Il tarantolismo e il medico di Muro Leccese Giuseppe Ferramosca

Sullo strano caso di tarantolismo esaminato dall’illustre medico cerusico Giuseppe Ferramosca in quel di Muro in Terra d’Otranto il 3 Giugno 1834

 

di Romualdo Rossetti

 

Giuseppe Ferramosca (Muro 20 aprile 1780 – 16 aprile 1867)

 

Nato a Muro[1] in provincia di Terra d’Otranto il 20 aprile del 1780 da Antonio Ferramosca, di professione medico-cerusico e speziale come lo era stato anche suo nonno Luca, e dalla nobildonna Teresa Foscarini, Giuseppe Ferramosca dimostrò fin da fanciullo di possedere lo sguardo di Asclepio[2] e quell’inclinazione all’esercizio dell’arte lunga ereditata dai suoi avi, tanto da decidere d’intraprendere gli studi medici soli quindici anni d’etàNel 1801 si trasferì nella capitale del suo Regno per perfezionarsi nella disciplina medica presso l’Università Regia degli Studi di Napoli. Lì divenne allievo del celebre medico filosofo massafrese Francesco Nicola Maria Andria[3] che lo orientò verso studi di carattere fisiologico che lo avrebbero più tardi avvicinato alla nuova concezione medica, per certi versi rivoluzionaria per l’epoca, legata alle concezioni di Philosophia Naturalis del medico scozzese John Brown che a partire dal 1778 aveva cominciato a elaborare una teoria iatrica detta “brownismo”o “eccitabilismo” basata sull’eccitabilità del cervello e delle fibre muscolari da parte dell’ambiente esterno.

Francesco Nicola Maria Andria

 

John Brown

 

Il medico scozzese si palesò sicuro delle sue tesi al punto da essere convinto che se gli stimoli esterni fossero venuti meno, si sarebbe configurata, conseguentemente uno qualsivoglia patologia fisica. Teorie, le sue che vennero combattute dai maggiori medici inglesi dell’epoca. Nonostante ciò si può affermare che il successo lo ricevette con gli interessi altrove, Italia compresa. Così, sulla scia del medico patologo parmense Giovanni Rasori, che nel 1792 aveva tradotto e divulgato in Italia gli Elementa Medicinae di John Brown, nel 1803, a Napoli, Ferramosca diede alle stampe la sua prima opera scritta intitolata: Il sistema di Medicina di Brown[4].

Giovanni Rasori

 

Secondo il “Brownismo” la vita nella sua essenza non era affatto uno stato normale e spontaneo ma, al contrario, andava concepita come fosse quasi uno stato artificiale, costretto e mantenuto da continui stimoli, per cui le condizioni di salute o di malattia dipendevano dalla dosatura degli stimoli, ovverosia dal grado di eccitabilità dei vari organi. Tuttavia, la pratica browniana palesava, di fatto quanto fosse arduo diagnosticare uno stato di astenia o di iperstenia e eventuali gradi eccitabilità in un paziente. L’accertamento dello stato di salute di un malato si basava principalmente su un’anamnesi di stimoli patiti in precedenza che erano inseriti in una vasta gamma di variabili, come potevano essere: le condizioni climatiche del luogo, il regime alimentare dell’individuo esaminato insieme al suo stile di vita, sulla misurazione del polso e soprattutto su “prove terapeutiche”, atte a esaminare la reazione fisica all’introduzione di sostanze stimolanti leggeri o forti. Secondo terapia browniana era necessaria una stretta e continua osservazione del paziente che di fatto risultava difficile da effettuare tanto in clinica quanto in ambito domiciliare. Oltretutto i trattamenti con stimolanti risultarono ben presto essere molto esosi per tutti quei malati non facoltosi. Anche il problema della dipendenza dalle droghe rischiava di divenire sempre più evidente. Alcuni commentatori contemporanei denunciarono alcuni eccessi di utilizzo di oppio e di alcol che finirono col nuocere ai pazienti. In ogni caso, con la sua enfasi sui trattamenti stimolanti e rinvigorenti il brownismo aveva generato anche dei seri dubbi sul valore della terapia evacuante classica costituita da prescrizioni di salassi, di purghe e di sostanze emetiche. Per molti pazienti indeboliti non solo dalla loro malattia, ma soprattutto dalla classica applicazione della dottrina galenica, risultò senza ombra di dubbio alcuno più vantaggioso un trattamento secondo i nuovi principi browniani. Fu proprio la vicinanza teorica all’eccitabilismo che fece diventare il Ferramosca un attento osservatore dei tanti casi di tarantolismo che ciclicamente affliggevano i contadini della sua terra, come vedremo più avanti nel dettaglio. L’anno seguente, nel 1804, a dimostrazione, del suo interesse per la scrittura e la ricerca medica pubblicò, sempre a Napoli un Trattato teorico-pratico sulla Podagra[5], male che affliggeva prevalentemente la classe agiata.

Al ritorno dalla sua parentesi universitaria partenopea, per la stima dei suoi concittadini divenne sindaco del suo paese dal 1827 al 1831e operò a favore delle politiche igieniche acquisite con l’abnegazione allo studio. Durante il suo mandato amministrativo individuò quale potesse essere migliore area dove erigere lontano dall’abitato il nuovo cimitero. Si scelse l’area adiacente al vecchio monastero basiliano di Santo Spirito che, ripristinato al culto cattolico e affidato alle cure dei Padri Predicatori dal feudatario Giovan Battista I° Protonobilissimo nel 1561[6], tanta fama aveva avuto in passato per la diligenza negli studi teologici e filosofici così come fedelmente ebbe modo di riportare lo storico Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese:

Alla parte del Nord di questo diruto Convento si costruì il pubblico Cimitero, e quest’opera che tanto interessa la pubblica salute, la religione e la mesta memoria dei nostri che furono, venne eseguita non appena gli Amministratori Comunali ne compresero l’importanza e l’utilità. Governava nel 1830 il Distretto di Gallipoli il Sottintendente Filangieri ed il Comune Giuseppe Ferramosca, ed in quell’anno appunto si gettarono le fondamenta del Cimitero.[7]

Cav. Comm. Luigi Maggiulli

 

La dedizione all’arte medica fece sì che intorno alla figura del dottor Ferramosca si consolidasse una sorta di legenda aurea tanto da farlo paragonare a una specie di medico anargiro di antico stampo. Circolava voce che un giorno, udendo per caso, il canto cristallino di un suo emaciato compaesano carrettiere, avesse inviato una sua donna di servizio a fermarlo e a invitarlo nel suo studiolo. Una volta giunti in loco il dottor Ferramosca lo avrebbe invitato a chiudersi in uno stanzino e a defecare in un alto pitale in cui precedentemente aveva disposto sul fondo del latte di mucca insieme ad altre non meglio specificate sostanze. Alle rimostranze dell’uomo, il dottore gli avrebbe imposto la sua volontà riuscendo a liberare gli intestini del malcapitato da un lungo creatura serpentiforme che non si sa come avesse trovato in quelli collocazione. Con gli occhi di oggi, molto più disincantati di quelli del popolino agricolo di quel tempo, quel lungo essere serpentiforme altro non sarebbe stato che una taenia che da parassita naturale aveva colonizzato, a causa delle scarse condizioni igieniche alimentari, l’intestino del malcapitato carrettiere.

Fu presumibilmente intorno alla prima estate del 1834 o alla mezza estate precedente[8], che giunse a Muro presso il suo ambulatorio una donna proveniente da Otranto che lamentava varie tipologie di sofferenze, in primis un forte bruciore alla laringe. Il dottor Ferramosca ebbe modo di annotare tutto ciò che accadde in sua presenza per pubblicarlo poi presso una prestigiosa rivista medica milanese a cura di Carlo Giuseppe Annibale Omodei intitolata Annali Universali di Medicina. In quella sua nota diligentemente descrisse quanto segue:

Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile: si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e di uno sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua sofferenza. Le sostanze fetide aggravavaano le sofferenze, le quali non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da un altro medico, otto giorni dopo il principiar del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati al vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto dietro uno sforzo di vomito e di tosse si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella. Sorpreso il dottor Ferramosca, cominciò ad indagare in qual modo la tarantola potè cacciarsi nella  gola di quella donna, e rilevò, che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto  con alcune sue giovani compagne, e colà avendo la prima  trovato un grappolo di uva primáticcia già quasi maturo,  pompa avendone fatto, accorsero le compagne perché di mano glielo togliessero, ed ella fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte, senza aver tempo di ben frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini d’uva. Il carattere dignitoso e grave del signor Ferramosca, già noto qual distinto pratico per varj suoi medici articoli, non permette che abbia a ritenersi questo fatto come immaginato per esaltare gli animi degli appassionati del tarantismo.

 

Carlo Giuseppe Annibale Omodei

 

 Il singolare caso esposto dal Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina del 1835 sollevò la critica dell’opera di Carlo Giuseppe Annibale Omodei che ebbe modo di addurre alcune interpretazioni divergenti, proprie del mondo medico di altre zone della penisola italiana, riguardo l’effettiva utilità di quella terapia coreutica (il ballo) da sempre ritenuta dai medici pugliesi come l’unica capace di placare le sofferenze dei tarantolati. Si esibì come riprova anche la testimonianza del dottor Migliari che esaminando un caso di morsicatura da tarantola nel bolognese ebbe modo di osservare una ben diversa evoluzione della malattia che non vide certo il malcapitato ballare come accadeva invece nel Salento, il che lasciava supporre che la terapia coreutico-musicale appartenesse proprio all’etnos dei pugliesi e non a quello di altri popolazioni:

Cosi ancor la pensa il chiarissimo cav. Migliari, il quale per altro lungi dall’accreditar l’opinione volgare, che la tarantola costringe a ballare coloro che ne sono morsicati, inclina a credere, che la danza sia l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella indescrivibile smania, che al pari di quanto accade in altre malattie di cruccio, obblighi li pazienti a varj non indifferenti movimenti, che col saltellamento incominciano onde ritrarre dal dolore qualche sollievo. Inclina altresì a credere, che il ballo sia in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi, e non del morso della tarantola, e che il suono sia il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Confermasi egli in questa idea nel riflettere, che nel giovine morsicato dalla tarantola nel Bolognese (di cui esso parlò a pag. 99 del suo Osservatore Medico per l’anno 1825) si riscontrò in vece irresistibile tendenza al sonno ed estrema prostrazione di forze, e che senza ricorrere, anzi neppur pensare alla musica, guarj con rimedj tolti alla farmacia…

 

Nell’articolo degli Annali si rincarò la dose di deplorazioni riguardo quella terapia antiscientifica  adducendo come riprova altre prestigiose testimonianze che ne smentivano, di fatto,  l’efficacia:

…nel riflettere al coraggio del dottor Sanguinetti, che osò farsi dalla tarantola mordere nella più ardente stagione, senza riportarne alcun male: nel riflettere , che li due infermi ( O. M. pag. 144 , 1827 ) del dott. Spizzirri, di Marano, in Calabria, risanarono senza liuti, senza chitarre e senza medico, avendo ad essi un di quei ciurmadori apprestato un bagno coi vapori di vino aromatizzato; nel riflettere, finalmente, che il Wirtzmann in Odessa, ove si trovano molte tarantole, osservò pure, che i morsicati provavano del sollievo nell’eseguire un moto che ha qualche analogia col ballo. – Non volendo però noi defraudare i nostri leggitori della conoscenza di altri aneddoti, che hanno avuto luogo sul proposito, diremo, che il chiarissimo prof. De Renzi[9], nei 45 giorni, pei quali s’intertenne nella capitale della Francia, eccitato da lettera d’invito del dotto Segretario dell’Accademia di Medicina di Parigi, comunicò a questa il suo lavoro, di cui rendemmo conto nel cennato vol. LXVIII di questi Annali. Nel che la prelodata Accademia adottando un dottissimo rapporto dei suoi commissarj Andral e Virey, trovò riprensibile e quanto era stato detto circa talune particolarità nella storia naturale della tarantola, e riguardo alla etimologia di una tal voce, che intorno alle mediche conchinsioni da lui dedotte. Opinarono li valenti Commissarj Virey ed Andral Seniore (Numero XII 1834 dell’O. M. del chiarissimo cav. Migliari, e. num. XLIV. Agosto 1834 del Filiatre Sebezio), che gli aragni arabi comunicano nel morso un veleno col quale uccidono anche dei piccoli vertebrati, ma ch’essi fuggono l’uomo;

2.º che in niun’altra regione la tarantola è pericolosa;

3.º che i sintomi, che attribuisconsi alla tarantola, si debbano ripetere dall’amore, dalle passioni ardenti, ecc.

Al che anzi ne aggiugne il De Renzi, che il sig. Delle Chiaje non ha trovato nelle tarantole un apparecchio ghiandolare proprio per segregare un veleno, ma soltanto l’apparecchio ghiandolare comune. Li giornali francesi han trattato l’argomento, ciascuno secondo la sua opinione, senza tutti pro nunziarsi per la negativa assoluta. Resa poi di pubblico di ritto la istoria del dottor Ferramosca nel num. XII dell’O. M., di cui è qui parola, venne al prof. De Renzi drizzata una lettera anonima, che fu da lui nel quaderno di agosto 1834 del suo Filiatre originalmente trascritta, ed in cui figuravano alcune riflessioni critiche sulla Memoria del dottor Ferramosca.

Ma in risposta a queste critiche osservazioni altra lettera anche anouima è stata spinta al medesimo signor De Renzi, il quale bramoso di letteraria discussione che tenda alla ricerca della verità, bramoso di preferire i fatti alla sua propria opinione ed il bene della umanità al suo amor proprio, si è tosto dato premura inserirla nel fascicolo di gennajo corrente anno 1835 del suo Filiatre senza comento alcuno , riservandosi (son sue parole) di trattare più lungamente a suo tempo questo argomento.

Or delle due Note degli Anonimi in censura ed in apologia del Tarantismo, non che in censura ed in apologia del fatto riferito dal Ferramosca si avrebbe qui ora a tenere ragionamento critico. Siccome per altro ognun vede, che trattasi di un fatto, in cui non può portarsi giudizio senza dipendere dalle osservazioni altrui, cosi amando di rimetterci a chi voglia e sappia consultare con sana filosofia l’istoria dei fatti nella patria del tarantismo, attenderemo la novella gita, che colà si propone di fare sul subbietto il prof. De Renzi; ovvero attenderemo che per opera di chicchessia istituite vengano e rese di pubblico conto 320 imparziali osservazioni, ed in buon numero, e nelle debite norme dell’autenticità.

Troviam plausibili i dubbj, e giudizîose assai le riflessioni del chiarissimo estensore dell’Osserv. Medico, l’amico cav. Magliari ed i leggitori nostri il decidano. “Per comun consentimento di tutti si conviene, che il morso della tarantola comincia dal destare un atrocissimo dolore, una indescrivibile smania: ciò posto, qual meraviglia se colui che ne viene affetto cominci dal saltellare pel dolore e con qualche sollievo? E non è questo quanto avviene a chiunque è improvvisamente colpito da un vivissimo dolore? … e dimostra forse tranquilli nel loro letto coloro che sono vessati da forti dolori, specialmente intestinali? Non si vedono essi con sollievo aggirarsi per le loro camere?

Se dunque molte altre malattie spingono gli infermi a non indifferenti movimenti, perché far di questi movimenti un esclusivo fenomeno de’ tarantolati? … In Calabria in Odessa, ecc., il morso della tarantola non è innocuo, spinge gli infermi ad un movimento, ma non al ballo dei pugliesi, e guariscono senza la loro musica: non potrebbe forse star dunque, che il ballo sia l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi e non del morso della tarantola, e che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia?

D’altronde, quantunque sia ben vero, che il chiarissimo Compilatore del Filiatre-Sebezio l’amico prof. De Renzi, appoggiato a due casi non caduti sotto li suoi occhi e che non escono dalla sfera dei già osservati, si mostri nel suo primo lavoro piegato alla conchiusione di riconoscere il tarantismo, nulla di manco confessar fa d’uopo, ch’egli non mira ad accreditare in tutta la estensione loro i pregiudizj del volgo pugliese. Egli vi riconosce la prevenzione, l’esaltamento cerebrale, il prestigio della fantasia la dubbiezza di buona fede bene spesso dei pazienti, l’età della maggiore energia delle passioni. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantate per nascondere più grave ferita che le fa delirare. Ma ben plausibili troviamo li raziocinj di lui, e soddisfacentissima la spiegazione, che da suo pari ci offre dei fatti medesimi, siccome già facemmo riflettere in questi Annali (pag. 337, e seg. del vol. LXVIII).

Dopo le cose fin qui dette, ci asterremo dal portar giudizio qualsiasi sulle Note degli Anonimi più sopra enunciate, e che aggiransi a squittinare e la condizione della tarantola nel caso del sig. Ferramosca, e la condizion dell’esofago, e’ l modo onde in questo s’introdusse, e l’esistenza del veleno tarantolino, e la maniera con cui venne questo innestato nel caso in questione. Ma nella ipotesi di potersi ammettere con sobrietà casi ben rari di tarantismo, e di ammetterli modificati senza l’intervento di veruna moral passione, astenerci dovremo dall’esprimere con ingenuità le nostre dubbiezze sulla essenza del fatto riferito dal sig. Ferramosca? sulla essenza di un fatto, in cui non parlasi di alcun mal essere della paziente , dal sabato (in cui ingoliò il grappolo di uva con la presupposta tarantola) fino all’epoca del seguente giorno in cui venne scossa dal suon dell’organo della chiesa ed in citata al ballo? sulla essenza di un fatto, in cui , per tal modo di riflettere, si svolse la malattia dopo una lunga incubazione della causa ed in un ordine inverso di quadro fenomenologico? sulla essenza di un fatto, in cui sembra desiderarsi l’annunzio di sintomi indicanti il continuato morso o almen più volte ripetuto dal falangio ancor vivente? sulla essenza di un fatto, in cui non manca la prevenzione, essendasi il medico ordinario della famiglia più fiate impegnato a persuader di tarantismo il sig. Ferramosca ? in cui non manca l’energia di una passione amorosa (benchè forse destramente occultata) per tradimento di un amante, che venne pur chiamato a far parte del dramma? in cui da ultimo non mancano perciò i giuochi d’ illusione?

Dir forse non potrebbesi, che la inferma del sig. Ferramosca risanasse per una sagace destrezza della sua familiare in quel modo appunto, in cui risanò quel tale, di cui parla il Muratori (nel suo Trattato della forza della fantasia umana), e che avendosi fitto in mente gli fossero nate le corna saltò guarito dal luogo della magnifica operazione di seghe eseguita da un medico, ANNALI. Vol. LXXIV che gli fe’ veder le sue corna ai piedi? Dir non potrebbesi, che il buon uomo, il sig. Ferramosca (di cui d’altronde apprezziamo i talenti e le cognizioni) siasi questa volta fra l’oscurità delle tenebre lasciato illudere da una fantesca, e che per tal modo (come suol dirsi) abbia stretto al seno una nuvola invece di abbracciar Giunone? (Osserv. Med., Giugno , 1834). (Tonelli).

A ben vedere la stroncatura da parte della rivista omodeiana dell’insolita testimonianza del Ferramosca, nella quale si individuava il nesso scatenante il malessere della giovane donna idruntina nel morso di un ragno sopravvissuto alla masticazione del grappolo d’uva, e la risoluzione dello stesso, tramite l’espulsione fortuita dell’aracnide dalla laringe per mezzo di un colpo di tosse, fosse dipesa dal brownismo del medico murese malamente applicato al caso in questione oltretutto senza l’ausilio di alcun farmaco o terapia idonea e basato solo con l’eliminazione della causa materiale senza aver tenuto in debito conto il coinvolgimento socio-etno-psicologico come, invece aveva suggerito il De Renzi.

Va però, altresì ricordato che, qualche anno dopo la pubblicazione della nota del Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina, sul famoso Dizionario Classico di Medicina Interna ed Esterna edito a Venezia dall’editore Giuseppe Antonelli nel 1839 alla voce Tarantismo, tra le varie ipotesi inerenti alla presunta fattibilità terapeutica coreica e iatromusicale[10] adoperata nel Salento insieme ai riferimenti disincantati del De Renzi che giustamente pose la sua attenzione agli effetti propri del latrodectismo sulla ritualità propria del tarantismo, non mancò di venire riportata per intero la vicenda descritta dal dott. Giuseppe Ferramosca precedentemente trattata dalla rivista di Omodei a dimostrazione che l’opinione medica del tempo non fosse del tutto concorde sulla vexata quaestio. Alla voce Tarantismo quel dizionario riportò:

 

Salvatore De Renzi

 

 

TARANTISMO, s. m. Indicasi con tal nome una malattia cui dicesi endemica della Puglia, e prodotta dalla morsicatura della tarantola, la quale risulta comune in quelle contrade. Siffatta malattia, aggiungesi essere caratterizzata principalmente da irresistibile tendenza al ballare, o dallo sfrenato desiderio di udire musica. Altri, all’opposto, asserirono che siccome il tarantismo o l’affezione pro dotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formossi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola che veniva espulso mediante il sudore provocato dalla danza. Comunque siasi la cosa, esperienze positive dimostrarono la innocenza della tarantola; forse che, nei paesi meridionali, essendovi certa predisposizione particolare, avvengano alcuni accidenti cerebrali in conseguenza della morsicatura di tale specie di aragno; è però avverato che se esistette od esiste nella Puglia una monomania endemica il cui straordinario bisogno di danzare costituisce il principal sintomo, non la si può attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Le osservazioni sul tarantismo di Puglia, formarono argomento pel dottor Salvatore de Renzi di una sua Produzione recitata nell’ordinaria seduta dell’accademia medico-chirurgica di Napoli il giorno 18 luglio 1832. L’egregio autore diede principio a questo lavoro con una breve, ma elegantissima descrizione topografica delle Puglie, della terra d’Otranto, e singolarmente di Taranto. Colà recatosi per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, volle trarre dalla sua itinerazione un profitto per il pubblico. Tra le numerose osservazioni che gli si offersero, trovò più degne della sua dotta, tenzione il costipo ed il tarantismo. Per costipo ivi intendesi qualunque reumatica affezione acuta, e le malattie di petto acute dal catarro alla polmonia. Vengono in quella regione favorite oltre modo siffatte affezioni per la variabilissima temperatura di quel clima, in cui ciascheduno mira a cautelarsene, tanto più che spesso prendono ivi tai morbi lo stato cronico, tal che le reumatalgie e le tisi, conseguenze di essi, sono fatalmente comuni della Provincia, ed un quarto di quei che scendono alla tomba vi trapassa per tisi in Lecce e Taranto. Stagion non era, in cui potesse l’autore esser testimone degli effetti che produce il morso del phalangio di Aristotele; ma usò ogni cura per prenderne indagini da persone degne di fede, e raccolse numerose spezie dell’animale istesso. È questo un insetto appartenente alla famiglia dei ragni, che presenta l’esterno di diversi coloriti. Ve n’hanno dei neri che sono più temuti, e di maggior volume, e portano la voce comune di saetlone; ve ne sono di bigi, giallicci e variegati. La più bella tarantola presenta l’addomine ed il dorso di un rosso vivo con un solco nero sul dorso; il rimanente del corpo e la grossa testa sono dipinti da una lucida vernice nera, segnata alla parte superiore da due linee bianche; nere sono le antenne, e la proboscide è nera, ma degli otto suoi piedi, i due anteriori terminano con bianco pelame, i quattro seguenti hanno la penultima maggior falange di un rosso di carne, ed i due ultimi sono di color cinerino. Posseggono esse otto occhi, dei quali quattro ne sono invisibili ad occhio nudo, e tengono inoltre due maggiori e due minori mascelle, fra le quali evvi nuda proboscide. Ma egli: “è vero, che il morso della tarantola produca gli effetti che comune mente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi? Ripiglia l’autore, da pochi porsi in dubbio quel che il filosofo del pari che l’idiota assicura no, e che testimonj si presentano quei medesimi, che vi andarono soggetti. Ritiene il volgo muoversi ciascuna tarantola ad un accordo particolare, e che li morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi; e che gli atteggiamenti che colle mani accompagnano il ballo, sono quei medesimi che la tarantola eseguisce colle sue falangi nell’intessere la sua tela. Riferisce l’autore il caso narra togli in Novoli di una bambina, che al terzo mese della età sua venne morsicata dalla tarantola. La bambina ne diviene in sulle prime inquieta, manifesta quindi un inceppamento nel respiro, ed un acuto pianto ed uno stridulo lamento caccia fuori fra le forti inspirazioni. Sintomi soffogativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizj della flogosi locale nel sito del morso, confermano gli afflitti genitori sulla natura della malattia. Si tenta il suono consueto, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione; si fa muovere allora per lungo tratto, finché a bondevole sudore viene a manifestar si sulla cute, e l’innocente fanciulla n’è defaticata, oppressa, avvilita. Coricata, si abbandona ad un sonno che diviene riparatore, e dal quale torna quasi sana ai teneri amplessi materni. Fa per altro osservare l’autore, che sono si oggidì diminuiti nel numero i fatti in confronto di quello narravasi per lo addietro, e che avvengono per lo più i medesimi in persone, della buona fede delle quali può talora dubitarsi, ed in età in cui sogliono le passioni spiegare maggiore intensità. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantolate per nascondere più grave ferita[11] che le fa delirare. Altro fatto interessante ci riferisce l’autore cui venne narrato da un colto medico di Lecce, che molto studio ha fatto sull’argomento, e che si diè perfino a pericolosi esperimenti. Egli avvicinò al piede di un mietitore dormiente una tarantola di quelle cui si attribuisce più efficace veleno, ed uccise poi e nascose l’insetto per non dar campo a riscaldamento di fantasia. Svegliasi il mietitore, e sentesi addolorato nel piede, ove osserva un circolare induramento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa. Fermossi col pensiero che fosse stato ferito da un’ape. Uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso, furono i sintomi che tosto si annunziarono. Oppresso, abbattuto, delirante, trovavasi nello stato il più miserandu, allorchè si tentarono i soliti accordi, i quali svegliarono il ballo consueto, che diè all’infermo compiuta e subita guarigione. E qui avvertasi non esser in tutto lieve cosa il distruggere gli effetti di questo veleno, poiché sovente la vita ne viene tratta all’estremo. Quindi è, che il saggio autore non arridendo all’opinare di alcuni scrittori francesi, che pretesero essere un tessuto di favole quel tanto si narra sul veleno della tarantola, invita a giudicarne partendo dall’esame dei fatti, che devonsi in tali quistioni unicamente consultare, e consultare con sana filosofia. Nè sembrano privi di solidità i raziocinii del dottissimo De Renzi, il quale di questi fatti medesimi emette una soddisfacentissima spiegazione, da suo pari; il veleno della tarantula sembra agire sul sistema nervoso; e quantunque per analogia di effetti possa assomigliarsi a quello della vipera,  pur ne offre dei suoi propri e distinti, che annunziano l’azione sua più diretta sul nervo trisplancnico e sue dipendenze; da che le funzioni del respiro ne sono lese fino dal principio, ed una specie di torpore nel sistema muscolare sembra essere la conseguenza immediata del virus. Egli è, ripeto, sul sistema nervoso che si produce una specie di esaltamento, il quale, unito alla prevenzione, ne aumenta la intensità. Riunito per tal modo l’effetto reale del veleno, e l’esaltazione cerebrale, ne insorgono tutti gli effetti nervosi che hanno dello stravagante. Una energia suscitata nel sistema nervoso medesimo mercè della musica, il violento moto che attiva la circolazione ed apre la diaforesi, sono al certo i mezzi di cui la natura si serve per distruggere il morbo. Potrebbe l’arte a tali mezzi sostituirne degli altri, e specialmente de’ farmaci tratti dalla classe dei diaforetici; ma perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero di minor efficacia di quelli che sogliono d’ordinario in quel paese adoperarsi, ove è uopo curare l’effetto fisico del morbo, e quello che ne riceve il morale. Fiancheggia il chiarissimo autore un tale asserto con richiamar l’attenzione agli effetti della musica in sul sistema nervoso. E qui, con fino criterio e scelta erudizione, rammenta di volo, che fatti ne possiede la storia sacra e profana, non che la mitologia. Rammenta i numerosi esempi raccolti da Lictenthal nella sua opera “Sull’influenza della musica sul corpo umano”, ove apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite date malattie convulsive; rammenta gli speciali accordi della musica, con che Drahonnet, ed il professor Ruggieri videro risanati li loro infermi. Onde poi corroborare il concetto di analogia del veleno della tarantola con quello della vipera, accenna trovarsi in San Pietro a Galatina un pozzo, che, secondo la credenza degli abitanti, contiene un’acqua portentosa a guarire gli effetti del morso del falangio. Nè la utilità di quest’acqua si ripete dall’autore dalla sola influenza morale della bevanda, e dalle conseguenze del vomito che quell’acqua vi spiega, ma più dall’ammoniaca, di cui è pregna la medesima, perché raccoglie le acque imputridite della città, e perché ricca di sostanze animali putrefatte. Quindi è chiaro come siasi utilmente amministrata l’ammoniaca da alcuni nel morso della vipera, e come nel morso della tarantola sia stata con vantaggio prescritta dal dottor Giri. Conchiude quindi il nostro autore potersi con ragione affermare, che il veleno della tarantola sia vero e reale; che agisca sul sistema nervoso e sanguigno; che i suoi effetti non sono quasi mai mortali, e che sgombrar si possono mediante un trattamento energicamente diaforetico.

 

Seguì per intero, poi, la sovramenzionata nota del Ferramosca a dimostrazione della sua importanza sebben non certo del tutto accettata, in ambito medico:

Sul tarantolismo, comparve una nota del dottor Giuseppe Ferramosca, scritta da Muro nella terra di Otranto li 3 giugno 1834. Per riferire in compendio il fatto da essa esposto, ne toglieremo la breve de scrizione dal fascicolo gennajo 1835 del Giornale napolitano il Filiatre Sebezio, «Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in …convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile…

 

Dopo la dibattuta esperienza del tarantolismo ivi descritta, il dottor Ferramosca non concluse la sua indagine medico-sociale ma, al contrario, proseguì gli studi su altre patologie permanendo fedelmente nel suo indirizzo di ricerca. Dopo la sua nota sul tarantolismo pubblicò un trattato intitolato Sulla Speronetta[12] sul famoso giornale di scienze mediche edica Filiatre Sebezio nel 1842, un saggio sull’Avvelenamento per morso di vipera[13] nel 1834. Sempre per il “Filiatre Sebezio”, nel 1844 una Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro[14]. Molti altri suoi opuscoli vennero stampati su giornali medici francesi.

Il dottor Ferramosca perì in quel di Muro, circondato dai suoi affetti più cari il 16 aprile 1867. Lo storico murese Comm. Luigi Maggiulli, come riportato a pag. 152 della sua Monografia di Muro Leccese, lesse un elogio funebre dato poi alle stampe presso la tipografia Garibaldi di Lecce nel 1867 a cura del nipote del valente medico il Sig. Ettore Ferramosca.

 

L’autore ringrazia sentitamente il Dott. Antonio Basurto, suo fratello Avv. Alvaro Basurto – ultimi eredi del dottor Ferramosca -, il Dott. Marco Imperio, la Dott.ssa Angelica Serra, la Dott.ssa Emanuela Zitti e il Sig. Gigi Montinaro per la gentile collaborazione che ha permesso la realizzazione del presente lavoro di ricerca.

 

Note

[1] Ora Città di Muro Leccese.

[2] Particolare attitudine innata a cogliere a prima vista la condizione di salute dei malati, un tempo considerata una caratteristica ereditaria dei discendenti del nume greco Asclepio.

[3] Francesco Nicola Maria Andria fu un medico e un filosofo italiano. Egli nacque a Massafra nell’odierna provincia di Taranto, il 10 settembre 1747 e morì a Napoli, dove visse fin al 1814. Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli. Studiò a Napoli giurisprudenza, pubblicando nel 1760 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi orientandosi verso la medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata. Ad appena 27 anni concorse con il medico e patriota partenopeo Domenico Cirillo per l’ottenimento della cattedra di medicina pratica, che fu poi conferita a quest’ultimo. La sua attività di cattedratico, si svolse tra ‘700 e ‘800, nel contesto di un particolare periodo storico politicamente molto dinamico. Presso l’Università Regia degli Studi di Napoli Andria ricoprì vari incarichi d’insegnamento. Detenne la cattedra di storia naturale, di medicina teoretica e pratica, e di agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina molto apprezzate in diverse parti d’Europa. Nel 1808 prese a impartire lezioni di medicina teoretica e poi, nel 1811 di patologia e di nosologia. Malato ed ormai quasi del tutto cieco, venne congedato dall’insegnamento agli inizi del  1814, e insignito del titolo di Cavaliere dal Re di Napoli Gioacchino Murat. Il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove venne seppellito nella chiesa di Santa Sofia insieme al collega Antonio Sementini.

[4] John Brown (1735-1788) che fu allievo di William Cullen ideò un vero e proprio sistema medico nel quale intese la vita come una conseguenza degli stimoli interni di origine viscerale ed esterni provenienti dall’ambiente e delle risposte date dalla eccitabilità dell’organismo. Quando la risposta allo stimolo era eccessiva si formava uno stato di malattia che definì “iperstenico” e quando la risposta era troppo debole lo definì “astenico”. Le astenie erano di due tipi: diretta se la eccitazione mancava per carenza di stimolo, indiretta quando l’organismo stimolato in eccesso esauriva la sua capacità di rispondere eccitandosi. Una “omeostasi” tra fra eccitamento ed eccitabilità rappresentava per lo scozzese lo stato di salute ideale. Ebbe l’ardire di esprimere Il grado di eccitamento matematicamente per mezzo di una scala che andava da zero a ottanta, con quaranta gradi che rappresentavano lo stato di salute. Forti stimolanti utilizzati in quella terapia furono l’oppio e l’alcol, generalmente somministrati in combinazione con laudano. Stimolanti alternativi furono invece l’etere, la canfora, l’ammoniaca e il muschio. Una dieta proteica ricca di carne era da Brown spesso prescritta come misura “di sostegno”. Anche i metodi decongestionanti ‒ come la flebotomia, le purghe e gli emetici, che erano indicati nelle malattie steniche ‒ erano considerati come degli stimolanti blandi. Cfr. E. Frasca, L’eco di Brown. Teorie mediche e prassi politiche (secoli XVIII-XIX), Roma, Carrocci Editore, 2014.

[5] Nella vecchia terminologia medica, lo stesso che gotta, considerata nella sua forma clinica più tipica, con interessamento iniziale e prevalente all’articolazione tra metatarso e falange dell’alluce. Cfr. G. Ferramosca, Trattato teorico-pratico sulla Podagra, Napoli 1804.

[6] Cfr. R. Rossetti, Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese, Fondazione Terra d’Otranto, pubblicazione on-line del 17 settembre 2012.

[7] L. Maggiulli, Monografia di Muro Leccese, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, MDCCCLXXI, p. 147.

[8] Periodo in cui maturerebbe l’uva “primaticcia” presente nel racconto della donna.

[9] Illustre medico e storico della medicina (Paternopoli 1800 – Napoli 1872), professore a Napoli, prima di Patologia generale e Igiene, poi di Storia della medicina. A lui si debbono, tra l’altro, una Storia della medicina in Italia (1845-48), una Storia documentata della Scuola Medica di Salerno (1857) e l’importante raccolta documentaria Collectio Salernitana (5 voll., 1852-59).

[10] Nel lemma in questione si riportarono a favore della terapia tradizionale salentina dei casi particolarissimi di tarantolismo come quello di una infante di Novoli che, a causa della sua tenerissima età mal avrebbe potuto risentire psicologicamente del coinvolgimento socioculturale dei suoi prossimi. Si cercò, poi, di comprendere, anche, le ragioni chimiche ed emetiche dell’acqua del miracoloso Pozzo di San Paolo di Galatina da sempre ritenuta curativa nei casi di tarantismo

[11] Riferimento esplicito alla lacerazione dell’imene da primo rapporto sessuale al di fuori, o precedentemente al matrimonio religioso, che in un contesto rurale rappresentava una grave onta gravante sulla donna che lo aveva subito e che poteva emarginarla dal proprio contesto sociale di appartenenza con tutte le conseguenze del caso. A tal proposito si consiglia l’interessante interpretazione dello studioso magliese Oreste Caroppo intitolata Tarantismo e perdita del primus e della verginità. Alla ricerca del vero profondo rimorso della tarantata. http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/

[12] G. Ferramosca, Sulla Speronetta, “Filiatre Sebezio”, Anno XII, Napoli 1842, p.129..

[13] G. Ferramosca, Avvelenamento per morso di vipera, “Igea Salentina”, Volume I, Napoli 1843, p. 216.

[14] G. Ferramosca, Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro, “Filiatre Sebezio”, Anno XIV, Napoli 1844, p. 65.

Luigi Chiriatti, il più grande erede culturale salentino di Ernesto De Martino

 

di Romualdo Rossetti

Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.

Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.

Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.

Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.

Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.

Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.

Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.

Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.

Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.

Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.

Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.

In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.

Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.

 

Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil

Marcus Tullius Cicero,  Epistola ad familiares

 

 

Antonio Ancora. L’ultimo leone di El Alamein

 

Intervista ad Antonio Ancora, Caporale della Vª Btg Div. Folgore classe 1921

Antonio Ancora racconta il contenuto della presente intervista a Romualdo Rossetti e agli operatori del Club per l’ Unesco di Galatina nel settembre del 2019

 

a cura di Romualdo Rossetti

Buona sera, signor Ancora, sono venuto affinché possa raccontarci della sua avventura bellica a El Alamein. È disposto a rilasciarmi un’intervista dettagliata?

Certo! Volentieri!

 

Antonio Ancora racconta il contenuto della presente intervista
a Romualdo Rossetti e agli operatori del Club per l’ Unesco di Galatina
nel settembre del 2019

 

Ci può dire quando è nato, dove è nato, quanti fratelli aveva e che mestiere faceva prima del suo arruolamento militare?

Sono nato a Galatina il 9 aprile del 1921. Appartenevo a una famiglia molto numerosa. Mio padre faceva il colono agricolo e avevo sei fratelli, nell’ordine: Angela la maggiore, poi veniva Annetta, poi venivo io, poi Luigi, Pippi, Maria Luce e Totò, che era l’ultimo. Prima di arruolarmi ho lavorato in un’impresa di ristrutturazioni, con la quale lavorai tanto all’Arsenale militare di Taranto quanto all’aeroporto di Galatina.

 

Ci può raccontare, adesso come e quando ebbe inizio la sua avventura militare?

Quando sono stato chiamato dal distretto militare di Lecce per passare la visita di leva, io, insieme a molti altri miei amici, siamo stati mandati a Bari, presso la caserma di Artiglieria campale. Lì ci siamo fermati per una ventina di giorni e lì presi il brevetto di radiotelegrafista Dopo venimmo rispediti a Lecce, presso la caserma Santa Rosa se non ricordo male. Dopo qualche giorno giunse una circolare destinata a quanti avessero voluto arruolarsi nei paracadutisti. Io e tanti altri chiedemmo così di entrare nei paracadutisti come volontari. Dopo alcuni giorni giunse una lettera in cui era scritto che dovevamo andare a Napoli, alla caserma “Nino Bixio” del rione Pizzofalcone, dove c’era il 1° reggimento dei Bersaglieri. Lì ci vennero fatti tutti gli accertamenti di rito, le visite mediche e altri esami; poi ci venne consegnato un certificato di idoneità e ci rispedirono nuovamente a Lecce, dove cominciammo un primo corso di addestramento. Non terminammo nemmeno quel primo corso di addestramento, che giunse una circolare nella quale vi era scritto che saremmo dovuti andare in Albania, perché avevano bisogno di rinforzi militari. Quella circolare mi mise in apprensione perché io non volevo spostarmi dall’Italia, ma soprattutto perché avevo già fatto domanda per entrare nei paracadutisti, e avevo paura che, andando in Albania avrei dovuto abbandonare il mio sogno di diventare un paracadutista. Comunicai i miei dubbi al mio superiore, il quale mi disse: “Ora devi partire ma è probabile che ti richiamino in patria per farti fare il paracadutista!”. Così avvenne. Dovetti però partire e fermarmi in Albania per qualche tempo.

 

Ha conosciuto l’Albania allora! Che rapporto avevate voi Italiani con gli Albanesi?

Gli Albanesi non ci potevano sopportare perché erano stati invasi da noi; ci guardavano sempre in cagnesco. Di conseguenza nemmeno noi li potevamo sopportare. Vi era reciproca antipatia, diciamo!

 

Poi che successe?

Dopo quindici, venti giorni arrivò un’altra circolare, in cui era scritto che tutti quelli che avevano fatto domanda per entrare nei paracadutisti dovevano rientrare in Italia. Ci fecero imbarcare su di una nave da Durazzo, anzi per l’esattezza da una località chiamata “Erbasanta” e ci sbarcarono a Bari. Dovemmo, poi, raggiungere Viterbo dove arrivammo nei tempi stabiliti.

 

Ci può raccontare come si svolgeva il vostro addestramento militare?

Lì l’addestramento militare si fece serio. Facevamo ginnastica tutti i giorni, trazioni alla sbarra, addominali, piegamenti, lotta a corpo a corpo, esercizi di mimetizzazione. mo mimetizzare. Dopo la colazione a base di latte e gallette ci obbligavano a fare una corsa forzata facendo circa 25 26 chilometri, tra l’andata e il ritorno. Poi passammo alle cadute sui materassi. Ci insegnarono come cadere, come fare corretamente le capriole, ecc. Salivamo su di una torretta, alta una trentina di metri, legati a due funi che alcuni nostri commilitoni reggevano dal basso. La corda era trattenuta da dei moschettoni. Se i nostri commilitoni si distanziavano tra di loro, la caduta era lenta, ma se si avvicinavano, diventava sempre più veloce. Gli istruttori facevano alternare i tipi di caduta, affinché imparassimo come comportarci. Era importantissimo ammortizzare e non cadere sui talloni. Poi, per rendere più verosimile l’ambiente, ci fecero esercitare in una carlingaa di aereo che aveva il motore acceso. L’aereo poggiava su di una base ad una certa altezza e noi, in fila indiana, ci entravamo dentro e aspettavamo la pacca sulla spalla dell’addestratore, che ci indicava il momento per saltare giù. Da un’altezza di circa venti metri cadevamo sulla sabbia per ammortizzare la caduta. Poi giunse il momento del lancio vero e proprio. Occorreva fare tre lanci per poter ottenere il brevetto di paracadutista. Il 14 giugno del 1942 ottenni il mio brevetto, n. 8198.

 

Si ricorda il suo primo lancio?

Certo che me lo ricordo. Il primo lancio è come il primo amore, non lo si scorda mai. Eravamo tutti tesi e ansiosi di provarlo. Vedevamo la campagna circostante in lontananza e tutto ci sembrò piccolo, piccolo. Una volta che mi fui lanciato, vissi una sensazione meravigliosa; mi sembrò quasi di volare. Mi sentii libero, nonostante avessi la responsabilità di fare bene la caduta e di raccogliere come si deve il paracadute.

 

I vostri istruttori militari erano del luogo o venivano da fuori?

Questo non lo ricordo… so solo che la stragrande maggioranza di loro si era formata in Libia e avevano fatto parte del Reggimento paracadutisti “Fanti dell’aria”, nato come battaglione su iniziativa di Italo Balbo, e che si erano esercitati a “Castel Benito”[1] vicino Tripoli.

 

È vero che dovevate chiamarvi “Cacciatori d’Africa”?

Si è vero! Poi a qualcuno venne in mente il nome “Folgore” e lo propose ai vertici militari. Quel nome piacque e ci chiamammo così, che sinceramente, è molto più bello!

 

Una volta terminato l’addestramento e ottenuto il brevetto da paracadutista che cosa accadde?

Accadde che giungemmo dal centro di addestramento di Tarquinia, a Villa Castelli, vicino a Grottaglie. Un bel momento, di notte, il sergente ci svegliò e ci disse: “Ragazzi preparatevi che dovete spostarvi!”. Ci caricarono sui dei camion gommati e ci portarono verso una destinazione top secret. Appena giunti, mi accorsi che il campo di atterraggio era quello di “Fortunato Cesari” di Galatina, dove prima di arruolarmi avevo lavorato per delle ristrutturazioni. Dissi: “Gesù mio qui a Galatina siamo!”. Sulla pista già molti aerei erano pronti per il decollo. Ognuno di quelli aveva una capienza di oltre 100 persone più i membri dell’equipaggio di volo e le nostre attrezzature di lancio.

 

Partiste dall’aeroporto di Galatina?

Si, precisamente la notte del 7 luglio 1942, a bordo dell’aereo militare S.M. 82 partimmo da Galatina con destinazione “Africa Settentrionale – Primi Rami del Nilo”. Prima di decollare lanciai in un contenitore un messaggio, dove avevo scritto chi fossi e dove fossi diretto. Quel messaggio venne trovato e successivamente consegnato a mia sorella Annetta, che da sposata viveva a Soleto. Stavamo quasi per raggiungere la Libia, quando ricevemmo in volo un contrordine in cui si intimava di atterrare al più presto al più vicino aeroporto. L’aeroporto più vicino era quello di Barce[2], dove atterrammo. Una volta a terra ci ordinarono di consegnare il paracadute. Durante l’addestramento ci era stato detto che il proprio paracadute non lo si poteva consegnare a nessuno se non con l’esplicito ordine del proprio comandante; quella così avvenne. Chi li prese in consegna, dopo averli esaminati uno per uno, si accorse che a Viterbo o a Tarquinia vi era stato un sabotaggio. Qualcuno, di nascosto, era penetrato nei depositi e utilizzando dell’acido, avevano intaccato le funicelle di tutti i paracadute.

 

Vi erano state delle spie allora?

Si certo, in Italia quel sabotaggio era avvenuto presso i nostri centri di addestramento.

 

In Libia dove andaste?

Una volta messo piede in Libia rimanemmo a Tobruk per qualche giorno. Lì ci fecero visitare l’incrociatore San Giorgio che si era arenato dopo essere stato colpito dagli Inglesi. Quella nave fungeva da postazione antiaerea ed era dotata di moltissime bocche da fuoco.

 

In Africa settentrionale le venne affidato qualche incarico?

Si, mi venne affidato. Giunto in Libia, fui inviato insieme ad altri miei commilitoni a Bengasi per motivi di addestramento, e soggiornammo a spese dell’Esercito al maestoso Grand Hotel “Berenice” di Bengasi.

 

Bengasi – Grand Hotel “Berenice”

 

 

Come si chiamava il vostro comandante?

Giuseppe Izzo. Era salentino pure lui, perché era nato a Presicce. Un eroe nel vero senso della parola.

Comandante della Folgore Tenente Colonnello Giuseppe Izzo

 

Può descriverci il vostro rapporto col deserto?

Fu un rapporto davvero terribile. Combattevamo con la sabbia che era così sottile da entrare dappertutto, armi comprese. L’acqua fu l’elemento più importante. Non potevamo sprecarla, quindi ci si lavava poco o niente. Di mattina faceva un caldo insopportabile e di notte sentivamo freddo. Dovevamo fare attenzione anche agli animali del deserto che erano velenosi. Nonostante tutto il deserto conservava un fascino tutto suo.

Soldato italiano nascosto in una buca
aspetta il nemico per sabotare i suoi mezzi di trasporto

 

È mai stato preso dallo sconforto?

Si Come tutti. Vivere in quelle condizioni non era affatto semplice, provi un attimo lei a stare sempre col fiato sul collo, sapendo di poter morire da un momento all’altro, a vivere con pochissima acqua e pochissimo cibo, in un paese lontano in mezzo alla sabbia rovente, vestito con divise che giorno dopo giorno si trasformavano in stracci, tra la sporcizia, gli animali velenosi e le malattie contagiose, con l’ossessione di non poter rivedere più i propri genitori, i propri fratelli, le proprie sorelle, le proprie fidanzate. Una volta, preso dalla disperazione, arrivai a tirarmi addosso un bidone di benzina, sperando che mi fratturasse qualche osso, per poter essere ricoverato in infermeria nelle retrovie e magari riuscire a ritornare in Italia; e invece quel bidone mi graffiò solo di striscio. Un’altra volta cercai di prendermi la scabbia, per essere mandato in infermeria in un posto più tranquillo, e cominciai a strofinandomi su di un commilitone che l’aveva presa. Non la presi! Era destino che dovessi partecipare alla battaglia finale…e forse fu anche meglio, perché ora ve la posso raccontare.

 

Tiene a mente il nome di qualche famosa località nei pressi di dove eravate stanziati voi in Africa del Nord?

Come no! Da noi non era troppo distante la famosa “Oasi di Giarabub”, poi la “depressione di El Qattara”, “Gebel Kalakh”, “Deir El Munassib”, “Alam el Halfa” …

 

Come facevate a resistere alla sete?

Rubavamo di notte, di nascosto, dai camion tedeschi ma anche da quelli italiani, l’acqua dei radiatori. Aprivamo la valvola e lasciavamo che gocciolasse in alcuni contenitori di metallo, poi la filtravamo con dei panni, ma nonostante questo, puzzava sempre di carburante. La bevevamo lo stesso, però. Abbiamo sofferto tantissimo la sete.

 

Anche da prigionieri?

No, da prigionieri no, perché giungevano puntualmente dei camioncini con acqua pulita e generi alimentari.

 

Ha mai visto di persona il generale tedesco Erwin Rommel?

Si. l’ho visto più di una volta dal vivo, prima della battaglia finale però, perché quando avvenne la battaglia, lui non era in Africa.

 

Che aspetto aveva e come lo consideravate voi Italiani?

Aveva un aspetto buono e sorridente, non era mai arcigno. Era circondato sempre dai suoi attendenti. Noi lo tenevamo in grande considerazione. Era astutissimo tanto che lo chiamavano “La volpe del deserto”!

Il generale Rommel insieme ad alcuni suoi collaboratori in Africa del Nord

 

Di Churchill cosa pensavate?

Che era il nostro più grande nemico, ma che sapeva il fatto suo. Fu lui però a chiamare i paracadutisti della Folgore “I leoni di El Alamein” per il coraggio che avevamo dimostrato combattendo.

Winston Churchill insieme al Gen. Bernard Law Montgomery

 

Qual era il vostro equipaggiamento militare?

Noi eravamo abbastanza riforniti di armi automatiche; tenevamo il moschetto automatico Beretta mod. 1938 con il caricatore verticale, che era migliore di quelli a nastro. Avevamo il cannone anticarro Breda 47/32 Mod. 1935, la mitragliatrice Breda Mod. 5C, non mancavano fucili, pistole, bombe a mano. Durante la battaglia adoperammo di tutto, anche le bottiglie molotov.

 

È vero che molto spesso eravate voi Italiani a togliere d’impaccio le meglio equipaggiate truppe tedesche dell’Afrika Korps quando con i loro mezzi corazzati si insabbiavano nel deserto?

Tantissime volte, mica una volta sola, specie quando si inoltravano nei sentieri che noi chiamavamo delle “sabbie mobili”, erano zone pericolosissime. Andavamo con i mezzi nostri a tirare via i loro camion.

 

Voi durante la battaglia eravate posizionati sotto gli Inglesi?

Noi eravamo posizionati nel deserto; verso la litoranea c’erano altri Italiani, c’erano i bersaglieri, oltre ai Tedeschi ovviamente. Montgomery fece il tentativo di cacciarci via per due o tre volte, ma alla fine capì che non c’era nulla da fare. Noi resistevamo con tutto ciò che avevamo a disposizione, non cedemmo nemmeno di un millimetro. Provarono anche con la guerra psicologica; ci fecero giungere notizie che dicevano che noi della folgore dovevamo arrenderci perché le truppe di Montgomery erano già arrivate a Tobruk e Bengasi. Noi resistevamo anche a quello. Capimmo che erano solo menzogne.

 

L’ultima battaglia cominciò il 23 ottobre alle 10 di sera, vero?

Si cominciò di notte. Attraverso dei camminamenti, noi di notte uscivamo di pattuglia, per poterci avvicinare quanto più alle linee nemiche, nonostante i campi minati.

Parà della Folgore mentre piazza delle mine sotto un blindato nemico

 

I campi erano minati?

Certo i campi erano tutti minati. I Tedeschi li avevano minati a forma di doppia S ed era pericolosissimo venirne fuori. Loro erano attrezzati a sminare col radar, noi invece adoperavamo i coltelli per tastare il terreno. Bisognava fare molta attenzione, perché le mine, come le toccavi, esplodevano ad altezza d’uomo e colpivano con le schegge a livello intestinale i malcapitati che le avevano pigiate.

Piazzamento mine antiuomo soldati dell’Asse

 

Ci racconti cosa accadde.

Eravamo stati bersagliati da giorni. Ma noi non demordevamo, anzi eravamo disposti a vendere cara la pelle. Giunse il momento in cui ci accorgemmo che le munizioni stavano per finire. Volevamo però dare l’idea che non eravamo quasi disarmati, quindi un nostro superiore ad un certo punto ci disse che al suo segnale dovevamo sparare con tutto ciò che avevamo a disposizione, in tutte le direzioni, con una specie di fuoco incrociato. Così facemmo, al suo segnale non si capì più nulla; fuoco a volontà. Raffiche di mitraglia, colpi di fucili, insomma sparammo con tutto ciò che avevamo. Quella trovata riuscì, perché non solo le truppe nemiche si allontanarono, ma riuscimmo a fare addirittura alcuni prigionieri. Churchill e Montgomery capirono che eravamo dei duri, quindi mandarono a stanarci i migliori soldati che avevano, ma nemmeno con quelli riuscirono a farlo. Si creò, però, una situazione di stallo. Loro non riuscivano a farci indietreggiare, noi non avremmo potuto resistere a lungo; quindi gli Inglesi e i nostri superiori optarono per una resa onorevole. Ci fu tributato l’onore delle armi. Cosa che gli Inglesi non facevano molto spesso.

 

In cosa consisteva una resa con l’onore delle armi?

Venimmo disarmati tutti, ma al nostro comandante fu lasciata la sciabola di ufficiale. Lui ci fece mettere in fila e sfilammo tutti davanti agli Inglesi che al nostro passaggio si misero sull’attenti. Quella scelta, nonostante fossimo stati battuti, ci riempì di orgoglio.

Le truppe Inglesi tributano ai parà della Folgore l’onore delle armi

 

Si ricorda la scena più straziante a cui assistette durante la battaglia finale?

Durante la battaglia, un mio commilitone, mentre mi stava passando alcune munizioni, venne raggiunto da una scarica di mitraglia in pieno volto. Nonostante ciò, rimase per qualche tempo in vita e prima che morisse lo vidi strapparsi dei pezzi di carne dal viso esclamando: “mm …mmm…mia… mmmamm” forse voleva dire “mamma mia… non madonna mia!” Perché quando si sta per morire, si cerca sempre la mamma. Quel povero Cristo in breve spirò tra le nostre braccia, invocando la sua mamma!

 

Ebbe mai la consapevolezza di aver ucciso qualche nemico durante una sparatoria? Mi rendo conto che le sto ponendo una domanda stupida ma mi piacerebbe che mi rispondesse lo stesso!

Figlio mio! Come facevo ad avere la consapevolezza di aver ucciso qualcuno!? In guerra è così; ti sparano, tu spari! Quasi quasi non lo fai nemmeno per uccidere il nemico, lo fai per fermare l’attacco e metterti al riparo. In quei momenti non si pensa, si agisce d’istinto.

 

Ha avuto mai paura della morte?

Durante i combattimenti mai. Allora subentrava l’istinto di sopravvivenza. Quando ci fermavamo a riflettere speravamo di essere uccisi subito, per non soffrire come quel ragazzo mitragliato in faccia. Era peggiore l’attesa dell’attacco nemico… quella sì che ti logorava dentro!

 

Ci può parlare della sua prigionia? Come vi trattavano gli inglesi?

Per la verità gli Inglesi generalmente non ci trattarono male; anche se episodi brutti verso di noi non mancarono.

 

In che senso? Vuol farci credere che una volta prigioniero ha subito qualche forma di sopruso o violenza da parte dei suoi carcerieri?

Di questo non voglio parlare!

 

Ci parli di altro allora, di qualche episodio della prigionia che ricorda bene!

Una volta arresi ci portarono ad Alessandria d’Egitto in un campo di concentramento. Insieme ad altri Italiani rimasi prigioniero in Africa per tantissimo tempo, veramente tantissimo tempo. Un giorno, mentre stavamo marciando in fila indiana, mi trovai casualmente dietro una camionetta che portava viveri ai prigionieri. Senza essere visto infilai la mano nella cabina e rubai dei biscottoni, loro li chiamavano “cookies”.  Come li prendevo, alcuni li tenevo per me, altri li passavo ad alcuni miei compagni. Lo feci una volta, una seconda, una terza, ma alla quarta una mano gigantesca di un australiano afferrò il mio polso! Mi chiamò “thief” ovvero “ladro”. Quel soldato era altissimo, con un cappellaccio a falde larghe. Quello cominciò a strattonarmi e a fischiare per chiamare la polizia militare che giunse subito. Mi ammanettarono e mi portarono subito dai loro superiori. Mi accusarono di furto e contrabbando e venni processato per direttissima. Fortuna volle che mi diedero un avvocato d’ufficio, che aveva una figlia che aveva studiato in Italia e aveva a buon cuore gli Italiani. Per farla breve quell’avvocato riuscì a farmi assolvere perché disse alla Corte che, se avevo rubato, lo avevo fatto non per contrabbando, ma perché spinto dalla fame. Fu così che venni graziato.

 

Ci parli del suo trasferimento da prigioniero.

Era trascorso tanto tempo da quando ci avevano presi prigionieri e la situazione internazionale era cambiata. Quelli che erano nostri amici, erano diventati nostri nemici, e i nostri nemici collaboravano con noi. Noi eravamo, però, sempre prigionieri loro, anche se cercarono di farci collaborare nelle retrovie. Decisero di spostarci altrove. Nel frattempo noi avevamo fraternizzato con alcune guardie carcerarie inglesi, che ci avevano detto che molto presto ci avrebbero trasferiti in Italia.

Ad un certo punto, proprio quando stavamo per imbarcarci dal porto di Alessandria d’Egitto, arrivò un allarme con relativo ordine di non accendere nessuna radio, perché nei paraggi si aggirava un sottomarino nemico, che era partito dalle vicinanze di Malta. Dopo qualche tempo venimmo imbarcati su di una grande nave. Gli Inglesi avevano chiamato in soccorso due incrociatori, affinché ci scortassero alla nostra destinazione, senza incappare nelle mire del sottomarino nemico.

Appena giunti a destinazione, guardai fuori dall’oblò e mi accorsi che le guardie del campo non ci avevano mentito. Con grande stupore compresi che stavamo per attraccare nel porto di Taranto. Deve sapere che la Marina Italiana aveva subito gravi perdite durante un bombardamento alleato…

 

Si sta per caso riferendo alla famosa “Tragica notte di Taranto” fra l’11 e il 12 novembre del 1940? Quel bombardamento era successo qualche anno prima. [

Sì! Quella notte vennero messe fuori uso le navi da battaglia “Conte di Cavour”, la “Littorio” e la “Duilio”, e ci furono morti e tantissimi feriti, ma ritorniamo a noi…dicevo che mi accorsi che eravamo giunti a Taranto, dove avevo lavorato per tanto tempo, presso l’arsenale militare, prima di partire soldato e dove avevo alloggiato in via Adua 72. Una volta attraccati, ci fecero scendere in fila indiana e salire su di un’altra nave, che ci avrebbe condotto prigionieri chissà dove. A un certo punto mi fermai e mi inginocchiai per allacciarmi i lacci delle scarpe. Venne subito un soldato inglese, forse australiano non so, che parlava mezzo inglese e mezzo italiano e mi disse gridando: “Don’t stop….Don’t stop. Not from here…non da qui…quella parte tu andare!” e mi spinse verso la parte opposta…io obbedii al suo ordine e mi accorsi che quel soldato mi aveva indicato la via verso la libertà. Ero libero…facendo la massima attenzione, sgattaiolai fuori, non dando nell’occhio. Ero riuscito a fuggire, ero in una città che conoscevo; ma dove andare? Si capiva subito da come ero vestito che ero un reduce di guerra italiano. Mentre pensavo a tutto ciò, incontro un tizio che mi fa: “Senti …ma tu non sei uno di quelli che…” Ed io istintivamente risposi volgarmente: “Tu pijate li c…. toi! Che vai cercando da me? Vedi di andartene o finisce male!” Ma quello continuò dicendo: “No… no…stai calmo. Volevo solo dirti che in fondo a questa strada c’è un cancello…se vai lì e bussi c’è un grande frantoio, se cerchi il proprietario che è di Soleto, Mesciu ‘Ntoni Nuzzaci[3], è possibile che ti possa aiutare!” .

 

Gli inglesi, nel frattempo, si erano accorti della sua fuga?

Non ancora, ma se ne accorsero dopo…purtroppo per mio fratello!

 

In che senso?

Mi lasci finire e capirà…mi comportai come mi aveva suggerito quell’uomo. Arrivai davanti a quel grande cancello, suonai e uscì un uomo, forse un nachiro[4] che mi disse: “Hei amico mio, non c’è nulla da fare, oggi qui è già tutto pieno!” Io gli risposi: “No… guarda che ti stai sbagliando, io non cerco un lavoro, io vorrei parlare con Mesciu ‘Ntoni!”. “E chi sei tu che vuoi parlare con Mesciu ‘Ntoni?” – mi disse – ed io subito: “Digli che c’è il fratello di Annetta Ancora, di Galatina, che gli vuole parlare!”. Dopo aver pensato come fare, quell’uomo andò a chiamare Mesciu ‘Ntoni. Appena giunse, gli spiegai la mia situazione e mi disse: “Guarda io non posso portarti a Galatina perché ci sono moltissimi posti di blocco Alleati; se mi beccano con t,e per me saranno guai, perché ci sono dei controlli rigorosissimi. Tu puoi fare solo una cosa, qui c’è un treno merci che porterà vettovaglie, patate ed altro al capo di Leuca, che parte da Roccaforzata, qui vicino; cerca di salirci sopra, poi ti renderai conto tu quando scendere. Nel frattempo farò in modo d’informare tua sorella e tuo cognato”. Così avvenne. Presi insieme ad altri quel treno merci carico di patate e riuscii, nascondendomi, a raggiungere Zollino, praticamente alle porte di casa. A Zollino incontrai mio cognato Masi che era stato già avvisato, e mi venne incontro. Lui mi fece salire sul suo biroccio e, nascondendomi, mi portò a casa sua. Stetti un poco da loro, poi decisi di andare in giro latitante, perché sapevo che se fossi andato a Galatina, prima o poi gli Inglesi sarebbero venuti a prendermi, perché risultavo come fuggiasco.

Stetti in giro parecchi giorni, presso vari amici, poi decisi di andare dai miei a Galatina, preoccupandomi di trovare il modo di scappare, se per caso fossero venuti a prendermi. Quando giunsi a Galatina, il caso volle che arrivò contemporaneamente a me mio fratello Luigi, in licenza da Bologna. Venivano spesso le guardie a cercarmi a casa, ma io appena le sentivo arrivare, mi nascondevo.

Una notte mentre dormivamo tutti, sento l’esigenza di andare in bagno. Mentre ero fuori – perché il bagno lo tenevamo in cortile – sento un frastuono dentro casa. La polizia militare inglese aveva fatto irruzione e aveva incatenato mio fratello Luigi, scambiandolo per me. Mio padre disperato gridava. “Lasciatelo stare…non è Antonio, questo è Luigi …vi state sbagliando!” e per il nervoso si mordeva le mani. Ma loro imperterriti lo incatenarono e se lo portarono via. Fortuna volle che vicino a casa di mio padre abitava un noto carabiniere, che anche lui si trovava in licenza. Fu lui ad andare al comando inglese e a testimoniare in favore di mio fratello. Fu così che lo rimisero in libertà!

 

Poi che accadde?

Accadde che a guerra finita tutto si risolse a mio vantaggio.

 

Vedo che si è stancato parecchio; credo che l’intervista possa finire qui. Grazie di tutto sig. Ancora. Lasci che mi complimenti con lei per la memoria ferrea.

Grazie, quando si vivono certe esperienze, queste ti rimangono dentro per tutta la vita. Ho visto la guerra e la pace…molto meglio la seconda. Ai ragazzi dico sempre che è meglio puntare sulla pace e mai sulla guerra. Altre guerre mai!

 

Inaugurazione celebrazione “Ricordando i Leoni di El Alamein. Dai racconti del parà Antonio Ancora” organizzata dal Club per l’Unesco di Galatina il 15 Dicembre 2019 presso la sala “G. Pollio” – Parrocchia “San Biagio” a Galatina

 

 

Antonio Ancora insieme al Presidente Club per l’Unesco di Galatina Dott. Salvatore Coluccia, il Vice Presidente Dott. Giuseppe Serra, i figli Mariolina e Pio e Romualdo Rossetti ideatore dell’evento.

 

Antonio Ancora insieme al Col. De Chigi Vice Comandante e responsabile dell’Ufficio Storico della Folgore e altri ufficiali e sottufficiali dell’Esercito Italiano convenuti per l’evento

 

 

Antonio Ancora durante la commemorazione
dei caduti di tutte le guerre a Galatina

 

  

Testimonianza filmata di Antonio Ancora nella trasmissione di RaiStoria “Italia in guerra. Nord Africa, la resa dei conti” andata in onda martedì 10 Gennaio 2023 alle h. 21.10

 

 

Note

[1] Ora città libica di Ben Gascir.

[2] Ora chiamato Al-Marj che durante il periodo del colonialismo italiano venne ridenominato Barce in onore dell’antica colonia greca di Barca, era una cittadina della Libia orientale, nota come Cirenaica.

[3] Mastro Antonio

[4] Nocchiero, un grado dei lavoratori dei frantoi salentini.

Intervista a una tarantata

Tarantate, di Luigi Caiuli

 

 

Intervista alla sig.ra Domenica di Minervino di Lecce analisi antropologica inerente La sua esperienza di tarantata

 

a cura di Romualdo Rossetti

 

Buongiorno signora! Potrebbe raccontarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Se può avvicinarsi e alzare la voce, per cortesia, perché da questo orecchio non sento molto!

 

Certo! Dicevo …può parlarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Si… certo!

 

Per prima cosa può dirci come si chiama, quanti anni ha e dove è nata?

Mi chiamo ….. Domenica e sono nata a Minervino di Lecce il 29.12.1929.

 

Bene! A che età è stata morsa dalla tarantola?

Da giovane, prima di sposarmi!

 

Si ricorda in che anno è accaduto?

L’anno preciso non me lo ricordo però è stato due, tre anni prima che mi sposassi…io mi sono sposata nel 1956, quindi sarà stato nel 1954, 1953…credo!

 

Può raccontarci cosa successe? Se si stanca può fermarsi quando vuole!

Si…certo! Ero andata insieme a tutta la mia famiglia presso un fondo che mio padre possedeva a Minervino e che si chiamava “I Madrigali”, che poi è stato diviso alla sua morte tra i miei fratelli, e stavamo tutti impegnati per la mietitura. Quel giorno era venuta anche mia madre, poverina, nonostante soffrisse di dolori reumatici. Verso mezzogiorno mentre ci stavamo preparando a mangiare qualcosa ebbi l’esigenza di andare in bagno e così mi allontanai e mi inginocchiai dietro un piccolo muro di pietre a secco per non essere vista dagli altri. Quando mi alzai mi accorsi che da sotto un ginocchio era scappata via una taranta, di quelle che hanno il colore rosso e nero. Quando la vidi mi spaventai e dissi dentro di me; “Mamma mia na taranta era, Santu Paulu meu! Speriamo che non mi abbia morso!”. Dolori da pizzicatura non ne avevo sentiti…però, rimasi col dubbio. Mi alzai e raggiunsi gli altri ma poco dopo venni colta da brividi di freddo, un freddo che aumentavano sempre di più… ma un freddo… un freddo… un freddo che ti entrava nelle ossa…

 

Si ricorda in che periodo accadde?

Si che mi ricordo il periodo… il giorno preciso no… ma il periodo me lo ricordo! Era nella prima decina di giugno, intorno all’8, 9 … giorno più, giorno meno. Faceva un caldo che spaccava le pietre ma io sentivo sempre più freddo…sempre più freddo. Tremavo dal freddo. Poi cominciai a sentirmi male… accusavo nausea e poi dolori alle ossa e alle parti delle donne. Erano dei dolori che andavano e venivano ma che si facevano sempre più forti… sempre più forti, tanto forti che non resistetti più e dissi a mio fratello Orlando di accompagnarmi a casa con la bicicletta. Così facemmo! Durante il percorso verso casa venni presa da dolori talmente forti che per reggermi mi aggrappano al collo di mio fratello tanto forte che gli faci male, poverino! Nonostante tutto arrivammo a casa e mi coricai, ma i dolori non passavano… aumentavano!

 

Una volta arrivati a casa che successe?

Successe che mio fratello scappò a chiamare il medico. Nel frattempo mia madre e i miei altri fratelli rientrarono anche loro a casa. Ben presto si sparse la notizia che non stavo bene e cominciarono a venire le vicine per vedere come mi sentivo. La casa di mio padre aveva un lungo cortile che si riempì di gente. In quell’epoca ci si voleva bene, non era come adesso che ognuno pensa ai fatti suoi e con i vicini nemmeno ci si saluta, allora, ai miei tempi era diverso… ci si aiutava.

 

Lei si sentì un pochino meglio una volta arrivata a casa e distesasi a letto?

Macché… non trovavo pace! Non riuscivo a trovare una posizione a letto che mi desse sollievo. Me ne fregavo che ero in vestaglia corta. Quando venivano quei dolori tanto forti non ci pensavo a chi c’era in casa. Facevo “piedi-capitali”, un po’ mettevo la testa sul cuscino un po’ la mettevo dove si mettono i piedi, ma niente, i dolori non terminavano. Ad un certo punto entra mio zio Ottaviano, il fratello di mio padre, per vedere come stavo. Vedendomi sofferente mi chiese: “Ma che ti è capitato nipote mia?” E io gli risposi stizzita: “Lasciami stare zio, che tu non puoi capire… questi sono i dolori del partorire!” Allora tutte le donne presenti nella stanza capirono la causa del mio malessere… la taranta aveva parlato tramite me e si era presentata. Era una “taranta de partu”. Subito dopo giunse mio fratello dicendo di non essere riuscito a trovare il medico perché gli avevano detto che era  dovuto andare fuori paese per una visita… ma tanto ormai non serviva più il dottore. Tutte mi dicevano che l’unica soluzione era andare a Galatina a chiedere la grazia a San Paolo perché si trattava di taranta. Fu così che i miei si organizzarono per farmi andare a Galatina. Era già pomeriggio inoltrato.

 

Che cosa accadde allora?

I miei fratelli preoccupati cercarono subito un’automobile affinché arrivassi presto a Galatina, la trovarono pure ma adesso non ricordo il motivo per il quale non andammo… forse non si misero d’accordo per il costo del viaggio… non ricordo… in quell’epoca nel mio paese c’era solo un’automobile a disposizione di un autista che la utilizzava per accompagnare le persone che avevano bisogni urgenti. Sta di fatto che quella volta fallì il tentativo di utilizzare un’automobile per raggiungere Galatina, né potevo chiedere ai miei fratelli di accompagnarmi in bicicletta perché era notte ma soprattutto perché i forti dolori non mi consentivano si stare seduta sul tubo della bicicletta da uomo non so come si chiama… ma ci siamo capiti! Allora scegliemmo di andare in biroccio e così  partimmo. Mi accompagnò mio fratello Orlando. Mia madre rimase a Minervino perché non si sentiva molto bene in quei giorni. Mio fratello Orlando era scettico riguardo il morso della taranta e questa cosa mi infastidiva molto perché non mi credeva. Mentre passammo per i vari paesi io mi vergognavo molto del mio stato ma soprattutto del fatto che le persone mi potessero vedere così tanto sofferente. Pensi che quando venivo presa dai dolori per non gridare troppo mi tenevo stretta ad un aggeggio che era legato al biroccio proprio come fanno le donne gravide quando stanno per partorire. La mia, come ho detto prima, era una “taranta de partu”!

 

Ci può spiegare meglio questo dettaglio? Che significa la parola “taranta de partu”?

Deve sapere che dalle nostre parti si è sempre detto che le tarante prima di essere dei ragni erano delle persone come noi, che facevano tutti i mestieri che facciamo noi e tutte le azioni che facciamo noi; solo che erano troppo orgogliose e avevano offeso Dio col loro modo di fare, quindi il Signore per punizione le aveva trasformate in tarante, in ragni. Durante la loro trasformazione continuarono a fare ciò che stavano facendo … c’era chi ballava mentre venne trasformata e se ti mordeva una di quella ti costringeva a ballare, c’era chi cantava e una volta diventato ragno se ti mordeva ti obbligava a cantare, c’era chi dormiva e se ti mordeva come ragno ti faceva dormire e via dicendo. La mia era stata una persona che stava per partorire e aveva le doglie mentre venne tramutata in taranta quindi il suo morso mi aveva dato tutti i dolori del parto… le doglie diciamo.

 

Come fa a sapere con certezza che i suoi erano dolori simili alle doglie del parto e non invece qualcos’altro?

Figlio mio… come facevo a sapere che erano dolori da parto? Perché stavo morendo di doglie proprio come le donne prene quando devono partorire! Solo io so cosa ho passato… gli altri non possono minimamente immaginare! E poi, tutte le persone che erano venute a casa mia e che avevano partorito e mi avevano vista in quello stato subito avevano capito che si trattava di quello… di taranta partoriente. Lo compresi pure io, dopo maritata, quando mi capitò di assistere parenti o vicine di casa che stavano partorendo! I miei dolori e il mio comportamento era stato simile al loro! Io non ho avuto figli ma i dolori del parto li ho subiti. All’epoca, deve sapere che solo le donne maritate potevano assistere a un parto… se una donna non era sposata non poteva assistere anche se era grande d’età, questo, per una questione di pudore. Chi non aveva conosciuto il marito non poteva assistere a una nascita…all’epoca era così… e all’epoca tutte partorivano in casa con l’aiuto della mammana… a volte manco il dottore c’era, veniva chiamato solo in casi gravi.

 

Una volta giunti a Galatina che cosa accadde?

Arrivammo che era già sera e la cappella di san Paolo era chiusa. Non c’era nessuno. Per prima cosa cercammo il sagrestano perché avevamo saputo che era lui che custodiva le chiavi della cappella. Quando venne e aprì la porta per prima cosa mi disse che dovevo bere l’acqua del “pozzo di San Paolo”. Raccolse con un vecchio secchio l’acqua del pozzo e me la porse in una specie di boccale unto. Appena la bevvi sentii che era acqua grossa che faticavo a ingoiare. Lui mi disse che dovevo sforzarmi a bere altrimenti il santo non mi avrebbe fatto la grazia. Bevvi a forza quell’acqua, prima piano poi a piccoli sorsi. Mamma mia che brutto sapore aveva quell’acqua amara! Era acqua grossa! Ne bevvi poca! Dopo un poco vomitai…vomitai il veleno, una volta… due volte e sul pavimento, proprio dove vomitavo si era formata tanta schiumazza segno del veleno che avevo messo fuori. Notai che col vomito i dolori piano piano stavano scomparendo. Dopo poco tempo mi sentii meglio. Dissi a quel punto a mio fratello Orlando e al padrone del biroccio che potevamo ritornare a Minervino. Avevo bevuto l’acqua del pozzo, i dolori erano scomparsi… potevo ritenermi soddisfatta… san Paolo mi aveva fatta la grazia…pensavo!

 

Poi cosa accadde?

Una volta arrivati a Minervino i parenti si tranquillizzarono nel vedermi rimessa. Raccontai loro come erano andati i fatti poi loro fecero ritorno alle loro case. Vidi mia madre molto preoccupata ma non ne compresi la ragione. Appena rimanemmo soli in casa i dolori ritornarono più forti di prima. Mi sentii persa… San Paolo non mi aveva fatta la grazia, questo comportava il fatto che sarei dovuta ritornare a Galatina per chiedere ancora la grazia al santo. Mi si avvicinò mia madre e mi disse che nonostante non si sentisse affatto bene quella volta mi avrebbe accompagnata lei. Seppi dopo, da mia sorella Nina che quando ero partita con mio fratello Orlando, la prima volta, loro due si erano appisolate sul letto matrimoniale di mia madre perché mio padre era ritornato al campo a terminare la raccolta delle spighe e per sorvegliare i covoni affinché non li rubassero. Mia madre una volta appisolata si era messa a mugolare nel sonno e a agitarsi tanto da svegliarsi di soprassalto. Tutta sudata e pallida come un cencio aveva detto a mia sorella che aveva visto in sogno san Paolo che l’aveva ammonita dicendole che se non mi avesse accompagnata lei a Galatina, in quanto madre, non mi avrebbe fatto la grazia. Una volta svegliata era rimasta molto turbata da quel sogno e aveva intuito che pur apparendole in buono stato di salute non ero guarita. Lei già lo sapeva perché san Paolo glielo aveva detto in sogno.

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

Dunque ritornaste a Galatina?

Si.

 

Ci racconti. Allora, della sua seconda visita al Santo!

Partimmo di mattina presto che era ancora buio sempre con lo stesso proprietario del biroccio. Quella volta mia madre si sedette accanto a me. Mio fratello Orlando rimase a casa perché doveva aiutare mio padre. Durante il tragitto quando venivo assalita dai dolori mi aggrappavo a mia madre e lei mi consolava. Nuovamente dovemmo passare per i paesi e quella cosa mi diede ancora molto fastidio. Non volevo mi vedessero in quello stato. Giungemmo a Galatina in prima mattinata e quella volta trovammo la porta della cappella aperta e molte tarantate con i loro accompagnatori erano già entrate dentro o si erano fermate fuori. Quel giorno vidi tante altre tarante, chi stava seduta mezza appisolata, chi balbettava qualcosa che non riuscivo a comprendere, chi muoveva freneticamente la testa con i capelli scompigliati, chi cercava di arrampicarsi sull’altare. Io avevo sentito dire che alcune tarante, anche se vecchie, si muovevano come ragni e si arrampicavano dove per tutti gli altri uomini non era possibile arrivare.  Mi avevano anche raccontato che alcune di loro riuscivano a diventare sinuose come le sacare al punto da riuscire a passare tra i piedi delle sedie senza muoverle o che alcune riuscivano a rimanere in equilibrio su uno spazio così piccolo (mima lo spazio di un palmo) senza cadere per tanto tempo. Erano tutte cose che mi erano state raccontate da gente che era stata prima di me, gente di cui potevo fidarmi. Quel giorno ebbi, invece, modo di vedere una tarantata che aveva preso per il collo un signore che indossava una cravatta rossa e nera. Si gettarono in otto su di lei per trattenerla. Se non l’avessero fatto lo avrebbe soffocato con le sue mani. Le tarantate avevano una forza straordinaria, una forza che nemmeno si può immaginare. Quando entrai nella cappella notai un uomo che stava come se stesse dormendo e una donna, che seppi essere sua moglie, che di fronte la statua del santo nella teca gli diceva: “Ma perché non gliela fai la grazia? Perché? Perché non gliela fai?”. Senza dire una parola andai al pozzo mi feci passare il secchio e ingurgitai moltissima acqua, ma davvero tanta. Subito ripresi a vomitare, una… due… tre… quattro volte, finché non mi sentii del tutto liberata dal veleno. Mi sentì allora subito bene, talmente bene come se non mi fosse accaduto nulla. Fu allora che mi avvicinai alla signora che interrogava il santo e le dissi: “Signora mia, guarda la statua del santo… vedi cosa indica col dito? Indica il pozzo! Se non fai bere a tuo marito tanta acqua quello non ti sana!”

La donna mi guardò riconoscente e mi disse che era più di un anno che suo marito versava in quello stato… non dava più segni di vita… non moriva ma nemmeno campava più. Si sentiva disperata!

Dissi a mia madre che mi sentivo davvero bene e che volevo ritornare a casa ma prima di andare al biroccio volevo passare a rendere omaggio a San Paolo e San Pietro presso la chiesa madre che distava poco. Mentre parlavo con mia madre fui fermata da un signore distinto che mi intervistò. Mi disse di essere uno studioso delle tarantate e io gli raccontai cosa mi era accaduto. Dopo ci recammo in chiesa e ringraziammo san Paolo e anche san Pietro. Fu allora che notai che la statua di san Pietro era molto più preziosa di quella di san Paolo. Era a mezzobusto tutta d’argento… era bellissima. Anche quella di san Paolo era bellissima ma era di cartapesta. Dopo aver detto le preghiere ritornammo dal proprietario del biroccio e lo vedemmo litigare con un signore.

 

Cosa era accaduto?

Cosa era successo? Era successo che il padrone del biroccio aveva legato il cavallo davanti a uno studio fotografico ed era andato a farsi quattro passi per fumarsi una sigaretta. Al ritorno aveva saputo che il suo cavallo con un colpo di muso aveva mandato in frantumi la cornice di un quadro di san Paolo e ora il proprietario dello studio pretendeva che aggiustasse la cornice. Noi proponemmo di dargli dei soldi per il danno ma lui fu irremovibile… ci disse: “fin quando non aggiustate il quadro e non lo appendete dove stava di qua non ve ne andrete!”. Allora con la santa pazienza convincemmo l’uomo del biroccio ad andare a trovare un falegname e un vetraio. Così accadde. Dopo tanto tempo riuscimmo a riparare il danno e fare finalmente ritorno a casa. Fu una giornata stancante… molto stancante, tanto per me quanto per mia madre.

Il ballo della tarantata, olio su tela di Daniele Bianco

 

Si recò altre volte a Galatina a rendere omaggio a san Paolo in occasione della sua celebrazione il 29 Giugno?

Certo! Ci andai quell’anno e altre due volte da sposata. Quell’anno andai in bicicletta perché avevo recuperato tutte le forze e mi sentivo bene. Avevo superato Corigliano d’Otranto quando venni superata da un biroccio che portava una tarantata che si stava scalmanando. Quella si mise a gridare: “Haiiiiiiiiiiii…haiiiiiiiiiii” e quel grido mi fece di colpo perdere tutte le forze. Stavo quasi cadendo dalla bicicletta e mi misi subito a tremare. Mi fermai e lasciai che si allontanassero, poi ripresi a pedalare verso Galatina.

 

È vero che il santo vi lascia i segni della sua presenza in prossimità della sua festività?

Si è vero! Da quando venni morsicata nel periodo della sua celebrazione mi sento strana… stanca, svogliata… frastornata diciamo! Anche adesso mi capita, poi quando mi dicono che è la festa di San Paolo capisco la causa del mio malessere. È il santo che vuole che mi ricordi del suo intervento prodigioso e allora gli recito un Rosario con tutti i misteri, mai per rinfaccio. È stato san Paolo che mi ha guarita non i medici!

 

La ringrazio di tutto signora. La sua testimonianza è davvero molto importante. Grazie ancora!

Grazie a lei… che santu Paolo e lu Signore vi benedica e vi protegga!

 

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

 

Analisi antropologica della testimonianza

L’esperienza vissuta dalla Sig.ra Domenica di Minervino di Lecce intorno alla metà degli anni ’50, praticamente a ridosso della spedizione di ricerca di Ernesto De Martino a Galatina e nel Salento, proprio perché slegata dal comune aspetto coreutico-musicale presente nel fenomeno catartico del tarantismo, risulta essere particolarmente preziosa ai fini di un’accurata indagine antropologica e sociale. Nel racconto emerge una forte fede religiosa nella vita della signora fin dalla sua giovane età. La signora Domenica apparteneva a una numerosa famiglia contadina legata alla mezzadria, ma non solo, di discrete condizioni economiche. La signora non ha mai sofferto di disturbi di natura psicosomatica né psichiatrica, né si annoveravano casi psicopatologici in famiglia come risulta da accurata indagine. La signora e la sua famiglia di appartenenza godeva nella sua comunità di ottima stima, stima che è proseguita anche nel paese del marito divenuta comunità di residenza una volta sposata.

È presente in lei, come precedentemente accennato, un fortissimo attaccamento all’ambito religioso che rasenta l’affabulazione. Mi risulta che la signora sia stata educata fin dalla sua giovanissima età dalla sorella minore di suo padre, una “suora di casa” che impossibilitata per motivi di salute a esercitare in convento i doveri in una non meglio specificata congregazione religiosa venne dispensata dai voti ed esercitò nella sua abitazione la missione cristiana di accoglimento, custodia cura religiosa degli infanti di genitori entrambi lavoratori. Anche gli altri suoi familiari (fratelli, sorelle e genitori) risultano essere tutti dei cattolici credenti e praticanti tutte le funzioni religiose.

Dalla sua narrazione emergono numerosi spunti d’indagine e riflessione quali:

  • La presenza di un rimando mitologico riguardo l’origine del fenomeno del tarantismo (metamorfosi di uomini e donne in tarante per punizione divina) che richiama alla mente la vicenda mitica di Atena e della tessitrice Aracne, fatto questo che lascia supporre una presenza latente di una rimembranza etnica nel sottobosco rurale demologico salentino;
  • Il convincimento pre-ippocratico che la malattia provenga dalla sfera divina per cause occulte, il più delle volte per una manchevolezza volontaria o involontaria del malato ma anche di alcuni suoi familiari;
  • L’emergere di una tradizione sapienziale diagnostica di natura rurale laddove altre tarantate o testimoni di tarantate convincono il malato a lasciar perdere l’iter medico-scientifico e di rivolgersi unicamente a quello religioso;
  • Un continuum di una presenza asclepiea nella vicenda che vede nell’acqua il farmakon per certi versi omeopatico (acqua amara e disgustosa) con cui si ottiene la salute perduta. Non va trascurata la vicinanza geografica e culturale con la tarantata Filomena da Cerfignano che nell’opera La Terra del Rimorso di Ernesto De Martino viene fotografata da Franco Pinna mentre esegue il rito dell’incubatio onirica di sicuro rimando iatromantico asclepieo. Incubatio onirica che nel caso specifico della signora Domenica è presente nella vicenda del sogno premonitore della madre;
  • Non si esclude che l’intervistatore della signora Domenica possa essere stato lo psichiatra Giovanni Jervis in persona o qualche suo stretto collaboratore poiché in quel periodo il neurologo era presente in zona per approfondire autonomamente il fenomeno del tarantismo prima di fare parte, dal 1959 al 63 dell’equipe di Ernesto De Martino;
  • In ultimo l’appartenere alla “ciclicità dell’evento” anche da vecchia a dimostrazione che nella signora permangono indisturbati due modi vi vivere la storia, quello ciclico del ritorno di radice religiosa arcaica e contadina, presente nel riproporsi del tenue malessere in corrispondenza del giorno della celebrazione del santo; e quello lineare cristiano, proprio invece della vita quotidiana, che procede inesorabile, con i suoi avvenimenti profani, verso la fine dei giorni.
Galatina, il pozzo di San Paolo

Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

Santa Maria di Pompignano

La chiesa matrice di Santa Maria di Pompignano

un bene culturale medievale da salvare ad ogni costo

di Romualdo Rossetti e Oreste Caroppo

 

Chi si trova a percorrere la strada provinciale 363 che da Maglie conduce a Santa Cesarea Terme, all’altezza dello svincolo per Muro Leccese, posta su di una piccola altura in agro di Sanarica, compare sulla sinistra ciò che rimane della chiesa del villaggio medievale di Pompignano, uno dei tanti borghi satelliti (denominati in epoca bizantina choria) che insieme a quelli di Brongo, di Miggiano, di Miggianello e di Pulisano orbitavano intorno al nucleo urbano più importante denominato in epoca medievale Santa Maria de Muro, che a sua volta sorse sullo stessa area urbana in cui anticamente governò l’importante polis messapica di Mios.

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Ingresso di Santa Maria di Pompignano con arco ogivale e volta a crociera (foto Romualdo Rossetti)

Il luogo di culto mariano è ubicato lungo la vecchia strada comunale che conduceva a Palmariggi, a due chilometri dal centro abitato di Sanarica e ad appena un chilometro da quello di Muro Leccese. Ciò che lascia sgomenti è lo stato di abbandono in cui versa l’antico edificio di culto che, per ampiezza volumetrica e localizzazione fisica, testimonia un illustre passato.

Rudere di arco portante ogivale destro del corpo centrale della chiesa (foto di Romualdo Rossetti)
Rudere di arco portante ogivale destro del corpo centrale della chiesa (foto di Romualdo Rossetti)

La struttura della chiesa, risalente grosso modo al X secolo d.C., risulta di pianta rettangolare ad una sola navata che si apre con un grande arco ogivale di fattura quattrocentesca, che introduce in un primo spazio su cui compare una volta a crociera. Nel corpo dell’edificio retrostante si nota ancora la stessa foggia degli archi portanti da cui si diramavano le stesse tipologie di volte ormai irrimediabilmente perdute per l’opera degli agenti atmosferici ed il sovrapporsi, nel corso degli anni, di vegetazione spontanea (rovi ed arbusti di caprifico).

Finestra ellittica lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto di Romualdo Rossetti)
Finestra ellittica lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto di Romualdo Rossetti)
Porta secondaria con finestra ellittica lato sinistro dell_edificio (foto Romualdo Rossetti)
Porta secondaria con finestra ellittica lato sinistro dell_edificio (foto Romualdo Rossetti)
Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)
Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)

I continui crolli, soprattutto quello che ha interessato il lato settentrionale della struttura, ha evidenziato a destra della parete absidale la presenza di una stele di epoca presumibilmente romana o addirittura anteriore, presenza archeologica importantissima e forse unica nel territorio comunale di Sanarica dove ricade oggi il bene architettonico in questione.

Risultano caratteristiche anche due finestre  di foggia ellittica,  anch’esse quattrocentesche, poste sulla parte destra e sulla porticina rettangolare dell’ingresso laterale sinistro dell’edificio. Fino a poto tempo addietro si potevano osservare anche dei resti d’intonaco affrescato per terra.

La chiesa di Santa Maria di Pompignano (…ecclesia sub titolo Sancte Marie de Pulpignano”) ricadeva molto probabilmente nel novero delle chiese e dei luoghi di culto facenti riferimento al gran cenobio di San Nicola di Casole, come lo fu per molto tempo il monastero dei monaci basiliani di San Zaccaria (ora del Santo Spirito) e l’abbazia di S. Spiridione sita nel feudo di Sanarica.

Non è improbabile che il borgo medievale di Pompignano sia sorto sulla stessa area dove operava un piccolo fortilizio messapico, e successivamente tardo romano, posto a difesa dei traffici su via. Dell’antico villaggio medievale non esiste più traccia.

Insieme a tantissimi luoghi di culto di rito greco come  S. Eutimio, S. Salvatore, S. Menna, S. Maria di Costantinopoli, S. Spiridione, S. Giorgio, S. Zaccaria, S. Barbara, S. Pantaleone, S. Andrea, S. Maria di Corignano, presenti a Muro, si ritrovano cenni sulla vitalità di questo luogo di culto nelle “sacre visite” pastorali del 1522 e del 10 gennaio del 1540. Quest’ultima fu effettuata per volere dell’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua, che incaricò il domenicano Antonius de Becharis ed il reverendo Mariano Bonusio a recarsi nella “parochie terrum seu Casalis muri”. Dalla lettura del resoconto della visita pastorale  emergeva lo spaccato della vita religiosa della parrocchia sotto esame. Il rito greco persisteva ancora, anche se irrimediabilmente volto al declino, e  nel lungo elenco delle chiese presenti un buon numero di queste risultavano ancora consacrate a santi greci come S. Elia, S. Giorgio, S. Sofia e S. Pantaleone. Alla liturgia greca subentrò pian piano quella latina che si professò nelle chiese dedicate a San Sebastiano e a S. Maria dell’Assunzione.  Per quel che concerneva il rendiconto  dei due religiosi riguardo allo stato degli edifici di culto traspariva che la maggior parte di questi necessitasse già all’epoca di riparazioni strutturali.

Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)
Scorcio lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto Romualdo Rossetti)

Per ciò che concerne Santa Maria di Pompignano si può oggi ipotizzare che la chiesa versasse ancora in discrete condizioni, possedendo un patrimonio fondiario costituito da piccoli appezzamenti di terreno agricolo ed alcuni alberi di ulivo situati sia nelle immediate vicinanze del luogo di culto che in altre zone poco distanti. Si conosce altresì anche la presenza di un cappellano, di nome Palmerius Gramalatius, che doveva essere uno dei presbiteri della chiesa di Pompignano.

Ora dell’antica chiesa, di proprietà privata, resta solo un rudere prossimo a scomparire, violentato dai continui cumuli di materiali di risulta che gente a dir poco incivile continua ad accatastare ai suoi piedi e nelle vicinanze, proprio in quei luoghi in cui leggende contadine narravano di esemplari e fortuiti ritrovamenti ossei  come femori ed ulne dalle dimensioni gigantesche ed archeologici  come monili e oggetti di vestiario di epoca medievale e moderna.

Vegetazione spontanea che ha invaso l_interno della chiesa (foto Romualdo Rossetti)
Vegetazione spontanea che ha invaso l_interno della chiesa (foto Romualdo Rossetti)

Dinanzi a tanto oblio svetta alto un imperativo categorico: “Bisogna al più presto e ad ogni costo ricostruire Santa Maria di Pompignano dov’era e com’era”.

Restaurare è atto tanto nobile in sé perché non significa riedificare qualcosa che rischia di non essere più, restaurare è recuperare anche la storia ed il carico simbolico che un bene ha posseduto nel corso della sua esistenza. Oggi grazie alla scienza del restauro che si perfeziona sempre di più, e cum grano salis è possibile porre in essere interventi esteticamente parlando poco invasivi che non alterano la struttura originaria con un “nuovo” sovrapposto al “vetusto”. Basta dunque a quelle trovate stupide, come quelle di certa deviata scuola che non vuole ricostruire com’era, ma indicare con colori e materiali diversi il nuovo restaurato, dal vecchio. Oggi restaurare significa tenere conto della complessità dell’oggetto e del contesto in cui l’oggetto viene a trovarsi. Dunque si proceda non solo alla riedificazione ma anche a far ritornare il paesaggio circostante nelle condizioni originarie ( qualora ciò sia possibile s’intende! ndr). Il bene come parte della scenografia delle nostre esistenze che deve essere quanto più possibile gradevole. In questo caso il restauro della chiesa di Santa Maria di Pompignano deve essere integrale e non conservativo altrimenti si è compartecipi della condanna di quel bene alla sua perenne  mutilazione estetica! Supponiamo di avere un affresco (ma vale per tutto), di cui si è consapevoli  di com’era in origine perfettamente, in linee e colori. Se oggi nell’ intervento si  cerca solo di conservare ciò che è rimasto, diciamo il 50 % senza integrare le parti mancanti, nel futuro restauro, ne sarà rimasto solo il 40%, poi il 30% e così via, finché nel 2300 il restauro vorrà dire presentare al pubblico una parete vuota o quasi, senza più percettibili linee e colori, seppur neo-restaurata con grande dispendio di risorse economiche! Il bene culturale è presenza e informazione insieme, informazione anche comprendente il materiale adoperato, e l’informazione si conserva ritrascrivendola in continuazione, come nei computer e nella replica del DNA negli esseri viventi, e così che si dovrebbe intendere il restauro, come è stato inteso nel passato, ermeneutica dell’arte che non solo ha conservato  ma ci ha trasmesso buona parte delle opere che oggi ammiriamo. L’opera, in tal modo, con la sua immutata presenza vivrà nel tempo aionico e continuerà a trasmettere, a comunicare contro il tempo cronico che tutto degrada, persino la pietra. Ed è per questo che il restauro deve essere rispettosissimo del Genius loci dei luoghi e dello spirito delle opere, talvolta dotate di un’ anima stratificatasi nei secoli  che giunge fino ai giorni nostri.

Scorcio lato sinistro (foto Romualdo Rossetti)
Scorcio lato sinistro (foto Romualdo Rossetti)

Gedik Ahmet Pascià e Giulio Antonio I Acquaviva. Breve profilo storico di due uomini l’un contro l’altro armati

Gedik Ahmet Pascià il rinnegato cristiano che divenne Gran Visir alla corte di Mehmet II il Conquistatore

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Ritratto di Gedik Ahmet Pascià detto Giacometto

 

di Romualdo Rossetti

 

Il nome di Gedik Ahmet Pascià (… – Edirne, 18 novembre 1482) è tristemente ricordato in terra d’Otranto per la ferocia con la quale il 14 Agosto del 1480 ordinò ai suoi uomini di decapitare gli 800 prigionieri idruntini sul colle della Minerva, dopo aver fatto stuprare fanciulle, sgozzare inermi uomini di fede, donne, vecchi e bambini, abbattere ed insozzare i più importanti luoghi di culto cristiani come la chiesetta di San Pietro, la cattedrale e l’antico cenobio basiliano di San Nicola di Casole, segare in due il comandante della guarnigione cristiana Francesco Zurlo, e fatto impalare il boia Berlabei che colpito dal coraggio e dall’eroica e soprannaturale morte di Primaldo Pezzulla, il primo degli ottocento martiri, si era rifiutato di decollarne altri.

Ma chi era in realtà Gedik Ahmet Pascià? Secondo alcune fonti il comandante in capo dell’armata turca conosciuto anche con gli appellativi di Giacometto o Gedik lo sdentato pare non fosse altro che uno dei tanti rinnegati cristiani di origini serbe o greco-bizantine che si erano votati per codardia alla causa dell’Islam. Altre fonti invece, lo dichiarano di discendenza albanese visto che durante una manovra bellica si rifiutò di prendere parte ad una ritorsione nei confronti della città di Scutari che molti cedettero fosse la sua città d’origine. La sua folgorante carriera politica ebbe sicuramente inizio in ambito militare quando in qualità di stratega riuscì a sconfiggere l’ultimo karamanide che ostacolava l’avanzata di Mehmet II in Anatolia, principato islamico che resisteva alle mire espansionistiche degli Ottomani da più di duecento anni.

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Stemma del Gran Visir della “Sublime Porta”

La sua vittoria contro i Karamanidi nel 1471, permise all’Impero della “Sublime Porta” di conquistare la strategica regione costiera che si affacciava sul Mediterraneo e che aveva reso prospere con le sue rotte commerciali e vie carovaniere le città di Silikke, Mennan ed Ermenek. Ebbe anche numerosi scontri con la flotta veneziana stanziata nel Mediterraneo orientale e fu inviato nel 1475 dal Sultano ottomano Mehmet II a dar manforte al Khanato di Crimea contro le forze genovesi che lo assediavano da tempo. In Crimea conquistò le città di Sudak, Balaclava e Caffa insieme a molte altre fortezze e roccaforti genovesi. Per opera sua capitolarono il Principato di Teodoro con la sua capitale Mangup e le regioni costiere della Crimea. In un’occasione mise in salvo inoltre, Mengli I Giray, il Khan di Crimea dagli attacchi dei Genovesi. Conquistò al soldo del suo sultano la Crimea e la Circassia. Nel 1479 il Sultano Mehmet II gli ordinò di porsi alla guida della flotta ottomana nel Mediterraneo nella guerra contro il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.
Durante questa campagna, si appropriò delle isole di Cefalonia, Santa Maura (Leucade) e Zante (Zacinto).
Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, Mehmet II volle considerarsi il legittimo erede dell’Impero Romano, cosa che gli fece credere di poter intraprendere la conquista della penisola italiana per riunire i territori romani sotto la sua dinastia. Dopo un tentativo non riuscito di strappare l’isola di Rodi ai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, nel 1480 riuscì a conquistare la città portuale di Otranto.
Nel frattempo, nel 1474 Gedik Ahmet Pascià, uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull’arte della navigazione, era stato da nominato dal suo amato sultano Sadrazam (supremo Visir, carica che terrà fino al 1477) successivamente retrocedette alla carica di “Sançak Bey”, ovvero governatore del sangiaccato di Valona.

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Ritratto di Maometto II di Giovanni Bellini

La flotta messagli a disposizione per la conquista dell’Italia era imponente. Stando alle varie fonti storiche pare fosse composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini: cifre però queste non storicamente confermate ed in continua oscillazione. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È ipotizzabile che la flotta turca trasportasse un esercito di 18.000 uomini. Presa Otranto ordinò ai suoi uomini svariate incursioni lungo la penisola salentina ai danni di numerosissimi villaggi e casali non trascurando di attaccare però città di notevoli dimensioni come Galatina che sotto i suoi assedi rovinò il 7 febbraio del 1481.

La presa di Otranto e le scorribande nel Salento durarono in realtà pochi mesi perché gli assedianti si trovarono, ben presto, senza vettovagliamenti e ripiegarono in Albania con l’intento di riprendere l’assedio con l’arrivo della buona stagione. La morte improvvisa di Mehmet II il 3 maggio del 1481 causata da un complotto di palazzo orchestrato con buona probabilità dal figlio Bayezid II pose Gedik Ahmet Pascià in una posizione abbastanza scomoda tanto che fu posto dal nuovo sultano agli arresti e dopo nemmeno diciannove mesi la morte del suo grande benefattore, fu fatto uccidere ad Edirne il 18 novembre del 1482.

Giulio Antonio I Acquaviva lo sfortunato “defensor fidei” di Don Ferrante d’Aragona che perse la testa per la causa cristiana

Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova
Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova

 

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VII Duca d’Atri, I Duca di Teramo, XIII Conte di Conversano e di Castro San Flaviano e Signore di Forcella, Roseto e Padula, Giulio Antonio Acquaviva I nacque in Abruzzo nel 1425. Figlio di Antonella Riccardi Migliorati dei signori di Fermo e di Ortonae del famoso capitano di ventura Giosia Acquaviva, VI duca d’Atri.

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Le famiglie di entrambi i suoi genitori appartenevano al più antico patriziato napoletano. Suo padre Giosia aveva ereditato vasti territori lungo il litorale adriatico da parte dei propri predecessori che erano scesi in Italia dalla Baviera con gli Ottoni nel corso del X secolo. Questi vasti possedimenti avevano il loro centro d’irradiazione nel feudo della città di Acquaviva Picena, graziosa città in Abruzzo Ultra, da cui la famiglia acquisì il nome a partire dal regno dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen.Gli Acquaviva ricoprirono le più alte cariche sia in campo militare che in quello civile ed ecclesiastico. Le prime scritture risalgono al 1195 con tal Rinaldo sposato a Foresta, figlia di Lione signore d’Atri.

Stemma ducale della Casata Acquaviva
Stemma ducale della Casata Acquaviva

Gli Acquaviva parteciparono, con le proprie milizie alla Crociata del 1185 e, con propri navigli, alla guerra contro l’Imperatore d’Oriente. L’antica prossimità degli Acquaviva con la casata sveva rese inevitabile il forte contrasto con gli Angioini ed i loro vassalli. Un suo avo , Antonio Acquaviva nel 1376 riuscì a sottomettere gli Ascolani che si erano ribellati e fronteggiò con successo anche Lodovico d’Angiò tanto che per riconoscenza, re Carlo III di Durazzo lo nominò suo ciambellano donandogli i possedimenti di San Flaviano e di Montorio col titolo di Conte.Con un’abile strategia e manovra militare, nel 1390 riuscì a penetrare di notte nella città di Teramo uccidendo Antonello della Valle che dormiva nella sua dimora. Il 20 giugno del 1393 ottenne da re Ladislao di Durazzo, dietro pagamento il riconoscimento del possesso di Atri e Teramo. Suo padre Giosia intraprese la stessa strategia alleandosi con Alfonso d’Aragona nella lunga, drammatica contesa per il trono di Napoli. Per questa netta scelta di campo, egli dovette subire periodiche devastazioni delle sue terre da parte degli Sforza, alleati degli Angioini, venendo persino preso prigioniero da questi ultimi dopo la sanguinosa battaglia di Ortona del 1440. Cresciuto in un contesto così violento ed infido il giovane Giulio Antonio I non potette che farsi strada con l’astuzia e la forza delle armi, militando con onore nell’armata del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo.

La sincera devozione verso il suo signore – dimostrata in molti campi di battaglia tra Marche, Abruzzo e Puglia – gli portò in dote la contea di Conversano, acquisita tramite il matrimonio che si celebrò nel 1456 con Caterina Orsini del Balzo, Contessa di Conversano, Signora di Turi, Noci, Castellana, Casamassima, Bitetto e Gioia del Colle, nonché figlia naturale del suo amato principe. Affiancando la politica del suocero, prese parte alla prima congiura dei baroni sconfiggendo il 22 luglio del 1460 presso il proprio feudo di Castello S. Flaviano le guarnigioni reali anche se non potette gioire della vittoria perché ostacolato dalle forze di Giorgio Castriota Scanderbeg. Passò poi a prendere parte all’assedio di Troia e quindi a quello di Andria insieme con Niccolò Piccinino col quale si sforzò di piegare ma invano la resistenza di Francesco del Balzo, padre di Raimondello e fedele a Ferrante d’Aragona. Presa infine la città di di Andria ma fu però sconfitto nel 1462 a Troia.

Successivamente Giulio Antonio I Acquaviva negoziò un trattato di pace tra il suocero e gli Aragonesi, riuscendo ad instaurare così un buon rapporto personale con il nuovo sovrano Ferrante. Nel 1463 tale simpatia gli permise di recuperare alcuni possedimenti di famiglia a Montepagano, e di imporre alla città di Bari un esoso tributo ammontante ad oltre 4000 ducati. Nel 1463, una volta deceduto il suocero, capo ed organizzatore principale della rivolta dei baroni, passò senza preavviso dalla parte del re Ferrante d’Aragona, al quale da allora in poi serbò fede fino alla morte. Ferrante lo accolse con ogni onore, concedendogli il 30 aprile del 1469 la restituzione dei possedimenti di Atri e di Teramo, che erano stati privati a suo padre Giosia.

 Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”
Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”

Nel 1473 ebbe l’incarico di scortare a Ferrara Eleonora d’Aragona, che andava in sposa ad Ercole d’Este. L’anno successivo fece parte del corteggio di Federico d’Aragona nel viaggio verso la Borgogna, per chiedere la mano di Maria, figlia di Carlo il Temerario. Il 16 settembre del 1477 accompagnò Giovanna d’Aragona da Castelnuovo alla chiesa dell’Incoronata, dove doveva aver luogo la cerimonia della sua incoronazione.

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Con l’interdizione della carriera militare ai nobili, decisa da don Ferrante, il maturo condottiero si stabilì definitivamente nei suoi possedimenti abruzzesi dove pose in essere un’intensa attività artistica e culturale.Questo ritiro fu interrotto per poche settimane solo dalla guerra di Toscana del 1479. Ormai sicuro dei propri diritti feudali, Giulio Antonio I Acquaviva progettò la ricostruzione di molte località del ducato di Atri, diroccate durante le precedenti ostilità tra Aragonesi e Angioini.La prima località ad essere soggetta a tali interventi urbanistici fu la città di Conversano, dove venne ristrutturato l’antico castello medievale che fu arricchito con un’ampia torre a base decagonale e lunghe mura a scarpata, particolarmente ardite dal punto di vista ingegneristico. Il resto del maniero fu invece fortificato con parapettie bastioni a pianta cilindrica che lo fecero divenire un vero e proprio capolavoro dell’architettura militare del tredicesimo secolo. Subirono importanti restauri anche la Cattedrale e il Monastero di San Benedetto, governato spesso nei secoli seguenti da badesse appartenenti alla famiglia ducale Acquaviva d’Aragona.

Giunse poi il tempo della ricostruzione di Atri, con l’edificazione della chiesa di San Liberatore che era stata originariamente cappella votiva degli Acquaviva e l’ampliamento di quella di San Nicola.Fu però l’antico borgo di Castel San Flaviano ad assorbire le massime attenzioni del duca mecenate. Posto sul litorale adriatico dopo la famosa battaglia del Tordino del 25 luglio del 1460 tra le truppe di Francesco Sforza e quelle Niccolò Piccinino, Castel San Flaviano, la residenza degli Acquaviva, fu saccheggiata dai soldati di Matteo di Capua e ridotta in un cumulo di macerie.Invece di ricostruire la città, Giulio Antonio I preferì costruirne una nuova a settanta metri sul livello del mare vicino alla città antica romana denominata Castrum Novum Piceni.

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Stemma d’Aragona

Il 31 maggio1471 Ferrante I re di Napoli emise un proclama mediante il quale autorizzava Giulio Giulio Antonio I Acquaviva a riedificare Castel San Flaviano sul luogo che egli stesso aveva prescelto. Il nuovo nucleo prese da lui il nome di Julia e più tardi quello di Julia nova. Il progetto della cittadella fu affidato dal duca ai famosi architetti Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini che lo terminò nel 1472, ispirandosi agli antichi modelli vitruviani ed ai nuovi criteri di prospettiva e razionalità propri dell’età rinascimentale. I lavori di edificazione si protrassero per più decenni e si presentarono come un’impresa titanica, fortemente voluta dallo stesso duca che più di una volta s’interessò personalmente dell’opera, anche con l’aiuto di persone di sua fiducia, come il suo legittimo primogenito Giovanni Antonio, e Sulpizio altro suo figlio naturale. Il centro abitato originario era racchiuso per intero entro una possente cinta muraria della forma di un quadrilatero irregolare, difeso da otto torrioni di cui uno inserito nel palazzo ducale. L’impianto dell’urbe era di tipo radiocentrico imperniato su un nucleo monumentale costituito dal Palazzo degli Acquaviva, dalla fontana pubblica e dal Duomo di forma ottagonale che dominava l’Adriatico.

Stemma Acquaviva d’Aragona
Stemma degli Acquaviva d’Aragona

La cittadella, progettata per accogliere non più di un migliaio di residenti, ebbe al principio una scarsa popolazione, composta per lo più da immigrati di altri stati italiani o provenienti da alcuni paesi dell’Europa orientale. Nel primo censimento comparivano dieci Albanesi, quattro Croati non ben identificati e tre Greci mentre per quanto concerneva gli Italiani si segnalavano la presenza di ben quindici Lombardi oltre ad alcuni Veneti e Romagnoli, un Ragusino, un Marchigiano ed un solo Abruzzese. La città di Jiulia nova fu il definitivo trionfo di Giulio Antonio I Acquaviva, ormai acclamato non solo per le diverse battaglie sostenute ma anche per le grandiose opere artistiche realizzate durante il suo lungo ritiro professionale.

Uomo d’arme e d’ingegno fu utilizzato più volte da re Ferrante per i suoi fini politici. Nel 1478, riprese le armi e comandò la flotta che sosteneva l’esercito napoletano di Ferrante d’Aragona, che si era unito alla coalizione costituita dal papa Sisto IV contro Firenze e nel luglio dello stesso anno partì alla volta di Genova alla testa di una spedizione armata, in occasione della ribellione genovese contro gli Sforza, di lì attraverso la Lunigiana transitò in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo sotto le mura di Pisa e passando poi a sostenere nel 1479 i Senesi ribelli contro Firenze.

Una volta ritornato alla corte di Napoli per aver guidato e consigliato il duca di Calabria, fratello del re, venne insignito dell’Ordine del Ermellino. Inoltre con privilegio del Re di Napoli del 30 aprile 1479, ricevette l’onore di poter aggiungere al suo cognome il nome di Aragona e di inserire nel blasone di famiglia i colori della nobile casata regia. Una volta occupata Otranto dai Turchi di Mehmet II, fu posto a capo della prima spedizione di millecinquecento soldati mandata per recuperare la cittàportuale salentina.

Stanziatosi con le sue truppe nella piccola città di Sternatia, il 7 febbraio del 1481 saputo della caduta in mano musulmana della roccaforte di Galatina cercò di inseguire le retroguardie turche che ritornavano ad Otranto ma alla guida di un manipolo di suoi fedeli, s’impantanò nelle terre paludose e boschive nei pressi dei casali di Acquarolo (oggi località “Laccu”) e Pulsanello (oggi località “Pulisanu”) a poche miglia dai centri urbani di Muro Leccese e Giuggianello cadendo in un agguato dei Turchi che lo decapitarono in battaglia. La sua testa fu dapprima issata su di una picca e mostrata a sfregio durante gli scontri poi successivamente fu inviata a Costantinopoli come trofeo di guerra.Nonostante vari tentativi diplomatici non fu mai riportata in patria ad alcun prezzo. La leggenda racconta che una volta decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò privo di testa a Sternatia nel fortilizio da dove era partito con le sue truppe.A vendicarlo ci pensò il figlio Andrea Matteo, che condusse il lungo assedio delle posizioni turche nel Salento sino alla loro resa definitiva.

Il suo corpo fu sepolto, assieme a quello della moglie, nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano, in un momumento funebre opera dello scultore galatinese Giulio Barba.

La sacralità del valicabile e dell’invalicabile da Terminus a Limentinus, passando per Cardea

 

di Romualdo Rossetti

 

Non si potrà analizzare bene il concetto filosofico di limite se non ci si soffermerà ad esaminare quali furono le antiche divinità italiche pagane preposte alla difesa dello stesso. Nel pantheon dei nostri predecessori latini non a caso comparivano più nomi preposti, a vario titolo, alla salvaguardia di quella linea, reale o immaginaria, che di volta in volta definiva il valicabile o l’invalicabile.

Terminus era la divinità preposta alla protezione dei marcatori di confine. A tale divinità erano dedicate le festività chiamate terminalia che si celebravano in suo onore dopo la prima metà del mese di febbraio. Secondo lo scrittore romano dedito all’agrimensura Siculo Flacco il luogo prestabilito per l’edificazione della stele in pietra posta a segnare la fine o l’inizio di un possedimento agricolo, veniva reso sacro con un sacrificio di un animale (un maiale o un agnello) il cui sangue veniva raccolto e versato insieme alle ossa e alle ceneri dello stesso alla base del cippo. Il culto di Terminus molto probabilmente fu introdotto a Roma ai tempi della prima coreggenza tra re Latini e Sabini (Romulus e Titus Tatius). Terminus essendo essenzialmente una divinità preposta alla divisione della proprietà privata sovraintendeva la giusta ripartizione dei possedimenti agricoli, mentre per ciò che concerneva l’equità del lavoro nei suddetti possedimenti e la sana ed equa procreazione dei frutti della terra in questi coltivati (cereali in primis) la mansione ricadeva su di un’altra divinità ctonia di nome Hostilina.

 

 

 

Altra importantissima divinità preposta alla sicurezza dell’ingresso domestico era Cardea e la sua localizzazione sacrale permaneva nelle cerniere delle abitazioni ma non solo. Il cardo (Il cardine ovvero la via/linea principale Nord-Sud rifacentesi nel nome stesso alla dea ed a questa consacrato), intersecato all’altro tracciato detto Decumanus Est-Ovest, era  anche l’asse di orientamento geomantico tramite il quale gli Auruspici nonché successivamente gli Edili suddividevano la planimetria di un accampamento militare o di una città a pianta urbanistica ortogonale come già avevano operato con la volta celeste.

 

 

Cardea, al contempo, rappresentava anche il cardine della vita e della salute  Anticamente venne considerata moglie di Ianus Bifrons (Giano bifronte) la maggiore divinità tra i Di Indigetes, predisposta al movimento ed al cambiamento, colui il quale permetteva il transito e l’ostacolo. Ianus presiedeva tutti i transiti e gli oltrepassamenti e di conseguenza anche le soglie, avessero queste valenza materiale e immateriale, le porte (che solo in caso di guerra rimanevano spalancate nei suoi santuari), i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco, ma sovraintendeva anche l’inizio di una nuova impresa inerente la vita umana, col tempo storico – mitico e religioso della civiltà con tutte le sue istituzioni.

 

Cardea, che da ninfa abitava in un bosco situato presso il Tevere denominato Lucus Helerni, per volere del suo sposo bifronte possedeva il potere di allontanare le Striges dagli infanti proteggendo le cerniere delle porte delle dimore in cui questi erano venuti al mondo. Le Striges, latine come le Arpie e le Lamie elleniche erano rappresentate, nell’immaginario collettivo, come degli orribili uccelli rapaci notturni, dalla grande testa umana e dal verso lamentoso che si cibavano delle viscere e del grasso dei lattanti per poi dissetarsi del loro sangue. Cardea, oltre a proteggere gli infanti, fu anche una divinità minore predisposta alla salvaguardia della salute corporale (l’altro suo nome, quello di Carna richiamerebbe le parole latine caro, carnis ovvero “carne, cibo” e per traslitterazione rimandava alla protezione del corpo dei neonati, invece col nome di Cardea rimandava ai cardini vitali del corpo umano e in primis alla funzione digestiva (si badi bene che l’aggettivo cardiacus in latino originariamente designava la malattia di stomaco e non quella di cuore come comunemente si può credere).

 

 

Cardea, come già citato, presiedeva i cardini degli usci ad uso latino che si aprivano verso l’interno della domus e che potevano essere facilmente forzati dall’esterno, a differenza di quelli in uso nel mondo ellenico che si aprivano sulla strada e che risultavano, quindi, più difficili da forzare per chi era fuori dal limite della dimora). Si narrava spesso che Cardea avesse il potere di “aprire ciò che era chiuso e chiudere ciò che era aperto” permettendo il transito umano, ma anche quello energetico e vitale. Suoi aiutanti erano altre due divinità minori chiamate rispettivamente Forculus e Limentinus. Il primo  proteggeva l’integrità delle porte per tutto ciò che riguardava la parte lignea e come tale veniva invocato dai falegnami quando costruivano una porta. Il secondo proteggeva la soglia della casa ed era in suo onore che i Romani ponevano con cura sopra di essa unicamente il piede destro, come segno di buon augurio e protezione. Secondo altre fonti Cardea presiedeva unicamene il cardine, Forculus il battente e Portunus la chiave. Per altri invece Forculus custodiva le imposte e Limentinus la soglia e l’architrave.

 

 

Limentinus col passare del tempo divenne poi la divinità tutelare più nota della soglia (limen) domestica, sulla quale era buon auspicio poggiare il solo piede destro, consuetudine scaramantica che è rimasta invariata ancora oggi in molte parti d’Italia nonostante il trascorrere dei secoli.

Limen dunque come ingresso, come quel qualcosa che consentiva di accedere in un altro luogo considerato però di propria pertinenza. Esattamente contrapposto al significato della parola quasi omofona Limes che designò in origine il sentiero, quella linea militare fortificata che proteggeva chi racchiudeva, che prima di divenire fines, ovvero, “linea di confine”, volle indicare principalmente non solo un momento di sosta verso l’espansione territoriale di Roma ma una certa volontà di separazione atta a salvaguardare il proprio patrimonio culturale condiviso e considerato il migliore da difendere a tutti i costi col buon utilizzo del pilum e del gladio.

Da qui, necessariamente, la frase antropologicamente sprezzante “Hic sunt leones” che ha accompagnato per millenni un certo modo di considerare la propria civiltà da parte degli Occidentali eredi degli antichi Romani. Ma a ben vedere non è mai esistito un Limes che non abbia avuto in sé uno o più Limen di oltrepassamento e di comunicazione . Il fatto che si sia sacralizzato la linea d’ingresso o la linea di confine non fa che rafforzare ulteriormente questa interpretazione storico antropologica. Quindi, ogni volta che calpestiamo una soglia, o quando superiamo palizzate o linee reali o immaginarie o abbattiamo altrettante barriere culturali sforziamoci di ricordarci sempre del nostro passato e dell’antico culto dell’oltrepassamento latino.

Tarantismo salentino e antico culto ellenico di Asclepio

Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio

di Romualdo Rossetti

Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.

Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.

Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.

Galatina, cappella di San Paolo, particolare della tela del santo omonimo

Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.

L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.

Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzoomphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.

Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.

Esculapio

Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di  barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un

Antonio D’Andrea ed il “ferro battuto” leccese

Antonio D’Andrea, La cerbiatta, 1949. Rame sbalzato e cesellato

ANTONIO D’ANDREA ED IL “FERRO BATTUTO” LECCESE. EVOLUZIONE STILISTICA DI UN CONCETTO

 

di Romualdo Rossetti

Oltre al Barocco floreale, uno dei tratti caratteristici del corredo artistico leccese è sicuramente quello del “ferro battuto”. Tali “opere d’arte” erroneamente considerate come dei semplici manufatti di uso comune, a ben considerare, posseggono una loro storia ed una loro dignità estetica, che in questa sede è opportuno ricordare. Fu nel lontano 1916 che venne fondata a Lecce la Règia Scuola Artistica e tra le sue cinque sezioni che la componevano vi era una appositamente dedicata al “ferro battuto”. Dal 1923 al 1929 l’incarico di Capo Officina venne assegnato a Nino Lodi autore della celebre pensilina stile “Liberty” dell’Hotel Risorgimento a Lecce. Dal 1926, invece, a guidare la sezione fu il Maestro Alceo Pantaleoni, anch’essi formato come il suo predecessore presso le officine di Alberto Calligaris di Udine. Fu Alceo Pantaleoni che introdusse a Lecce l’eleganza stilistica propria dell’Art’ Nouveau.  I lampioni della Banca d’Italia di Lecce e le lunette del Palazzo delle Poste, presero forma proprio nei laboratori della Scuola Règia.

Nel 1936, il maestro Alceo Pantaleoni si trasferì a Padova per dirigere la Scuola d’Arte di quella città e nel 1937 venne incaricato a dirigere la sezione del ferro battuto il maestro Antonio D’Andrea. Fu proprio da questa nomina che il “ferro battuto” di scuola leccese acquisì, in breve tempo, una vera e propria dignità artistica di tutto rilievo.

Il D’Andrea, con la collaborazione di alcuni suoi allievi, pose in essere una vera e propria rivoluzione stilistica, dove si fusero armonicamente  le istanze proprie dell’ “Art-nouveau” e la vivacità floreale propria del barocco leccese, vivacità floreale arricchita da una variegata serie di richiami faunistici di derivazione esotica o locale.

Antonio D’Andrea

Antonio D’Andrea nacque a Lecce il 23 Luglio del 1908 dove, dopo aver seguito per poco tempo gli studi ginnasiali, decise di iscriversi alla Rèale Scuola d’Arte della sua città dove si licenziò con lode ed onore. Dopo essersi trasferito a Bologna ed aver frequentato il Liceo artistico di quella città si avvicinò con fervore alla scultura del ferro ed a quella di altri metalli. A Roma infine, fece tesoro dei preziosi suggerimenti del grande scultore Alberto Gerardi.

Lo scultore Alberto Gerardi

Terminati gli studi fu nominato giovanissimo all’insegnamento del disegno alla Scuola d’arte di Fuscaldo in Calabria, successivamente assolse lo stesso compito a Galatina, a Lecce ed a Bari. Nel 1927 vinse un concorso d’arte bandito dall’Ordine Francescano in occasione del centenario della morte del “poverello d’Assisi” esponendo una lampada in ferro battuto. Nel 1938 fondò a Lecce un laboratorio artistico conosciuto amichevolmente come “bottega d’arte” situato in via Pasubio che, ben presto, divenne il punto di riferimento di artisti e di intellettuali di fama locale e nazionale come: Vittorio Bodini, Giuseppe Ungaretti, Enrico Falqui, Cesare Massa, Vittorio Pagano, Aldo Calò, Michele Massari, Geremia Re, Temistocle De Vitis, Lino Suppressa, Ennio Bonea, Oreste Macrì, Giacinto Spagnoletti. Entrò in sodalizio con lo scultore Galatinese Gaetano Martinez ed il celebre tenore Tito Schipa.

Estimatori del D’Andrea e frequentatori della Bottega d’Arte di via Pasubio

Vittorio Bodini

 

Giuseppe Ungaretti

 

Enrico Falqui

 

Geremia Re

 

Gaetano Martinez

 

Ennio Bonea

 

Tito Schipa

Il D’Andrea, in breve, riuscì a sensibilizzare il gusto dei facoltosi notabili di Lecce e della provincia che con ritmo sempre più incalzante richiesero i suoi “ferri” per l’arredo esterno ed interno delle loro dimore.

La sua opera scultorea era incentrata, da un lato, nella volontà di rendere il metallo quasi avverso alla sua stessa inflessibile natura, dall’altro lato, nella ricerca frenetica di una un nuovo modo d’intendere l’arte della siderurgia.

Con i suoi attenti “coup de marteau” il ferro si trasformava quasi in  “parola”, in “fabula”, abbandonava il suo carattere freddo ed ostile  e si appropriava di una propensione poetico-poietica che lo impreziosiva a tal punto anche e soprattutto quando prendeva le forme di un oggetto di uso comune come un candeliere, un portacenere od un cancello.

Il simbolismo faunistico-floreale presente nella maggior parte delle opere del D’Andrea, pur risentendo ampiamente della contaminazione del Barocco Leccese proiettava il “nuovo stile” a pieno titolo verso una nuova ed originale metafisica della materia.

Candeliere con cerbiatte, 1946, ferro battuto
Lampada astile con scimmia, 1952, ferro battuto
Pannello simbolico in ferro battuto. Proprietà Ministero Industria e Commercio, Roma
Portacenere con uccelli, 1937. Massello di ferro scolpito e cesellato
Gazzelle, 1953. Scultura in ferro
Vaso canopo con canguro, 1949. Ricavato da massello di ferro. Proprietà Amministrazione di Lecce

Il merito maggiore del D’Andrea fu anche e soprattutto quello di aver osato sfidare le rigide leggi accademiche creando un nuovo indirizzo di ricerca utilizzando elementi poveri ed ordinari come il ferro, il bronzo od il rame. Tanto nei laboratori della sua scuola quanto nella bottega di via Pasubio si eseguivano, con mirabile maestria, dei veri e propri capolavori dell’arte fabbrile che venivano esposti ed apprezzati, per la loro originale battitura, in mostre e in fiere tanto all’estero quanto in Italia. I suoi lavori furono per lo più bassorilievi, sculture e sbalzi che riproducevano soggetti sacri ma non mancarono quelli di una genuina ispirazione profana.

Di grande spiritualità risultano essere le opere sacre tratte dall’Antico e Nuovo nonché  dalla vita di San Francesco d’Assisi, eseguite a sbalzo su lamiera di ferro o di rame.

La creazione di Adamo, 1954, bassorilievo in bronzo. Proprietà dell’Amministrazione provinciale di Lecce
Fuga in Egitto, 1950. Rame sbalzato e cesellato
Lo Zodiaco, 1951. Rame sbalzato

 Nei soggetti profani ciò che affascina è l’elegante e delicata sobrietà delle forme dei soggetti raffigurati. La sezione metalli della scuola guidata dall’ingegno del maestro come pure la sua  “bottega d’arte”in quegli anni, vengono frequentate da allievi motivati e desiderosi di apprendere l’arte di battere il  ferro. Produsse il portale in ferro battuto a lamiera sbalzata perla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Lecce.

Portale, 1943. Ferro battuto e lamiera sbalzata. Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, Lecce

Nel 1940 espose all’Angelicum di Milano due portali in ferro e rame balzato insieme ad altri bassorilievi. Le sue produzioni artistiche furono apprezzate in mostre tenutesi a Lecce, Bari, Monza, Firenze e Bologna. Si fregiò di sei medaglie d’oro ed una targa d’argento oltre a numerosissimi encomi. Nel 1945 restaura la statua bronzea di S. Oronzo, protettore della sua città.  Nel 1948 per il premio “Lecce” di scultura e di pittura espose i suoi lavori a sbalzo in rame che ottennero gli encomi della giuria composta da Berti, Biancale e Freddo. Nel 1951 espose altri sbalzi e disegni alla Quadriennale d’Arte di Roma. Tra il 1949 ed il 1950 diresse la rivista “Artigianato Salentino”. Nel 1952 il personale dell’Acquedotto Pugliese gli commissionò una formella balzata dal titolo “ Laudato si’ mi Signore per sor’acqua” che verrà donata a sua santità Pio XII°.

Il miracolo dell’acqua di S. Francesco, 1952. Rame sbalzato. Proprietà della Santa Sede, Città del Vaticano

Nel 1953 ottenne la nomina di direttore dell’Istituto d’Arte di Galatina, dove tempo prima aveva svolto la professione d’insegnante. Riuscì anche a stabilizzare una caratteristica tonalità di verde, detto successivamente verde D’Andrea, tramite particolarissimi e segreti processi di lavorazione.

Candelabro in ferro battuto colorato col famoso “verde d’Andrea”

Il 10 ottobre del1955 asoli quarantasette anni si spense nella sua amata città.

Nella Scuola d’Arte di Lecce il suo insegnamento continuò attraverso i suoi allievi che si erano alternati tra la scuola e la sua bottega. Nel 1958 ottenne alla memoria il prestigioso riconoscimento della Mostra dell’Artigianato di Firenze.

Ma Antonio D’Andrea non fu solamente un abile artista; fu prima di tutto un profondo pensatore, un poeta del ferro che seppe trasformare la fredda materia in voluta, in parola, in segno distintivo. Ogni sua opera fu prima profondamente pensata e poi forgiata, sbalzata, scolpita. A testimonianza di quanto si afferma si riportano alcuni importanti passi del suo diario rimasto incompiuto:

La crocifissione, 1952. Rame sbalzato e cesellato. Proprietà Amministrazione Provinciale, Lecce

La Crucifissione

Poi ad un tratto si rese conto che la consuetudine è dolce, il già fatto è sempre da farsi, l’antico è sempre nuovo (parole dozzinali, ma innocue) E tutto il suo subbuglio, tutto il suo gran fermento si andarono a scodellare in un piatto. Rotondo. Appeso al muro. Con orlature tiepide. Di rame, infine. Ma che miracolo, all’improvviso!…Non è stato lui, lo sa, lo sa benissimo che non è stato lui…il buon ladrone e il cattivo ladrone: due croci. E fra loro il meno ladro di tutti, perché ci ha rubato solamente la morte, ci ha rubato solamente il Calvario, ci ha rubato solamente Satana: un’altra croce. E la piangente a terra: una tenera schiena modulata sopra un calcagno, tenera e modulata in un senso effimero, triste e vano in tanta eternità (anche di paesaggio). Fare incombere il crocifisso su di lei, da quel piatto rotondo, su di noi, da quel muro, è stato il suo comandamento. E forse l’artigiano ha pianto. Forse sbalzando il rame, ha martellato la propria morbidezza, ha preparato la propria carogna. Doloroso. Ridicolo. Lo gnomo che scrolla la quercia per sradicarla! Amen

Il toro, 1945-46. Scultura dal massello in ferro

Il toro

Idem per questo animale. Ma il fascino della sua scoperta tecnica non doveva, qui, tendergli insidie, distrarlo dalla giusta via. Si trattava stavolta, di un problema di pienezza. Non un vuoto a cui dar forma, ma un pieno da corporeizzare col vuoto. Un normale comunissimo processo da cartapestaio, o da battitore, d’arrotondatore di lamiera? Qualche cosa di più. Come un castello di carte, vogliamo dire, con dentro un po’ di sogno, o di favola, visibile dagli spacchi, dalle finestrature. Ed allora, ecco imporsi il sacrificio della pancia: fare in modo da espellere la pancia, senza l’idea dello squarcio, senza il brivido del macello, senza visceri appesi o palesemente estirpati. Non era che questo. Poi, egli potè scolpire le corna, la coda, il collo, le zampe, tutto. E un taglio, ed una curvatura ad arco, come se dovesse scoccarne la freccia della sua libidine di purezza, d’una sua infanzia ormai camuffata per sempre da furberia, da sacrilegio.

Autochioccia pennicefala, 1952.53 ferro battuto. Proprietà Museo dell’Artigianato, Firenze

Il folle

Un giorno gli parve di capire che la pazzia fosse una cavità: ma corporea, come tale, definita, in quanto tale, e piena nella sua linea, costruita nella sua figura. A togliere lo sbalzo dal suo campo, a edificarlo nel “tutto tondo”, a dargli tre dimensioni, c’era da risolvere l’assurdo, da liberarsi d’un incubo: e solo così l’immagine poteva essere raggiunta, piegata al racconto, agitata nel dramma (…) Si dirà che s’è ammattito l’artigiano…Ma l’adagio è decrepito, che l’arte sia sempre follia. E si capisce che alludiamo alle intenzioni, alle ambizioni: gli effetti hanno forse la durata del suo martello, della sua fucina. Egli lo sapeva, questo. Tanto vero che ha fatto a meno dello scheletro, dell’ossatura, ed il suo “FOLLE” è una bolla di sapone (di sapone, anzi di ferro: che è l’unica differenza, Decidete come vi pare).

Un uomo poliedrico e coraggioso che seppe rendere giustizia al metallo trasformandolo in viva narrazione.

Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese

di Romualdo Rossetti

 

Da sempre luogo di preghiera e di cultura, l’attuale complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese sorse su ciò che rimaneva di un importante cenobio basiliano dedicato al culto di S. Zaccaria, rientrante, secondo quanto afferma lo storico murese Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese, nell’orbita politico-amministrativa del più celebre monastero basiliano del Salento, quello di S. Nicola di Càsole, fatto erigere dalla lungimirante politica di Boemondo di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo nel 1098 e raso completamente al suolo dalle feroci armate ottomane di Maometto II° durante l’assedio di Otranto del 1480.

Con la distruzione ad opera dei Turchi del monastero di S. Nicola di Càsole, prima “Universitas” letteraria ante litteram dell’intero bacino del Mediterraneo, fu inevitabile l’emergere di un lento ma inesorabile declino anche degli altri cenobi basiliani del Salento. Di conseguenza, anche il monastero di S. Zaccaria in Muro, come quello di S. Spiridione in Sanarica (ora masseria Incanelli), patirono la stessa sorte del primo, in maniera, forse meno eclatante, ma sicuramente non meno spiacevole per ciò che poteva concernere la salvaguardia della cultura e della tradizione greco-bizantina nel tacco d’Italia.

Nel 1561 sulle rovine dell’antico cenobio basiliano, il principe di Muro, Giovan Battista I° Protonobilissimo volle che si riedificasse un nuovo sontuoso complesso coventuale e si rivolse per l’occasione al sostegno dei frati dell’Ordo Praedicatorum di S. Domenico di Guzmàn.

Il principe donò ai padri Predicatori, meglio noti col nome di Domenicani, affinché si potessero ben sistemare in paese, i poderi che erano stati dell’antico cenobio basiliano di S. Spiridione in Sanarica ed il patrimonio terriero di S. Zaccaria che, all’epoca, risultava però ancora essere un

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