sud di Lecce) senza interessare alla lotta le zone del basso Salento (dove i rapporti agrari erano ancora di tipo feudale), e che era stato fatto poco per coinvolgere nella lotta contro i grossi agrari i piccoli e medi proprietari terrieri. All’interno della sinistra si confrontavano due linee diverse di politica agraria, una legata alla piattaforma sindacale dei braccianti, che costituivano la categoria più importante e maggioritaria dei lavoratori iscritti alla CGIL, un’altra che, pur non volendo trascurare l’impegno per quella categoria, sollecitava l’elaborazione di una politica agraria che coinvolgesse nella lotta contro la rendita parassitaria le categorie dei ceti medi produttivi, ai quali occorreva assicurare un forte impegno per la costituzione di cooperative di produzione e consumo, per una politica di agevolazioni creditizie, onde garantire la stabilità sulla terra e la proprietà della stessa a coloni e mezzadri, per la ricerca di sbocchi di mercato che non fossero imposti dalla strategia capitalistica dei monopoli pubblici e privati, per la creazione, infine, di una rete di complessi manufatturieri di lavorazione e trasformazione dei prodotti.

Al di là, quindi, della riflessione sui risultati economici della riforma (siamo d’accordo con quanti sostengono che i circa 17.000 ettari concessi a poco più di quattromila famiglie contadine non possono essere considerati una vera e propria riforma agraria), nonostante tutti i limiti oggettivi e soggettivi emersi dalla conduzione e gestione della battaglia per la riforma, dobbiamo sottolineare come la lotta contro il latifondo borghese abbia costituito uno dei momenti più significativi della storia sociale della provincia di Lecce. Dopo l’Arneo, e grazie all’Arneo, nulla fu più come prima nei rapporti agrari; l’Arneo ha contribuito, infatti, a fare dei braccianti e dei contadini poveri, fino ad allora politicamente e socialmente disgregati, una classe pienamente consapevole dei propri diritti. Dall’Arneo è partito il movimento di rinascita degli anni cinquanta e sessanta, quando i braccianti e contadini poveri hanno conseguito altre significative vittorie, come l’abolizione definitiva del cappuccio e la sua sostituzione col paniere nel lavoro di raccolta delle olive e la trasformazione dei contratti colonici miglioratari in contratti di enfiteusi. Migliaia di coloni, infatti, che avevano trasformato terreni seminativi poveri in vigneto e oliveto, erano costretti (sulla base dei vecchi contratti) a cedere la metà del prodotto ai proprietari, il più delle volte esentati dalle spese di trasformazione e di coltivazione. Il perdurare di tali contratti era insostenibile non solo dal punto di vista della giustizia sociale, ma anche della stessa economia della provincia, perché condannava l’agricoltura alla stagnazione e al regresso, e i contadini all’esodo. Con la loro lotta (sviluppatasi soprattutto alla fine degli anni sessanta) i coloni riuscirono a far approvare la legge sulla trasformazione dei contratti di colonia in contratti di enfiteusi che garantiva la stabilità sulla terra a migliaia di famiglie contadine e consentiva loro di riscattarsi dalla servitù feudale e dal capestro delle scadenze che, il più delle volte, colpiva i lavoratori proprio quando avrebbero potuto raccogliere i frutti di anni di intenso e duro lavoro.

 

Se la riforma agraria, con tutti i suoi limiti, non ha trasformato la realtà produttiva della provincia di Lecce (tant’è vero che molti tra i primi assegnatari abbandonarono le terre concesse per mancanza di prospettive concrete), il giudizio sul movimento di lotta dell’Arneo deve essere più articolato. Nelle relazioni e nei documenti delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra si trovano di frequente espressioni come «la lotta eroica dei contadini dell’Arneo», «la gloriosa lotta dell’Arneo», le «memorabili lotte dell’Arneo oramai scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento», dell’Arneo insomma si parlava quasi con toni mitici. Anche nei documenti della controparte padronale e in quelli delle autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico si trovano spesso riferimenti all’Arneo, con toni naturalmente diversi. La possibilità o il timore che i lavoratori agricoli di altre zone della provincia potessero fare quanto era stato fatto sull’Arneo costituiva, infatti, un formidabile pungolo a chiudere le trattative e a sottoscrivere i contratti provinciali di categoria. Molti grossi proprietari che avevano lasciato incolti i loro terreni, temendo un’azione di occupazione da parte dei braccianti, effettuarono opere di dissodamento, impiantarono vigneti e oliveti.

Se i braccianti agricoli e i contadini poveri del Salento hanno maturato una chiara coscienza politica lo si deve proprio all’Arneo, la cui vicenda, avvertita come una loro vittoria per avere costretto il governo ad estendere alla provincia la legge stralcio, costituì lo stimolo per ulteriori lotte e per nuove conquiste sociali, economiche e culturali. Oggi, comunque, gli studi e le ricerche per esprimere un giudizio sereno su quella pagina di storia non mancano, e anche la pubblicazione degli atti del convegno organizzato in occasione del 50° anniversario di quelle lotte possono rappresentare un contributo utile ad approfondire una pagina di storia politica e sindacale che è tra le più importanti e significative del Salento[3].

fine

Note

[1] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in F. De Felice, Togliatti e il Mezzogiorno, cit., pp. 331-332.

[2] L’Ordine, organo dei cattolici salentini, del 28/12/1951.

[3] M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Nel corso dei lavori della Conferenza interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania (Matera, 13 e 14 maggio 1950), si discusse ampiamente delle occupazioni delle terre che si erano avute nella provincia di Lecce. «Nei mesi di novembre e dicembre 1949 e gennaio 1950» – si legge nel testo del documento finale – «in concomitanza con tutta la grande azione dei contadini calabresi e siciliani, per l’occupazione e la trasformazione del latifondo in queste regioni, si sviluppava l’azione veramente di massa dei contadini poveri e dei braccianti nel leccese per l’occupazione delle terre incolte dell’Arneo e delle altre zone paludose o abbandonate del litorale adriatico del Salento. A questa azione hanno partecipato fino a 10 o 15.000 piccoli contadini ed avventizi agricoli, i quali molte volte sono partiti da comuni, come Copertino o Carmiano, distanti 15 o 20 Km. dalle terre da occupare». Si mise in evidenza, tuttavia, che le occupazioni avevano avuto un carattere fondamentalmente simbolico. I risultati complessivi, considerato che della grande estensione occupata solo poche centinaia di ettari risultavano assegnate in enfiteusi ai contadini, dovevano considerarsi nel complesso deludenti specie se messi a confronto con quelli conseguiti nella provincia di Matera dove si erano mobilitati, oltre ai braccianti, anche i coltivatori diretti, e l’occupazione di 10.000 ettari, che era stata effettiva e non simbolica, aveva portato alla concessione di 2.500 ettari di terre. Se il bilancio complessivo delle lotte venne considerato positivo, vennero individuati anche lacune e difetti («le nostre organizzazioni non sono riuscite ancora a costituire un efficace fronte contadino da opporre al fronte agrario […] molti nostri organizzati ed anche alcuni dirigenti si sono chiusi in un settarismo di categoria»). È per questo che fu proposto alle Federbraccianti pugliesi e lucane di farsi esse stesse promotrici della lotta in difesa degli interessi, non solo dei braccianti, ma anche dei coltivatori diretti (perché fossero esonerati dal pagamento dei contributi unificati e venissero esclusi dall’obbligo dell’imponibile di manodopera), dei piccoli proprietari (perché ottenessero lo sgravio di tasse e imposte ingiuste), dei compartecipanti (per un contratto che migliorasse la loro quota di riparto) e per i mezzadri (per rivendicare la giusta ripartizione dei prodotti). Tuttavia, nelle conclusioni del convegno, mancava qualsiasi riferimento preciso e programmatico ai temi della riforma agraria[1].

Nella primavera del 1950 continuarono nel Salento le occupazioni delle terre a sostegno della battaglia politica e parlamentare tesa al conseguimento di una legge di riforma agraria generale. Dopo i tragici avvenimenti di Modena (dove, nel corso di una manifestazione operaia, vennero uccisi dalla polizia sei lavoratori), e dopo la costituzione del nuovo governo presieduto da Alcide De Gasperi (del quale non facevano più parte i liberali, tra i più tenaci oppositori del progetto di riforma agraria), vennero adottati, nonostante la resistenza dei rappresentanti degli agrari meridionali, i primi provvedimenti di riforma. La legge 230 (cosiddetta legge Sila) fu approvata il 12 maggio. La 841 (legge per l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e la concessione delle terre, detta legge stralcio perché doveva costituire lo stralcio di un più vasto e organico progetto di riforma agraria) fu approvata il 21 ottobre 1950. Le due leggi, per la prima volta nella storia d’Italia, intaccavano la proprietà privata, sia pure con un diverso criterio di esproprio. Mentre la legge del maggio 1950 prevedeva interventi di scorporo sulla parte di proprietà eccedente i 300 ettari, la legge stralcio, con criteri più limitativi rispetto all’ammontare complessivo dell’estensione posseduta dal singolo proprietario, individuava i terreni suscettibili di esproprio con riferimento al reddito dominicale. Una volta censite ed espropriate, le terre sarebbero state assegnate ad appositi Enti di riforma che le avrebbero successivamente concesse ai contadini con contratto di enfiteusi. I dirigenti nazionali della CGIL e della Federbraccianti, pur esprimendo un giudizio complessivamente non positivo sulle leggi agrarie, considerate provvisorie e di portata limitata, si impegnarono a lottare per la gestione democratica delle stesse e per la loro estensione ad altre aree del Paese non incluse nella previsione della stralcio. Denunciarono, inoltre, la volontà del governo e della maggioranza parlamentare di mirare a dividere i contadini in quanto solo una piccola minoranza di loro avrebbe ottenuto, a pagamento, la terra, mentre ne sarebbe stata esclusa la stragrande maggioranza degli aventi diritto e, nel mentre sollecitavano l’adozione di una riforma agraria che, fissando un limite alla proprietà fondiaria, assegnasse in enfiteusi ai contadini con poca o senza terra i milioni di ettari eccedenti, mobilitarono i braccianti allo scopo di ottenere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate anche sulla base delle vecchie leggi Gullo e Segni ancora in vigore[2].

La legge stralcio prevedeva interventi di esproprio nelle aree del Fucino, della Maremma, del Delta del Po, in Emilia, nel Veneto, in Molise, in Campania, in Sardegna e, per quanto riguarda la Puglia, nelle province di Bari e Foggia, ma non in quella di Lecce. È per questo che, a partire dai primi giorni di dicembre del 1950, la CGIL salentina promosse una campagna di propaganda e di mobilitazione finalizzata all’occupazione dell’Arneo con l’obiettivo di costringere il governo ad includere quella ed altre aree del Salento nelle previsioni di esproprio della legge.

La lotta, che si sviluppò a partire dal 28 dicembre 1950, fu impostata e condotta in modo politicamente efficace e in forme diverse dalle tradizionali jacqueriés tipiche del movimento sindacale pugliese e salentino. Essa era coordinata e diretta dai dirigenti del PCI, del PSI e della CGIL e nulla fu lasciato al caso o alla spontaneità delle masse («da vari giorni», comunicava il 28 dicembre il commissario di Pubblica Sicurezza di Nardò dr. Michele Magrone al ministro degli Interni, «questo ufficio era informato che la locale Camera del lavoro stava organizzando, dietro ordine degli esponenti provinciali del Partito Comunista Italiano, una nuova occupazione di terre nella vicina plaga dell’Arneo»). I marconigramma e le relazioni inviate dal prefetto Grimaldi al ministro degli Interni Mario Scelba sembravano tanti bollettini di guerra: «Federterra et dirigenti comunisti», si legge in una comunicazione urgente e riservata del prefetto, «hanno sospinto numerosi gruppi contadini a portarsi in alcune località zona Arneo per procedere occupazione terre. Sono affluiti in zona procedendo simbolica occupazione terreni incolti aut insufficientemente coltivati circa milleduecento braccianti agricoli vari Comuni. Numero occupanti successivamente est aumentato at circa duemila. Sul posto est stata notata presenza onorevoli Giuseppe Calasso comunista et Mario Marino Guadalupi socialista. Forze polizia et Arma scopo ottenere sgombro zona occupata facevano uso mezzi lacrimogeni, senza ottenere grossi risultati perché occupanti dileguavansi soprastante boscaglia […] tutte locali forze Polizia sono impegnate fronteggiare situazione». Nella strategia dei dirigenti politici e sindacali che promossero la nuova occupazione delle terre, questa non doveva costituire più, come per il passato, uno strumento di pressione sui proprietari terrieri per conseguire alcuni obiettivi limitati come l’imponibile di manodopera o il rinnovo dei contratti né doveva servire solo a ottenere miglioramenti salariali e altri benefici di natura economica o previdenziale. L’obiettivo era molto più ambizioso, molto più avanzato. La lotta mirava, infatti, a mettere in discussione i secolari rapporti di proprietà nelle campagne, a distruggere il latifondo e ogni forma di rendita parassitaria, a porre fine ai rapporti di tipo feudale ancora largamente presenti nelle campagne salentine e a gettare le basi per realizzare, in forme nuove e tutte da sperimentare, il programma della terra ai contadini. Poiché in quel momento lo strumento più efficace per conseguire tale risultato sembrava la legge stralcio, i lavoratori agricoli furono mobilitati per ottenere l’inclusione della provincia di Lecce nelle aree di esproprio previste dalla stessa, ritenuta come il primo passo verso la riforma agraria generale. Se i fini erano ben individuati, anche le forme di lotta furono attentamente programmate, ad ogni Lega dei paesi gravitanti sull’Arneo fu assegnata una determinata zona da occupare, ai capilega comunali e agli altri dirigenti sindacali fu affidato il compito di guidare i contadini e furono date istruzioni per evitare (con tattiche di tipo militare di avanzata e di ritiro strategico all’interno della boscaglia) scontri diretti con la polizia. Il centro operativo si trovava Lecce in via Idomeneo (dove, a poche decine di metri di distanza, avevano la propria sede tanto la Federazione provinciale del PCI quanto la CGIL), il movimento era guidato dal segretario del PCI Giovanni Leucci, dal vicesegretario Giovanni Giannoccolo, dai deputati Giuseppe Calasso (PCI) e Mario Marino Guadalupi (PSI), dal segretario della CGIL provinciale Giorgio Casalino e dal segretario della Confederterra Antonio Ventura. A livello locale la guida della lotta era assicurata dai segretari delle sezioni del PCI, del PSI e delle Leghe bracciantili dei paesi più direttamente coinvolti nell’occupazione (Salvatore Mellone di Nardò, Felice Cacciatore di Veglie, Crocifisso Colonna di Monteroni, Ferrer Conchiglia di Trepuzzi, Cosimo Di Campi e Cosimino Ingrosso di Guagnano, Luigi Magli di Carmiano, Mario Montinaro di Salice, Pietro Pellizzari di Copertino, Giuseppe Scalcione di Leverano, Pompilio Zacheo di Campi Salentina). I dirigenti delle sezioni del partito e delle Leghe bracciantili degli altri paesi della provincia erano impegnati a organizzare azioni di solidarietà morale e materiale con gli occupanti[3].

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

 

Note

[1] Archivio nazionale Flai-Cgil, Programma dei lavori della Conferenza Interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania.

[2] Sulla posizione della Federbraccianti, G. Gramegna: Braccianti e popolo in Puglia, cit., pp. 133-135.

[3][3] Asle, Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

di Salvatore Coppola

A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].

 

Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].

 

In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:

 

[…] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].

 

Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].

Note

[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.

[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.

[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.

[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

di Salvatore Coppola

 

Nel 70° anniversario dell’approvazione delle prime leggi organiche di riforma agraria del secondo dopoguerra (di cui la più importante è la cosiddetta legge stralcio dell’ottobre 1950) è possibile tracciare un bilancio sul movimento di lotta che, sviluppatosi soprattutto sul latifondo dell’Arneo (ricadente per la sua maggiore estensione in agro di Nardò) ha consentito ai lavoratori agricoli della provincia di Lecce di inserirsi nel più generale movimento di occupazione delle terre che ha visto protagonisti i braccianti e i contadini poveri di molte regioni meridionali.

Il problema della conquista della terra da parte dei lavoratori agricoli del Mezzogiorno ha interessato la politica italiana fin dai primi anni successivi all’Unità. Importanti e significative lotte agrarie si sono sviluppate nel biennio 1919/1920, quando la promessa di concedere le terre, fatta nel corso della guerra, aveva alimentato la speranza dei lavoratori agricoli di poter conseguire, attraverso il possesso di un pezzo di terra, un riscatto sociale ed economico atteso da decenni. Dopo i primi timidi tentativi fatti dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti di venire incontro alle attese dei contadini con l’emanazione dei decreti Visocchi e Falcioni (dal nome dei due ministri dell’agricoltura) che prevedevano la concessione di terreni demaniali a favore delle cooperative degli ex combattenti, la reazione degli agrari (sostenuti dallo squadrismo fascista) e l’avvento del fascismo al potere avevano posto fine ad ogni movimento di lotta e di rivendicazione. Nel secondo dopoguerra si ripropose in tutta la sua drammaticità il problema della terra e della riforma fondiaria, che, a distanza di quasi cento anni dall’Unità d’Italia, è stata in parte conseguita con l’emanazione delle leggi del 1950. Come si sia giunti all’emanazione delle leggi di riforma agraria e quali conseguenze abbiano avuto le stesse per l’economia del Salento, quali sono state le condizioni storiche e politiche che ne hanno favorito l’emanazione e qual è stato il ruolo delle forze sindacali e dei partiti politici che hanno promosso le lotte per la terra nel Salento, sono stati temi dibattuti nel corso di un convegno di studi (che si è tenuto nei giorni 12-13 e 14 gennaio 2001 a Nardò, Copertino, Leverano e Campi Salentina), promosso dalla Società di Storia Patria per la Puglia (sezioni di Maglie e Lecce), dal collettivo di cultura Ibrahim Masiq di Lecce, dal GAL Terra d’Arneo e dall’Insegnamento di storia delle dottrine politiche della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce[1].

Il movimento di occupazione delle terre nel secondo dopoguerra si è sviluppato in provincia di Lecce in due fasi, la prima delle quali, tra il 1944 e il 1949, aveva come obiettivo la concessione delle terre incolte sulla base di quanto previsto dalle leggi agrarie promosse dai governi di coalizione antifascista (il decreto luogotenenziale n. 279 del 19/10/1944 voluto soprattutto dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e quelli successivi emanati dal ministro Antonio Segni nel 1947). Nella seconda fase (1949/1951) il movimento di lotta ha avuto come obiettivo principale quello della riforma agraria generale. Le leggi agrarie del periodo 1944/1947 avevano un carattere per certi aspetti innovativo rispetto alla tradizione storica italiana; nel contesto politico dell’unità antifascista, mentre si decideva di rinviare al varo della Costituzione la soluzione dei problemi strutturali e della riforma agraria generale, assunsero una certa importanza i provvedimenti adottati (la legge sulla concessione, per quattro o nove anni, delle terre incolte, quella sulla proroga dei contratti agrari e sulla parziale modifica degli stessi, con la previsione di una ripartizione dei prodotti più favorevole ai lavoratori, la legge sui benefici a favore delle cooperative per la conduzione dei terreni, le disposizioni sui decreti riguardanti l’imponibile di manodopera, ecc.). Ma già dai primi mesi del 1945, la CGIL (che tenne il suo primo congresso delle regioni dell’Italia liberata nel mese di febbraio), e successivamente la Confederterra (l’organizzazione dei lavoratori agricoli) avevano indicato nella riforma agraria generale lo strumento capace di garantire una prospettiva di sviluppo alle grandi masse dei lavoratori che, fin dal 1944, avevano dato vita al movimento di occupazione delle terre[2].

Due delle categorie agricole più importanti della provincia di Lecce (dove avevano minore estensione rispetto ad altre aree del Mezzogiorno i rapporti di mezzadria e colonia) erano quelle dei braccianti e dei coltivatori diretti, anche se erano abbastanza diffuse le figure sociali cosiddette miste (salariati, piccoli proprietari e fittavoli). La Confederterra salentina tra il 1947 e il 1949 riuscì ad organizzare migliaia di braccianti, tabacchine, coloni e mezzadri ma, sui circa 70.000 coltivatori diretti, gli iscritti non superarono mai le poche centinaia. È per questo che, all’interno dell’organizzazione, prevalevano le tematiche bracciantili su quelle specifiche delle altre categorie. In una relazione sull’attività della CGIL in Puglia (scritta dal dirigente nazionale Gustavo Nannetti nel 1949) venivano evidenziate le difficoltà (presenti soprattutto all’interno della Confederterra) dovute ad uno stato di conflittualità tra le diverse organizzazioni di categoria agricole (braccianti, mezzadri e coloni, coltivatori diretti). Nella primavera del 1949 (in coincidenza con il dibattito parlamentare per l’approvazione della nuova legge sul collocamento) si registrò in tutto il Salento una ripresa della mobilitazione sindacale per sostenere le rivendicazioni dei braccianti (diritto all’indennità di disoccupazione, stipula del contratto provinciale di categoria, garanzie per l’iscrizione negli elenchi anagrafici, concessione delle terre incolte, ecc.). Nei primi giorni di novembre del 1949, nel corso del congresso nazionale della Federbraccianti, il segretario Luciano Romagnoli indicò al movimento sindacale l’obiettivo della concessione delle terre incolte che sancisse, sul piano legislativo, il principio della fissazione di un limite alla proprietà privata. Nei giorni successivi la mobilitazione dei lavoratori raggiunse punte molto elevate; nelle province di Bari e di Foggia, ma anche nel Salento, alla lotta per la costituzione delle commissioni di collocamento e per l’applicazione dei decreti sull’imponibile di mano d’opera, si accompagnò quella per la concessione delle terre incolte. Era quello il periodo in cui masse di braccianti calabresi e siciliani occupavano i latifondi, e proprio sull’onda delle notizie che giungevano soprattutto dalla Calabria, nel Salento ci fu una ripresa su vasta scala dell’occupazione delle terre. Parliamo di ripresa perché già tra il 1944 e il 1945 si erano avuti i primi fenomeni di occupazione di terre incolte che avevano portato alla concessione, nel 1946, di poco più di duecento ettari a cooperative di contadini di Veglie, Carmiano e Martano (anche se, dopo appena un anno, le cooperative erano state in pratica costrette ad abbandonare quelle terre in quanto era risultata pressoché nulla, in mancanza di una seria politica di sostegno creditizio e di altre misure organiche, la possibilità di conseguire da quelle terre un reddito sufficiente)[3].

 

 

Note

[1] La presente relazione è una riedizione aggiornata di quella presentata al convegno di studi del gennaio 2001 (L’occupazione delle terre nell’Arneo e la politica agraria del PCI salentino, pp. 109-145), i cui atti sono stati pubblicati in M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, ed. Lacaita, Manduria 2001. Sulla vicenda dell’occupazione delle terre dell’Arneo, S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci. La lotta dei braccianti salentini per la redenzione dell’Arneo, Grafiche Giorgiani, Castiglione 1997; R. Morelli, Cristiani e Sindacato dalla fase unitaria alla CISL nel Salento. 1943-1955, Capone, Cavallino 1992, pp. 112-120; G. Giannoccolo, L’occupazione delle terre nel Salento nel quadro di due linee di politica agraria, in M. Proto, Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit, pp. 147-161; M. Spedicato, L’utopia sconfitta. Dai contadini senza terra alla terra senza contadini, ivi, pp. 179-189. Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali, F. De Felice, Il movimento bracciantile in Puglia nel secondo dopoguerra (contenuto negli atti del convegno organizzato dall’Istituto Gramsci Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, De Donato, Bari 1979).

[2] Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali: R. Stefanelli: Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967, De Donato, Bari 1975, pp.23-25; R. Zangheri: Movimento contadino e storia d’Italia, in Studi Storici n. 4/1976, p. 19.

[3] La relazione di Nannetti è contenuta nell’Archivio nazionale della Federbraccianti (oggi Flai-Cgil).

Libri| Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra

Salvatore Coppola, Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Lecce, Giorgiani 2018    

 

Prefazione di Giuseppe Caramuscio

«Le donne stanno per diventare uomini», scrive Rosa Rorà in un romanzo comparso nel 1917, compiacendosi dei passi compiuti dal gentil sesso verso l’indipendenza e l’eguaglianza civile. Già ad inizio del XXI secolo la cultura e l’opinione pubblica occidentali erano state penetrate da una dialettica intesa a ridefinire l’immagine e il ruolo della donna in una società attraversata da profonde trasformazioni. Tuttavia in Italia il movimento ‘emancipazionista’ o ‘femminista’ (spesso denominato anche ‘suffragista’ per la rivendicazione del diritto elettorale femminile) non coglie risultati analoghi a quelli delle Nazioni europee più avanzate. Lo sconvolgimento operato dalla prima guerra mondiale, poi, a giudizio di molti storici, presenta ricadute ambivalenti: tappa decisiva per l’emancipazione femminile o piuttosto momento di esaltazione delle differenze e delle discriminazioni fra i sessi?

Sebbene con notevole ritardo rispetto ai ritmi della ricerca internazionale, anche in Italia la riflessione su tali processi ha inaugurato suggestive piste di lavoro persino in un ambito, quale la guerra, che la tradizione ha da sempre considerato esclusivo dominio virilista, tanto sul piano pratico quanto nella dimensione dell’immaginario. In effetti, oggi non può sembrare esagerato affermare che l’avanzamento degli studi sulla Grande Guerra sia in buona parte debitore proprio dellagender history, spesso e volentieri rafforzata dall’apporto della storia sociale e dalle indagini su realtà territoriali circoscritte.

Questi approcci si riscontrano ben presenti (e fra loro interagenti) nella nuova monografia di Salvatore Coppola, già noto alla comunità scientifica come uno dei più attrezzati storici pugliesi del movimento contadino e sindacale del Novecento. Egli si muove lungo una linea metodologica che non considera la storia delle donne come una sfera separata del discorso storiografico, bensì la inserisce in una serie di rapporti fra elementi di una complessa trama. Peraltro, è appena il caso di rimarcare che nell’occasione viene superato il nesso – ritenuto indiscindibile da non poche storiche – tra soggetto e oggetto della narrazione storiografica, dal momento che il presente volume di Coppola rappresenta uno dei (rari) casi in cui è un uomo ad occuparsi di uno spaccato di storia delle donne.

Nell’occasione la sua attenzione non si rivolge al tema, divenuto ormai classico, della vicarianza delle donne nei lavori a prerogativa esclusivamente maschile. Indotta dall’eccezionale mobilitazione bellica del 1915-18, tale funzione ha già ricevuto (a partire almeno da trent’anni fa) un congruo approfondimento, in particolare grazie a studi mirati sulle aree urbane e industriali del Paese, dove le donne sono state chiamate, in misura consistente, a sostituire operai e tecnici in mansioni ritenute fino a pochissimo tempo prima a loro inaccessibili sia per intensità che per qualità di impegno psico-fisico. Oggetto del presente lavoro è una peculiare forma di conflitto sociale che esplode negli anni centrali della Grande Guerra, un inedito e imprevisto movimento di donne propagatosi, a macchie di leopardo, anche in numerosi centri della Terra d’Otranto in un arco cronologico relativamente breve. Si tratta di agitazioni locali che, originate dalla protesta per il carovita e per l’inadeguatezza dei sussidi pubblici, arrivano a porre sul banco degli imputati i grandi proprietari terrieri, i commercianti, gli amministratori municipali fino a contestare decisamente la guerra in corso.

Tratti comuni a tutti questi movimenti la preponderante ed energica presenza femminile, il suo attivarsi al di fuori dei partiti e dei sindacati, il ricorso a forme di lotta illegali senza timore delle possibili conseguenze penali. La scoperta del protagonismo femminile in questo tipo di agitazioni (di fatto antibelliche) è un’acquisizione relativamente recente da parte della letteratura nazionale, al punto da considerarsi piuttosto l’avvio di un’operazione scientifica potenzialmente foriera di risultati fecondi. Sorprende ancor di più che tali sommovimenti si siano manifestati nel territorio otrantino, già valutato, a giudizio unanime delle autorità prefettizie del tempo, come impermeabile alla propaganda sovversiva e renitente non solo a forme di protesta (più o meno) organizzata, ma anche alla ribellione spontanea.

L’indagine di Coppola prosegue nella direzione recentemente aperta da alcuni contributi – non a caso firmati da archiviste – che hanno attinto ai fascicoli della Prefettura per delineare i fondamentali elementi conoscitivi delle agitazioni del 1916-17 nel Salento: l’andamento dei fatti e i conseguenti provvedimenti adottati. Di più, l’Autore allarga lo sguardo all’intera Provincia Otrantina, analizzando i diversi casi locali che costituiscono una sorta di “geografia della protesta”. Compulsando le carte dell’Archivio Centrale dello Stato, è riuscito inoltre ricomporre un quadro più organico e credibile sull’ordine pubblico e sugli atteggiamenti della popolazione civile durante la guerra del 1915-18.

Una folla anonima ed esasperata, costituita quasi esclusivamente da casalinghe e contadine di ogni età, emerge così, dopo un secolo, dalle carte d’archivio, prende corpo, anima, voce, si concretizza in alcune individualità, si agita e indirettamente ci racconta la drammaticità dell’emergenza scatenata dalla guerra. Merito dello studioso è di averci restituito il clima di quegli anni ricostruendo una pagina pressoché ignota della nostra storia recente, in grado di porre in discussione lo stereotipo della donna meridionale rassegnata, passiva e indifferente alle vicende sociali e politiche. Al contempo Coppola riesce ad evitare l’opposta seduzione dell’enfatica celebrazione delle donne tumultuanti, quasi eroine di un rinnovato Quarto Stato in marcia, capaci di fare a meno della tutela maschile.

Egli raggiunge una posizione di equidistanza tra i due estremi interpretativi grazie ad un’attenta disamina delle fonti e alla corretta contestualizzazione delle vicende nel loro sfondo storico-geografico: in tal modo l’Autore può dare ragione dell’origine, dello sviluppo, della fenomenologia, dei caratteri e dei limiti di questo movimento femminile di protesta.

La collocazione nella periferia meridionale ci spiega la matrice dei moti, sostanzialmente contadina sia nel senso dell’appartenenza sociale che della sua caratterizzazione culturale, ma questa non è sufficiente, persino in un’area limitata, per pervenire ad una sia pur approssimata generalizzazione geografica del processo. Infatti, epicentri delle agitazioni sono i Comuni capoluogo, come Lecce e Gallipoli, che si dilatano a piccolissime realtà di poche migliaia di abitanti; coinvolgono territori con una certa tradizione di lotte politiche e sindacali, come Nardò e Galatina, ma anche cittadine prima ignote alle cronache della lotta sociale. Tra le poche certezze desumibili, l’assenza dei paesi del Capo dalla mappa della protesta e la constatazione di un certo “effetto domino” nella propagazione dei tumulti. I documenti concordano nell’attribuire alle donne del luogo la guida, la responsabilità e la composizione totale degli assembramenti, con la sporadica compartecipazione di minorenni e anziani dell’altro sesso. Esse vengono identificate con connotazioni genericamente dispregiative, non di rado mutuate dal lessico maschilista.

Non si riscontra altresì, nelle relazioni delle autorità, il sospetto che la leadership dei moti possa attribuirsi ad una regìa (magari maschile) esterna al territorio: motivazione, questa, invece abbastanza ricorrente anche nell’interpretazione ufficiale di fatti simili accaduti in passato, specialmente quando le caratteristiche di pericolosità dei disordini sono tali da non potersi spiegare con l’improvvisazione. Si adombra tuttavia l’ipotesi (non infondata) di un concorso, quanto meno morale, dei militari in licenza, in funzione di sobillatori e di divulgatori di notizie in senso allarmistico e disfattistico. Se nell’Italia settentrionale le masse femminili trovano negli operai politicizzati la sponda al loro dissenso, nella periferia del Mezzogiorno lo schieramento che si oppone alla guerra in corso vede l’alleanza implicita tra donne e quei combattenti che, con l’esperienza al fronte, hanno maturato una più elevata consapevolezza dell’insostenibilità –se non dell’inutilità – del sacrificio militare e civile.

Il malcontento femminile non mette in discussione tanto i rapporti strutturali di classe o di proprietà, quanto l’iniqua distribuzione delle risorse alimentari e la gestione clientelare e personalistica di esse a svantaggio dei ceti meno abbienti. Non a caso viene scelto quale momento ‘fondativo’ della protesta la distribuzione del pane o dei sussidi alle famiglie. Il primo bersaglio polemico è l’amministrazione municipale, mentre le invettive contro la guerra chiamano in causa il governo nazionale. Manca l’individuazione dello strato intermedio della rappresentanza politica, i parlamentari, i quali, dal canto loro, ingaggiano una competizione, a suon di interpellanze e di suppliche, per ostentare il proprio interessamento nei confronti della popolazione dei rispettivi Collegi elettorali (nel 1913, lo ricordiamo, si erano svolte in Italia le prime elezioni a suffragio universale maschile).

La fiammata si estinguerà gradualmente fino a spegnersi del tutto proprio in prossimità della disfatta di Caporetto, che attiverà la speranza di una conclusione del conflitto, o forse perché il governo rafforzerà le misure preventive e repressive di pubblica sicurezza. Le reazioni dei responsabili dell’ordine appaiono improntate più ad una preoccupata sorpresa che all’indignazione scandalizzata o ad una reazione dura. In effetti rifuggono dall’uso della forza, come di solito accade per analoghe manifestazioni a guida maschile. La protesta non rimane senza esiti immediati, per quanto modesti: le promesse di un’assegnazione di prodotti di migliore qualità, contestualmente alla sospensione dei provvedimenti più gravosi, troveranno qualche precaria soddisfazione. In casi più rari si arriverà alle dimissioni di sindaco o assessori.

Ma il movimento non troverà un’adeguata sintesi politica a livello provinciale e tanto meno su scala nazionale, nemmeno da parte dei partiti di sinistra, più preoccupati che incoraggiati da movimenti popolari spontanei, sorti al di fuori del loro controllo e per di più ben connotati nel loro genere: davanti ad essi il movimento progressista italiano paleserà una impreparazione culturale e politica destinata a perdurare per molti anni.

Grati a Salvatore Coppola per la luce gettata su questo tema, i nodi storiografici rimasti da sciogliere rimangono i consueti nella storia di genere: in che modo i fatti hanno evidenziato la specifica identità femminile? Le ribellioni del 1917-18 possono essere considerate anche in senso emancipativo? È un fronte effettivamente trasversale ai differenti gruppi sociali? Qual è il ruolo di altre categorie nel contesto? Quanto alle prospettive di ricerca comparativa sulle “donne comuni” (nuova categoria storiografica, coniata per designare una massa più generale rispetto alle distinzioni tradizionali basate sulla classificazione cetuale), va osservato che il dibattito storiografico, avviato dalla questione del rapporto tra guerra ed emancipazione, si è allargato alla correlata discussione sugli esiti in termini di inclusione nella Nazione e nello Stato e di riconfigurazione delle identità e dei sistemi di genere. Le interpretazioni finora espresse risentono della scala di osservazione e dell’estensione dell’orizzonte temporale, del peso dell’angolo visuale (sociale, giuridico, temporale), e delle differenze tra donne (età, residenze, classe). I rapporti considerati da Coppola sono quelli tra i poteri e le donne, alla luce di una documentazione istituzionale, che lascia zone d’ombra su almeno altre due relazioni: tra donne e uomini, e tra cultura e istituzioni.

Forse sbaglieremmo a ricercare nelle ideologie tradizionali (il cattolicesimo) o nuove (il socialismo) l’humus delle proteste delle donne di Terra d’Otranto, sebbene l’una e l’altra possano aver influito sulla perdita definitiva della già scarsa fiducia nella guerra. La sempre più forte dissociazione tra Paese reale e Paese legale, l’affollata ritualità religiosa Pro pace, l’incremento delle azioni collettive di contestazione, le testimonianze dell’insubordinazione militare, i frequenti lutti bellici intfrafamiliari, rafforzandosi reciprocamente creano un effetto moltiplicatore delle rivolte popolari fino a renderle quasi epidemiche. Più che una coscienza di classe (i cui semi, comunque gettati, non tarderanno a dare frutto) sembra voglia imporsi un’appartenenza identitaria femminile. Lo spirito che emerge nella fattispecie pertanto potrebbe ritrovarsi nell’atavico istinto di sopravvivenza e di protezione familiare, che le nostre donne vogliono esprimere liberamente quali antiche vestali della Vita, ma per farlo dismettono le loro vesti consuete e ricorrono all’oltraggio e alla violenza a pubblici ufficiali, al danneggiamento di proprietà private o di edifici pubblici, insomma alle forme di lotta proprie del sesso forte.

 

Libri| Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920

S. Coppola, Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920. Cronaca politico-giudiziaria di una rivoluzione attraverso la voce dei protagonisti, Giorgiani editore, Castiglione 2020

 

Il clamoroso episodio di Nardò del 9 aprile 1920, di cui furono protagonisti braccianti agricoli in massima parte, artigiani e muratori, uomini e donne, guidati dai dirigenti socialisti di Nardò e di Galatina, finì al centro dell’attenzione della politica nazionale, non solo e non tanto per le modalità in cui si svolse lo sciopero generale, quanto per lo spirito di solidarietà che animò le diverse componenti sociali del mondo del lavoro e per le capacità organizzative dimostrate dai dirigenti delle Leghe dei contadini e dei muratori.

Nonostante vi fossero serie ragioni economiche per proclamare lo sciopero generale dei lavoratori agricoli, i dirigenti leghisti decisero di indirlo in segno di solidarietà con le vittime di Decima Persiceto, una località del bolognese dove, il 5 aprile, la feroce repressione aveva provocato l’uccisione di nove manifestanti.

Quell’eccidio – osserva Remigio Morelli nella Prefazione – «agì da detonatore della rivolta di Nardò» e «fu l’ultimo anello di una catena di eventi e il riflesso di una complessa trama di fattori scatenanti che già avevano creato uno stato generale di alterazione dello spirito pubblico e consolidato una forma di lotta estrema, estrema e incontrollabile nelle masse operaie e contadine […]. La “rivolta” di Nardò rappresenta il punto estremo del conflitto sociale nel ‘biennio rosso’ in terra salentina e una delle più drammatiche vicende dello scontro politico in Puglia tra la fine del primo conflitto mondiale e l’avvento del fascismo».

Legare lo sciopero generale alla solidarietà con le vittime della repressione di Decima Persiceto fece di esso un atto di contenuto squisitamente politico, anche se emersero, nel corso della giornata, le ragioni economiche immediate che portarono molti manifestanti a tentare di assaltare le case dei “signori”, rei – agli occhi dei contadini – di non avere rispettato gli accordi sindacali (l’ultimo siglato il 6 aprile) che prevedevano aumento del salario giornaliero e occupazione dei braccianti nelle terre che i signori lasciavano colpevolmente incolte.

Artefici dell’accordo del 6 aprile erano stati i dirigenti socialisti di Galatina Carlo Mauro e Fedele Liguori e i capi leghisti locali Giuseppe Giurgola, Gregorio Primitivo, Eugenio Crisavola, Luciano D’Ostuni, Antonio Palermo e Luigi Patera.

Salvatore Coppola nel sottotitolo qualifica come rivoluzionaria la giornata del 9 aprile, anche se, prima dell’arrivo nel pomeriggio di ingenti forze militari giunte da Lecce e Bari per reprimere il movimento, non si verificò alcun episodio di violenza rivoluzionaria. Ci furono, è vero, alcuni episodi di assalto ai palazzi dei signori i quali furono obbligati, anche questo è vero, a recarsi in piazza per sottoscrivere un nuovo concordato di lavoro, dopo che quello del 6 aprile era stato violato già il giorno successivo da molti di loro, ma i “signori” non subirono alcun atto di violenza, nonostante la presenza infuriata nella piazza di più di cinquemila manifestanti.

Bastarono gli appelli e i discorsi di Antonio Palermo e, soprattutto di Gregorio Primitivo, perché gli scioperanti li lasciassero rientrare nelle proprie cose incolumi e sotto scorta.

Il termine rivoluzione lo si trova in molti documenti prodotti dai diversi funzionari dello Stato che riferirono sulla vicenda (commissari e vicecommissari di polizia, comandanti dei carabinieri, prefetto). Rispetto ai numerosi episodi di scioperi e lotte sociali che si erano avuti nel Salento prima del 9 aprile, infatti, apparve un atto di violenza rivoluzionaria l’obbligo imposto a carabinieri, guardie di finanza e municipali di consegnare le armi nelle mani dei dirigenti leghisti affinché non venissero utilizzate per reprimere il movimento; atti rivoluzionari vennero considerati l’esposizione di una bandiera rossa, al posto del tricolore sabaudo, sul balcone del Municipio e, soprattutto, l’esposizione, all’interno di un ufficio municipale, del cartello Repubblica neritina al posto dei sovrani sabaudi. Per questo la repressione fu molto dura. Quegli episodi apparvero come una sfida all’autorità dello Stato che intervenne con il massiccio invio di carabinieri e soldati accompagnati da due pesanti e micidiali autoblindate.

Il movimento del 9 aprile ebbe un carattere diverso dai tanti episodi di lotta sociale che in quel “biennio rosso” videro i lavoratori agricoli scendere in lotta per rivendicare aumenti salariali e gestione paritetica delle politiche occupazionali.

Molti di quegli episodi ebbero il carattere ottocentesco delle rivolte spontanee, il più delle volte destinate alla sconfitta, vere e proprie jacquéries spesso senza un progetto e senza una guida. Ci riferiamo alle numerose manifestazioni popolari che, fin dalla primavera-estate del 1919, con il progressivo rientro dei reduci, scossero diversi paesi del Salento. La gente scendeva in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita, i braccianti agricoli occupavano le terre perché, nelle trincee, soprattutto dopo Caporetto, si era sparsa la voce e la speranza che al loro rientro nei paesi d’origine avrebbero ottenuto un pezzo di terra.

Quelle lotte furono, a volte, sostenute dalle associazioni combattentistiche, e sempre più spesso dalle Leghe contadine socialiste e, dopo la fondazione del Partito popolare, anche cattoliche. Contro Leghe rosse e Leghe bianche (come venivano indicate dalla pubblicistica dei giornali borghesi) si scatenò ben presto la violenza organizzata dai padroni delle terre.

Coppola sottolinea che contro quella che gli agrari e la stampa moderata e conservatrice bollavano come ondata di bolscevismo che si diffondeva nelle campagne salentine (con riferimento alle manifestazioni di lotta e a qualche parziale conquista sindacale da parte dei lavoratori agricoli), venne promossa, dagli stessi agrari, la formazione di gruppi armati per la tutela dei propri interessi. «Per i padroni delle terre» – scrive Coppola – «lasciarle incolte oppure apportarvi migliorie, rispettare gli accordi sottoscritti oppure non tenerne conto, retribuire i lavoratori in denaro oppure in natura, assumere uomini oppure, per corrispondere salari più bassi, donne e ragazzi, doveva costituire una prerogativa assoluta che nessun accordo e nessuna legge sul controllo del mercato del lavoro avrebbero dovuto limitare. Gli agrari salentini non rispettavano quasi mai gli accordi sottoscritti, ed anche l’attività delle commissioni paritetiche di avviamento al lavoro, istituite dai prefetti, veniva paralizzata da quella che molti funzionari governativi indicavano come la tenace e ostinata “resistenza dei proprietari”».

A tale proposito, l’episodio di Nardò (una delle pagine più significative dello scontro di classe che ha caratterizzato il biennio rosso salentino) costituisce – scrive sempre Coppola – «un classico esempio di microstoria che ci consente di cogliere le dinamiche della conflittualità sociale e politica che si è sviluppata in Italia nel periodo che va dalla fine della guerra all’avvento del fascismo». Il collegamento tra lotte agrarie e nascita del fascismo (voluto, sostenuto, finanziato e utilizzato dalla grossa proprietà terriera come strumento di reazione contro il movimento dei lavoratori), appare evidente dalla decisione dei proprietari terrieri di Nardò di costituire, il giorno successivo alla Repubblica neritina del 9 aprile 1920, il «fascio dell’ordine contro l’invadenza sovversiva».

Quando le organizzazioni sindacali crebbero per numero di aderenti e acquisirono una forza che avrebbe potuto intaccare i privilegi secolari delle classi abbienti, queste ultime ritennero legittimo ricorrere a forme di autotutela (anche armata), per stroncare le richieste di controllo del mercato del lavoro e di imponibile di manodopera. Sul punto, Coppola conclude la sua analisi sostenendo che «il terreno culturale e politico sul quale nacque e si innestò il fascismo fu l’odio di classe, di cui la violenza era l’espressione più manifesta, odio e violenza contro coloro che sembravano poter mettere in pericolo privilegi secolari, contro i socialisti e i comunisti bolscevichi che si facevano portavoce dei diritti dei lavoratori; contro i popolari, bolscevichi anche loro quando si schieravano a fianco dei lavoratori agricoli che lottavano per rivendicare i propri diritti, ed infine contro le associazioni degli ex combattenti quando le stesse si ostinavano a rivendicare autonome iniziative politiche a favore delle classi subalterne».

La fedele ricostruzione di Salvatore Coppola, che si basa, oltre che su documenti dell’Archivio centrale dello Stato, su una mole di fonti compulsate presso l’Archivio di Stato di Lecce (soprattutto quelle giudiziarie), consente di aprire nuovi scenari nel dibattito sulla storia del movimento di classe nel Salento. Il libro dà voce a tutti i protagonisti della vicenda, a partire da quella dello Stato che si espresse attraverso le relazioni dei suoi funzionari e dei giudici di Trani e Lecce cui spettò emettere la sentenza definitiva. Per passare poi alla voce della stampa, dei testimoni a carico e di quelli a discarico, degli imputati (più di duecento tra uomini e donne), degli avvocati difensori e, infine, dei dirigenti sindacali, soprattutto quella dei tre più importanti protagonisti a livello direttivo, ovvero Carlo Muro, Giuseppe Giurgola e Gregorio Primitivo (che, dal carcere, fece giungere ai pubblici ministeri un ricco, documentato e appassionato Memoriale, il cui valore storico trascende la contingenza della vicenda che lo vide protagonista).

La sentenza – annota Coppola nelle pagine finali del libro – «si rivelò un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della classe padronale», il cui «comportamento giudaico» e la cui «mala fede» erano stati le vere cause di una rivolta che provocò la morte di tre lavoratori (un agente di polizia, Achille Petrocelli, e due contadini, Pasquale Bonuso e Cosimo Damiano Perrone).

Dal libro di Coppola emerge come la giornata del 9 aprile abbia avuto un carattere di innovazione nella conduzione delle lotte sociali (di cui avrebbero fatto tesoro, trent’anni dopo, i braccianti che occuparono le terre incolte d’Arneo). L’avere avuto lo sciopero generale del 9 aprile (rispetto alle tradizionali jacquéries delle campagne pugliesi) una guida, un’organizzazione efficiente e una direzione da parte dei dirigenti delle Leghe, l’essere frutto di un progetto che, qualora non fosse stato represso, avrebbe potuto costituire un modello per analoghi movimenti di lotta sociale, rappresentano altrettanti fasi di una modernità che sarebbe stata alla base della coscienza di classe che, frustrata per più di vent’anni dalla dittatura fascista, sarebbe riemersa prepotente nelle lotte del secondo dopoguerra.

Libri| Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

Appuntamenti

Aradeo, 3 Marzo 2017 – ore 19:00

Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

A distanza di un secolo dal conflitto che sconvolse la storia europea e mondiale, nuovi studi e ricerche arricchiscono la già prolifica bibliografia esistente. Numerosissime le materie di studio oggetto di recenti pubblicazioni: dalle scelte strategiche e militari sui diversi fronti alle conseguenze politiche di breve e lungo periodo; dai retroscena diplomatici alle ripercussioni sulla psiche dei singoli; dal ruolo dei soldati a quello delle donne, ecc.. Tra i tanti, quest’ultimo aspetto è andato sempre più posizionandosi al centro dell’interesse degli storici, favorendo nell’ultimo ventennio la diffusione di indispensabili studi anche (e soprattutto) di carattere locale.

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Il nuovo libro di Salvatore Coppola, Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra (Giorgiani Editore, Lecce 2017), trattando l’impatto avuto dalla Grande Guerra sulle donne delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, si addentra in un terreno fino ad oggi pressoché inesplorato. Basandosi su una ricca bibliografia di carattere generale e, soprattutto, su un eccezionale patrimonio archivistico, quest’opera, dopo una doverosa introduzione di carattere storico e storiografico, ripercorre in ordine cronologico le manifestazioni di protesta inscenate a partire dal 1916. Manifestazioni legate alla fame, al desiderio di riabbracciare i propri cari al fronte, al bisogno di pane e pace. Tra cause oggettive e soggettive, con periodi di tensione e di ripiegamento, il volume analizza l’evoluzione in Terra d’Otranto di un movimento di lotta e rivendicazione avente per protagoniste le donne.

Tali proteste, il più delle volte lontane dalla politica e dalle organizzazioni partitiche o di categoria, delinearono per le masse popolari femminili un inedito ruolo, fuori dalle tradizionali barriere domestiche. Una nuova prospettiva per le donne salentine (ed italiane in genere) di fatto contenuta nell’immediato dopoguerra e poi totalmente repressa dal fascismo.

 

Sabato 3 marzo, presso la Biblioteca Comunale di Aradeo, Salvatore Coppola presenterà il libro Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra discutendone con Michele Bovino, responsabile della stessa Biblioteca, e con Alessio Palumbo, direttore de Il Delfino e la Mezzaluna.

Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Salvatore Coppola, Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto, in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 7-33

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ITALIANO

Pochi eventi nella storia recente hanno avuto un impatto così dirompente come il primo conflitto mondiale.

Eccezionali mutamenti dal punto di vista politico, diplomatico, culturale, economico, sociale si concretizzarono in questo periodo e si svilupparono negli anni a seguire. Tra le numerose tematiche indagate dalla storiografia, il ruolo delle donne negli anni di belligeranza è andato assumendo in questi anni un posto di assoluto rilievo. Il presente saggio, sulla scia delle nuove prospettive storiche «dal basso», studia l’impatto avuto dalla guerra sulla donna salentina puntando l’attenzione sulla nuova partecipazione attiva non solo alla vita lavorativa, ma anche alle proteste ed alle rivendicazioni legate al carovita, ai sussidi, all’operato delle autorità. Un protagonismo che colse in parte impreparate le classi dirigenti e che di fatto costituì la prima tappa per un processo di sindacalizzazione e politicizzazione che andò concretizzandosi nei decenni successivi.

 

ENGLISH

Few events in the recent history have had a so devastating impact as the First World War.

Exceptional changes from the political, diplomatic, cultural, economic, social point of view took shape in that period and developped in the following years. Among the numerous topics investigated by historiography the women’s role in the war years has assumed a place of absolute prominence. This essay, in the wake of the «from below» latest historical perspectives, studies the war impact on the Salentina woman focusing on the new active participation in the working life and also in the protests and in the claiming connected to the cost-of-living, to the grants, to the authorities’ conduct. A lime-light that caught partly off-guard the ruling classes and that established the first stage of an unionization and politicization process that concretized in the following decades.

 

Keyword

Salvatore Coppola, Grande Guerra Salento, proteste donne Terra d’Otranto.

Libri/ Fascismo, antifascismo e chiesa cattolica nel Salento

di Paolo Vincenti

 “Manganello, manganello che rischiari ogni cervello sarai tu sempre il suggello che punisce la viltà”. Con questo canto delle squadre fasciste, si apre questo libro di Salvatore CoppolaBona mixta malis. Fascismo, antifascismo e chiesa cattolica nel Salento, per la collana “Cultura e Storia”, della Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Lecce, da Giorgiani Editore, ultimo lavoro (realizzato con la collaborazione di Emanuela Specchia) di uno studioso di lungo corso, esperto di storia patria, che ritorna ad occuparsi di argomenti locali dopo una lunga parentesi di studi di carattere internazionale. L’autore, infatti,  già docente di Filosofia e Storia nel Liceo Capece di Maglie, ha vissuto  per alcuni anni a Madrid, dove ha insegnato Storia e Filosofia nel Liceo Statale Italiano e in quella terra ha continuato il suo lavoro di ricercatore, occupandosi dei rapporti diplomatici fra Spagna e Italia nel Novecento.  In particolare, ha pubblicato nel 2007, “Entre la

Libri/ Tuglie nel XX secolo

di Paolo Vincenti

E’ stata pubblicata nel 2004, l’opera in due volumi “Tuglie nel XX secolo”, di Lucio Causo, Salvatore Coppola ed Ermanno Inguscio (E.G.S. Edizioni), a cura dell’Amministrazione Comunale di Tuglie e con il patrocinio della Provincia di Lecce, vide la luce dopo circa tre anni di intensissimo lavoro da parte degli autori, tutti e tre componenti del Consiglio Direttivo della Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie: Salvatore Coppola, che ne era all’epoca  il Presidente, e già docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico “Capece” di Maglie; Ermanno Inguscio, già docente di Letteratura Italiana e Storia nel Liceo Classico “Dante Alighieri” di Casarano e collaboratore del settimanale cattolico leccese “L’Ora del Salento”; Lucio Causo, unico tugliese, ragioniere in pensione, che collabora con il quindicinale “Il Galatino” e con il settimanale “Voce del Sud”.

Lodevole lo sforzo degli autori di ricostruire, con puntigliosità ed onestà intellettuale, gli ultimi cento anni di storia di Tuglie, attraverso la consultazione di una miriade di fonti, quali i documenti conservati nell’Archivio di Stato e nell’Archivio comunale, i giornali locali, gli atti degli Enti ecclesiastici e quelli delle Associazioni di assistenza e beneficenza, gli archivi privati, le fonti orali, e così via, nella consapevolezza che la storia locale, la cosiddetta microstoria, non si può comprendere se non la si colloca nel contesto della macrostoria, cioè nel contesto regionale e nazionale nel quale la stessa è inserita.

Il primo volume, intitolato “Gli anni difficili- 1900-1950”, tratta gli avvenimenti che vanno dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, attraverso una analisi del contesto economico-sociale del Mezzogiorno d’Italia, la Prima Guerra Mondiale, i conflitti sociali e politici nel primo

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