Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria

In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà

Fig. 1 - Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata
Fig. 1 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata

 

UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA

di Marcello Semeraro

Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…

Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale
Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale

IL LUOGO

Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].

L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].

Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.

A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].

Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].

Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.

LO STEMMA PAPALE

Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).

Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)
Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)

 

Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26], può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29] (figg. 4, 5).

Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem
Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem

 

L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».

Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627
Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627

 

L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso (fig. 6).

Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794
Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794

 

Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).

Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.

Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V
Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V

 

Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.

Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

CONCLUSIONI

Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39] (figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40] (figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.

Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del papapetto negli anni 1726-1730
Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del parapetto negli anni 1726-1730
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina

 

In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina:   un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.

Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi
Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi

 

Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina
Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina

 

[1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.

[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città in Provincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono Giuseppe Lombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.

[3] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 28.

[4] Ivi, pp. 25-26.

[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.

[6] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 62-63.

[7] Tra il 1807 e il 1810 tutti i monasteri celestini caddero sotto i colpi delle leggi napoleoniche (Paoli, Fonti per la storia cit., p. 83).

[8] Cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento, Roma 1978, p. 285.

[9] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 59.

[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.

[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.

[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).

[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.

[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.

[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.

[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.

[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone e l’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.

[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.

[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.

[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.

[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 94.

[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.

[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale di araldica cit., p. 19.

[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.

[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).

[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.

[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.

[28] Gorra, L’arma cit., p. 560.

[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.

[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stesso e fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.

[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.

[32] V. supra, nota 27.

[33] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[34] Ibid.; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 93.

[35] V. il blasone riportato da X. Barbier de Montault, Armorial des Papes, Arras 1877, p. 15.

[36] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.

[38] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 76.

[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.

[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.

 

L’indizio e la prova: nuova luce sulla leggenda petrina di Bevagna

di Nicola Morrone

In uno dei nostri articoli più recenti ci siamo occupati di verificare se la nota leggenda del passaggio di San Pietro Apostolo per le nostre contrade, che la tradizione colloca intorno al 44 d.C., presentasse qualche elemento di verosimiglianza. Abbiamo pubblicato i risultati dell’indagine, conclusa nel 2015, su questo stesso sito.

Nel nostro studio sul narrato leggendario (che è riportato nel manoscritto di P. Domenico Saracino o.p.)[1], abbiamo integrato il quadro storico di riferimento con elementi di ordine archeologico, onomastico e toponomastico, concludendo che la leggenda dello sbarco di San Pietro a Bevagna, e della conversione al cristianesimo di Fellone, signore di Felline, poteva essere verosimile.

Il villaggio rurale di Felline e’ infatti storicamente esistito; Fellone, con ogni probabilità uno schiavo (o forse un liberto) gestiva il fundus di Felline e probabilmente l’industria fittile (figlina) e la fattoria (villa rustica) ad esso collegata, per conto del padrone; l’Apostolo fece con ogni probabilità naufragio nei pressi della rada di Bevagna, che conserva ancora tracce materiali di antichi naufragi. In attesa che l’area in cui sorge il Santuario di Bevagna sia oggetto di scavi archeologici che possano fare luce sul mito di fondazione petrino, offriamo in questa sede al lettore qualche ulteriore spunto di riflessione sul tema.

Anfora brindisina (Giancola)

Felline

La leggenda riportata dal Saracino colloca i fatti nel I sec.d.C. .Non si hanno molte notizie circa la configurazione del territorio di Manduria nell’epoca di riferimento .Le ricerche archeologiche di superficie permettono comunque di ipotizzare, con buon fondamento, l’esistenza di una “costellazione” di villae rustiche (fattorie) sorte intorno all’oppidum di Manduria, in un momento storico particolarmente favorevole, conseguente alla pax augustea. Si segnalano evidenze materiali nelle contrade Santa Maria di Bagnolo, Terragna, Scorcora, ecc.[2]

Tali villae erano inserite all’interno di fundi più o meno vasti, gestiti dai dipendenti dei padroni, tutti di condizione servile, e la gran parte di origine grecanica. I proprietari terrieri risiedevano per lo più a Brindisi, Taranto, o in centri cittadini minori. Talora , all’interno del fundus era collocata una figlina , cioè un’industria fittile (per la produzione di anfore, tegole, ecc) che in provincia si articolava su modelli organizzativi piuttosto semplici.

Oltre che sull’industria figula, l’economia delle villae rustiche del nostro territorio si basava essenzialmente sul pascolo, l’allevamento e la produzione cerealicola, vinicola e olearia[3]. Il villaggio rurale di Felline, sorto alla base della collinetta de Li Castelli, si configurò verosimilmente come un piccolo centro in cui dovette essere attiva una figlina, che al centro diede il nome e che si ricollegava, attraverso antichi tratturi, alla rete commerciale marittima. I principali scali per il traffico delle merci nel territorio di riferimento erano le rade di Punta Presuti (ancor oggi ricca di reperti fittili), Torre Columena e San Pietro in Bevagna. La tradizione ci ha consegnato perfino il nome del conduttore del fundus di Felline: si tratta di Fellone, l’uomo convertito da San Pietro.

Fellone

Nell’economia del discorso finora sviluppato, si può agevolmente inserire appunto la figura di Fellone, conduttore del fundus di Felline, che può essere storicamente esistito. Abbiamo verificato, alla luce delle più recenti ricerche epigrafiche, se il suo nome compare tra quelli documentati nel Salento in età romana. Nei cataloghi, redatti da C.Marangio e aggiornati a tutto il 2008, compaiono in effetti alcuni nomi che potrebbero essere ricondotti al nostro personaggio.

Nello studio pubblicato nel 2015 abbiamo ipotizzato, su base onomastica, che Fellone potesse avere qualche relazione con la gens dei Philonii, documentata a Brindisi in età repubblicana. Nella stessa città è attestata l’esistenza di tal Philonicus Appullei, conduttore di una figlina

In un’epigrafe rinvenuta a Latiano è documentata la presenza di tal Philonius. Potrebbe forse esserci qualche relazione tra il personaggio della leggenda petrina e tal Philogene, conduttore di una figlina di cui resta testimonianza in un bollo anforario rinvenuto ad Oria [4].

Alcune anfore greco-italiche recano pure il nome di tal φιλων, altro schiavo impegnato in una figlina. Il nome in oggetto sembra comunque avere , alla stregua di buona parte di quelli dei servi conduttori di fundi romani del Salento, origini greche, o grecaniche.

I ricchi proprietari romani, dopo la conquista del Salento, si appoggiarono infatti a manodopera servile locale, presente in abbondanza nei territori annessi[5].

Bollo Philonicus
Bollo Philonicus

 

Lo sbarco di San Pietro a Bevagna

La leggenda riportata dal Saracino vuole che San Pietro, proveniente dalla Palestina, sia sbarcato fortunosamente sul lido di Bevagna intorno al 44 d.C., incontrandovi Fellone, guarendolo dalla lebbra e convertendolo al cristianesimo. La tradizione ritiene che nell’area in cui sorge il santuario l’Apostolo abbia celebrato la messa, cristianizzando forse un antico luogo di culto pagano. Il Lopiccoli era certo che la parte più antica del santuario (il cosiddetto sacello) sorgesse su un’ area sepolcrale pagana, poi cristianizzata da San Pietro. Tale congettura non è del tutto priva di fondamento, come dimostrato dall’Errico, il quale, ai primi del ‘900, ebbe modo di osservare i resti di un’epigrafe funeraria inglobata sul fronte occidentale del sacello, recante le lettere D.M.VIX, cioè “Diis Manibus vixit[6].

L’epigrafe è oggi scomparsa. Essa comunque proverebbe la presenza di un sepolcro pagano nella zona in cui sorge attualmente il santuario petrino. Si tratta forse della sepoltura del servo conduttore del vicino fundus di Felline (o di un suo discendente) da ricollegare al passaggio dell’Apostolo?

L’ipotesi è suggestiva, e andrebbe verificata con saggi di scavo, estesi all’area adiacente alla chiesa-torre. A questo proposito, ricordiamo che non sono ancora stati pubblicati i risultati dei saggi effettuati nella stessa area, conclusi nel 2004. In ogni caso, la vicenda esposta non è del tutto isolata: presso Oria, in contrada Gallana, è stata recentemente rinvenuta un’epigrafe sepolcrale romana, inglobata nel muro di una chiesa campestre. L’epigrafe è pertinente alla gens Gerellana , proprietaria del fundus,che avrebbe dato il nome alla contrada e alla chiesa.

Conclusioni

Con queste brevi note terminano, per il momento, le nostre ricerche sulla leggenda petrina di Bevagna, durate un decennio e fondate sulla consultazione di pressochè tutte le fonti bibliografiche relative alla tradizione petrina regionale.

Le nostre congetture, che, come già detto, integrano il quadro storico con elementi di toponomastica, onomastica e archeologia, vanno naturalmente verificate in concreto. Il nostro auspicio è che nelle aree segnalate (Felline, Bevagna) si effettuino al più presto ulteriori saggi di scavo, che possano sostenere, o eventualmente confutare, la ricostruzione proposta.

 

[1] Cfr. D.Saracino o.p.,Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo (1741).

[2] CfrR.Scionti-P.Tarentini, Emergenze archeologiche: Manduria-Taranto-Eraclea, (Manduria 1990), pp.286-289.

[3] Cfr. C.Marangio, Problemi storici di “Uria” Calabra in età romana, in “Archivio Storico Pugliese”, 42 (1989) pp. 113-134.

[4] Cfr. C.Santoro, Una nuova stele di Caracalla ed altre epigrafi latine inedite della Regio II Apulia et Calabria”, in “La Zagaglia”, a. XIII, n.49, p.20.

[5] Cfr. G.Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento (Bologna 1962), pp.19-21 e 60-61.

[6] Cfr. F.A.Errico, Cenni storici della città di Oria e del suo insigne vescovado (Napoli 1905), p. 140.

Uno stemma dei Del Balzo D’Orange in San Pietro in Bevagna

MINIMA ICONOGRAPHICA

di Nicola Morrone

Come avemmo modo di osservare qualche tempo fa, per ricostruire il contesto storico in cui un dato bene culturale è stato prodotto, si può partire anche da alcuni dati minimi, come gli elementi araldici che, eventualmente, lo contrassegnano.

Nel santuario di San Pietro in Bevagna vi è uno stemma gentilizio, più volte segnalato dagli studiosi, che, se correttamente interpretato, può fornire importanti indicazioni di carattere storico-cronologico circa la dinamica costruttiva della chiesa stessa. L’emblema, collocato sopra l’arco ogivale che qualifica la parete est dell’attuale presbiterio, è stato scoperto nel 1991, in seguito ad una campagna di saggi condotti dalla Soprintendenza ai Monumenti di Taranto, miranti a fare chiarezza sulle fasi storiche del complesso chiesa-torre[1].

Stemma Del Balzo d'Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna
Stemma Del Balzo d’Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna

 

L’emblema in oggetto, di cui forniamo un’immagine[2], è dipinto a tempera. Esso è sormontato da una corona reale e circondato da un nastro nero, ed è qualificato nella parte superiore dalla presenza di una stella a sedici raggi su campo chiaro e un corno azzurro legato su campo rosso, che si invertono nella parte inferiore[3].

Dello stemma si era già occupato lo storico locale L.Tarentini, che ne aveva dato una descrizione, tra l’altro imprecisa[4]. Un altro storico locale, il Lopiccoli, aveva riprodotto l’emblema nel suo compendio storico su Manduria, fornendone anch’egli una breve descrizione. Da ultimo , F.Musardo Talò ha dedicato allo stemma un’attenta disamina, finalizzata ad una contestualizzazione dello stesso nell’ambito della bimillenaria storia del santuario petrino[5]. La studiosa, sulla base di alcuni confronti , riferisce lo stemma alla famiglia gentilizia degli Orsini Del Balzo, che governò il Principato di Taranto a partire dal sec.XV.

Secondo la studiosa , la presenza dello stemma nella cappella di Bevagna potrebbe giustificarsi sulla base di un intervento di restauro operato per volontà di G.A. Orsini, principe di Taranto (+ 1463), che avrebbe voluto così lasciare un ricordo perenne della sua munificenza nei confronti del santuario petrino.

Tale stemma , operando come una sorta di “marcatore territoriale”, potrebbe inoltre rimandare alla definitiva inclusione del santuario nelle terre del Principato di Taranto. Tale ricostruzione, puntigliosa ed in parte accettabile, si fonda però su un’errata interpretazione dello stemma in oggetto. Infatti,in corrispondenza dell’arco ogivale dell’area presbiteriale della chiesa di San Pietro in Bevagna non è dipinto lo stemma degli Orsini Del Balzo, ma quello dei Del Balzo D’Orange, nobile casata di origine francese, che solo più tardi si imparenterà con quella degli Orsini[6].

Nell’emblema di Bevagna mancano, di fatto, le insegne della famiglia Orsini, cosicchè la cronologia della vicenda va ricostruita in modo differente.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone del Balzo Orsini, tratto da commons.wikimedia.org

I Del Balzo d’Orange governarono il Principato di Taranto nella seconda metà del sec.XIV: titolare del grande feudo fu Giacomo Del Balzo, che lo tenne dal 1374 al 1383[7]. Fu Giacomo del Balzo , dunque, e non G. A. Orsini , a voler legare la memoria della sua famiglia a quella del santuario bevagnino. Quest’ultimo, evidentemente, ricadde nei territori del Principato ben prima della metà del sec.XV, epoca della nota controversia tra Taranto ed Oria circa il controllo della piccola fiera (il “paniere”) che si svolgeva da tempo immemorabile nei pressi della piccola cappella, di cui riferisce il Coco[8].

Precisata l’attribuzione dello stemma, restano da chiarire le motivazioni della presenza di quest’ultimo nella cappella di Bevagna. In questo senso , concordiamo sostanzialmente con le ipotesi formulate dalla Talò: lo stemma dei Del Balzo d’Orange dovette fungere da “marcatore territoriale”, ribadendo visivamente che la cappella petrina , oggetto di una devozione secolare, era collocata nei domini del Principato. Verosimilmente, il feudo di Bevagna, pur in capite ai Benedettini d’Aversa , dovette ricadere nei territori del Principato già a partire dal 1381-82, cioè dagli anni in cui Giacomo Del Balzo si impossessò con la forza del Principato, pretendendo dagli abitanti delle terre occupate il giuramento di fedeltà e l’omaggio [9]. Lo stemma principesco fu quindi dipinto al tempo del “restauro” della zona absidale della cappella medievale di Bevagna, corrispondente all’area presbiteriale della chiesa attuale.

L’abside originaria fu parzialmente tompagnata con un arco ogivale (di cultura, cioè, gotica) probabilmente per ragioni statiche. Si distinguono tuttora i differenti profili delle nicchie: a tutto sesto quella primitiva (secc. X-XI), a sesto acuto quella posticcia (sec. XIV).

Partendo dall’ interpretazione di un indizio “minimo”, quale può essere uno stemma, abbiamo voluto ricostruire il contesto storico e politico in cui esso trova la sua ragion d’essere. La vicenda proposta ci pare confermi quanto asserisce lo studioso B. Vetere , il quale magistralmente sostiene che “attraverso la serie di figure e segni di cui si serve l’araldica è possibile leggere parti di un libro che narra, con la storia di famiglie importanti per i ruoli di natura pubblica di cui furono investite, le vicende di ben più ampie realtà che non quelle semplicemente familiari. Nel linguaggio simbolico di quelle figure e di quei segni, accostati nei quarti in cui si divide uno scudo nobiliare, viene fissata la memoria di potenziamenti di natura politica, di ampliamenti territoriali, di nuovi equilibri ed alleanze tramite i meccanismi di strategie matrimoniali rispondenti molto spesso a concreti progetti di natura politica”[10].

 

[1]Cfr. A.Ressa, Torre-Santuario di San Pietro in Bevagna. Problematiche di restauro, in “Quaderni Archeo”, 1 (1996), pp.13-15.

[2] La foto è tratta da V.M.Talò, San Pietro in Bevagna, un bene culturale da salvare (Manduria 2011), p.102.

[3] La descrizione dello stemma è in V.M.Talò, op.cit., p117.

[4] Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (Manduria 1899), p.36.

[5] Cfr V.Musardo Talò, op.cit., pp.117-120.

[6] Lo stemma dei Del Balzo d’Orange è presente, tra l’altro, in Santa Caterina a Galatina (riferibile a R.Del Balzo, conte di Soleto e Galatina)e in Santa Maria del Casale a Brindisi (riferibile a Giacomo del Balzo). Sul rapporto tra i Del Balzo d’Orange e gli Orsini, cfr. A.Cassiano-B.Vetere, Dal Giglio all’Orso (Galatina 2006), p.XIII. La lapide sepolcrale di Giacomo Del Balzo è ancora collocata nel Duomo di Taranto. L’arme del principe è inquartata con quella della moglie, Agnese D’Angiò Durazzo, che egli sposò nel 1382.

[7] Sul personaggio cfr. G.Antonucci, Giacomo del Balzo principe di Taranto, in “Rinascenza Salentina”, II, (1934),pp.184-188. Cfr.anche S. Fodale, Giacomo del Balzo, in DBI, vol.36 (1988).

[8] Cfr. A.P. Coco, Il santuario di San Pietro in Bevagna (Taranto 1915), pp.122-130.Ci ripromettiamo di approfondire la vicenda della fiera di Bevagna in un prossimo contributo.

[9] Cfr. G.Antonucci, op.cit., p.184.

[10] Cfr. A.Cassiano-B.Vetere, op.cit., pp.IX-X.

Nuove ipotesi sul sacello di San Pietro in Bevagna

Statuetta San Pietro

di Nicola Morrone

Uno dei monumenti manduriani più carichi di fascino e di mistero è senza dubbio la chiesa di San Pietro in Bevagna, alla quale ormai da anni dedichiamo la nostra attenzione.

Se le varie fasi costruttive che interessano il santuario sono già state da tempo precisate, anche con l’ausilio dei documenti, resta una parte del complesso architettonico sulla cui datazione gli studiosi non sono ancora concordi. Si tratta della struttura più antica, cioè del cosiddetto “sacello”, dai manduriani identificato con il termine dialettale “nnicchju”, cioè “nicchia”.

Si tratta di una costruzione dalle dimensioni ridotte, orientata in senso liturgico (E-W) ,e che ha un notevole valore sacrale e devozionale, poiché vi sono allogati gli oggetti del culto petrino: il quadro, il fonte battesimale, la pietra d’altare.

Tra gli interrogativi che il sacello bevagnino pone c’è, come detto, quello di una sua corretta datazione, che risulta problematica anche data la vetustà della struttura. Un elemento che può agevolare gli studiosi è , tra le altre cose, la struttura del paramento murario, che riprende, anche se in maniera più rudimentale, la tecnica romana dell’ “opus Quadratum”.

I conci, squadrati e di varie dimensioni, non sono disposti a file regolari: tutta la nicchia absidale ha una tessitura irregolare, che ci fa ipotizzare l’intervento di maestranze “di tradizione”. Ulteriori interrogativi pone la natura del materiale utilizzato per la costruzione: ci pare si tratti di calcare sabbioso compatto (carparo), ben distinto dal tufo: per esplicita scelta dei committenti e dei costruttori, l’opera, destinata ad ospitare le reliquie del passaggio di San Pietro per la contrada, doveva durare nel tempo.

Tutto il paramento murario dell’abside e del vano corridoio antistante andrebbe comunque attentamente studiato, anche per chiarire se il materiale utilizzato per la costruzione sia stato cavato in loco. Di fatto, comunque, a proteggere l’absidiola, il vano ogivale antistante e la cappella del sec. X-XI, tutti ancora pienamente fruibili, è intervenuta la costruzione della torre di difesa anticorsara (sec.XVI), cui in seguito è stato addossato un avancorpo (sec.XX).

Per ciò che riguarda la committenza, gli studiosi (Jurlaro, Lepore) ipotizzano che l’iniziativa della costruzione dell’absidiola sia stata presa intorno al sec. IX dall’allora vescovo di Oria Teodosio, che volle sistemare in modo più dignitoso il luogo che ospitava le reliquie petrine. D’altro canto, pur essendo stato costruito in età bizantina, il nucleo primitivo del santuario ha sempre destato l’interesse della diocesi latina di Oria, come risulta dall’epigrafe collocata nella adiacente chiesa del sec. X-XI, che attribuisce la costruzione dell’edificio al vescovo di Oria Giovanni (996-1033).

Per ricavare ulteriori elementi di riflessione, proponiamo in questa sede di confrontare l’aspetto dell’abside di Bevagna con quello della chiesa superiore di San Pietro Mandurino.

La struttura absidale della chiesa superiore di San Pietro Mandurino (sec. XI-XII), anch’essa realizzata in “opus quadratum”, presenta un paramento murario più regolare rispetto all’absidiola di Bevagna: qui i conci sono disposti appunto su file regolari, quasi isodome (si contano 12 ricorsi) anche nelle campate. Questa differenza può essere attribuita a due fattori: la minore antichità della cappella di San Pietro Mandurino rispetto a quella di Bevagna , oppure la maggiore perizia dei costruttori.

Può anche darsi che la spiegazione possa attribuirsi ad entrambi i fattori, anche in considerazione del fatto che la cappella di Bevagna è verosimilmente più antica di due secoli rispetto a quella di San Pietro Mandurino, ed è probabile che, nel corso del tempo, il bagaglio tecnico dei costruttori possa essersi perfezionato.

Molti problemi , dunque, rimangono ancora aperti riguardo alla “nicchia” del santuario di San Pietro in Bevagna: per chiarire i punti oscuri occorreranno indagini archeologiche organiche, estese anche all’area immediatamente adiacente alla torre.

 

Una fortificazione moderna: la torre di San Pietro in Bevagna

Chiesa-torre di San Pietro in Bevagna

di Nicola Morrone

 

Tra le emergenze architettoniche più significative del territorio di Manduria  (TA) figura senza dubbio la torre costiera di San Pietro in Bevagna, secolare baluardo militare, eretto con un duplice scopo: quello di proteggere la cappella e il sacello sottostanti (luoghi centrali della religiosità manduriana) e quello di avvistare i navigli corsari, che, soprattutto a partire dal sec. XVI, insidiarono le popolazioni rivierasche. Forniremo al lettore, in questa sede, un ragguaglio architettonico sulla torre, che, con il suo insolito sviluppo planimetrico “stellare”, rappresenta uno dei pochi esempi di torre costiera vicereale di tipo moderno. Seguirà un approfondimento sulla cultura dell’anonimo architetto progettista e, infine, una sintesi della vicenda storica relativa alla costruzione.

Un’architettura insolita

La torre di San Pietro in Bevagna (sec.XVI), diversamente dalla maggior parte delle coeve torri che punteggiano le coste di quello che fu il Regno di Napoli, presenta un’architettura del tutto particolare. Anzichè riproporre la consueta planimetria circolare o quadrangolare, essa ha pianta ottagonale, meglio definita come di “stella a quattro punte” o a “cappello di prete”, per l’effettiva analogia con il berretto che sogliono portare i sacerdoti. Questo tipo di sviluppo, in pianta e in alzato, che la torre di San Pietro in Bevagna condivide con pochissime altre torri costiere e con una ristretta serie di edifici fortificati del sud Italia, deriva dall’applicazione dei nuovi precetti dell’architettura e dell’ingegneria militare, teorizzati per primo dal valenciano Pedro Luis Escrivà (1482 ca-1568 ca). Egli,commendatore dell’Ordine di Malta, definito dagli studiosi il “miglior ingegnere militare della corona spagnola”, fu chiamato a coordinare il sistema difensivo del Regno di Napoli per far fronte al pericolo turco.

Fu in Italia certamente tra il 1528-1535, e passò alla storia per aver scritto il primo trattato di fortificazione moderna, vale a dire la “Apologia y excusacion in favor de las fabricas del Reino de Napoles” (1538), attualmente conservato in due copie (una manoscritta e una a stampa) presso la Biblioteca nazionale di Madrid, e liberamente consultabile in rete, sul sito della Biblioteca stessa (”bdh.bne.es”). Il prototipo italiano della moderna fortificazione a pianta stellare, che supera quella medievale (impostata sullo schema quadrangolare con torri ai lati) è costituito da Castel Sant’Elmo, notissima fortezza napoletana, sulla quale Pedro Luis Escrivà fu chiamato ad intervenire nel sec. XVI.

Il castello esibisce appunto una pianta di stella a sei punte, che stupì non poco gli architetti “tradizionalisti” dell’epoca, dalle accuse dei quali Escrivà si difese attraverso il suo trattato. Ma il nuovo modello di fortezza si rivelò quanto di più efficiente potesse esserci, poichè, giocato sulla introduzione del sistema dei bastioni “a tenaglia”, permetteva un più razionale sistema di difesa ed offesa, anche attraverso la sistemazione delle archibugiere a tiro incrociato. Non è da escludere che l’architetto, nell’escogitare il nuovo sistema “a tenaglia”, abbia ripreso lo stesso motivo presente nello stemma dell’ordine di cui era commendatore, sintetizzando così nella nuova tecnica fortificatoria l’aspetto pratico e quello simbolico, come non di rado accadeva agli architetti di quel tempo lontano. La studiosa A.Camara Munoz, a questo proposito,sostiene appunto che in relazione alla forma stellata delle fortificazioni e’ forse possibile rintracciare un ”simbolismo latente”,  [Cfr.A.Camara Munoz, Las torres del litoral en el reinado de Felipe II, in “Espacio, Tiempo y Forma”,VII, 1990, pp.55-86].

Ad ogni modo, secondo l’autorevole parere di Oronzo Brunetti, dal modello della fortezza “stellare”di Sant’Elmo deriverebbero quello dell’omonima fortezza di Malta, di alcune fortezze toscane, e quelli di alcuni esempi minori, vale a dire il castelletto di Melendugno, la masseria Pettolecchia a Fasano, il casino dell’Arso a Mandatoriccio (CS) [Cfr.O.Brunetti, A difesa dell’Impero, (Galatina 2006), p.37].

A questi esempi gli studiosi hanno aggiunto le torri costiere vicereali di San Pietro in Bevagna presso Manduria (TA), di Santa Sabina presso Carovigno (BR), di Torre della tonnara di Cofano presso Custonaci (TR), le uniche tra le oltre trecento del Regno ad avere forma di “stella a quattro punte”. Tutte le altre, pur concepite da valenti ingegneri (ad es. Giovanni Tommaso Scala) sono state realizzate con il tradizionale sviluppo planimetrico circolare o quadrangolare.

 

Pianta Torre San Pietro in Bevagna
Pianta Torre San Pietro in Bevagna

L’anonimo architetto

Allo stato attuale delle ricerche, non disponiamo di documentazione probante circa la originaria vicenda costruttiva della torre di Bevagna. Sappiamo solo che essa fu fatta costruire dai monaci benedettini di San Lorenzo d’Aversa a protezione del sacello e della cappella di San Pietro, e fu acquisita dall’autorità vicereale intorno al 1578 “a beneficio del regno e del popolo, per tenere i soldati e difendere la zona contro i corsari “[Cfr. P.Coco, Porti, castelli e torri salentine (Roma 1930), p.113]. Le carte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli, ben note agli studiosi, sono infatti essenzialmente di natura fiscale, e rappresentano fedi di pagamento del personale, forestiero ed autoctono, che si successe nel servizio alla torre e alla relativa fascia costiera (torrieri, cavallari, pedoni, ecc.).

Va comunque ancora esplorato l’Archivio General de Simancas (Madrid), che conserva, oltre a fondi specifici, anche un interessante raccolta di disegni relativi a torri e castelli del “Reino de Napoles”. Per il momento, per comprendere le scelte progettuali che furono alla base della realizzazione della torre di Bevagna, dobbiamo fare esclusivo riferimento alla struttura del manufatto, che fornisce comunque, di per sé stessa, alcuni interessanti elementi di valutazione. L’anonimo architetto, che, per ragioni squisitamente cronologiche, non può essere stato lo stesso Pedro Luis Escrivà, si potrebbe identificare con uno dei due architetti salentini che furono a contatto con lo stesso, e ne svilupparono le novità progettuali. Essi furono, principalmente, Giangiacomo dell’Acaya (morto nel 1570) e Evangelista Menga (morto nel 1571). La cronologia relativa ai due capomastri conforta la nostra ipotesi, poichè, come risulta dal documento riportato dal Coco, la torre di San Pietro in Bevagna fu quasi certamente eretta a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del sec. XVI, quando le novità progettuali introdotte da Escrivà, ampiamente dibattute a livello mediterraneo (segnatamente nei cantieri di Napoli e Malta) erano già state assimilate dai tecnici del Regno.

Al modello avanzato di fortificazione (a pianta stellare, bastionata, con muri laterali “a forbice” ed archibugiere a tiro incrociato) si ispirò dunque anche l’anonimo architetto della torre bevagnina, che potrebbe essere stato salentino, e forse anche, come lo stesso Escrivà, appartenente all’ordine dei Cavalieri di Malta. L’ordine forniva infatti al Viceregno i migliori architetti ed ingegneri militari, e favoriva “canali privilegiati per diffondere saperi militari ed architettonici” [Cfr.O Brunetti, op.cit., p.34]  E, se affiliato all’ordine, non è da escludere che l’architetto sanpietrino fosse in contatto con la vicina Commenda magistrale di Maruggio, anche se la torre di San Pietro ricadde sempre, di fatto, nelle pertinenze del comune di Manduria.

 

Cronologia

Sec.XVI: Il Monastero di San Lorenzo d’Aversa fortifica il sacello e la cappella di San Pietro in Bevagna facendo costruire una torre a protezione degli stessi dagli assalti dei pirati turchi.

1578: La Regia Corte espropria la torre, corrispondendo ai Benedettini d’Aversa la somma di 807 ducati

1845: Con suo decreto,Francesco II di Borbone Re di Napoli cede la torre al Vescovo di Oria, per dimora del Rettore del Santuario o del custode

1860: Con l’incameramento dei beni di proprietà ecclesiastica da parte del Regno d’Italia, la torre diventa di proprietà demaniale.

1900: Con atto di compravendita, il Demanio statale cede la torre al Comune di Manduria (TA).

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Il Salento delle leggende

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

Salento-Popolare

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Forse dovremmo essere un po’ più orgogliosi delle nostre città.

E amarle per il loro giusto verso. Con fierezza moderna, evoluta, proiettata al domani.

Amarle, intanto, e onorarle, come la terra dei nostri padri. Delle nostre radici sentimentali e civili, guardando ad esse come a un patrimonio da sviluppare e trasmettere. Tanto più se la nostra patria, piccola o grande che sia, possiede oggettivi riscontri di arte e di storia.

La nostra terra, il Salento leccese, terra di memorie e futuro, è una madre di cento figli.

Per ricomporre l’originaria Terra d’Otranto, al già vivace comprensorio dei 97 comuni d’oggi andrebbero aggiunti quelli delle province di Brindisi e Taranto, nonché dell’area della provincia di Matera, che vi faceva parte integrante fino al 1663.

Il territorio attuale, negli ultimi lustri,e pur con qualche inevitabile improvvisazione elimitazione, è diventato un polo di richiamo irresistibile, un crogiuolo d’idee, un laboratorio di progetti.

Il Salento, infine, per nostra fortuna, non è del tutto uniforme: è, anzi, un mosaico di tessere variopinte. Ha i colori di Lecce e di Galatina, di Maglie e di Nardò, di Gallipoli e di Ugento, di Calimera e di Soleto. Ha vestigia antichissime, monumenti sacri e civili di rilevanza nazionale, una propria Università, gloriosi licei, biblioteche, musei, circoli e fermenti culturali. Le vaste distese di ulivi, di vigne, di frutteti e di fiori sono racchiuse tra le albe di Otranto e i tramonti di Gallipoli. Con piazze vivaci di mercati e di festa. E una corona di torri che dal mare Adriatico e dallo Jonio degradano, congiungendosi come una collana, verso l’estremo lembo di Santa Maria di Leuca de FinibusTerrae. Ai confini del mondo.

Geografia che si fa storia. E storia che diventa leggenda.

 

I confini tra il tempo reale e quello fantastico sono sempre difficilmente distinguibili. Come, e ancor più, quelli che si accavallano tra religione e superstizione, tra sacro e profano.

Quanto meno insolita, a tale proposito, per i suoi possibili risvolti a sorpresa, appare l’antichissima processione di San Pietro in Bevagna, legata a un rituale propiziatorio della pioggia, che si celebra tuttora a Manduria, in ricordo dei tempi in cui s’invocava con particolare devozione l’intervento del Santo perché debellasse ogni prolungato stato di siccità, pregiudizievole per i raccolti, del tutto fondamentali per l’economia locale.

Succedeva, allora, che i contadini portassero in processione, dalla chiesetta della frazione di San Pietro in Bevagna fino alla Chiesa Matrice di Manduria, l’immagine sacra dell’Apostolo, al quale si rivolgevano con preghiere, canti, suppliche, e penitenze d’ogni genere, portando sulle spalle grossi rami e tronconi d’albero. Oggi, infatti, è denominata “la processione degli alberi”.

Durante quest’atto di penitenza collettiva, si declamano altresì alcune litanie popolari, spesso improvvisate e comunque estranee alla liturgia ufficiale ecclesiastica. Una fra le più note recita: «Santu Pietru binidittu, / ca a lu desertu stai, / tantu bene ti òzzi Cristu / ca ti tanò li chiài: / tànni a nui lu Paradisu, / tu ca n’hai la potestai!» (San Pietro benedetto, / che nel deserto stai, / tanto bene ti volle Cristo / che ti donò le chiavi: / dai a noi il Paradiso, / tu che ne hai la potestà).

Fino a qualche decennio addietro, quando il rapporto tra il popolo dei fedeli e il Santo era, per così dire, più familiare e diretto, se la pioggia tardava a cadere, non si andava tanto per il sottile, e si metteva San Pietro… in castigo! I contadini ne sistemavano l’immagine fuori dalla Chiesa, e si rivolgevano ad essa con espressioni neanche tanto velate d’insulto o di minaccia, talora perfino aspre e dure, finché la pioggia non tornava ad irrorare i campi. E finalmente avveniva la riappacificazione.

Una leggenda nella leggenda riguarda l’arrivo dell’Apostolo sul litorale di Bevagna. Nel viaggio verso Roma, egli trovò riparo in questi lidi dopo il naufragio della sua piccola imbarcazione, e stanco e assetato si diresse verso una fonte che aveva intravisto non lontano. Accanto alla fonte si ergeva la statua di un dio pagano (forse Zeus, secondo la tradizione più diffusa), al che San Pietro si fece il segno della croce, e immediatamente la statua si frantumò ai suoi piedi. La gente che assistette al prodigio si strinse allora attorno al Santo, acclamandolo e convertendosi al Cristianesimo.

Un’ultima curiosità, che con San Pietro non c’entra ma con Manduria sì.

La bella città di origine messapica, capitale del famoso vino Primitivo, è fra le poche al mondo – insieme a Oria – che festeggia solennemente i Santi Medici.

Qualcuno obietterà che i Santi Medici sono festeggiati in molti altri paesi dell’Italia e del mondo. Dove sarebbe, quindi, questa presunta ‘esclusività’?

Ecco spiegato l’arcano. Tutti (o quasi) sappiamo che i Santi Medici sono i due fratelli gemelli Cosma e Damiano. Ma quanti sanno che, accanto a loro, ci sono altri tre fratelli, medici anche loro, e anche loro martiri esanti? Si chiamano Antimo, Euprepio e Leonzio. E Manduria – come Oria – li festeggia tutti e cinque insieme.

 

Fra i tanti Santi onorati nel Salento c’è il Poverello d’Assisi, protagonista anch’egli di una leggenda.

Si narra che San Francesco, mentre ritornava da un suo pellegrinaggio in Palestina, decise di fermarsi a Lecce per dare vita ad una nuova comunità religiosa. Si mise quindi a predicare, e in breve tempo radunò molti confratelli, vivendo di carità.

Ci fu un giorno, in cui ebbe molti problemi a raccogliere cibo sufficiente per tutti. Aveva già bussato ad ogni porta, ma il ricavato era ancora del tutto scarso. Per ultimo, bussò alla porta di un vecchio contadino, povero anche lui, che viveva da solo in una casupola appena fuori città. «Sono addolorato, ma non ho da mangiare neanche per me: non ho neppure una briciola di pane raffermo…», disse il vecchio a San Francesco, e richiuse la porta.

Per nulla turbato, il Santo bussò ancora. E il vecchio gli riaprì: «Fratello, mi dispiace…», replicò, «…ma neanche l’albero di arancio che ho in fondo al giardino, che è l’unica mia risorsa, quest’anno ha dato frutti!”.

San Francesco chiese allora di essere accompagnato in giardino. Si fece il segno della croce e si avviarono.

Quando vi furono giunti, il vecchio contadino rimase ammutolito dalla sorpresa, e s’inginocchiò, e pregò, piangendo dalla gioia e dalla commozione: l’albero era infatti miracolosamente stracarico di arance, e in tale abbondanza da sembrare perfino più grande! E tutto quel ben di Dio, raccolto in ampie ceste, non solo bastò per sfamare i fratelli di San Francesco e il contadino stesso, ma furono anche donate a tutti i vicini di casa.

Nessuno sa indicare il luogo esatto, ma a Lecce sono in molti a dire che l’arancio benedetto di San Francesco cresce ancora rigoglioso per sfamare i poveri, e ha foglie con virtù terapeutiche, che guariscono da molti mali.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne

La canna e il ginepro. Istantanee per la processione degli alberi

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Riproduzione vietata. Copyright Nicola Morrone

di Nicola Morrone

 

Ci siamo alzati alle 5 del mattino, pensando di arrivare  al santuario tra i primi: siamo invece arrivati quasi per ultimi. Alle 6 la chiesa è gia’ affollata e in fondo alla navata il quadro tollera paziente le carezze dei fedeli, prima di essere portato  in processione. Gli altri pellegrini giungono alla spicciolata: di fronte alla chiesa si intravedono già, ammucchiati, i loro rudimentali bordoni, caratterizzati dai segni secolari della devozione petrina (la canna, il ginepro, l’immagine di san Pietro).

Dentro la cappella procede la liturgia cantata, fuori è già una festa di volti, voci, colori. Arrivano i primi gruppi di fedeli  che recano gli “altarini”, di squisita fattura artigianale. Nella paziente cura con cui sono stati confezionati, oltre che nel sacrificio con cui verranno trasportati, a spalla, per dieci lunghi chilometri, si esprime una devozione  ancora fortemente radicata nei confronti del Principe degli Apostoli.

Questi gruppetti, stretti intorno alla loro macchina processionale, rappresentano l’altra faccia della socialità religiosa, quella spontanea, che ha deciso di organizzarsi  per condividere, in maniera informale, questo importante momento di fede. Alle loro spalle, dietro  lo stendardo e distinti dall’abito di pertinenza, procedono le confraternite, immagine  della socialità religiosa istituzionale.

Nell’arcaico slancio emotivo dei primi e nell’ordinato procedere  delle seconde si riassume buona parte della processione petrina, integrata naturalmente dai fedeli che procedono separatamente ai lati, e dal gruppo conclusivo, costituito dal clero, che si stringe intorno al quadro del Santo. All’altezza di C.da Piacentini si aggiungono infine i portatori di tronchi, coloro che hanno deciso di compiere lo sforzo penitenziale più grande e al tempo stesso più vistoso.

E’ una fatica non lieve: i portatori procedono a piccoli tratti, e la loro sosta è sottolineata dal tonfo greve dei tronchi, un “tunf” preceduto dal consueto “Ahi Maria!”.

Vivendo dall’interno questo momento collettivo di preghiera e penitenza, si comprende la specificità della processione petrina che, a dfferenza delle altre processioni manduriane, ha una struttura estremamente semplice, fortemente ripetitiva e cantilenante, “circolare”. Poichè essa è scandita nella quasi totalità del suo lungo percorso da un unico canto, quel “Dio ti salvi o Maria”, notissima preghiera semidialettale che la connota da tempo immemorabile.

Per noi, che l’abbiamo ascoltata l’ultima volta nella processione del 1989, cui partecipammo insieme all’indimenticabile padre Raffaele Bonaldo, risentirla ha costituito una grande emozione, come è stato per gli amici che ci hanno accompagnato durante il percorso  e, crediamo, per tutti i partecipanti.

Nessuno era da solo nel compiere il lungo cammino di penitenza, da tutti effettuato  in modo composto  e lieto, con un occhio al tempo, clemente, e alla meravigliosa campagna circostante. All’arrivo nel paese i pellegrini ritrovano lo stesso mare di voci, suoni e colori lasciato a Bevagna, ma decuplicato.

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Nei pressi della cappella della Pieta’ si rinnova il rito della “consegna” del quadro alle autorità cittadine. Poi San Pietro “andrà a trovare” la Madonna e San Gregorio e insieme saranno esposti nella Chiesa Matrice alla venerazione dei fedeli; tutto terminera’ con il rientro del quadro a Bevagna.Ce ne torniamo a casa rincuorati: nei momenti che contano, sappiamo ancora stare insieme.

 

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (V ed ultima parte)

???????????????????????????????di Nicola Morrone

 

LE ANTICHE ROTTE COMMERCIALI E LA RADA DI BEVAGNA

Come già detto, la tradizione del passaggio di San Pietro in Puglia  è considerata da alcuni storici come sostanzialmente  leggendaria. Eppure , il grande archeologo M.Cagiano de Azevedo ribadiva che “le molte tradizioni , salentine in specie e pugliesi in genere, che vogliono di età apostolica o subapostolica la introduzione del cristianesimo in Puglia non possono venire accantonate troppo semplicemente “.Lo stesso studioso, nel ribadire che “la vivacità dei commerci con l’Oriente e la leggenda dello sbarco di San Pietro in Puglia indicano come vi fossero molte e buone possibilità che il Vangelo venisse direttamente dall’Oriente”, sottolinea l’importanza decisiva dell’elemento portuale come luogo di contatto e scambio di uomini, merci e idee[1]. La Puglia, in epoca romana, era caratterizzata da una fitta rete di realtà portuali, di piccole, medie e grandi dimensioni. I porti erano collocati a breve distanza l’uno dall’altro: tra due grossi porti era collocata una serie di porti più piccoli., dei quali, nella gran parte dei casi, non conosciamo il nome. Nel mondo antico “si cura il più piccolo attracco, purchè sia vicino al luogo di produzione”[2]. Ed uno di questi piccoli attracchi doveva certamente essere quello di Bevagna, le cui dimensioni ci sono sconosciute, per mancanza di dati archeologici .Si trattava, come sostenuto da alcuni, di un semplice approdo di fortuna, oppure è lecito pensare ad una realtà meglio organizzata? Per ricostruire la geografia dei porti , occorre comunque tenere conto anche dei naufragi, poichè “i relitti marini sono significativi anche per i commerci di transito, ossia per l’appoggio che i porti locali potevano offrire alle navi dirette in altri porti. I naufragi, nel loro aspetto negativo, indicano che si tentava, in caso di necessità, di ripararsi in questi porti minori. Così la nave (…..) naufragata dinnanzi a Torre San Pietro a 300 metri dalla foce del Chidro, contenente sarcofagi sbozzati destinati ad essere rifiniti nel luogo terminale del viaggio”[3].

 

il manoscritto Saracino di cui si è fatto cenno nel testo
il manoscritto Saracino di cui si è fatto cenno nel testo

A Bevagna esisteva dunque una realtà portuale, che verosimilmente accolse l’imbarcazione che trasportava Pietro, ma a cui non fece in tempo ad appoggiarsi il naviglio che recava  con sè il carico di sarcofagi, ancora inabissato davanti alla foce del Chidro. Pietro era comunque un viaggiatore del tutto particolare: non era un “turista” ,ma uno straniero, e un cristiano che si recava ad evangelizzare una terra sconosciuta. Egli si mosse  probabilmente in una condizione di semi-clandestinità, ben consapevole di essere inviso alle autorità romane. Non è improbabile che, per giungere in Italia, abbia utilizzato una nave deputata al trasporto di derrate e merci varie. Navigando lentamente e sottocosta, l’Apostolo  giunse dunque a Bevagna , come vuole la tradizione, nell’Aprile del 44 D.C. La data cronica del suo arrivo trova un riscontro positivo nella logica della navigazione antica , che suggeriva di mettersi in mare , soprattutto per i viaggi lunghi, in un periodo climaticamente favorevole, evitando di muoversi in periodo di “mare clausum” (da Novembre ai primi di Marzo)

 

Dipinto con San Pietro, da collezione privata
Dipinto con San Pietro, da collezione privata

CONCLUSIONI

Focalizzando la nostra attenzione su tre elementi salienti della leggenda petrina di Bevagna, abbiamo voluto verificare quanto può esservi di verosimile nel narrato riportato da padre Domenico Saracino. Abbiamo dunque proceduto su base congetturale, fornendo al lettore tre indizi, che però a noi paiono, per usare un’espressione del linguaggio giuridico, “gravi , univoci e concordanti”. Tre indizi che, quindi, potrebbero costituire una prova, quella del reale passaggio di San Pietro per le nostre contrade. Concludiamo le nostre note con un auspicio: che nell’area in cui sorge il santuario di San Pietro in Bevagna  si possano avviare, finalmente, scavi archeologici organici ed approfonditi, al fine di poter comprendere cosa è realmente successo in quel luogo così carico di valenze mitiche. Quanto alla leggenda petrina, è certo che nessuno di noi possiede il filmato del delitto di cui cerca l’autore, ma grande deve essere stata la sorpresa di quello studioso  che, dando credito al racconto di un indigeno, scavò un giorno su un’isola lontana, scoprendo che tutto, di quel racconto, corrispondeva al vero.

 

[1] Cfr. M.Cagiano  De Azevedo, Quesiti su Gallipoli tardoantica e paleocristiana, in “Vetera Christianorum”, 15 (1978), pp.363-364.

[2] Cfr. V.A. Sirago, cit., p.310.

[3] Cfr. M. Cagiano de Azevedo, cit., p.366.

 

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (III parte)

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di Nicola Morrone

 

FELLINE

Ricordato  nella leggenda come “Castello vicino all’antica Manduria, distante dal Fiume tre miglia chiamato Fellini, oggi però i Castelli”, il villaggio rurale di Felline è storicamente esistito.Lo studioso E.Dimitri vi ha dedicato un interessante saggio[1], sostenendo che l’identificazione del sito in cui esso sorgeva presenta problemi di non facile soluzione, definendo la questione come un vero e proprio “ mistero archeologico”, meritevole di approfondimento. In realtà, al di là del cosiddetto “mistero”, esistono alcuni elementi  storici, archeologici e topografici per ricostruire le origini  della  piccola comunità rurale. I primi elementi di chiarificazione sono forniti dal toponimo stesso. Alcuni storici locali sostengono che il toponimo derivi dal greco, e significhi  “canneto” o  “luogo paludoso”. Questa congettura ha permesso a qualcuno di credere che il villaggio sorgesse nei pressi del litorale manduriano, caratterizzata effettivamente, prima delle recenti bonifiche, da impaludamenti e da fitti canneti, alcuni dei quali ancora visibili. In realtà, il toponimo “Felline” deriva con ogni probabilità dal latino, ed ha tutt’altro significato. Come per l’altra Felline, quella ubicata in provincia di Lecce, il nome centro demico deriva da “figlinae”, con il significato di “luogo deputato alla produzione di ceramica”, caratterizzato  dunque dalla presenza di fornaci per la produzione di manufatti fittili. Gli scavi del Prof. Cosimo Pagliara dell’Università di Lecce, effettuati nel 1967,hanno appunto appurato che a Felline (Le) il nucleo abitato si strutturò in epoca romana proprio intorno alle fornaci , finalizzate alla produzione di anfore per il commercio delle derrate alimentari rivenienti dallo sfruttamento del “latifundium” circostante. Anche nel piccolo villaggio di Felline presso Manduria, che dall’impianto delle fornaci prese il nome, vigeva la  stessa dinamica economica, basata essenzialmente sull’agricoltura, sul pascolo, sulla caccia, e sull’industria fittile. Si trattava di un’economia diversificata, e, come accadeva negli altri “pagi” dell’Italia romana, le anfore prodotte servivano a inserire nella rete dei commerci il surplus della produzione agricola. Come vedremo, la posizione particolare del villaggio di Felline, a poca distanza dalla costa, facilitava queste operazioni di scambio. C’è poi il problema dell’esatta ubicazione del villaggio rurale. Non concordiamo, in questo senso, con quanto sostenuto dallo studioso R. Jurlaro, il quale afferma che il centro abitato di Felline era collocato “presso la costa , alle spalle di Torre Columena, là dove ancora resiste il toponimo rurale “Feddicchie”[2]. Tra “Felline” e “Feddicchie” non esiste probabilmente alcuna relazione, derivando il primo , come già detto , dal latino “figlinae”, ed il secondo quasi certamente dal latino “feliciae”. La contrada che attualmente prende il nome di “Feddicchie”, infatti , è indicata con l’appellativo di “ Fielici” in una vecchia carta topografica del sec. XVII, ora in proprietà privata. La maggior parte degli studiosi ritiene che il villaggio di Felline fosse ubicato  , sin dalla sua fondazione nei pressi della collinetta de “Li Castelli”, sita a metà strada tra Manduria e il mare. In effetti, vi sono indizi significativi che il piccolo “pagus” romano si sia strutturato nei pressi della collinetta, in particolare alla base occidentale dell’altura. Tutta l’area della collinetta de “Li Castelli” presenta infatti tracce di prolungata frequentazione umana, dal Neolitico, all’età messapica, romana e medievale. Le ricognizioni di superficie hanno rilevato la presenza di materiale ceramico in riferimento a tutte le epoche segnalate[3]. Ed in effetti, dopo le originarie frequentazioni di sparuti nuclei di capannicoli, cui segui, in età storica, la colonizzazione della collina di Castelli ad opera dei Messapi, che vi fondarono una città anonima, in età romana sorse il villaggio di Felline, che recuperò certamente strutture abitative preesistenti. Felline era uno dei tanti “pagi” inserito all’interno di un più vasto “latifundium”, la cui proprietà era detenuta, come era tipico dell’Italia romana, da un ricco patrizio, forse un romano stabilitosi in provincia. E fu di certo il proprietario del “pagus” ad incentivare la realizzazione di quella industria figula che avrebbe contrassegnato  il nome del borgo , distinguendolo dai villaggi vicini, caratterizzati da un’economia esclusivamente agricola. Il “pagus “ di Felline, che sorgeva nei pressi di una via di comunicazione (l’antichissimo tratturo Manduria-mare, oggi strada comunale Manduria-San Pietro) ed era collocato a non molta distanza dalla costa. Perciò, esso si poteva agevolmente inserire nella rete commerciale destinata a smaltire il surplus agricolo. Ciò che distingueva il villaggio era, come detto, la presenza delle “figlinae”, cioè delle fornaci per la cottura delle anfore. L’impresario dell’industria figula  “era sempre un grande proprietario terriero, che impiantava la sede dell’opificio nelle sue terre (….) In genere gli affari erano appannaggio dei proprietari, i quali però spesso demandavano le incombenze ai loro schiavi o liberti capaci, dividendo gli utili”[4]. Spesso , il proprietario terriero si recava di persona nel luogo di produzione e controllava tutta l’attività. Non di rado, infine, il padrone, che spesso era anche “mercator”(mercante) deteneva una carica politica, la cui importanza era direttamente proporzionata al censo. I nomi di questi personaggi eminenti dell’Italia romana non ci sono tutti pervenuti. Ci è però pervenuto il nome del padrone del “pagus” di Felline, che si chiamava Fellone: su questo nome faremo alcune considerazioni.

 

[1] Cfr. Guida-Annuario di Manduria (1984-85), pp.69-78.

[2] Cfr. R. Jurlaro, San Pietro in Bevagna(TA). Il sacello e la chiesa altomedievale nel quadro dell’architettura salentina , in “Studi  in memoria di Padre Adiuto Putignani” (Cassano Murge 1975), p.64.

[3] Cfr. R.Scionti – P.Tarentini, Emergenze e problemi archeologici. Manduria-Taranto-Heraclea (Manduria 1990), p.204 e ss.

[4] Cfr.V.A. Sirago, Puglia Antica (Bari 1999), p.305.

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (II parte)

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di Nicola Morrone

 

LA LEGGENDA DI BEVAGNA

Vari storiografi fanno riferimento, nelle loro opere, al passaggio di San Pietro nel Golfo di Taranto: ricordiamo  tra tutti  Antonio De Ferrariis , detto il Galateo, il quale scrive che “a dodici miglia da Saturo si incontra una chiesa dedicata a San Pietro, il qual luogo dicono che San Pietro venendo dall’Oriente toccasse per primo in Italia, ed ivi sacrificasse”[1]. Il luogo menzionato dal Galateo dovrebbe coincidere con il lido di Bevagna, presso Manduria. In seguito, vari altri storici locali hanno liberamente ampliato il riferimento  galateano. Di fatto, però, l’unico narrato che riporta per intero la leggenda dello sbarco dell’Apostolo a Bevagna rimane  quello dell’erudito  Domenico Saracino o.p., che dedica alla vicenda  alcune pagine della sua opera manoscritta  sulla storia di Manduria. Dell’opera del Saracino esistono due copie, di diverso titolo, data e collocazione. La copia più antica si intitola “Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo, 1741”, ed  è in proprietà privata. La copia più recente è invece conservata nella Biblioteca Comunale “Marco Gatti” di Manduria, e si intitola “Antichità di Manduria oggi detta Casalnovo Raccolta da moltissimi autori, così Paesani, come Greci, e da Manuscritti più antichi che si trovano sparsi per la Provincia d’Otranto. Alla memoria dè Posteri MDCCLXXVIII 1778”. Il manoscritto  è liberamente consultabile in Biblioteca. Per la stesura del presente contributo abbiamo fatto riferimento al testo riportato nel manoscritto del 1741, già pubblicato  dagli storici locali e un tempo riprodotto in un grande pannello cartaceo all’interno del Santuario di San Pietro in Bevagna, a beneficio dei fedeli. La leggenda è quella da noi precedentemente riportata. Nel redigere la sua opera storiografica, il Saracino si è avvalso della consultazione di numerose fonti ,la gran parte delle quali sono a noi sconosciute, perchè l’autore non le ha citate. Essendo un consacrato, avrà verosimilmente consultato le biblioteche monastiche del Salento. Per ciò che riguarda la leggenda petrina, il frate non ha comunque citato la fonte di riferimento. Al fine di verificare se il narrato riportato dal Saracino presenta qualche elemento di verosimiglianza, focalizzeremo dunque la nostra attenzione su alcuni elementi del narrato leggendario.

 

[1] Cfr. Galateo, Liber De situ Japigiae (Basilea 1558), pp.27-28.

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (I parte)

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di Nicola Morrone

 

L’evento fondativo del cristianesimo nel Salento, come è noto, è fatto risalire dalla tradizione alla evangelizzazione delle nostre terra da parte dell’apostolo Pietro, svoltasi a partire dal 42-44 d.C., cioè nel periodo immediatamente successivo alla partenza del santo da Antiochia, prima chiesa cristiana d’Oriente da lui stesso istituita. Tutte le narrazioni riguardanti la presenza dell’apostolo in terra d’Italia, Salento compreso, costituiscono l’ampio corpus letterario noto come “tradizione petrina”: si tratta di una cospicua mole di racconti, considerati spesso leggendari, ma in cui è in realtà difficile distinguere il vero dal falso, anche in considerazione dell’epoca lontanissima in cui sono collocati i fatti narrati.

Le  leggende costituiscono per definizione un misto di elementi autentici e fittizi, spesso strettamente intrecciati : occorre capire se al loro interno si cela un nucleo di verosimiglianza. In questo senso, ci pare utile richiamare l’assunto del Croce, il quale considerava le leggende alla stregua di documenti storici, e sosteneva che “il primo dovere è di rispettarle come documenti”[1]. Lo storico locale A.P. Coco, dal canto suo, sosteneva che “è vero che ci sono delle leggende ovvie, puerili, piene di anacronismi, per questo, però, c’è bisogno di molta circospezione e accortezza nel ritenerle, e anche nel rigettarle”(….) e che” tante volte si perviene finanche a scoprire il nucleo delle leggende, attestanti verità fondamentali”[2].

Con ogni probabilità, il racconto più avvincente che la tradizione ha consegnato ai manduriani, e di cui ogni concittadino, devoto e non, conosce le linee fondamentali , è la leggenda dello sbarco di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna nell’anno 44 D.C., a seguito di un naufragio indotto da un forte vento di scirocco. La leggenda racconta che egli avrebbe convertito al cristianesimo Fellone, il signore del vicino villaggio di Felline, permettendogli, dopo il battesimo avvenuto nelle acque del fiume Chidro, di guarire all’istante dalla lebbra che lo aveva colpito. In seguito, il santo avrebbe convertito, battezzato e guarito dalla malattia le genti vicine, fino a Oria e a tutto il Salento, per poi proseguire il suo viaggio fino a Roma.

La leggenda di Bevagna si inserisce nel più ampio problema storico dell’effettiva attività evangelizzatrice di San Pietro sul suolo pugliese, ancora dibattuto tra gli studiosi. In questo senso, si distinguono due posizioni: v’è chi sostiene che la tradizione petrina (di Bevagna, di Taranto, di Brindisi, ecc.) documentata da fonti altomedievali, “è da ritenere pur sempre leggendaria, perchè non è possibile desumere da queste narrazioni alcun dato storico certo”[3]. Altri ritengono , invece, che “quando esistono in una tradizione una serie di elementi concomitanti di natura storica e geografica che la possono rendere probabile almeno in parte , non è corretto continuare a ritenerla del tutto fabulosa e assurda (almeno fino a quando non saranno stati realizzati studi più approfonditi sull’argomento e sistematiche ricerche archeologiche) e annullare qualsiasi valore alla tradizione orale”[4].

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Più di recente, si è sostenuto che “pur essendo una realtà inconfutabile l’inquietante silenzio delle fonti scritte nei primi secoli del cristianesimo, tuttavia, la Storia dovrebbe fare i conti con una così diffusa e radicata tradizione , vantata in maniera insistente anche nel tarantino e a Manduria”, e che , dunque, “torna utile, in tal senso, un atteggiamento di cauta sospensione del giudizio su questa vexata quaestio , non negare in maniera ottusa e non avallare con qualunquismo, in attesa che la voce dei secoli possa parlare, in un verso o nell’altro”[5]. Infine, non si può tacere l’autorevole parere di C.P. Thiede, il quale ha sottolineato che ”non è possibile scartare la possibilità geografica, pratica e storica di questa tradizione, anche se le sue più antiche tracce documentarie risalgono al Medioevo”[6].

Della “vexata questio” petrina ci siamo occupati per la prima volta in occasione della stesura della nostra tesi di laurea in Agiografia, discussa nel 2005 presso l’Università degli studi di Perugia , intitolata “La tradizione dello sbarco di San Pietro in Puglia. Aspetti e problemi”(Relatrice la chiar.ma Prof.ssa Giuliana Italiani). Dopo aver esaminato tutta la  bibliografia prodotta fino ad allora sull’argomento, concludemmo che quella del passaggio dell’Apostolo in terra pugliese restava  semplicemente un’ipotesi, che andava vagliata con attenzione. In realtà, ci eravamo  convinti che sarebbe stato preferibile  relegare la vicenda , per dirla con il Lenormant, “dans le domaine des fables”. Ma il desiderio di fare luce su una vicenda  dai contorni ancora nebulosi rimaneva: le ricerche personali dell’ultimo decennio, condotte  tenendo conto degli studi più aggiornati, ci portavano allora , inaspettatamente, a ribaltare il nostro vecchio convincimento, aprendoci uno scenario del tutto nuovo, che in questa sede vogliamo proporre al lettore.

 

[1] Cfr. B.Croce, Curiosità Storiche (Napoli 1919), p.159.

[2] Cfr. A.P. Coco, Francavilla Fontana nella luce della storia (Taranto 1941), p.69.

[3] Cfr. C. D’Angela, La chiesa di Taranto, vol.1 (Galatina 1977), p.30.

[4] Cfr. V. Farella, La cripta del Redentore di Taranto, in “Le aree omogenee della civiltà rupestre nell’ambito dell’impero bizantino: la Serbia” (Galatina 1979), p.231.

[5] Cfr. V. Musardo Talò, San Pietro in Bevagna. Un bene culturale da salvare (Manduria 2011), pp.11-12.

[6] Cfr. C.P. Thiede, Simon Pietro dalla Galilea a Roma (Milano 1999), pp.17-18.

Il luogo della memoria: San Pietro in Bevagna tra storia e antropologia

San Pietro in bevagna

di Nicola Morrone

Da tempo, ormai, ci occupiamo delle varie problematiche connesse al santuario di San Pietro in Bevagna. Questo  piccolo luogo di culto, che meriterebbe certo maggiore considerazione da parte della Curia Vescovile di Oria (in relazione alla sua promozione e all’incremento della sua visibilità sul piano religioso e turistico) ha una importanza che, di fatto, supera quella di molte altre realtà consimili.

Ciò deriva dal fatto che il santuario è il perfetto paradigma del “luogo della memoria”, nel senso che a questa espressione attribuisce lo storico francese Pierre Nora. Questi afferma che un “luogo della memoria” è uno “spazio fisico e mentale che si caratterizza per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici , dove un gruppo, una comunità o una intera società riconosce se stessa e la propria storia con un forte aggancio con la memoria collettiva”.

Il santuario petrino, per questi motivi, si presenta emblematico di questa tipologia. Esistono tre luoghi, a Manduria, particolarmente carichi di significato sul piano religioso. Essi sono la Chiesa Madre, la chiesa dell’Immacolata, e il santuario di San Pietro in Bevagna. Sono i luoghi fisici in cui si conservano i simulacri, rispettivamente, di San Gregorio Magno, dell’Immacolata, e di San Pietro Apostolo, portati in processione in occasione delle varie ricorrenze. Essi sono un po’ la “summa” della religiosità mandurina.

Di questi tre luoghi fisici del culto e della devozione, però, solo il santuario petrino si qualifica come “luogo della memoria”, cioè come luogo (cui sono correlati particolari oggetti) direttamente collegato alla presenza del Santo, nella comunemente acquisita coscienza storico/mitica. Proprio in virtù del leggendario passaggio del Santo, il santuario  petrino presenta  per la coscienza collettiva quella che P. Nora chiama “eccedenza semantica”, in grado di stabilire  e generare delle connessioni con esperienze emotive, mitiche, immaginali, capaci di trasferire nel tempo un contatto con le esperienze e i fatti significativi del passato”.Qual è la differenza  tra il santuario sul mare e  gli altri due importantissimi luoghi del culto manduriano? Si sa che nella Chiesa Madre si conservano le due statue di San Gregorio Magno. Il santo fu invocato, nei secoli passati (l’ultima volta, a quanto pare, nel tardo ‘700) per liberare Manduria dalla peste. Di questa intercessione si è naturalmente persa la memoria, e attualmente il Santo si invoca, immaginiamo, per altri motivi. Il santo, però, non è mai stato fisicamente presente a Manduria, e il cappellone,in quanto tale, non costituisce perciò  un luogo dalla valenza mitica, in grado di stimolare la memoria collettiva. Esso rimane un luogo, dal grande valore artistico, simile a tanti altri luoghi del culto. Allo stesso modo, la chiesa dell’Immacolata, in cui è conservata la statua della comprotettrice di Manduria, non si carica di valenze storiche o mitiche tali da riattivare nella collettività manduriana un meccanismo memoriale condiviso. Nel santuario di San Pietro in Bevagna, invece, è ancora pienamente funzionante il dispositivo memoriale storico/mitico, riattivato di continuo, oltre che dalla memoria diffusa del leggendario passaggio di San Pietro, anche dagli oggetti in esso conservati, nella comune opinione legati comunque al passaggio dell’Apostolo. Ogni volta che i pellegrini e i devoti  osservano quegli oggetti (la pietra d’altare, il fonte battesimale, ecc.) riattivano nella loro coscienza il meccanismo memoriale, e dal punto di vista antropologico , ha un ‘importanza del tutto marginale il fatto che  gli oggetti osservati siano o meno prove autentiche del passaggio di San Pietro su questi nostri lidi. La loro presenza tra quelle mura ha consacrato per sempre il santuario petrino come  “luogo della memoria” di importanza eccezionale soprattutto per la comunità manduriana. Sempre rimanendo sul piano antropologico, tra le problematiche  più macroscopiche  correlate al santuario petrino c’è quella relativa alla processione per la pioggia, sulle cui origini si deve ancora fare pienamente luce. Non è questa la sede adatta per richiamare gli studi più significativi sull’argomento (Cirese, Jurlaro, Tragni, ecc.), ma ci pare importante sottolineare che, per il momento, uno studio di questa ritualità si potrà condurre solo sul piano sincronico (confrontandola, cioè, con il funzionamento di  altre ritualità consimili, caratterizzate dalla presenza dell’elemento arboreo/vegetale), dal momento che un’indagine sul piano diacronico è gravemente ostacolata dalla assoluta  mancanza di documenti  che possano fare luce su come la processione arborea si è strutturata nel corso della sua storia. Rimane aperta, tra le altre, la questione dell’origine storica di questo complesso rituale. Recentemente, uno storico locale ha  affermato , probabilmente con eccesiva leggerezza, che la processione è di età controriformata (posteriore, cioè, al Concilio di Trento, che si concluse nel 1563). Altri affermano che essa è piuttosto recente, addirittura, forse, ottocentesca. Noi riteniamo invece che per questa ritualità non si possa escludere un’origine precristiana, come peraltro adombrato da vari studiosi del fenomeno. L’elemento dominante della processione è il simbolo arboreo, recato un tempo dai pellegrini sulle spalle in segno di penitenza, e al tempo stesso di propiziazione della pioggia. Il tronco, di leccio o di quercia, va quindi letto nella sua duplice valenza di oggetto propiziatorio (aspetto pagano della ritualità) e oggetto penitenziale (aspetto cristiano della ritualità). Ci pare, in sostanza, che non si possa escludere che  la processione possa leggersi come un rito pagano, poi orientato in senso cristiano dalla Chiesa Cattolica. Ma uno studio antropologico organico è tutto ancora da fare.

 

Il quadro, il fonte, la pietra. Nuovo contributo sul santuario di San Pietro in Bevagna

Quantcast

di Nicola Morrone

 

E’ nota l’importanza che per la comunità manduriana riveste il santuario di San Pietro in Bevagna, collocato in riva al mare, a 10 km. dalla città, e fulcro della vita religiosa della omonima frazione balneare, popolata soprattutto d’estate. In questa chiesa, non diversamente da quelle che possono vantare un’antichità così alta, ogni oggetto si riveste di un significato particolare, storico, artistico, o devozionale. E ogni opera, anche la piu’ umile, è testimonianza di un passato, spesso remotissimo, e al tempo stesso nostra  contemporanea, per il fatto di essere ancora presente in questo luogo carico di un indiscutibile fascino, e  pronta a suscitare  piu’ di un interrogativo.  sono tanti, nel santuario, gli oggetti che hanno un particolare significato per i fedeli  o i  visitatori, che vi si accostano con  devozione o semplice  curiosità.

Vi sono oggetti che possono vantare una secolare presenza  nel santuario di San Pietro in Bevagna, ed altri che invece vi  sono presenti solo da qualche decennio, o addirittura da pochi anni.

In questo luogo di culto così significativo per il popolo  manduriano, in cui tra l’altro sono rappresentati  i tre principali riferimenti religiosi della nostra comunità (San Pietro, San Gregorio , l’Immacolata) vi sono chiaramente anche i segni di devozioni più recenti, come quella per San Pio da  Pietrelcina (testimoniata da un quadro gia’ collocato nella cappella) e quella tutta particolare per l’Assunta, cui l’ ex parroco Don Enzo di Lauro consacrò in modo particolare il santuario. Solo per citare un altro esempio, nel santuario fecero la loro temporanea comparsa  anni orsono  anche le reliquie di Santa Faustina Kowalska, anch’ella già  rappresentata nella chiesa con la sua effigie.

Vi sono però tre oggetti cui la devozione popolare , da sempre, annette un’importanza maggiore rispetto a tutti gli altri. Essi sono, come è noto, il quadro raffigurante San Pietro, il fonte battesimale, la pietra d’altare, collocati tutti nel cuore del complesso luogo di culto, cioè il cosiddetto “sacello”, ovvero la piccola cripta alle spalle dell’altare maggiore.

Il primo degli oggetti “mitici” , probabilmente il più significativo per la devozione popolare, è il quadro di San Pietro Apostolo, racchiuso in una bella cornice lignea che possiede tra l’altro una complessa decorazione nella parte posteriore, visibile ai fedeli solo durante la processione per la festa del santo, che si svolge il 29 Giugno di ogni anno nella frazione balneare. A questo quadro, cui in passato erano stati applicati tre bellissimi ex voto in argento risalenti alla fine dell’800 ( poi opportunamente ricollocati nel sacello in una vetrina  perchè possano essere ammirati dai visitatori e dai devoti) sono legate come è noto numerose leggende, fedelmente riportate dagli storici locali nelle loro narrazioni e su cui , in questa sede, non vogliamo soffermarci.

Ci limitiamo a riportare quella (del tutto fantasiosa)che vuole che il quadro di San Pietro, nella sua versione originale, sia stato dipinto addirittura da San Luca Evangelista. Nella realtà, una rassegna delle vicende che hanno riguardato il quadro del santo, custodito a Bevagna, è possibile solo per le epoche recenti, visto che per i periodi più antichi  mancano del tutto i documenti. Sappiamo pero’ con  certezza che la storia di questo oggetto e’ stata segnata da continui trafugamenti e relative sostituzioni.

A partire dalla primitiva icona bizantina di San Pietro, non più ricostruibile , l’immagine ha attraversato i secoli, fino ad arrivare al 1914, quando è documentato il suo trafugamento ad opera di ignoti. Il rettore del santuario, allora, commissionò una nuova immagine del santo, che fosse  il più possibile simile a quella trafugata. Fu sollecitata allo scopo  la pittrice manduriana Olimpia Camerario, che realizzò nel corso dello stesso anno il nuovo quadro del santo. Anche questo, però, fu rubato, e sostituito per l’ennesima volta con un altro simulacro.

Nel 1972, su richiesta della Diocesi, dipinse il nuovo quadro il pittore Oscar Testa di Malta, mentre la versione attuale del quadro è una riproduzione fedele dell’immagine realizzata a suo tempo dalla Camerario.

Il secondo degli oggetti “mitici” che la tradizione popolare riconduce al passaggio di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna è la “vasca”, cioè il  fonte battesimale. Davvero un oggetto misterioso, questo  fonte battesimale! E’ ricavato da un blocco di basalto, è alto cm. 55, ha il diametro superiore di cm. 71 e quello inferiore di cm.31.

Da sempre collocato nel sacello “petrino” è, allo stato attuale, l’unica reliquia plastica di una chiesetta rurale di origine altomedievale che certamente, come tutte le cappelle campestri coeve, non doveva possedere alcun altro elemento decorativo scolpito, nemmeno rozzamente realizzato. Si tratta di un’opera che sarà sempre difficile ricondurre ad un preciso ambito culturale o datare con  certezza, per la totale mancanza di elementi figurativi che la caratterizza e per l’assenza, altresì,  di termini di confronto con manufatti similari datati con precisione .

Ai fini di una più compiuta contestualizzazione storica del fonte battesimale e di una conseguente  ipotesi di datazione , forse l’unico elemento che ci può aiutare, del resto  trascurato da tutti gli studiosi, è quello metrologico. Il diametro di base della vasca misura infatti cm.31, cioè un piede bizantino esatto. E il piede bizantino di cm. 31 (usato fino in eta’ normanna) è tra l’altro, come rilevato anni fa dallo studioso R. Jurlaro, la misura utilizzata per la costruzione della cappella medievale e del sacello.

Il fonte battesimale di pietra lavica fa dunque riferimento, in termini metrologici, alla cultura bizantina, e potrebbe quindi essere datato all’epoca della piu’ significativa  presenza dei Bizantini nell’Italia meridionale , cioe’ ai secc. IX-XI.

Siamo abbastanza convinti del fatto che la “vasca” battesimale, cui sono particolarmente devoti i pellegrini, faccia riferimento alla presenza dei monaci italo-greci (i cosiddetti “basiliani”) nel santuario, mentre escludiamo che il manufatto sia stato fatto arrivare in loco dai monaci benedettini d’Aversa che alla fine del sec. XI presero possesso della cappella  e del vastissimo feudo ad essa pertinente (la famosa”grancia” di San Pietro in Bevagna)in seguito alla donazione dei principi normanni.

Oltre al problema della datazione e della committenza, il fonte battesimale pone quello della sua provenienza. A questo proposito, ci pare naturalmente da scartare l’ipotesi che la vasca sia stata realizzata procurandosi la materia prima dai dintorni del santuario. Il manufatto, composto da pietra lavica (basalto) è stato  verosimilmente importato in tempi remoti.

Uno studio scientifico, pubblicato nel  2000  e condotto dal prof. Paul Arthur dell’Universita’ di Lecce (cattedra di Archeologia medievale) ha evidenziato che le rotte commerciali antiche e medievali relative ai manufatti in pietra lavica, coinvolgenti anche il Salento, avevano come punto di partenza le isole dell’Egeo (soprattutto la località denominata Melos) e, dall’altra parte del Mediterraneo, la Sicilia, e in particolare l’area etnea.

Sia i manufatti provenienti dall’Egeo che quelli provenienti dalla Sicilia (Etna) sono probabilmente transitati, con riferimento al Salento, attraverso porti quali Otranto, Brindisi, Gallipoli e Taranto.

Un elenco dei rinvenimenti di manufatti in pietra lavica (essenzialmente macine), su siti della Puglia Meridionale con presenze di età medievale indagati archeologicamente in modo sistematico, mostrano una prevalenza dei manufatti provenienti dall’Etna rispetto a quelli di origine egea. A questo punto, ferma restando la necessità di un’analisi petrografica della roccia vulcanica che costituisce il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna (che potrebbe essere effettuata con la collaborazione e il permesso dell’autorità diocesana), riteniamo che ci siano fondate ragioni per credere, in linea teorica,  che, esclusa naturalmente del tutto un’ improbabile origine locale, la pietra lavica di cui è costituito il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna possa provenire dall’Etna o dall’Egeo. E gli artefici di questa importante committenza, destinata a rimanere per secoli nel santuario (attualmente protetta da un artistico cancello in ferro battuto del secolo XVIII con le iniziali S.P.) saranno stati con ogni probabilità i monaci italo-greci al tempo in cui gestivano la cappella, cioè, ripetiamo, nei secc. IX-XI.

Essi, ben più dei benedettini d’Aversa, potevano inserirsi, per la loro stessa provenienza, nella rete di relazioni e di commercio che coinvolse nel medioevo l’area mediterranea, e  che vide transitare sulle navi oggetti, uomini, idee.

I monaci italo-greci vollero con ogni probabilità realizzare una duratura “memoria” del mitico battesimo di San Pietro Apostolo, avvenuto, secondo la leggenda, nelle acque del fiume Chidro intorno al 44 D.C, e ordinarono che fosse realizzato questo suggestivo manufatto, la “vasca” di San Pietro, che ancora oggi i pellegrini contemplano  con devozione e stupore.

Il terzo degli oggetti “mitici” collocati nel sacello petrino è la cosiddetta “pietra” di San Pietro, che secondo la leggenda servì al santo per celebrare la prima messa  sul suolo italiano, appunto a Bevagna intorno al 44 d.C.

Anch’essa è un oggetto su cui nessuno si è mai interrogato troppo, avallando automaticamente  la predetta ipotesi del tutto leggendaria. La “pietra”, in realtà un blocco di calcare delle dimensioni di cm. 93x40x 40, era in origine collocata all’interno dell’altare che si trovava in fondo al sacello, la cui esistenza è documentata da vecchie fotografie. L’altare fu demolito negli anni ’80, nell’ambito di un intervento di restauro invero discutibile, in seguito al quale si decise di stonacare anche le pareti del sacello, che assunse quindi l’attuale configurazione. La “pietra”squadrata era stata quindi collocata nell’altare posticcio a mo’ di  presunto ricordo  del passaggio di san Pietro e della sua opera di evangelizzazione sui nostri lidi, ed è di fatto indatabile.

Ai fini di una ipotesi di datazione, anche in questo caso, come per il fonte battesimale, forse ci puo’ essere di aiuto solo l’elemento metrologico. La pietra è infatti alta 93 cm., cioè tre piedi bizantini esatti. Solo casualità? A noi pare invece che anche per questo oggetto su cui nei secoli si è concentrato l’interesse  popolare si possa ricondurre tutto all’iniziativa dei monaci italo-greci che a partire dal sec. IX occuparono l’area del santuario. Anche in questo caso, con ogni probabilità, i bizantini avranno voluto produrre una “memoria” del  mitico passaggio di San Pietro su questi lidi, e avranno ordinato la fabbricazione di questo oggetto (che non ci pare certo, come del resto il fonte battesimale, di età apostolica!). Un oggetto realizzato stavolta ricorrendo a materiale di provenienza assolutamente locale, come del resto di provenienza  locale sono i blocchi irregolari di tufo e di arenaria con cui e’ stato realizzato nel medioevo l’intero sacello “petrino”.

La tecnica costruttiva del sacello rimanda chiaramente ad una età remota, e ciò sia detto a scanso di equivoci, dal momento  che questa piccola cappella, su cui esiste una vasta bibliografia, è stata considerata in passato, anche da eminenti studiosi, addirittura alla stregua della cisterna della Torre di San Pietro, la quale invece risale al tardo ‘500, ed e’ stata realizzata con una tecnica del tutto differente.

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