Briganti di casa nostra

Archivio di Stato Lecce, Pref. Gab. Ctg. 28, fasc. 2636

di Fernando Scozzi

Ancora oggi emerge come siano contrastanti  le interpretazioni che i vari indirizzi storiografici danno del brigantaggio meridionale postunitario. Cosicché, la  storiografia di destra che prima condannava il brigantaggio vedendo in esso la personificazione della reazione borbonico-clericale, oggi  lo  rivaluta  facendolo assurgere a lotta partigiana contro l’invasore  piemontese,  mentre gli storiografi di sinistra, che fino ad un certo periodo hanno  visto  nel  brigantaggio  i  prodromi  delle  lotte  contadine  contro la protervia dei galantuomini, usurpatori dei demani, oggi lo condannano vedendo in esso più l’aspetto delinquenziale che quello politico. In effetti, non fu l’unificazione nazionale a creare il brigantaggio, perché le molteplici cause di questo fenomeno, da sempre esistito, non sono di origine politica, ma di origine sociale. I presupposti per lo sviluppo della rivolta si svilupparono sotto i Borbone e se pure a Napoli e in Campania c’erano delle isole felici, (dovute alla presenza della corte e di alcune industrie manifatturiere) nel resto del Regno delle Due Sicilie e specialmente nelle campagne, si  viveva nella miseria. Il caos politico e sociale scatenato dall’unificazione, la leva militare, le tasse, l’usurpazione dei demani (che i Borbone, comunque, non avevano provveduto a far dividere fra i contadini)  la politica anticlericale del governo, innescarono la miccia. Ma  non ci fu un brigantaggio politico, bensì un brigantaggio utilizzato per fini politici. E’ lo stesso Pasquale Villari a scrivere che il brigantaggio meridionale antico e contemporaneo trae unicamente origine dalla triste condizione delle popolazione, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; il brigantaggio altro non è che una questione ardente agraria e sociale. I borbonici, quindi, strumentalizzarono il malessere del Mezzogiorno servendosi del brigantaggio per impedire la stabilizzazione del nuovo ordine. I briganti accettarono il patrocinio politico perché  in  questo  modo  le  loro imprese uscivano dal  novero  delle azioni delinquenziali   e  della mera vendetta contro i signorotti locali per assurgere a lotta politica contro l’invasore piemontese. In realtà, sia i briganti che i borbonici combattevano per scopi diversi e si servivano gli uni degli altri.   La comunanza  di  interessi  si  ruppe  per  il mancato intervento delle Potenze assolutistiche europee nel Mezzogiorno e per il conseguente rafforzamento dello Stato unitario. A quel punto, chi dalle retrovie aveva soffiato sul fuoco della rivolta si dileguò; ma i briganti non potevano tornare indietro e furono fucilati, deportati, massacrati senza pietà.

In Terra d’Otranto non c’erano le condizioni per una rivolta di grandi dimensioni, perché – scriveva un funzionario di pubblica sicurezza al prefetto –  la Provincia di Lecce non sarà mai la prima a ribellarsi contro l’attuale ordine di cose, essendo pronta sì alla parola, ma tarda, anzi nemica di ogni azione. I leccesi hanno buone viscere, calda fantasia, facile parola,  ma tardo il braccio.   In realtà, più che di brigantaggio si può parlare di gravi problemi di ordine pubblico per evitare i quali  era necessario assicurare pane e lavoro ai contadini che, ben presto, iniziarono a manifestare il loro malcontento. Il contadiname del piccolo Comune di Surbo – infatti – falsamente imbevuto dell’idea del rientro in Napoli di Francesco II,  si abbandonava dall’avemaria fino alle ore sette  circa  della sera di domenica 10 marzo, alle maggiori sfrenatezze reazionarie imperocché,  principiando a gridare in piazza “Viva Francesco II , Abbasso la Costituzione”, in più centinaia si davano a percorrere le vie del paese, continuando sempre nelle stesse grida e portando un lenzuolo bianco come vessillo. Nel giro che facevano abbatterono gli stemmi reali, mentre nel corpo di guardia venivano presi e rotti alcuni fucili e bistrattato un militare in servizio che tostamente se la svignava per la paura. Poscia aggredirono diverse persone che avevano fama di liberali arrecando loro molti danni. Al municipio si davano a sconquassare la poca mobilia, rompendo i quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, nonché disperdendo diverse carte dell’archivio, molte delle quali bruciarono in piazza. E durante il tumulto alcuni dei più facinorosi gridavano: “ Vittorio Emanuele, che ci dai? Noi moriamo di fame e dobbiamo rivoltare per farci dare lavoro. A Marittima la popolazione insorse il 23 marzo 1861 mentre i tumulti si propagavano nei comuni di Ortelle, Andranno e Spongano. A Taviano, nel corso di un tumulto popolare scoppiato il 7 aprile 1861, fu ucciso Generoso Previtero, primo eletto del Comune, mentre la rivolta si estendeva rapidamente ai limitrofi comuni di Racale, Melissano e Alliste dove  furono  devastati  i locali del municipio e fatto un corteo con l’immagine di Ferdinando  II.

Ma la causa scatenante della rivolta è da ricercarsi nella legge per la coscrizione militare, obbligo fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno d’Italia, che privava le famiglie dell’apporto indispensabile dei figli più giovani i quali non intendevano marciare sotto le bandiere di uno Stato lontano e sconosciuto. A Vernole l’affissione della lista dei reclutabili provocò un tumulto popolare con grida ostili e laceramento della medesima, mentre a Gallipoli un centinaio di popolani e di pescatori, si spinse fino al palazzo municipale fra le grida: Non vogliamo la leva! Abbasso il Municipio, Viva la libertà! La guardia nazionale, prima di essere sopraffatta da una violenta sassaiola, aprì il fuoco; quando la folla si dileguò rimasero sul terreno due morti e numerosi feriti.

Furono quindi i renitenti alla leva, uniti ai soldati sbandati del disciolto esercito borbonico a costituire le prime bande brigantesche anche nel Salento meridionale. Gli ex soldati borbonici, infatti, rientrati a casa col rancore di una perduta carriera, non avevano altra prospettiva che il duro lavoro dei campi e si comprendere benissimo come la possibilità di darsi alla macchia  e spadroneggiare col pretesto della difesa del trono e dell’altare, costituisse per alcuni di loro una valida alternativa.  Fra questi,  Rosario Parata, alias lo Sturno che dopo il 1860, soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, ritornò a Parabita. Lo Sturno era un brigante “sui generis” perché non si macchiò mai di delitti di sangue. Si faceva annunciare da uno squillo di tromba e al grido di Viva Francesco II,  irrompeva nei vari centri abitati sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni e disperdendo i militi della guardia nazionale. Così invase  Supersano, Nociglia, Scorrano e Gagliano, dove prese un caffè e poi attraversò la pubblica piazza con i fucili spianati. Nel 1864, venne catturato. Processato, fu condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, fu trovato morto in carcere.

L’esempio dello Sturno fu seguito da alcuni renitenti alla leva di Carpignano, Borgagne e Martano i quali costituirono una banda brigantesca capitanata da Donato Rizzo, alias Sergente e il 7 agosto 1861 penetrarono in Carpignano impadronendosi dei fucili della Guardia Nazionale e ingaggiando un conflitto a fuoco con i carabinieri nel bosco del Belvedere.

Molto più pericolosa si rilevò la banda capeggiata  da Quintino Venneri, detto Macchiorru, di Alliste. Costui,  partito  militare  nel  1859,   ritornò in   Alliste  nel 1860 come sbandato del disciolto esercito borbonico e il 7 aprile 1861 prese  parte al tumulto popolare scoppiato a Taviano. Fu arrestato ed uscito dal carcere l’anno seguente, si diede alla macchia.  Attorno a lui si raccolsero una ventina di persone, fra le quali il melissanese Barsanofrio Cantoro anch’egli sbandato del disciolto esercito borbonico, il gallipolino Scardaffa, Ippazio Gianfreda, alias Pecoraro, di Casarano, Vincenzo Barbaro, alias Pipirusso, di Alliste, Giuseppe Piccinno, di Supersano, detto Mangiafarina. Questa banda, il 25 giugno 1863, penetrò in Melissano per derubare e poi uccidere don  Marino Manco, uno dei pochi sacerdoti della diocesi di Nardò favorevole all’unificazione nazionale. Ma  le azioni delinquenziali del Venneri non finirono qui perché, pochi giorni dopo l’assassinio del Manco, assaltò il carcere di Ugento per liberare suo fratello, ivi recluso; ferì un carabiniere, si rese responsabile di numerosi furti ed estorsioni. Arrestato, riuscì ad evadere dal carcere di Lecce e infine, il 24 luglio 1866, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri,  dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano.  Il suo corpo fu esposto, come monito,  sulla piazza di Ruffano.

Nella zona di Alliste operava anche la banda di Salvatore Coi che nel 1865 arruolò soldati sbandati nei Comuni di Racale, Alliste e Felline, con la promessa di quattro carlini al giorno e di saccheggio delle abitazioni dei liberali. I briganti costrinsero quindi il sindaco di Alliste a consegnare 12 fucili e dopo aver requisito altre armi si diressero verso Melissano, ma si scontrarono con i carabinieri e si diedero alla fuga. La banda fu poi catturata dalle forze dell’ordine nei pressi della masseria “Campolusio”, in agro di Ugento.

Con la morte dello Sturno e di Macchiorru  e con la cattura del Coi,  il brigantaggio nella nostra provincia poteva dirsi esaurito; rimanevano i problemi di una terra cui occorreranno decenni per uscire dalle nebbie del sottosviluppo.

Solo un’autentica rivoluzione popolare avrebbe potuto risolvere il problema agrario, coagulando intorno al nuovo Stato il consenso delle masse contadine.  Ma nel Mezzogiorno, l’Italia nasceva per opera di una minoranza che, assediata dal malcontento, consegnò le province napoletane alla monarchia sabauda. I meridionali si rassegnavano ancora una volta alla fame e alla miseria, mentre la borghesia celebrava il trionfo della sua rivoluzione.

Lettera minatoria al sindaco di Laterza per la mancata divisione dei demani comunali.

Lo Sturno e il brigantaggio meridionale

di Paolo Vincenti

Il brigante Giuseppe Schiavone

Sull’Unità d’Italia molte pagine sono state scritte, così come su quel gigantesco fenomeno sociale che va sotto il nome di Brigantaggio. All’indomani dell’Unificazione, si aprì una lunga fase di intensi dibattiti, che coinvolse moltissimi intellettuali del Sud, e che fu chiamata “questione meridionale”.

Quel che è certo è che, nel 1861, l’unificazione della penisola aveva lasciato molti nodi non sciolti, molte contraddizioni interne al Paese che, come una bomba sarebbero esplose e le cui conseguenze sarebbero state devastanti. Vennero uniformate la moneta, le dogane, i regolamenti di pubblica sicurezza e di sanità; un Governo centrale, con sede a Torino, governava per tutto il Paese ed un Parlamento nazionale legiferava erga omnes. Però, molti erano i problemi ancora da affrontare, sempre più forte il divario fra il Nord, avviato ad un futuro di ricchezza ed industrializzazione, ed il Sud, che invece si ripiegava su se stesso; miseria, analfabetismo e condizioni di vita molto precarie avevano esasperato gli animi e acuivano quelle tensioni sociali da cui, per buona parte della sua storia, la nuova Italia sarebbe stata dilaniata. Soprattutto nel Sud, si avvertiva una tensione sociale fortissima che da un momento all’altro poteva portare a dei conflitti non più domabili. E infatti, si arrivò ben presto all’inevitabile e il brigantaggio si trasformò in un grande sobillamento di masse, che scosse per alcuni anni a fondo la vita del Meridione d’Italia.

I vecchi governanti, i Borboni, erano stati destituiti e si era insediata una nuova classe dirigente che si apprestava a guidare il Paese in condizioni non facili. Vi era stato un processo di unificazione forzata, che non era partito dal basso, dal popolo, ma era stato calato dall’alto. Le plebi contadine erano affamate e chiedevano disperatamente una soluzione per il problema delle terre; il prelievo fiscale introdotto dal nuovo Stato finiva per oberare solo i ceti meno abbienti, che sprofondavano ancora di più nella miseria, mentre i “galantuomini” scesero subito a patti con i Savoia e si riciclarono nella nuova classe dirigente. La plebe non capiva e non si poteva adeguare ai modelli di vita imposti dai Piemontesi, i quali apparivano come dei nuovi “conquistatori”, con la conseguenza che il popolo era passato dai vecchi ai nuovi padroni. Si era aggiunta, cioè, la beffa al danno, perché gli arroganti e spocchiosi dirigenti piemontesi, pur parlando la stessa lingua, sembravano ancora più distanti dalla antica cultura del Mezzogiorno di quanto lo fossero stati i Borboni. Questi ultimi seppero coagulare, intorno alla disperazione e al malcontento, tutti i nostalgici dell’antico regime che si organizzarono in un vasto movimento di opposizione al nuovo Stato.

Molti di questi miserabili scelsero la lotta armata e si riunirono in bande che determinarono il triste fenomeno del brigantaggio.

Francesco II di Napoli

Francesco II, da Roma, dove si era rifugiato dopo la caduta di Gaeta, cercò di sfruttare a proprio vantaggio questo vasto malcontento delle plebi del Sud ed alimentare, anche grazie all’appoggio del clero reazionario, il brigantaggio, nel quale erano confluiti tutti coloro che erano rimasti senza lavoro dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico e che erano chiamati “sbandati”. I governi della Destra nazionale cercarono di reagire a questo fenomeno, ma i rimedi adottati per combattere quel male furono assai più dannosi del male stesso. Ma dato che “le parole sono pietre”, per dirla con Carlo Levi, anche il termine “male” non deve avere un valore assoluto con riferimento al fenomeno del brigantaggio.

Bisogna, infatti, tener conto che, il più delle volte, questi briganti agivano con l’appoggio popolare e con l’appoggio tacito delle amministrazioni locali; che non tutti i briganti erano dei malavitosi e commettevano delitti; e ancora delle attenuanti storiche che aveva il brigantaggio.

Un tipico esempio di brigante galantuomo è proprio il nostro “Capitan Sturno”. Chi era lo Sturno? L’anno scorso, in occasione della terza Festa dei Briganti, organizzata a Parabita dalla compagnia teatrale Prosarte, in collaborazione con l’Archivio Storico Parabitano, diretto da Aldo D’Antico, è stata riscoperta la figura di questo leggendario personaggio parabitano, vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. Questa figura di bandito gentiluomo era stata troppo a lungo dimenticata, probabilmente per un processo mentale imposto da fattori inibitori che avevano portato i discendenti di questo personaggio a rimuoverne la memoria. Molti briganti rubavano, uccidevano, assaltavano i municipi delle città, saccheggiando e depredando tutto quello che potevano. Ma quella dello Sturno è una figura che spicca, nell’ambito del brigantaggio salentino, perché del tutto originale.

Rosario Parata nasce nel 1831 a Parabita e, a causa dell’indigenza in cui versava la sua numerosa famiglia, decide di arruolarsi nelle file dell’esercito borbonico, giurando fedeltà alla Corona. Sciolto l’esercito borbonico dai Piemontesi, Parata ritorna nella sua Parabita che si trova in piena crisi, fra le tensioni opposte dei monarchici conservatori e i neo liberali di ispirazione sabauda. Il lavoro scarseggiava e i soprusi della borghesia locale, che aveva soppiantato la vecchia aristocrazia, erano evidenti. Parata si ribella a questo stato di cose. Egli, profondo conoscitore del territorio ed abile cavallerizzo, riunisce alcuni suoi amici, che condividevano il suo stesso disagio, e diviene il loro leader. Con il soprannome di “Capitan Sturno”, imperversa nell’entroterra salentino, negli anni fra il 1861 ed il 1864, e diviene molto famoso.

Il Governo ordinò una durissima repressione del fenomeno del brigantaggio e mandò la Guardia Nazionale, insieme alla polizia e all’esercito: una mobilitazione spaventosa per un totale di 120.000 uomini.

Fu presentata alla Camera, nel 1863, una Relazione, da parte della commissione parlamentare Massari, costituita per indagare sulle “ragioni sostanziali”, come si disse, e sulle “cause predisponesti” del fenomeno. Questa commissione, che dimostra la volontà da parte del governo centrale di andare a fondo al problema, additò le ragioni del brigantaggio nella distribuzione delle terre, che aveva penalizzato fortemente i contadini, nei patti agrari, onerosissimi per i contadini, e più in generale nelle tristi condizioni economiche e sociali del Meridione.

Purtroppo, sulla volontà di capire ed interpretare il fenomeno, prevalse la linea della fermezza e della repressione armata e il Parlamento votò, nel maggio del 1863, la Legge Pica – voluta dalla maggioranza moderata e duramente contestata dall’opposizione democratica- che prevedeva la competenza dei Tribunali militari a giudicare i briganti e i loro complici, mentre l’esercito andava compiendo la difficile opera di “normalizzazione” e di riduzione all’ordine dei ribelli.

Fra il 1 giugno e il 31 dicembre 1865, i briganti uccisi in combattimento o fucilati furono 5212, quelli arrestati e condannati 5044, quelli costituitisi alle autorità 3597. Le bande dei briganti erano costituite, in media, da 100-150 elementi ed avevano una organizzazione di tipo militare, una casacca comune e combattevano con la tecnica della guerriglia. Accanto a queste grosse bande, animate da un ideale politico, vi erano le piccole bande, che potevano essere composte anche da una decina di elementi, ed erano ladri ed assassini che praticavano il brigantaggio comune.

In occasione della riscoperta della figura di Rosario Parata, Aldo D’Antico ha pubblicato un opuscoletto, che fa parte della sua collana “Documenti” (Il Laboratorio editore), dal titolo Lo Sturno.

Il Parata, come scrive D’Antico, indossava la divisa dell’esercito borbonico e irrompeva nei vari centri sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni. Molte furono le sue imprese, che gli fecero guadagnare la fama indiscussa di leader del brigantaggio salentino. Con la sua banda di 50-60 elementi, metteva lo scompiglio nei centri salentini. Egli si faceva annunciare da uno squillo di tromba e, al grido “Viva Francesco II”, dava la carica insieme ai suoi accoliti, lasciando spesso a bocca aperta la Guardia Nazionale. Egli era sì spavaldo, ma leale e coraggioso e non si macchiò mai di delitti. Nel 1864, viene catturato. Processato, viene condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, viene trovato morto in carcere: probabilmente avvelenato, come accadeva a molti briganti dell’epoca per essere eliminati silenziosamente.

In seguito alla atroce campagna di polizia voluta dal Governo Minghetti, vennero eliminati non solo i criminali ma anche tanti innocenti; vennero perfino bruciati molti ettari di boschi per scovare i briganti: questa giustizia sommaria coinvolse, oltre ai ribelli, anche i cosiddetti “manutengoli”, cioè preti, monaci e parenti dei briganti, gregari, insomma, che davano il loro appoggio, spesso solo ideale, ai ribelli. Insieme a questi straccioni affamati, vi erano anche le famiglie dei grandi proprietari terrieri che non di rado ispiravano clandestinamente il brigantaggio locale, pur chiamandosi ufficialmente fuori dai contrasti politici. Questi signori riuscirono sempre a farla franca e ad evitare le condanne che i tribunali dello Stato infliggevano invece ai “cenciosi”, come lo Sturno, brigante atipico, che Parabita ha ora riscoperto.

Pubblicato su “Città Magazine”, 7-13 aprile 2006 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

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