La ‘Nunziata di Castro

di Rocco Boccadamo

 

Anche se, da alcuni anni, ‘Nunziata non è più fra noi, rimane nitido il ricordo della sua figura.

 

A beneficio dei non indigeni, nel titolo delle presenti note è riportato, in corsivo, il nome proprio di persona, abbreviativo diminutivo di quello ufficiale e completo di battesimo, a sua volta ispirato dalla devozione verso la Madonna protettrice del luogo, circostanza, quest’ultima, che lo fa trovare assai diffuso anche adesso.

Ad ogni modo, la figura femminile che, nella specifica fattispecie, lo porta e cui s’intende riferirsi, è a tutti nota esclusivamente con detto appellativo.

Per parte mia, ho preso a conoscere Nunziata circa sessantacinque anni fa, quando a un suo fratello, Benedetto, di mestiere elettricista e perciò detto mesciu Tettu, capitava di giocare qualche partita di pallone, da aggregato o da avversario, unitamente alla squadra di noi ragazzi marittimesi.

La donna, alta e, al contrario del germano, di taglia solida e formosa, è da sempre contrassegnata da una carnagione scura, il suo volto aperto e simpatico sembra quasi abbrustolito dai raggi del sole, e ciò, forse, per via delle lunghe stagioni trascorse lavorando all’aria aperta.

A proposito di attività, Nunziata, per decenni, si è interessata della vendita di frutta e verdura, con la sua baracca piantata e dischiusa, dalla primavera all’inizio autunno, nella piazza della Marina, di fronte alla rotonda. Un personaggio familiare, quindi, non solo per i compaesani ma, pure, agli occhi dei turisti e villeggianti abituali e/o di passaggio.

Poi, con il progredire dell’età, a un certo punto, la nostra amica si è determinata a lasciare il suo commercio a un figlio e alla nuora e lei s’è ritirata, stanzialmente, a Castro alta, nel cuore del borgo, ossia a dire nella bella piazza Vittoria, delimitata, su un lato, dalla magnifica ex cattedrale.

Così, divenendo un punto d’indicazione inconfondibile, sempre presente, lì, la Nunziata, la scorgi subito, in tutte le stagioni, vuoi sotto il solleone, vuoi in pieno inverno, quando, peraltro, in quell’angolo protetto dai venti, non si soffre minimamente il freddo e, anzi, specie se le giornate sono serene, si gode da Dio a sostare seduti su una panchina o semplicemente sul bordo del marciapiede.

Di conseguenza, non v’è personaggio del cinema o dello spettacolo o della cultura, che, arrivando a Castro, non si sia imbattuto, magari per un solo momento, nella residente in questione, la quale, per la verità e per innata dote d’empatia, non lesina ad alcuno, potrebbe essere anche il Presidente della Repubblica, immediati sentimenti e segni d’accoglienza, cordialità e gentilezza.

In qualche caso, rispondendo a domande e rilasciando interviste su Castro, sull’aspetto e sull’anima della cittadina in tempi lontani e quali affiorano oggi. Insomma, per qualsiasi informazione o notizia, Nunziata è all’altezza e soddisfa.

Da quando ha cessato il lavoro attivo, il soggetto di che trattasi trae i mezzi per sostenersi unicamente dalla pensione, che, a quanto sembra, si aggirerebbe intorno ai quattrocento euro il mese.

Con un’entrata così esigua, lei vive in un locale scantinato, sì, una vera e propria cantina nel sottosuolo di piazza Vittoria adattata a uso abitazione, appena un vano vero e propri. In più, per accedervi, dalla superficie della piazza, bisogna percorrere quattro o cinque scalini, esercizio che, per una persona ultraottantenne e dal fisico anche appesantito, non deve essere agevole e da compiersi disinvoltamente.

Tant’è che, negli ultimi tempi, nell’arco di pochi mesi, all’atto di portarsi dentro casa, la donna è rimasta vittima di cadute ben tre volte, fortunatamente senza esiti molto pesanti, e però con contusioni, ammaccamenti e indolenzimenti, esiti che, in una persona anziana, non soltanto non si superano rapidamente sotto l’aspetto fisico, ma lasciano anche il segno nello spirito.

Per effetto dell’ultima disavventura, ieri, nel transitare accanto a casa sua, l’ho notata, insolitamente, un po’ abbattuta, lei ha risposto, è vero, al mio saluto con il classico “Ciao, professore!” (chiedo scusa, siffatto titolo, ovviamente non mi compete, sennonché, attribuirmelo, è oramai divenuto una sua mera abitudine fissa), ma l’ho sentita preoccupata per aver dovuto, addirittura, compiere una puntatina in ospedale.

Al che, d’istinto il mio sguardo s’è abbassato in direzione degli scalini di cui dicevo prima, che, effettivamente, danno l’idea di un potenziale costante pericolo per l’amica, purtroppo abitante in quello scantinato.

“D’altronde – ha accennato con dignitoso ritegno Nunziata – se pensassi di spostarmi in una minuscola abitazione a piano terra in una stradina qui intorno, vicina al mio mondo che non vorrei lasciare, sarebbero quantomeno trecentocinquanta euro d’affitto il mese; ma, se, a me, il Signore (alias l’Inps) dà una pensione intorno a quattrocento euro, come faccio?”.

Evidentemente viene da sé, la risposta: hai ragione, Nunziata, per ora non ti resta che stare con gli occhi spalancati e la mente sveglia quando fai su e già, per entrare e uscire da casa.

Questo, il quadretto casualmente colto dal comune osservatore di strada, con, al centro della scena, Nunziata, una figura, semplice e umile, che, però, non passa inosservata nella Perla del Salento.

Chissà che, alla situazione, non si riesca a imprimere un tocco di colore.

La “murteddra” (il mirto)

 

di Rocco Boccadamo

 

Intanto che prosegue il soggiorno alla “Pasturizza” di Marittima, in tal modo confidando in una migliore tutela dal rischio Covid, ecco un’altra tappa di passi del ragazzo di ieri, a contatto, invero gradevole e tonificante, con gli elementi naturali a portata di mano e di vista, tutto d’intorno, lungo il cammino.

Fra i variopinti e vivi colori di una serie di minuscole infiorescenze, talora fazzoletti di prato ai piedi di una pianta d’ulivo o di ficodindia, quest’oggi gli occhi si sono posati, specialmente, su alcuni ramoscelli di “murteddra” (in italiano, mirto), con, pendenti, piccolissimi frutti (bacche) tondeggianti, chiamati analogamente, seppure al plurale, “murteddre” e simili ai più conosciuti – e apprezzati anche da palati fini – mirtilli, che si trovano nei boschi in aree di montagna e, in stagioni remote, sono stati raccolti anche da chi scrive.

Così, la memoria è volata a quando, ragazzini, io e i miei compagni, nei momenti liberi da impegni scolastici, scorrazzavamo per le campagne marittimesi verso il mare e ci soffermavano accanto agli arbusti di “murteddra”, declamando e ripetendoci in cantilena un breve detto popolare:

De a ‘Mmaculata, a murteddra è maturata,

“ pe’ Natale sape comu u pane.

Facile la traduzione:

“ L’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, i frutti della murteddra sono maturi,

“ per Natale, sono squisiti, hanno il sapor del pane (a voler dire che, in passato, quando c’era il pane, c’era tutto).

Un motto antico ma, e ben vedere, in fondo, valido anche adesso.

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Ovviamente, durante la camminata di stamani, all’obiettivo del mio smartphone non potevano sfuggire le inquadrature di sogno dell’Acquaviva e di Castro.

Libri| Zia Valeria. Lettere ai giornali e appunti di viaggi

 

“Zia Valeria”, l’ultimo libro del salentino Rocco Boccadamo, recensito da un altro salentino (lombardo d’elezione), Paolo Rausa

di Paolo Rausa

 

Conoscendo Rocco Boccadamo di Marittima (Le), ridente località del Sud Salento a ridosso sul mare, a strapiombo sul fiordo suggestivo di Acquaviva, c’è da star sicuri che questo non sarà l’ultimo suo libro di pescatore di perle, o ragazzo di ieri come ama definirsi lui, giovane di bella età in cui tutto è permesso, finanche di volare ma sempre con i piedi ben piantati nel suo paesino natale. Che dico? Nel suo quartiere, nel nucleo costitutivo dell’aggregato rurale che tradisce nel suo nome la vocazione marinaresca. E Rocco è marinaio, di terra però. Se può esserci un nauta che tocca terra ma che vive nell’alto mare dei ricordi, nelle tempeste e nelle gioie della vita come una navigazione di cui si è certi solo del porto di partenza. Infatti, nulla si sa della vita, come per ognuno di noi. Le sue mosse partono da lui infante, circondato dall’amore dei genitori, dei parenti, di tutto il vicinato, che lui enumera e snocciola, nome per nome, età, professione in bilico tra la terra e il mare, grado di parentela, i figli che scappano come lui al Nord per cercare fortuna, però qui hanno piantato le radici che germogliano ma che ricevono alimento e sostanza dal cuore e dalla mente persa nel passato e rivolta al futuro, quasi come fotocopia. Non immagina Rocco una vita senza le carezze della madre, per quanto lo abbia lasciato giovinetto, e se anche si bea delle carezze della nidiata dei nipoti, Rocco resta sempre figlio della sua terra e di sua madre che vigila e lo attende d’estate o nei periodi delle feste natalizie a casa, all’Ariacorte, dove brulicava la vita primordiale di un centinaio di anime, ora quasi spenta. Rocco si fa figlio della propria terra, diventa cantore, “raccontastorie” o “cuntacunti” alla dialettale, rievoca le battaglie non davanti alla Porte Scee ma nel suo nucleo primordiale vitale che assurge ad ombelico del mondo. La compostezza di Rocco si espande grazie alla memoria, alla descrizione minuziosa dei particolari, alla genealogia dei suoi conterranei che hanno condiviso con lui le stradine del paese e la resistenza alla miseria, che hanno imparato a percorrere le strade della dignità come strumento non per conseguire la gloria omerica, ma per esaltare la semplicità della vita nei campi, virgiliana, fatta di tenacia e di umiltà, che ora sta per soccombere. Ecco allora che tutti i personaggi sono evocati da Rocco che, dopo il suo peregrinare in tutta Italia da sede a sede nella sua attività da bancario, ritorna al suo paese, sedotto come la prima volta quando è ritornato da Monza, e poi da Firenze, Taranto, Messina, Lecce, alla sua villa ‘La “Pasturizza”, dove la terra è “mara” e “nicchiarica”, come dice il poeta. Che non morirà mai finché ci sarà il suo cantore in vitam che esalta i particolari, gli attrezzi che ritornano a chiamarsi come un tempo. Divelta la lingua italiana estranea, quegli oggetti vivificano sotto i suoi e i nostri occhi, per un momento riacquistano vita come per essere reimpiegati. Ma l’illusione si ferma qui. A Rocco basta denominarli, secondo il linguaggio antico, e insieme a loro anche i protagonisti, oscuri di natali, ma eroici per aver resistito a un destino difficile, tuttavia non privo di affetto nel richiamo dei nomi propri personali, i Vitale, i Costantino e la zia Valeria, la piccola della famiglia materna, lei che assicura la continuità di una stirpe e di un popolo stampigliato sulle carte in modo che tutti rimangano impressi per non morire mai. Il libro è impreziosito dalla prefazione di Ermanno Inguscio e dalla postfazione di Raffaella Verdesca. Spagine, Fondo Verri edizioni, Lecce, 2019, pp. 162,  € 10,00.

 

“Zia Valeria”, il nuovo libro di Rocco Boccadamo

rocco boccadamo

E’ stato appena pubblicato, per i tipi di Spagine – Fondo Verri edizioni, il nuovo libro “Zia Valeria – Lettere ai giornali e appunti di viaggi” dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo.

Prefazione di Ermanno Inguscio, postfazione di Raffaella Verdesca.

Il volume sarà presentato giovedì 2 gennaio 2020, alle ore 19.30, presso l’Associazione culturale Fondo Verri, in Via S.  Maria del Paradiso 8, Lecce, nell’ambito della Rassegna “Le mani e l’ascolto”.

Dialogherà con l’autore, Paola Moscardino, giornalista, scrittrice, autrice e presentatrice di servizi televisivi.

Il Salento è anche questo

di Rocco Boccadamo

Le ombre della bella sera estiva sono appena calate sulle ultime sinuosità a saliscendi della litoranea Castro – Leuca, itinerario fra i più fantastici e magici.

Accanto al porto di Finibus Terrae, alla base della cascata terminale dell’Acquedotto Pugliese, lo sguardo è portato a girarsi in alto per contare i fasci del faro e, già, s’aggiungono pensieri e poesia.

Poi, a un certo punto, proprio sulla cupoletta luminosa e ruotante del manufatto, amico di marinai e naviganti, giunge ad appollaiarsi la faccia della luna, lanterna di splendore caldo inondante la volta blu.

Così, la mente e il cuore hanno la sensazione di serbare dentro il mondo intero, a cominciare dalle risorse, la forza, le ansie e le emozioni della gente del Tacco d’Italia, umilmente semplice e in pari tempo grande.

Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini

Fra compaesani, su una panchina in piazza

Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini

di Rocco Boccadamo

In una recente e differente narrazione, traendo spunto dal casuale incontro con due turisti/ospiti provenienti da S. Francisco, USA, mi soffermavo diffusamente su Marittima e più esattamente sul Rione dell’Ariacorte dove sono nato e , fra l’altro, annotavo: ”Attualmente, con il mio paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti di intimità e consuetudine viscerale a trecentosessanta gradi, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza”.

Non v’è, invero, contraddizione fra l’anzidetta puntualizzazione e quanto sto per raccontare qui. Semmai, la cronaca freschissima che segue, può considerarsi un’eccezione rispetto al ricordato e consolidato stato di interazione, in termini complessivi, fra me e la località natia.

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Qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese, Costantino C., il quale vanta e si porta appresso, con disinvoltura, ben novantatré primavere già valicate, per di più guidando ancora, quando occorre, o un’autovettura o un motofurgone “Ape”.

Conosco la citata persona, è proprio il caso di dirlo, da quando sono nato e, lui, ragazzino, abitava, insieme con la sorella Maria, presso la nonna Costantina – i loro genitori erano mancati prematuramente – nell’Ariacorte, a cinquanta metri di distanza da casa mia.

Insomma, a Costantino C., mi lega un’intensa familiarità, sono edotto di tutte le vicende della sua esistenza, da alcuni lustri, in particolare, ho modo di incontrarlo sovente, giacché possiede un giardino, con annesso fabbricato (da poco, lo ha donato ad alcuni nipoti che vi stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione), situato proprio dirimpetto alla mia villetta della “Pasturizza”.

Arrestata d’istinto la marcia del ciclomotore, mi sono avvicinato e seduto accanto, chiedendogli, come approccio, notizie circa lo stato dei lavori edili.

Pochi minuti dopo, si è accostato a noi un altro compaesano, Santo C., appena più giovane di Costantino, e i due, all’unisono, come del resto mi aspettavo, sono immediatamente passati a rievocare un episodio assai lontano, sia come datazione che come luogo di svolgimento, evidentemente, però, rimasto indicativo e impresso nella mente, fatto in cui, insieme con loro, io stesso mi ero, in certo qual modo, trovato coinvolto.

Sarà stato il 1963 o il 1964 e lavoravo in banca, a Taranto, da tre anni circa, espletando le mansioni di segretario, oggi si dice assistente, di un vicedirettore settorista, il quale, per chiarire, gestiva un determinato portafoglio di clienti.

Insieme con il citato funzionario, compivo spesso visite agli utenti, sia per mera cortesia, sia e soprattutto per ricognizioni dirette sulle loro aziende e le loro attività.

Un giorno ci eravamo portati a domicilio di un operatore agricolo (grosso proprietario di terreni e produttore di vino e olio) di Francavilla Fontana, da tempo cliente affidato, vuoi con linee di credito a carattere ordinario e continuative, vuoi sottoforma di anticipazioni su giacenze di vino e olio, nelle more della loro vendita.

Guarda caso, io non ne ero minimamente a conoscenza, nell’azienda dell’operatore in discorso, da moltissimi anni, prestavano attività, sia pure a carattere stagionale, Costantino e Santo, unitamente ad altri due marittimesi, Peppino e Vitale.

Tutti i già menzionati, quindi, persone di massima fiducia dell’imprenditore francavillese, di casa, alla stregua di famigliari.

Orbene, il mio superiore si era determinato a recarsi nell’azienda di tale cliente, diciamo così, per accertarsi che esistessero effettivamente le giacenze di prodotto su cui era stato da poco concesso un finanziamento e, quindi, si era premurato di dare anche una sommaria occhiata alle apposite cisterne.

Ma giusto lì, come ebbero a confidarmi successivamente i miei concittadini, aggiungendo qualche abbozzo d’ilarità, si nascondeva un trucchetto, alquanto rudimentale e, tuttavia, valido a far apparire qualcosa che, in realtà, non esisteva.

E, però, anche io, dall’altra parte, cioè dall’interno della banca, avevo avuto modo di accorgermi che gli amici marittimesi, o, meglio, le loro firme, erano talora “utilizzati” dal datore di lavoro, per agevolare alcune sue operazioni di finanziamento da parte della banca.

Certo, stagioni non solo antiche ma, specialmente, dai contenuti totalmente diversi, allora la fiducia e la parola erano una cosa seria, nel lecito e anche ai limiti della norma o borderline per stare al linguaggio presente: così abbiamo, l’altro giorno, commentato concordemente, sulla panchina della piazza di Marittima, Costantino, Santo e io.

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Di lì a poco, è arrivato ad aggregarsi alla comitiva un ennesimo “ariacortese”, Costantino N. e, quasi contemporaneamente, Uccio N., geometra in pensione e, indubbiamente, compaesano d.o.c., non essendosi mai allontanato, durante i suoi settantasette anni, dalla natia Marittima. A questo punto, a beneficio di quanti non ne fossero a conoscenza, mi soffermo su un breve inciso: fra i nomi maggiormente diffusi nella località, ricorrono quelli di Vitale e Costantino o Costantina, a motivo che, collegando i comuni mortali ai santi, S. Vitale, cavaliere nell’esercito romano ai tempi di Nerone, nato a Milano e martirizzato a Ravenna, è il protettore di Marittima, mentre, a compatrona, è stata da vecchia data proclamata la Vergine Maria Santissima di Costantinopoli o Madonna Odegitria.

Costantino, come ho avuto modo di accennare anche in precedenza, faceva parte, penultimo nato, di una famiglia numerosa, ma soprattutto antesignana e allargata, per vicende naturali, in senso laterale o di discendenza.

Difatti, la padrona di casa, ovvero sua madre, Rosaria, proveniente da Andrano, reduce dal primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe), reduce, anche lui, da una pregressa unione, già padre di tre figli e, parimenti, rimasto vedovo anzitempo.

Rosaria e Giuseppe, novella coppia, procrearono ulteriori quattro figli, Pompilio, Vitale, Costantino e Concetta.

Sì che, a un certo momento, venne a formarsi un nucleo o focolare di undici persone, fra i due coniugi e i nove discendenti arrivati dall’accoppiata di letti.

Molti i ricordi e le annotazioni snocciolati, approfittando della presenza di Costantino, riguardo ai componenti della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.

Alla fine degli anni Trenta o agli inizi del decennio successivo, la scomparsa di Giuseppe, a causa di una rovinosa caduta mentre era intento a fissare, a un gancio del soffitto, un chiuppu (una sorta di grosso casco, facendo riferimento alle banane) di tabacco già essiccato.

Nel 1945, il matrimonio di Pippina nel canonico abito bianco, di cui, chi scrive, serba perfettamente il ricordo.

Nel 1947, esattamente il 22 gennaio, le nozze di Andrea (con Valeria), in un giorno in cui, Marittima, registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata.

Nel 1951, una improvvisa e brutta traversia, fortunatamente finita bene, in capo a Vitale, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede (precisa, adesso, Costantino, che, all’epoca, lui era assente da Marittima per il servizio militare in Marina, imbarcato su un dragamine di stanza alla Spezia).

Successivamente, infine, seri problemi agli occhi per l’altro figlio, Pompilio, invero mai risolti.

A un dato momento, Costantino, seduto nel gruppo e rivolgendo lo sguardo a Uccio N. che gli stava accanto, ha ritenuto di richiamare i legami di parentela fra lo stesso Uccio e me (le rispettive mamme, Nina e Immacolata, erano cugine di primo grado, figlie di due sorelle, Cristina e Lucia.  Aggiungendo, inoltre, che lui medesimo, a seguito del matrimonio, si era apparentato con l’ex geometra, posto che il suocero Giuseppe P. (in vita, operatore ecologico, attacchino e necroforo del Comune di Diso), era, a sua volta, primo cugino del padre di Uccio, Pippi ‘u scanteddra o mesciu Pippi ‘u barbieri, la cui madre, Pasqualina M. detta Nina, era sorella della genitrice di Giuseppe P., Maria Donata M.

I conti degli accostamenti fra parentele o famigliarità quadrano perfettamente, a prova di dati anagrafici e/o di battesimo.

Uccio N., il quale, al momento di aggregarsi, aveva domandato, sorridendo, se, in quella circostanza, fossi io a tenere banco nel gruppo, non ha successivamente rinunciato a intervenire, dicendo la sua a proposito di una sfaccettatura straordinaria insita nel desco domestico del suo nonno paterno, Vitale N. ‘u fiore.

Intorno a quel tavolo da pranzo (parolone esagerate), prendevano posto, ha raccontato Uccio suo nonno e sua nonna, insieme con un paio di ascendenti e i loro se figli (cinque maschi e una femmina) e, già così, si arrivava a dieci persone. Inoltre, quasi tutti i giorni, specialmente la sera, si aggiungevano anche sette nipoti di Pasqualina M., detta Nina, figli di due sue sorelle passate prematuramente a miglior vita e, quindi, rimasti orfani.

Dunque, diciassette “avventori”, alla fine, a intingere il cucchiaio nell’unico piatto posto al centro del tavolo, che doveva servire per l’insieme di commensali, con conseguenti difficoltà, per ciascuno, a far arrivare il cucchiaio alla minestra.

Dire che, l’appetito era tanto e non esistevano altre cose da mangiare, tranne, al caso, un tozzo di frisella o una piccola manciata di fichi secchi.

Eppure, sembra assolutamente inverosimile, si sopravviveva e, mette conto di sottolineare, negli stati d’animo della gente, albergava ben più serenità di adesso.

Fra vele color amaranto, la globalizzazione ha raggiunto anche l’Ariacorte

di Rocco Boccadamo

Durante i decorsi quattro lustri di più o meno assidua ma comunque indicativa amicizia con la penna, una cesta di mie narrazioni (si, proprio una cesta) hanno avuto per ambientazione Marittima, il minuscolo borgo del Sud Salento in cui sono venuto al mondo nell’ormai remoto 1941.

La località in discorso è situata in corrispondenza del quarantesimo parallelo e a ridosso del tratto di costa a scogliera, esattamente nel punto di congiunzione fra il mare Adriatico e il mare Ionio.

Invero, attualmente, con detto paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti di intimità e consuetudine viscerale a tutto campo, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza.

Ciò, giacché, al completamento degli studi superiori, men che ventenne, sono partito per intraprendere l’attività lavorativa, rimanendo a vivere altrove, in pianta stabile, per circa otto lustri, salvo ritorni al paesello in estate o in occasione di qualche festa o ricorrenza.

Inoltre, a motivo che, dei miei coetanei e famigliari, ne residuano ormai pochissimi e, infine, i tempi e il modo di vivere in generale sono mutati radicalmente, pure all’interno della piccola comunità natia.

Tuttavia, accanto agli affetti più cari concernenti le persone, anche se mancate, che hanno conferito un segno e un senso alla mia esistenza, e la cui presenza ideale dentro di me non si cancellerà né affievolirà giammai, di Marittima – lo constato e lo confermo con piacere e gioia, anzi ne sono felice e orgoglioso – rimangono, tutt’ora, due precisi e definiti posti o luoghi che mi hanno incessantemente accompagnato nella mente e nel cuore, seguitando a esercitare anche adesso tale azione, con un carico di fortissimi e vividi ricordi.

Si tratta dell’Ariacorte, ossia a dire del rione o isola del centro abitato nei cui confini sono venuto al mondo, e dell’Acquaviva, l’insenatura di sogno che è il mare per eccellenza dei marittimesi sin da tempi remoti e, da alcuni decenni, è altresì il sito per i bagni prescelto e frequentato da considerevoli schiere di visitatori, turisti e villeggianti, provenienti da ogni regione d’Italia, da vari paesi d’Europa e pure dall’America.

Ebbene, l’Ariacorte e l’Acquaviva sono stati da me eletti a “luoghi dell’anima”, li “sento” con emozione anche quando mi trovo a distanza, con trasporto intenso, anzi con sentimenti di autentico amore.

Di riflesso, detti posti/habitat, durante tutto questo ventennio iniziale del terzo millennio, mi hanno dato lo spunto naturale per la stesura di narrazioni, abbraccianti vicende lontane e, specialmente, rievocanti volti, persone, famiglie, abitudini, costumi che li animavano allorquando io abitavo lì, nella casa dei miei genitori e in seno alla numerosa famiglia da loro formata.

Inserendo, sovente, negli scritti, puntuali e distintivi rimandi e confronti rispetto all’Ariacorte e all’Acquaviva quali appaiono e si presentano adesso.

 

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Sul piano toponomastico, l’incipit dell’isola Ariacorte – in questo caso, isola, più realisticamente, a guisa di isolato – avviene accostando lievemente a destra nel primo tratto di via Convento, là dove viene così a formarsi un esiguo slargo, all’altezza della casa una volta abitata dal nucleo famigliare di Trifone Mariano e, quindi, si sostanzia percorrendo, su un approssimativo quadrilatero, le brevi vie Francesco Nullo, Leopardi, Piave, Pier Capponi e Isonzo.

Tutta qui, l’Ariacorte, una minuta bomboniera, eppure, un tempo, nido per circa cento persone, mentre, attualmente, i residenti stabili sono poco più di una decina, cui vanno aggiunti altrettanti abitanti “estivi”.

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Qualche giorno fa, a metà mattinata, mi vado dirigendo verso la mia villetta del mare posta sul proseguimento di via Francesco Nullo, che, con la recente intitolazione di via Agostino Nuzzo, conduce dall’Ariacorte all’insenatura Acquaviva, quando, all’ improvviso, sono colto da un impatto visivo che mi colpisce particolarmente, mi coinvolge e interessa.

Al punto, da indurmi ad arrestare l’andatura del mio scooter e ad accostarmi alla scena.

Da premettere che, giusto sullo slargo sopracitato fra via Convento e via Francesco Nullo, esisteva nei tempi andati, e si affaccia pure adesso, sottoposta a lavori di ristrutturazione e rammodernamento per essere adibita a struttura ricettiva b & b, una modesta abitazione, già conosciuta come “casa della Saveria”, dal nome di battesimo della padrona di casa di un tempo.

Una cantina a piano seminterrato, in cui si scende attraverso una serie di scalini, e due/tre vani di casa vera e propria a livello rialzato, dove si accede grazie ad altrettanti scalini a salire, questi ultimi da poco impreziositi con ringhiere corrimano laterali.

Su quei gradini all’aria aperta, scorgo seduti due giovani, una coppia, chiaramente lì ospiti per vacanza, e, senza pensarci su, mi avvicino loro, presentandomi come un “curioso” e chiedendo da dove provengano.

Un istante, e mi accorgo che i due non parlano italiano; al che, tiro fuori la mia precaria e approssimativa conoscenza dell’inglese e apprendo che sono americani di San Francisco, California, USA, che sono arrivati in aereo a Roma e quindi a Brindisi e, da quest’ultima località, con un’autovettura presa a noleggio, hanno infine raggiunto Marittima, per due settimane di vacanza.

Nell’intento di apportare maggior senso e motivo alla mia invadenza, confido alla coppia che quegli scalini, sono a me conosciuti in maniera particolare, a prescindere dalla circostanza di essere nato e aver vissuto fino a diciannove anni d’età a pochi metri di distanza, per una ragione ben precisa.

Nel novero delle famiglie dell’Ariacorte della mia fanciullezza, rientrava anche quella di Fortunato Nuzzo, sposato con Giulia Contino, originaria di Vaste di Poggiardo, e comprendente, accanto ai genitori, la figlia Teresa, mia coetanea.

Con la signora Giulia, nonostante il nome di battesimo del marito, la natura, purtroppo, era stata tutt’altro che generosa, a voler dire che la donna, sebbene ancora giovane, soffriva di gravi disturbi respiratori, da arrivare, talora, a sentirsi quasi soffocare.

I giovani stranieri, malgrado il mio inglese arrangiato, seguono molto attentamente il racconto, accennando, a comprova, la parola “asma”.

Proseguendo e concludendo la storia, riferisco che Giulia, nei momenti di crisi più acuta, si spostava da casa sua a quei gradini nello slargo, vi si sedeva e si tratteneva, dicendo che almeno lì c’era più aria e aveva agio di respirare meglio.

Congratulazioni, da parte degli ascoltatori, per la mia acuta e fresca memoria.

Un approccio di relazione/contatto con ignoti, così occasionale ed estemporaneo, doveva, stranamente se non eccezionalmente, avere un imprevedibile seguito.

Nel pomeriggio, mentre mi predispongo, nel cortile della mia casa di vacanza, ad annaffiare le aiuole e le piante, transitano su via Agostino Nuzzo, verosimilmente diretti all’Acquaviva, i due ragazzi di prima e rallentando, forse per ammirare la mia villetta e la pineta adiacente, mi vedono e riconoscono immediatamente.

D’istinto, dischiudo il cancello, invitandoli a entrare e, in tal modo, prosegue, per un bel pezzo, il nostro colloquio. Chiedono quale sia il mio nome, pronunciando, quindi, Rocco senza difficoltà e, di rimando, mi è dato di conoscere i loro appellativi, Sam e Samantha (il femminile, si precisa, con la h, pronunciato “sementa”).

I due mi confidano, poi, di aver già sperimentato alcune bellezze naturali della zona, soprattutto l’incantevole mare di Marittima e dintorni e di essere intenzionati, nella restante parte della loro vacanza, a visitare anche l’interno del Salento, a cominciare dalla città capoluogo, Lecce.

Da ultimo, io credo opportuno di invitarli a parlar bene di questa terra ai loro conoscenti, parenti e amici, venendo a sapere, con gioia, che in realtà, almeno a San Francesco, il Salento è già abbastanza noto e c’è gente che lo sceglie per le vacanze al mare.

Scambi di saluti sorridenti chiudono e suggellano il cordiale e prospero incontro.

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Recandomi ad Andrano per acquistare il pane, noto, seduta sull’uscio di casa, una donna di terza età, intenta a lavorare al ricamo su un panno di stoffa bianca. Anche in questo caso si verifica l’arresto del mio ciclomotore “Scarabeo”, dopo di che parte diretta la domanda alla signora: “A che punto sta ricamando?”.  La risposta: “Signuria (lei) non puoi sapere il nome, si tratta di cose antiche”.

E io, a replicare: “No, signora, da ragazzino, sono stato spettatore di lunghe stagioni di ricamo per mano delle mie zie e, lei si meraviglierà, serbo addirittura reminiscenza dei nomi di più di un punto: a giorno, Rodi, raso, ombra, erba, Palestina. Lei, adesso, quale sta usando, me lo dice?”.

Con un sorriso, la donna mi informa che sta eseguendo il punto a giorno, su un’asciugamani destinato a una nipotina (ne ha otto di nipoti, più due pronipoti).

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Dopo aver atteso, per un pomeriggio, alla faticosa incombenza del taglio delle erbacce nella Marina ‘u tinente, mi avvio a risalire in macchina per rientrare a casa e, proprio in quel momento, vedo sopraggiungere lentamente, nella medesima direzione di marcia, una carrozzella sospinta da un motore a batteria.

Il mezzo è guidato da Toto Minonne, primo cugino di mia madre, giacché figlio di zio Michele, fratello di nonno Giacomo, e nello stesso tempo mio compare, avendo io tenuto a battesimo, una sessantina di anni fa, uno dei suoi due figli, Vittorio, il quale, attualmente, esercita la professione di medico a Marittima.

Ci scambiamo d‘istinto un saluto vocale a volo; però, non sentendomi appagato, mentre la carrozzella procede pian piano, la raggiungo, mi accosto, apro il finestrino e domando a Toto quanti anni abbia; un attimo di esitazione e il mio parente, nonché compare, pronuncia il numero novantatré.

Gli indirizzo un augurio di buona salute e accelero.

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Mi sono appena concesso la prima veleggiata dell’estate 2019, notando, con soddisfazione, che la mia fedele barchetta “My three cats” continua a svolgere dignitosamente la sua parte, anche se mi è fedele compagna sin dall’anno 2000 e per di più, all’epoca, la comprai già usata.

Esperienza di mare breve ma gradevolissima, allietata da tenui refoli di tramontana che tonificano e vivificano il corpo e la mente.

Cosicché, penso e spero di poter effettuare numerose altre uscite, in compagnia, oltre che del mio amico Vitale, anche dei miei figli e nipotini.

Per mia buona sorte, si succedono i calendari, le stesse forze fisiche, ovviamente, ne risentono e però lo spirito si mantiene giovane.

Nino (classe 1924) non pesca più

di Rocco Boccadamo

Al momento della sua nascita, fu registrato all’Anagrafe, e parallelamente battezzato in chiesa, con il nome proprio di Albino (cognome F.) e, il suo caso, rappresentò, un’autentica eccezione, già che, all’epoca, fra la popolazione di Castro, non v’era alcuno che si chiamasse così.

In seguito, molto semplicemente, se non automaticamente, lo sviluppo sotto forma del diminutivo/abbreviativo Nino.

A parte siffatta singolarità appellativa iniziale, mette conto di annotare che il successivo, graduale divenire del personaggio si sgranò sul metro di un’assoluta, esclusiva e continuativa caratteristica: lo strettissimo rapporto, vera e propria simbiosi, fra lui e l’ambiente più prossimo e naturale su cui si era affacciata e dischiusa la sua avventura esistenziale, ossia a dire il mare.

Nino, dunque, prestissimo, pescatore, sin da bambino, tutti i giorni dell’anno, in ogni stagione, a braccetto, anzi, in questo particolare caso, a bordo di una barchetta di legno, del genere “gozzo,” in principio rigorosamente a remi, poi sospinta da un piccolo motore fuoribordo, e in compagnia funzionale e operativa di ami, lenze, “conzi” e reti.

Anni, lustri, decenni, attraversati espletando tale duro, incerto e talvolta periglioso lavoro, sempre con equilibrata passione, senza fermarsi o arretrare di fronte alle difficoltà e, spesso, ai magri proventi.

Frattanto, intorno a Nino, andava formandosi e crescendo anche una famiglia, con due figli, di cui uno rimasto a Castro e l’altro trasferitosi per lavoro in un’altra regione.

Che bagaglio di esperienze per l’uomo, acquisito e accumulato sotto cieli multiformi e multicolore, quando sereni, quando grigio scuri per effetto di nuvolaglie dense, in notti stellate o cupe e fredde, su distese calme o vivaci o con cospicui moti ondosi.

Nino, comunque, sempre lì, sull’uscio della sua grotta in Via Scalo delle barche, dove è solito preparare le attrezzature per la pesca, specialmente l’allestimento, prolungato e non facile, del “conzo”, oppure sulla banchina del porticciolo, prossimo a “uscire”, oppure al largo, a più riprese nell’arco delle ventiquattro ore, per “calare” o tirare su gli strumenti del suo lavoro.

Accanto alla quotidianità così snodatasi per una vita intera, con il protagonista sempre determinato, ma, insieme, sereno, è rimasto negli annali della marineria della Perla del Salento, uno specifico episodio, indubbiamente non comune, di cui Nino, alcune stagioni fa, si è trovato ad essere, un po’ ma non completamente a caso, protagonista.

Un pomeriggio, aveva “calato” il suo “conzo” (lunghissima lenza con alcune centinaia di anni pendenti da apposite appendici, mantenute a mezza profondità, mercé la compensazione di galleggiamento conferita insieme da piccoli piombi e cubi di sughero) a media distanza dalla costa verso la Marina di Andrano, dopo di che, nella mattinata successiva, era ritornato sul posto per recuperare il tutto.

Sennonché, a un certo punto, l’uomo ebbe ad avvertire una fortissima resistenza, che gli impegnava mani, gambe, braccia e spalla, segno che, a un amo, doveva aver abboccato un grosso esemplare di pesce (più tardi, si sarebbe rivelato trattarsi di un tonno), che, con tutte le proprie energie vitali, vanificava il tentativo di Nino di recuperare il “conzo”. Non cedeva l’amico pescatore, non mollava la lenza e la preda attaccata, né si arrendeva l’esemplare ittico. Durante questo confronto di forze, trascorreva deciso il tempo e, circostanza più delicata, il “gozzo” era lentamente trascinato, dai guizzi del pesce, in direzione di Tricase e di Leuca.

Nino, in occasione di quella uscita, non si era portato appresso il cellulare e, quindi, era praticamente isolato al largo e, progressivamente, sempre più distante da Castro. Per fortuna, il figlio, impensierito e preoccupato a causa del mancato rientro del genitore, ritenne di allertare la Guardia costiera, che, in breve, raggiunse, con un suo veloce battello, il pescatore, sempre accanito a non mollare. Così, rimase Nino, sordo financo alle esortazioni dei militari a lasciar perdere, fino a quando non fu il tonno, esausto, a perdere del tutto le forze ed a essere tirato all’interno della barchetta.
Fino a poco tempo fa, Nino è stato sorretto da una buona, o quantomeno discreta, salute ed è sceso puntualmente al porto, in sella al suo motorino o a piedi, salpando, sia pure sempre più raramente, col suo battello. Da parte mia, incontrandolo, mi tenevo aggiornato sull’avanzare dei suoi almanacchi e in merito all’andamento della sua attività. E, lui, a rispondermi, con tono gentile sorridente, magari, nelle ultime occasioni, precisando di essere uscito al solo scopo di trarre un quantitativo di pesce fresco destinato al figlio giunto a Castro per le ferie.

Da qualche tempo, gli acciacchi si sono purtroppo accentuati e, di conseguenza, egli si muove da casa raramente.

L’ho incontrato il mese scorso, seduto all’inizio della banchina interna del porticciolo davanti alla sede del “Circolo Sottufficiali”, domandandogli: “Come va Nino, come stai?”. Stavolta, diversa dal solito la risposta:” Come vuoi che vada, va come Dio vuole”.

Tuttavia, io penso che Nino, dentro di sé, sia egualmente sereno e contento, non fosse altro perché il suo battello, il piccolo gozzo denominato “Martina”, è sempre lì, in acqua, silenzioso ma ormeggiato all’altra banchina, a fianco della più grande barca consortile. E sono, altresì, sicuro che l’uomo, in silenzio, si ripassa con affetto e commozione le figure dei suoi colleghi e amici pescatori di Castro, ad esempio, quelle dei due Vincenzo e di Nunzio C., già proprietario, anche lui, di un “gozzo” dal nome “Davide”, i quali hanno tirato definitivamente i remi in barca, in età ben più giovane della sua, per salirsene sulle nuvole.

In certi giorni, mi capita di ritrovare Nino, intento a riposare tra aiole fiorite nei pressi della sua abitazione, e, lì, mi dà l’impressione di snocciolare un altro ripasso, cioè a dire le così tante albe e gli infiniti tramonti in cui i suoi occhi si sono rispecchiati.

Sì, posto che sono ormai novantasei gli anni compiuti da Nino, so che è improprio, ma qui mi piace parlare non di anni bensì di maree, appunto novantasei maree.

Ravvisando nella sua persona una sorta di simbolo della gente di mare castrense, la locale amministrazione civica (per la precisione, non quella in carica, presieduta, guarda caso, da un figlio di Nino, ma quella precedente), ha deliberato di conferire al pescatore in questione uno speciale riconoscimento ad personam e io rivedo ancora l’uomo felice e commosso sul palco della correlata semplice cerimonia

Anche da queste righe, il mio affettuoso saluto e sincero augurio, Nino: resisti, come in quella avventura al largo alle prese col grosso tonno, e abbi ancora lunga vita.

Il mio “Scarabeo”, la barista gentile e i passerotti festosi

di Rocco Boccadamo

Alla “Pasturizza”, dopo alcuni giorni di pesante, anzi, a tratti, opprimente, scirocco, da ieri ha iniziato a prevalere il ben più gradito vento di maestrale, con i suoi refoli, come è noto, provenienti da direzione nord – nord ovest.

Quindi, si è ripreso a respirare a polmoni pieni e distesi, con correlate sensazioni di sollievo e benessere ed è divenuto più allegro lo stesso stormire delle fronde dei pini.

A parte l’aggiuntivo e determinante godimento del mare a portata di mano, in questa atmosfera, bisogna proprio dirlo, sì che è una bella estate. Peccato che Imma ed Elena abbiano dovuto far ritorno alla loro abituale residenza, ma, tanto, a fine luglio, saranno nuovamente qui.

A proposito di ventilazione, mentre vado riprendendo amicizia con la penna, avverto che l’amico maestrale sta scivolando addirittura verso una netta tramontana, il che dovrebbe presupporre che, almeno per un tratto, si potrà ben sperare quanto a livello di appagamento fisico generale e, soprattutto, in termini di sonno ristoratore.

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Essendo in scadenza la revisione annuale del mio ciclomotore “Aprilia”, un cinquantino “Scarabeo”, approfittando del clima caldo, ho osato sfidare i residui postumi di un recente malanno personale ponendomi in sella al veicolo e, così, raggiungendo, in assoluta indipendenza e autonomia, l’apposito Centro di verifica e controllo, situato a San Cassiano, a dodici chilometri di distanza da Marittima.

Alla moderata velocità del mezzo, ho letteralmente goduto della breve trasferta su due ruote. Grazie allo scarso traffico, ho, fra l’altro, avuto modo di occhieggiare sulle distese di campi e giardini con una serie di raccolti pronti e anche sui copiosi frutti pendenti dagli alberi, specialmente nespole e albicocche.

Affidato lo “Scarabeo” al giovane addetto alla revisione, nelle more che si provvedesse all’adempimento, mi sono spostato a piedi nel vicino esercizio di pasticceria e bar “Le dolci fantasie”, ordinando un caffè in ghiaccio e un pasticciotto piccolo con crema. Dopodiché, approfittando della climatizzazione attiva nella sala, mi sono trattenuto a un tavolo sfogliando un quotidiano locale.

A servire al bar, avevo da subito scorto una giovane donna bionda, carina e sorridente, cioè a dire carica di naturale empatia. Sicché, avanti di sortire dall’esercizio, non ho resistito a riaccostarmi al bancone, incrociando nuovamente quel volto piacevole e facendo partire, in un attimo, la sequenza: “Complimenti, sei molto bella!”, “Non sei italiana, vero?”  (risposta, “Vengo dalla Polonia”), “Ma parli benissimo la nostra lingua” e lei: “E’ ormai da tanto tempo che vivo qui”.

Quindi lo scambio finale di un arrivederci.

Riguadagnato lo stabile del Centro revisioni, mentre l’operaio si accingeva a dare inizio al controllo del mio “Scarabeo”, io mi sono messo tranquillo ad attendere nei pressi di una parete del grande capannone.

Invero, di fatto, è stata una pausa di calma tranquillità e, però, dai connotati speciali.

A voler dire che il vasto locale risuonava di un vero e proprio concerto di cinguettii, per opera di un nutrito stuolo di passerotti, i quali volteggiavano da padroni, insomma a loro completo agio, in lungo e in largo, appena più in basso rispetto alla volta del capannone, di tanto in tanto annidandosi in piccole aperture esistenti lungo i muri perimetrali, guizzando velocemente, sempre col sottofondo dei loro minuti e pure vivaci cinguettii.

A un certo punto, ho notato che il giovane revisore interveniva con battiti delle mani, quasi a voler amorevolmente raccomandare ai volatili di non esagerare, di contenere il loro festoso saettare. Mi è sembrato che, tra le parti, esistesse una sorta di “accordo fra gentiluomini”, per una convivenza senza eccessi da rispettarsi reciprocamente.

A valle di un simile opinato accordo, un particolare effetto concreto: nessuna traccia degli ospiti alati sul pavimento del capannone, mentre esattamente l’opposto era dato di vedere volgendo lo sguardo verso i numerosi grandi fari di illuminazione fissati al soffitto, in alto.

Le relative coppe esterne e, in parte, anche i frontali luminosi, mostravano, più che evidente, la presenza dei “bisognini” dei passerotti ospiti del Centro revisione autoveicoli di San Cassiano.

Il mio odierno incontro per caso con un contesto umano che è ormai una diffusa realtà

immagine tratta da http://nessunapretesa.com/tag/lecce/#jp-carousel-28882

 

di Rocco Boccadamo

… e non possiamo fingere di non avvedercene.

Mentre mi accingo a riguadagnare il portone condominiale e a risalire in casa dopo una breve passeggiata nei dintorni della mia abitazione, avverto di essere oggetto di discreti ma inequivocabili accenni vocali di saluto.

Al che, arresto i miei passi e mi rendo conto che le attenzioni nei miei confronti provengono dall’abitacolo di un’autovettura parcheggiata in corrispondenza del coesistente tratto di marciapiedi.

Sul sedile posteriore del veicolo, primo sportello aperto, si trova accomodato un ragazzino di carnagione color bruno intenso e dai grandi occhi parimenti scuri, il quale è intento a somministrare, con il biberon, sorsi di latte a una bimbetta, tenuta in braccio, palesemente nata da pochissimo tempo.

Accanto a lui, un’altra bimba e, infine, a ridosso dell’opposto sportello del mezzo, una giovane donna che, non faccio fatica a capire subito, è la genitrice del trio di figli.

Pressoché automaticamente e, comunque, con naturalezza, s’instaura una breve conversazione: il giovanissimo che va accudendo la sorellina appena venuta alla luce ha tredici anni, la seconda femminuccia, come dalla stessa mostrato a mezzo della manina, ne conta, a sua volta, quattro.

Quanto alla donna, infine, su mia esplicita richiesta, apprendo che, di primavere, ne annovera trentuno e che, in aggiunta agli eredi presenti con lei nell’auto, ha un quarto figlio quindicenne, per ciò messo al mondo, come facilmente conveniamo insieme, quando lei, di anni, ne assommava sedici.

Croate le origini del nucleo fortuitamente incontrato, al cui apice, mi viene riferito, c’è ovviamente un capo famiglia.

A Lecce oramai da lungo tempo, la loro residenza è in un alloggio delle case popolari nei paraggi dello stadio “Via del mare”, canone d’affitto mensile tra i cento e i centocinquanta euro.

Purtroppo, vengo a sapere, né la giovane mamma, né il compagno dispongono di un lavoro stabile. Al momento, precisa la donna, l’unica fonte di reddito è rappresentata dall’attività, espletata dall’uomo, di vendita porta a porta o, meglio, appartamento per appartamento nei condomini, di fiori e piante.

Non esita, la giovane mamma, incoraggiata, dice, dalla sensazione di aver di fronte una brava persona, a pregarmi di procurare un lavoro per lei e per il partner, “ne abbiamo estremo bisogno” sottolinea.

Da parte mia, pur attestando di immedesimarmi nella situazione, non posso che frapporre i limiti e la personale inadeguatezza rispetto a una richiesta del genere.

Nondimeno, la giovane mamma croata sorride discreta, senza il minimo segno di disappunto, e sorridono anche i due figli grandicelli.

E io mi sento piccolo piccolo nel constatare di non essere in grado di fare alcunché e, gli occhi in certo qual modo chini dietro tale sentimento di rammarico, mi congedo dai miei occasionali interlocutori, anche se, all’ultimo istante, prendo l’iniziativa di regalare ai ragazzini un cono gelato.

Nella cara “Ariacorte”, orme d’operosità senza tempo

 di Rocco Boccadamo

A Francesco Nullo, patriota e militare italiano d’origine bergamasca, distintosi in particolar modo durante la garibaldina Spedizione dei Mille, è intitolata la breve strada che delimita, sul lato nord, il ristretto spazio del più volte riproposto rione di Marittima in cui è venuto al mondo l’autore di queste righe, cioè a dire l’Ariacorte.

Ariacorte, è d’uopo ricordarlo ancora, denominazione di un’antica e caratteristica fetta del paesello, fra l’altro, passaggio più diretto, e, quindi, obbligato, per quanti, a piedi, in bici, oppure, oggigiorno prevalentemente, a bordo di mezzi a motore, si rechino verso l’incantevole insenatura “Acquaviva”.

Detto ultimo sito, storicamente prediletto e frequentato in esclusiva, per i bagni marini, dai marittimesi e dagli abitanti dei paesi viciniori, adesso è una meta famosa, conosciuta, amata e scelta, grazie all’eccezionale suo fascino, da moltitudini di visitatori, vacanzieri e turisti, provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero.

Ma, nella presente occasione, è proprio sulla via di cui all’inizio che s’intende soffermarsi, per un excursus illustrativo in sintonia con l’intestazione del racconto.

S’affacciavano sul lato sinistro, in ordine strettamente successivo – residuano anche ora, beninteso modificati o rammodernati – quattro portoni o portoncini o semplici porte d’accesso in locali, cortili coperti e minuscole case d’abitazione.

In un immobile di detta infilata, dalla composizione e consistenza un po’ particolari, aveva in passato sede un forno pubblico, dove si svolgeva un’attività lavorativa unica e preziosa (nella borgata, a onore del vero, esistevano altri tre esercizi del medesimo genere), ossia a dire la produzione, per conto e per opera dei residenti che fossero a ciò interessati, del cosiddetto “pane fatto in casa”, da distinguersi nettamente dai panini o filoncini o rosette (pane bianco) acquistabili presso il negozio di alimentari del paese.

Di  fatto, più o meno in ciascun nucleo domestico locale, si ricavavano, da qualche terreno di proprietà, modici o medi quantitativi di grano e orzo, che, periodicamente, erano portati al mulino della vicina Diso, dopodiché si utilizzava la farina al fine di ottenerne, grazie alla panificazione e alla cottura nel forno pubblico,  scorte di “friselle”, poi conservate, in casa, in capienti contenitori di terracotta (capasuni o pitali, assimilabili per grandi linee a orci e anfore), e, a seguire, giorno dopo giorno, consumate sulla tavola o durante i frugali spuntini in campagna, previo ammorbidimento (sponzatura) in una scodella o in una padella piene d’acqua, oppure immediatamente sotto il getto di una borraccia o ancora mediante immersione nei resti di pioggia preservatisi nelle “conche”, minuscole buche sulle rocce affioranti qua e là nei campi.

A gestire il forno e a seguire e coordinare l’opera e la collaborazione degli utenti, c’era un’apposita figura, non a caso detta “furnara”(fornaia); per quanto riguarda l’esercizio attivo nel rione Ariacorte, si trattava di una donna, fra i cinquanta e i sessanta al tempo della presente rievocazione,  Matalena  (Maddalena), indossante perennemente un lungo vestito di panno nero, originaria di un paese vicino, Cerfignano, sposata con Giovanni, madre di Costantino e di Maria, dimorante in una casetta a una cinquantina di metri di distanza dal posto di lavoro.

Alla vigilia della data fissata per il suo turno, ciascun capofamiglia andava a ritirare dal forno un’ampia vasca o arca lignea, avente precisamente la forma d’una zattera, in dialetto “mattra”, dentro la quale si doveva versare, impastare sommariamente e, quindi, lasciar lievitare la farina, sotto l’effetto della fermentazione, appunto, del lievito, o pasta madre, ritirato in uno con l’anzidetta mattra.

Il trasporto dell’utile ma un po’ ingombrante attrezzo, dal forno alle abitazioni private, aveva luogo con l’ausilio di un carretto, (in gergo dialettale, trainella), anch’esso in dotazione all’esercizio di pubblica utilità. Mentre, il trasferimento a ritroso, con il carico della materia prima, predisposta o semilavorata, come meglio piaccia dire, a cura delle donne di casa, si svolgeva, di solito, in tarda serata.

Giacché, l’azione del “fare il pane nel forno comune” non doveva interferire o sovrapporsi con l’attività giornaliera, soprattutto in campagna, degli uomini, i quali avrebbero, di contro, potuto sopportare il sacrificio di una notte in piedi per il compimento, ogni tanto, dell’operazione in discorso.

Perciò, dopo aver cenato e sistemato a letto i figli piccolissimi, sospingendo la trainella, convenivano al forno gli adulti e i ragazzini della famiglia interessata, accompagnati e coadiuvati da un gruppo di stretti parenti, nonni e zii compresi.

Del resto, nell’esercizio, su gran parte di un’intera parete, correva una lunga tavola da lavoro, dove potevano sedersi fino a sei/sette persone, con in testa la fornaia, le quali prelevavano con cura, ma di buona lena, dalla mattra, porzioni dell’impasto, le lavoravano (scanavano, in dialetto) a forza di mani, gomiti e braccia, riducendole in consistenti e morbidi cilindri, da cui la gerente del forno ricavava, in quattro e quattr’otto, le friselle, una sorta di ciambelle tondeggianti, ognuna consistente in due strati sovrapposti e uniti insieme, via via  poggiate provvisoriamente su lunghe e larghe assi di legno che sovrastavano la tavola di lavorazione.

Mentre il gruppo si muoveva in tale processo manuale, la fornaia, a tratti, immetteva nel forno, inteso come vero e proprio vano di cottura, un certo numero di fascine di fronde e rami (in dialetto, sarcine), frutto, specialmente, della rimonda degli ulivi, lì recate dalla famiglia che panificava, in modo da riscaldarlo adeguatamente, dalla base fino alle pareti e alla volta.

Inoltre, al momento giusto, serbava accuratamente, accantonata in un angolo, la piccola montagna di brace residuata dalla combustione.

Nel contempo, seguendo scansioni temporali ritmate dalla mente e/o dalla pratica o suggerite dalla fornaia, la forza lavoro utilizzava il quantitativo finale dell’impasto contenuto nella mattra, per modellare medie pagnotte, dette in gergo “pane moddre” (molle)”, così definite, in quanto da sottoporsi a una sola fase di cottura,  e, da ultimo, raschiando cioè risicati strati di pasta dal fondo e dai lati della mattra, una serie di puliteie, assimilabili  alle focacce o alle piadine,  farcite, in sede di preparazione, con modiche manciate di olive nere.

Finalmente, dopo la pulitura del piano o pavimento mediante una grossa ramazza bagnata, si deponevano nel forno le friselle e, da ultimo, le pagnotte e le puliteie.

A questo punto, s’innestava una pausa di riposo, i presenti, stanchi di fatica e insonnoliti, provavano ad appisolarsi, la fornaia, da parte sua, per lo meno d’inverno, andava addirittura a stendersi su un rudimentale giaciglio tenuto in un cantone del “furneddru” (forno più piccolo, situato al di sopra di quello utilizzato per la prima cottura del pane appena fatto).

Parentesi, nondimeno, breve, corrispondente al tempo necessario per il compimento, esattamente, della prima fase di cottura delle friselle e delle restanti forme di pane preparate.

Non abbisognavano né timer, né campanelli, né ulteriori congegni, era sufficiente la maestria e un’occhiata di Maddalena verso l’interno del forno, già fiocamente rischiarato dalla brace ancora rosseggiante a margine del pavimento e, all’occorrenza, meglio illuminato grazie a una lanterna, bastava che osservare il colore della “cotta” e via la frase: “Dai, bisogna sfornare!”.

Non s’impiegava molto tempo, utilizzando appositi aggeggi metallici, le friselle erano tirate fuori e immesse in capienti cesti di vimini; da questi, ritornavano sulla lunga tavola di lavorazione, dove gli operatori, servendosi di un segmento di spago, le tagliavano a metà in due separate sezioni: una, con base ovviamente più piatta e liscia, effetto dell’appoggio sul pavimento del forno, la seconda, invece, tondeggiante.

Esaurita tale importante operazione, le friselle, così spaccate, erano nuovamente inserite all’interno del forno, la cui temperatura, sebbene in progressiva attenuazione, restava nondimeno ancora alta e media per molte ore, così da ottenere l’essiccazione o biscottatura delle friselle stesse, che sarebbero poi state definitivamente ritirate e portate in casa dagli interessati, a distanza di dieci/dodici ore.

Attraverso le feritoie o la semi apertura del portone dell’esercizio, facevano capolino i primi lucori del nuovo giorno.

I convenuti, affaticati ma soddisfatti per aver affrontato e portato a compimento un importante lavoro, se ne ritornavano alle rispettive case, ciascheduno portando con sé una forma di pane moddre (molle) o una puliteia, già pronti per essere consumati freschi di cottura.

 

Parallelamente, il capofamiglia o la padrona di casa proprietari della cotta di pane curavano di consegnare i suddetti due esemplari di alimenti alla fornaia, in questo caso a Maddalena, la quale – altri tempi, davvero altri tempi – a fronte del suo lavoro e del ruolo di responsabile del forno, non percepiva alcun corrispettivo o compenso in denaro.

Maddalena, semplice e umile per nascita e di carattere, espletava il suo compito con passione e impegno, sempre aperta e disponibile, s’interfacciava, ovviamente, con numerose famiglie del paese, ben voluta da tutti.

La sua figura era anche un preciso punto fermo nell’ambito della comunità; ad esempio, quando si voleva far riferimento ai suoi figli, non si diceva Costantino o Maria  ‘u Giuvanni (figli di Giovanni), bensì Costantino o Maria ‘a Matalena (figli di Maddalena); la medesima particolarità seguita a vigere oggigiorno, riguardo ai discendenti di grado successivo: per citare, il nipote Vitale A., figlio di Costantino, caro amico e assiduo compagno di veleggiate dello scrivente, gode dell’appellativo di Vitali  (Vitale) ’a Matalena (della Maddalena).

Proseguendo oltre il portone dell’antico forno, si trova l’abitazione, con ampio cortile coperto e scoperto, già occupata da un’anziana coppia: Giovanni ‘u Pativitu (figlio di Ippazio Vito), con la moglie Addolorata. Il capo famiglia, contadino, si può dire dalle fasce, disponeva, in aggiunta, di una non comune manualità, che manteneva attiva e concreta pure in età avanzata.

Procurandosi nelle campagne e/o in vicinanza delle scogliere, quantitativi di canne, vimini e giunchi, li nettava e sezionava, dopodiché, con una sapiente operazione d’intreccio, arrivava a realizzare panieri grandi e piccoli, cesti e cestini, che, poi vendeva ai compaesani.

A qualunque ora si transitasse davanti al suo cortile, lo si scorgeva immancabilmente intento a tale lavoro.

Accanto, la casetta di Vitale N., nomignolo ‘u ciucciu (origine del nomignolo sconosciuta, forse legata al possedimento, da parte sua o dei genitori, di un quadrupede, un somaro).

Il ricordo di detto nominativo è circoscritto alla sua figura già versante nella tarda età, nessuna notizia, infatti, circa le attività lavorative da lui svolte da giovane, forse contadino, forse falegname. E’, al contrario, viva, l’immagine di Vitale ‘u ciucciu, nella funzione di cavadenti, esercitata, verosimilmente, senza il possesso del relativo titolo accademico e avvalendosi di attrezzature molto approssimative.

Tuttavia, per le occorrenze di natura odontoiatrica (così sono definite oggi), la maggior parte dei marittimesi si metteva nelle mani del compaesano in questione: qualche lamento o urlo o strillo in corso d’opera e, però, denti e molari, non più sani, erano estratti.

A seguire, in un’ampia abitazione terranea con giardino, vivevano compare Chiaro, figlio di Giovanni, il fabbricante di panieri anzi ricordato, insieme con la moglie comare Donata e la figlia Maria Rosaria (il loro primogenito, già adulto, si era trasferito nel Nord Italia).

Caratteristica peculiare di compare Chiaro, rimasta impressa, la sua abilità nel catturare, ogni tanto, esemplari di volpi che andavano a insidiare, talvolta facendone strage, i galli, le galline e le pollastre da lui allevati nel vicino giardino denominato “canale ‘i rasci” (anche questa accezione, di origine e significato misteriosi).

Gli animali che restavano in trappola erano scuoiati e, successivamente, finivano in pentola; in qualche occasione, la comare Donata portava amabilmente in dono porzioni di carne di volpe alla vicina e amica famiglia Boccadamo.

Proseguendo verso sud, si trovava la casa di Toti ‘u Pativitu (figlio o nipote di Ippazio Vito), il quale, all’occorrenza, esercitava il mestiere di  ”conza limmi e ggiusta cofini” (riparatore di contenitori in terracotta, che ogni famiglia possedeva, per farvi il bucato o per differenti fabbisogni domestici).

Per completare il quadro illustrativo, in un altro vicolo dell’Ariacorte, abitava Giuseppe P., Peppe ‘e Tuie (nativo della località di Tuglie, situata nei pressi di Gallipoli), il quale non si occupava di un preciso, determinato e limitato lavoro, ma svolgeva un’attività in certo qual modo plurima: spazzino o netturbino, adesso si chiama operatore ecologico, attacchino di manifesti e operatore cimiteriale (becchino).

Farebbe torto all’intera comunità dell’Ariacorte dei tempi andati, il narratore, se, a parte le persone anzi passate in rassegna, non ponesse in evidenza che, in quell’isola del paese, non v’era proprio alcuno che stesse con le braccia conserte, che, lì, l’apatia e l’ozio non si sapeva neppure che cosa fossero.

Il sano daffare, in un modo o nell’altro, accompagnava ogni creatura, dalla stagione della prima infanzia fino alla vecchiaia avanzata.

Dal Salento, spigolature su cronache di ieri e di oggi, in chiave riflessiva

 di Rocco Boccadamo

 

Qualche voce sentenzia che stiamo precipitando, che ci troviamo già sull’orlo dell’abisso?

Per mia natura genetica e, forse, grazie anche ai capelli bianchi, e purtroppo radi, che mostro oramai da lunga pezza, non sono solito indulgere o cedere a sfoghi di allarmismo o disfattismo.

Anzi, l’astro, da cui ho scelto di lasciarmi guidare, irradia giorno e notte, in prevalenza, positività, fiducia nel buon esito delle azioni e delle situazioni, vuoi quando il cielo è azzurro o magicamente stellato e il mare beatamente calmo, vuoi nei frangenti che appaiono delicati e durante le stagioni procellose.

La prossima pietra miliare che mi sfilerà accanto reca inciso il numero 78, sono stato, dunque, autore o piccolo artefice o protagonista di eventi dalle più svariate sfaccettature, con prevalenza, per mia buona sorte, del carattere o risultato positivo e costruttivo.

Al primo posto, ovviamente, l’aver formato una famiglia di apprezzabile consistenza, arrivata ad arricchirsi, addirittura, di una squadretta di nipotini.

In aggiunta, ho sempre espletato con piacere e slancio l’attività lavorativa intrapresa sotto i vent’anni e protrattasi per circa quaranta calendari, traendone, oltre tutto, preziose conoscenze, esperienze, soddisfazioni, successo e carriera.

Una volta esauritasi quella fase interessante, sono diventato amico stretto, sodale e complice per intenti positivi, della penna, con ciò arrivando, in una sorta di seconda vita, a generare novelle creature, che, seppure non in carne e ossa, a parer mio sono parimenti animate: racconti, narrazioni, rievocazioni.

Non so valutare, e osando farlo, di certo, non scommetto sull’attendibilità e validità dell’esito, se sia una fortuna personale e un arricchimento la circostanza di aver percorso, tra fanciullezza e senilità, realtà temporali, insiemi, modelli sociali e di costume così nettamente differenti, quasi avulsi fra loro e senza tracce di collegamento e continuità.

E, però, sia come sia, in seno a queste righe, desidero pormi e navigare a guisa di testimone-osservatore di fatti ed eventi, soffermandomi sul ritmo del loro accadere, sul volume del loro clamore e sull’effetto conseguenziale alla loro risonanza e diffusione.

E’ vero, fra i poli di partenza e di arrivo dell’artigianale disamina in questione, c’è stato il mutamento, lo sviluppo, l’innovazione dei mezzi e canali di comunicazione, generandosi, in tal modo, tante rivoluzioni, da costringere le menti umane e, con raggio più allargato, il comune diffuso sentire, a uno sforzo notevole e profondo su un percorso di adattamento e adeguamento.

A ogni modo, nulla, realmente nulla, è rimasto come prima.

Si è andati più verso il bene o, al contrario, più verso il male? Nemmeno riguardo a questa soglia di quesito, mi cimento in un responso; una cosa, tuttavia, penso sia da condividersi unanimemente: le stesse coscienze si sono in qualche modo modificate, non conferiscono più le risposte, naturali e genuine, dei tempi andati.

A latere, sono andati progressivamente dominando gli influssi delle mode, le spinte all’emulazione cieca, i rigurgiti di aridità nelle relazioni e sul piano della mutua socialità, con il pretesto-alibi di una miserevole auto domanda:” Ma chi me lo fa fare?”.

La propaganda a ogni piè sospinto e con intenti di mero dualismo e contrapposizione verso l’altro, concorrente o semplicemente simile, dagli strati più umili e semplici, fino alle massime rappresentanze e istituzioni politiche o governative, là dove si svolge il fondamentale esercizio del potere e della gestione della cosa pubblica, con ricadute determinanti e vitali sull’ interezza della comunità.

Ripetendo in sintesi, con tanto di nuovo e con gli effetti di una trasformazione così radicale, le cose e la qualità dell’esistenza in senso lato sono migliorate o peggiorate?

Pur essendo venuto al mondo e avendo vissuto fino a diciannove anni in un paesino di poche anime, ho preso, già da piccolo, a familiarizzare, attraverso la radio e gli sparuti quotidiani o riviste su cui occhieggiavo, abusivamente, all’interno della rivendita di Sali e Tabacchi che ne esponeva le copie, con le notizie di cronaca, gli eventi e gli accadimenti in genere.

Primizia di siffatte consultazioni, nell’anno 1946, sapevo appena scrivere le lettere dell’alfabeto, il caso Rina Fort, a Milano, incentrato, come è noto, sull’atto criminale perpetrato da una giovane donna, proveniente dal nord est, la quale, sulla scia e/o dopo il naufragio di una relazione affettiva intrattenuta con un altro immigrato nel capoluogo lombardo, tale Ricciardi di origini siciliane, massacrò la di lui moglie e ben tre figlioletti.

Poi, nel 1953, il caso della giovane Wilma Montesi, rinvenuta morta sulla spiaggia di Torvaianica, un evento che vide coinvolti anche alcuni conosciuti personaggi romani, tra cui il figlio di un importante ministro, quest’ultimo costretto, di riflesso, a dimettersi dalla carica.

Quindi, nel 1958, in Emilia-Romagna, la vicenda, sempre di cronaca nera, Ghiani – Fenaroli, e quella di Giuffrè, il cosiddetto banchiere di Dio, artefice di una clamorosa truffa.  

Includo, in questa breve ma pesante carrellata, l’uccisione di un ricco possidente dell’Alto Salento, nel 1976, per mano del figlio, studente universitario fuori corso.

Avvenimenti, come si evince, tragici, drammatici, sensazionali e, non di meno, scaglionati nel tempo, sì da tenere, singolarmente, a lungo banco nell’ambito dell’opinione pubblica, nella sensibilità e nella sfera emotiva delle persone.

Tutt’altra faccenda, chiaramente, si verifica il giorno d’oggi, con le rivoluzioni intervenute e gli sconvolgimenti annidatisi nelle stesse menti e nei cuori.

Episodi clamorosi, uno a seguire strettamente l’altro, così sovrapponendosi, un baillame di notizie che sgomenta e confonde; nonostante l’indiscussa gravità di ciascun fatto, l’eco di un evento scivola via velocemente per effetto del successivo, giungendo a passare rapidamente in sordina quando non nell’oblio completo.

Dicevo sopra, si registra finanche l’alterazione delle coscienze.

Sul più prestigioso quotidiano italiano, in prima pagina, alcuni giorni fa era richiamata la vicenda della donna che, probabilmente per un’insana reazione alla fine di una storia sentimentale con un uomo sposato, ha soppresso la moglie del medesimo.

Mi ha colpito, specialmente, un particolare riportato in quella notizia. Raccontava, al cronista, il marito della vittima, che, trovatosi a tu per tu con l’ex amante all’interno della caserma dei carabinieri, dopo l’arresto, la donna gli aveva sussurrato:” Posso farti una carezza?”.

A parer mio, beninteso senza trascurare o sminuire una serie di concause, molta parte nei notevoli mutamenti e reazioni verificatisi intorno a noi, sia da porre a carico della pubblicità.

Ma è, quest’ultima, un’opinione del tutto personale, anche se obiettiva e disinteressata.

Riandando, se è concesso, ai miei natali, mi si para innanzi la figura di un compaesano, tale Fiore B. ‘u pisca, di mestiere pescatore e forse anche figlio di un pescatore, il quale, utilizzando un minuscolo gozzo in legno, servendosi di una lunga asta, detta ronca,  terminante in una sorta di arpione, mercé  l’ausilio, infine, di uno “specchio” (secchio metallico chiuso alla base con un vetro) per scrutare i fondali, pescava, fra l’altro, modiche quantità di ricci di mare, li sistemava in un paniere in vimini e, la domenica mattina, li proponeva, in piazza all’uscita dalla S. Messa, ai marittimesi, al prezzo di una lira per ciascun riccio.

Attualmente, la quotazione degli stessi frutti è di cinquanta centesimi d’euro al pezzo, circa mille volte in più. Ordinandone una decina in un ristorante e facendoseli servire a tavola dischiusi, a fronte di dette prelibatezze con gli aculei possono essere richiesti anche venti euro.

Mi piace terminare riallacciandomi a un’iniziale personale annotazione.

Ci troviamo, forse, quasi al punto da scorgere l’abisso sotto di noi, ma io credo che permanga un’àncora utile a preservarci; occorre, però, che tutti, proprio nessuno escluso, compiamo uno sforzo serio e sincero, mettendo in gioco la nostra onestà, la nostra buona volontà, la nostra correttezza, la nostra diponibilità solidale e la nostra buona coscienza vecchia maniera.

Intingere la penna nei propri natali

Foto del 1916 o 1917 I coniugi Consiglia e Cosimo Boccadamo, il primogenito Silvio e la seconda figlia Eva detta Nina

Due nonni dalle stesse identiche iniziali, C.B.

 

di Rocco Boccadamo

 

I miei nonni paterni si chiamavano, rispettivamente, Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo.

Erano nati, entrambi, nel rione “Ariacorte” di Marittima, secondo i registri di stato civile dell’epoca in via Acquaviva, a distanza di sette anni l’uno dall’altra, precisamente, lui nel 1879 e lei nel 1886, dalle coppie di coniugi Generoso Silvestro/Eva e Domenico/Cosima.

Accanto a Cosimo, in famiglia, esisteva la sorella Salvatora, insieme con Consiglia, invece, il fratello Luigi.

Esatta parità, perciò, circa il numero di componenti dei due nuclei, fra i quali non è dato di sapere se intercorressero nodi di parentela: verosimilmente, no, almeno di genere stretto, mentre non sono da escludere rapporti di grado lontano, nell’ambito del centinaio abbondante di Boccadamo viventi a Marittima.

Sicuramente, i miei ascendenti in discorso dovevano conoscersi sin da bambini.

Generoso faceva di mestiere il contadino, Domenico, da parte sua, il pescatore, in tale attività coadiuvato, una volta divenuto grandicello, dal figlio Luigi e, anche, per determinate incombenze sulla terraferma, dalla figlia Consiglia.

Analogamente, Cosimo fu condotto a seguire le orme paterne nei lavori in campagna, attività che perpetuò durante l’intera esistenza, ovviamente fino a quando si mantenne abile.

A parte gli anzidetti dettagli operativi/occupazionali, ebbero a porsi, Generoso e Domenico, alla stregua di vere e proprie pietre miliari e di preziosi indicatori. Nel senso, che gli appellativi impostigli all’atto del battesimo giungevano puntualmente a comparire e a risuonare non solo con diretto riferimento alle loro persone, ma pure, indirettamente, ai fini dell’identificazione e della chiamata in causa, da parte della comunità paesana, dei rispettivi discendenti.

In tal guisa, le definizioni di Cosimo e Tora ‘u (di) Generosu in seno al primo nucleo famigliare e di Consiglia e Luigi ‘u (di) Minicone (questo accrescitivo dialettale, giacche Domenico era un uomo molto alto, precisamente, un omone) in seno al secondo.

Analogamente, le denominazioni aggiuntive, ‘u Generosu e ‘u Minicone seguitavano, e ancora adesso, diffusamente seguitano, vieppiù, ad accompagnare i nomi propri originali delle generazioni succedutesi nel tempo, figli, nipoti e pronipoti.

Vigendo gli ultimi calendari del XIX secolo, Cosimo già giovanotto e Consiglia adolescente e giovinetta, la conoscenza e, poi, la frequentazione fra i due si accrebbero.

Per la verità, lui ebbe per prima fidanzata (zita, in dialetto) un’altra ragazza dell’Ariacorte, Marta, ma detto legame non si consolidò definitivamente, proprio, forse, perché Cosimo provava maggior piacere e interesse nel concentrare gli sguardi sulla personcina di Consiglia, nonostante quest’ultima non si appalesasse affatto dolce di sale o accondiscendente o adesiva con facilità.

Dai suoi racconti o aneddoti, è tratta la scenetta del giovane Cosimo, intento, insieme con il padre, a zappare in un fondo agricolo limitrofo all’insenatura “Acquaviva”, denominato “Oscule” (bosco) e di Consiglia che, in quel mentre, saliva a piedi dalla rada, recando sul capo una cassetta di specialità ittiche appena pescate e sbarcate dal padre e dal fratello, per portarle a Marittima e venderle a qualche famiglia abbiente.

Spontanea l’iniziativa verbale di Cosimo: “Dai, Consiglia, lasciaci due/ tre pesci, così ce li arrostiamo sulla brace e potremo accompagnare le nostre friselle, a colazione”.

E, però, spontanea e pure decisa fu la reazione della ragazza di non dare minimamente ascolto e di tirare dritto. Il nonno trovò occasione, nell’arco di decenni, di rispolverare ripetutamente questo episodio, non senza rinfacciarlo scherzosamente alla controparte protagonista.

Non più “zitu” di Marta, Cosimo si fidanzò “in casa” con Consiglia, la quale, tuttavia, data anche la fresca età, specialmente nei primi tempi del loro sodalizio sulla carta, non dimostrava di attribuire soverchia importanza e assiduità al nesso meramente sentimentale e di vicinanza e contatto con il partner, preferendo seguitare a frequentare le sue amiche del rione e attendendo, unitamente a loro, ai rituali giochi di quei periodi.

“Consiglia, ancora in giro sei? Perché non torni a casa e facciamo l’amore?” (ovviamente nel significato e col correlato contenuto di fine 1800), la esortava la sera Cosimo, e lei a replicare: “Guarda, prima, devo finire questa partita a campana con le mie compagne”.

Sia come sia, giunse il giorno delle nozze e, dalla casa della sposa, si mosse il tradizionale corteo, attraverso l’Ariacorte, per dirigersi verso la parrocchia. Se non che, sempre a quanto resomi in racconto, nell’atto di transitare davanti all’abitazione di Marta, la ex zita di nonno Cosimo, per rabbia e ripicca, pensò  di disotturare lo scarico di una grande vasca lapidea, in dialetto pila, presente nel proprio cortile e ricolma di acque sporche (sciotte), residuo di un grosso bucato, lasciando defluire il non trasparente  e non olezzante liquido, a modo di cascatella, sulla strada in quel momento percorsa dal corteo nuziale e dalla processione di parenti e invitati, con indosso eleganti abiti da festa.

Completamente diversi di carattere, sotto l’aspetto intellettivo, nelle tendenze e preferenze, Cosimo e Consiglia vissero lungamente e intensamente, in ogni senso, generando una numerosissima prole; in aggiunta ai sei figli sopravvissuti, Silvio, Eva, Maria, Vitale, Lucia e Rocco, considerato, del resto, che, un secolo fa, erano frequentissimi i casi di mortalità infantile, furono in realtà fautori, perlomeno, di altrettante nascite.

Donna forte, dotata di una spiccata memoria (teneva perfettamente a mente, ricordo io, le date di arrivo al mondo, matrimonio e morte di tutta la parentela e non solo), la nonna non intendeva essere da meno nel confronto col consorte, il quale, magari, si lamentava di rientrare a casa, la sera, esausto per la fatica nei campi, sicché, di sovente, lo attendeva a bella posta sull’uscio tenendo in braccio uno dei figlioletti, piangente: “Tieni, prendilo un po’ tu, ha passato in questo modo l’intero giorno, facendomi disperare”.

Al che, l’uomo, così nella sua narrazione a noi nipotini e anche ad altre persone, celiava che fosse lei a regalare ai pargoli qualche pizzicotto, ovviamente foriero di strilla e lacrime.

A parte qualche piccola sceneggiata della specie, chi, sostanzialmente, comandava in casa, era la nonna Consiglia soprannominata ‘u Minicone; naturale riflesso, in seguito, fu quel nomignolo aggiuntivo famigliare e non l’altro inerente al nonno Cosimo, ossia dire ‘u Generoso, a cadere e perpetuarsi sia in capo ai loro figli, sia sui discendenti dei medesimi, sia, infine, in termini estesi, nell’ambito della comunità di Marittima.

Consiglia, dunque autorevole, forte e in gamba, fisico e portamento ben eretto sino all’età avanzata malgrado le sopra accennate innumerevoli gravidanze/maternità, stimata e rispettata dai parenti e dai compaesani, a partire dal fratello Luigi che, in segno di attaccamento e di omaggio, volle chiamare Consiglio il suo unico figlio maschio che, oltre a fare il contadino, il frantoiano, il nachiro, capo dei frantoiani, si sarebbe dedicato anche alla pesca, come il padre e il nonno Domenico.

Piccola rimembranza risalente alla mia remota fanciullezza, nel cortile della attigua abitazione di zio Luigi e di zia Amalia (sua moglie), salitasene al cielo, guarda caso, nel giorno dell’Ascensione del 1950, campeggiava un grosso manufatto/parallelepipedo in pietra viva, non molto largo ma alto e cavo all’interno, detto in dialetto “stompu”, utilizzato per versarvi cereali, sia grano che orzo, di propria produzione, e frantumarli mediante la mazza, lunga e robusto attrezzo in legno terminante in forma ovoidale, cereali che sarebbero stati successivamente cotti e consumati a tavola come minestra.

Ambedue i miei nonni paterni in discorso, essendo mio padre Silvio il loro primogenito e il primo, in ordine temporale, a sposarsi, avevano un intenso e più consolidato legame giusto con la mia diretta famiglia, volevano, in particolare, un bene dell’anima a mia madre Immacolata e noi ragazzini, spesso, ci trattenevamo, nel pomeriggio o alla sera, nella loro vicina abitazione, d’inverno scaldandoci, insieme con il nonno, all’interno del focalire (camino) e, talvolta, consumavamo la cena frugalissima, una minestra posta a tavola in un unico grande piatto, in compagnia, appunto, dei nonni e degli zii e zie.

Come pure, verso la prima la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano questi ultimi, ancora giovani, che correvano a casa nostra, di notte, nell’avvisaglia del passaggio di aerei militari nemici, con potenziale rischio di bombardamenti, caricandosi in spalla noi piccoli nipoti e conducendoci al buio nel vicino appezzamento agricolo di Monticelli, per attendere che il pericolo fosse superato.

Pur trovandomi in così stretta vicinanza e frequentazione con loro, raramente mi è capitato di assistere a dissapori o litigi fra i nonni Cosimo e Consiglia, tranne che in un’isolata occasione.

Correva il 1953, ci trovavamo nella stagione fredda, di lì a poco, la prima domenica di marzo, si sarebbe svolta, a Marittima, la rituale fiera/mercato della Madonna di Costantinopoli, una sera, nonno Cosimo con la pipa in bocca, io e un mio fratello, ce ne stavamo seduti, al solito, nel focalire e nonna Consiglia, lì vicino, era intenta a filare, col fuso, batuffoli di lana accanto alla figlia Lucia e al di lei fidanzato Peppino.

In un dato momento, l’anziana donna si mise a dire: “Fra poco, si terrà la fiera e quest’anno, in vista del matrimonio di Vitale (altro figlio), ci toccherà fare una serie di acquisti”. Passando poi a un lunghissimo elenco di oggetti, magari tutti necessari e utili.

Il nonno ascoltava e, forse, man mano, conteggiava approssimativamente il costo richiesto da tali compere, col rischio anche di dover indebitarsi; a nota non ancora completamente esaurita, fu un attimo, non potendone più, egli interruppe bruscamente la moglie con un solenne, autoritario e ultimativo invito, ad alta voce, a piantarla.

Risultato, la nonna proruppe in un pianto dirotto, in ciò imitata anche dalla zia Lucia.

Riguardo ai matrimoni dei figli, qualche anno prima, esattamente nel 1948, era stato celebrato quello di zia Maria, andata sposa a zio Vittorio, marittimese trasferitosi per lavoro a Francavilla Fontana nel brindisino, dove, per ciò, la coppia era andata a mettere su casa.

La nonna Consiglia, senza nulla togliere all’intensità del suo trasporto materno verso gli altri discendenti, dimostrava ed aveva una certa predilezione per Maria e Vittorio; probabilmente, mi vien da pensare, perché era stata vicina alla figlia durante i lunghi anni di assenza del suo fidanzato per vicende di guerra e di prigionia e, in aggiunta, perché, da sposati, i due erano andati ad abitare lontano da Marittima.

A conferma di ciò, la nonna, che mai si era prima allontanata dal paesello, a differenza del marito che di viaggi  ne aveva compiuti (in tradotta sino a Belluno, per partecipare alla Grande Guerra, a piedi, non possedendo una bicicletta e non potendosi permettere di pagare il biglietto del treno, sino a Brindisi, due volte l’anno, per lavorare negli stabilimenti vinicoli e nei frantoi, a Napoli, infine, nel 1935 o 1936 per accompagnare il figlio Silvio partente volontario per l’Africa Orientale), iniziò a far su e giù da Francavilla Fontana, anche trattenendosi  lì per brevi periodi, non solo in occasione della nascita di due nipoti ma pure in altri momenti dell’anno, immancabilmente intorno a metà settembre, nella ricorrenza della festa della Protettrice di quella cittadina, la Madonna Fontana.

Analogamente, la vigilia della già ricordata fiera della Madonna di Costantinopoli a Marittima, quando zio Vittorio, che collaborava con un commerciante all’ingrosso ma anche ambulante di tessuti, si accingeva a venire nel nostro paese per allestirvi la baracca di esposizione e vendita, la nonna si prodigava in mille preparativi per non far mancare, a lui al suo “principale” (datore di lavoro) una cena speciale.

Sempre in tema di sposalizi, a nonna Consiglia, toccò purtroppo di essere protagonista/vittima di un episodio, se non propriamente drammatico, certamente non lieto; la mattina del giorno stabilito per le nozze della figlia Lucia (1953), a mezzo di una scala di legno, l’anziana donna sì portò su una scansia (ripostiglio), ricavata alla sommità di una parete di casa, per prelevare un oggetto o qualcosa che serviva.

Sfortunatamente, la poveretta ebbe a scivolare, non ricordo se sul ripostiglio o sulla scala, precipitando rovinosamente sul pavimento, con notevoli ammaccamenti fisici, per fortuna, almeno, senza necessità di ricovero in ospedale.

Di primo acchito, si pensò di rimandare lo sposalizio, poi prevalsero le riflessioni sui preparativi già fatti e sulle relative spese e, quindi, fu egualmente festa, sebbene pervasa da un rigurgito di tristezza e da qualche lacrima specialmente nel sentire della sposa, zia Lucia, con la nonna, dolorante, costretta nel suo letto.

Consiglia sopravvisse all’incidente, si riprese bene e resto con i suoi cari, sino al raggiungimento, nel 1974, dell’apprezzabile età di ottantotto anni.

Traguardo, invero, non confrontabile con quello che ebbe l’avventura di raggiungere la sua metà, nonno Cosimo, il quale campò fino al 1982, ossia a dire oltre centodue primavere, accudito, nell’ultimo lungo periodo, dalle figlie e dalle nuore.

Notazione leggera, la sera delle esequie di nonna Consiglia, familiari e parenti stretti riuniti in casa nostra per consumare la cena, nella circostanza preparata, secondo l’usanza, da una famiglia del paese amica o legata da vincoli di parentela, “bisunia” in dialetto, rammento che, in una pausa del pasto, una mia sorella pensò di chiedere all’avo: “Nonno, visto che tu hai molti anni più di lei, non ti dispiace che, per prima, sia mancata la nonna? Non avresti preferito che si rispettasse l’anzianità, compiendo tu, adesso, i tuoi giorni al posto suo?”.

Il vecchio uomo restò qualche istante in silenzio, per poi rispondere: “Nipote mia, sia sempre fatta la volontà di Dio, ma la vicenda d’oggi sta bene così com’è andata”.

Mi piace terminare questa semplice e, insieme, sentita rievocazione in ricordo dei miei ascendenti per via paterna, soffermandomi su due ultimi particolari relativi a nonna Consiglia.

Ella era fortemente affezionata a un gatto, rimastole accanto per lunghissimi anni e che alla fine era divenuto enorme, guai a chi lo toccasse o non lo trattasse bene.

Inoltre, amava, anche in questo caso gelosamente, i fiori, il piccolo cortile di casa sua si presentava sempre arricchito da molte varietà semplici ma variopinte, dalle zinnie agli astri cinesi, ai garofani, alle rose e alle calle, queste ultime svettanti in un angolo di terriccio adiacente all’imboccatura di una cisterna per la raccolta d’acqua piovana, a lato di una parete muraria interamente ricoperta da un rampicante sempreverde e per lunghi periodi fiorito in una gradevole tonalità lilla.

A.A.A.: cognomi, nuclei famigliari e costumi marittimesi

Elzeviro di rimembranza e nostalgia

A.A.A.: cognomi, nuclei famigliari e costumi marittimesi

 di Rocco Boccadamo

A quanti, bontà loro, hanno dimestichezza con le mie narrazioni, chiedo venia se, nella parte iniziale di queste note, gli capiterà d’imbattersi in elementi o dettagli già snocciolati, e quindi riscontrati, in precedenza. E, però, in questo caso, la reiterazione concorre a incorniciare gli appunti nel miglior modo possibile.

Dopo aver, per lunghi evi, raggruppato anche la località/comunità di Castro, a un certo punto divenuta invece autonoma sotto l’aspetto amministrativo, il Comune di Diso, dal 1975, comprende l’omonima frazione capoluogo (1097 residenti) e una seconda frazione, Marittima, ossia a dire il mio paese natio (1854 residenti).

Fra gli abitanti di Marittima, sono quattro i cognomi con maggiore diffusione: in ordine decrescente, Nuzzo, Minonne, Boccadamo e Arseni.

Si tratta, chiaramente, di una piccola realtà territoriale, con popolazione risicata e confini angusti, e, tuttavia, ugualmente recante traccia, ancora oggi, sebbene in termini vie più ridotti, di una tradizione consolidatasi nell’arco di millenni a livello universale, sin dai tempi degli antichi Egizi e Greci.

Mi riferisco alla consuetudine, in certo qual modo, rigorosa se non ferrea, di conferire al proprio figlio il nome di battesimo del proprio genitore. Ciò, non solo con finalità meramente dinastiche o successorie in senso materiale, ma con l’intento ideale di creare, mediante il collegamento onomastico fra nonno e nipote, una specie di continuità fra generazioni, ben oltre il tempo.

Ciò raccontato a stregua d’introduzione, passo a spostarmi e a concentrarmi su una delle A.A.A. del titolo: A. come nome di famiglia Arseni (per puro caso, corrispondente a quello portato da mia moglie); dopodiché, a zumare sullo specifico nucleo domestico impiantato, agli albori dello scorso secolo, da Alessandro (in gergo dialettale, Lesandru) Arseni e dalla sua sposa Vincenza (detta ‘mmare, per comare, Vicenza).

Sette figli, Gervasio, Vitale, Costanza, Lucente, Valeria, Michele e Peppino, di cui l’ultimo mancato da poco,

Un focolare, verosimilmente, animato e riscaldato, in pari misura, dai ciocchi, ricavati in campagna dalla potatura degli alberi e posti ad ardere nel camino e da intensi aliti di semplice religiosità e profonda devozione ai culti locali, come comprovato dalla circostanza che, fra gli appellativi della prole, compaiono quelli della famiglia del Santo Patrono del paese, Vitale con la moglie Valeria e uno dei loro figli, Gervasio, tutti martirizzati  per non aver inteso rinnegare la fede cristiana, durante l’impero di Nerone.

E, insieme, sia direttamente fra le pareti domestiche di Lesandru e ‘mmare Vicenza, sia in seno alle famiglie create man mano dai loro discendenti, affiorano sentimenti di rispetto, riguardo e omaggio verso le figure genitoriali, cosicché, a tempo debito, i sette fratelli e sorelle sopra menzionati, a eccezione di Valeria, rimasta senza prole, si determinano indistintamente e immancabilmente a dare al loro primo figlio il nome del padre, precisamente Alessandro.

Mi piace rievocare la figura, prima accennata, di Valeria, maestra in una delle manifatture di tabacco del paese e abilissima maestra, anzi vera e propria artista, di telaio per la produzione di tessuti, la quale abitava, col marito Angelo, nel mio stesso rione dell’Ariacorte.

Come pure, mi viene alla mente la casa di Costanza, allietata da sei figli tutti maschi. Fra loro, Alessandro, primogenito, che faceva il contadino e, nelle ore libere, anche il barbiere, con una bottega dove, la sera, si radunavano stuoli di giovani amici per musiche con l’armonica a bocca e canti vari; quindi, Angelo e Damiano, avviatisi, da ragazzi, alla vita monastica, attualmente ancora presenti e attivi presso un’istituzione religiosa di Lecce.

E poi, e di più, vengo a far cenno alla famiglia di Gervasio, andato a nozze con Concettina, nucleo arricchito, anch’esso, da sei figli maschi: il primo, Alessandro, non c’è più, al pari del secondo e del terzo, Antonio e Vitale, mentre Vittorio, mio coetaneo e compagno di classe alle Elementari, Pippi e Mario sono tuttora in mezzo a noi.

A differenza del marito, grande lavoratore, autorevole capo famiglia ma persona discreta, Concettina era una donna estroversa, di grande cordialità, per questo amica benvoluta da tutte le compaesane, nondimeno anche lei impegnata nella cura e crescita dei figli, nella gestione della casa e nel supporto al coniuge per i lavori agricoli.

Aveva una bella voce intonata, Concettina, tanto che, agli inizi degli anni Sessanta del secolo passato, in occasione di un giro radiofonico per l’Italia, il noto presentatore Rai Silvio Gigli, portando una sua trasmissione nel Salento e sostando a Marittima, la chiamò, unitamente a un gruppo di compaesane contadine, e la fece esibire al microfono con due canti popolari dialettali, di cui ho presente il titolo: il primo, “Purciddruzzi e pittule”(specialità culinarie e/o dolciarie salentine), il secondo “Quannu lu ceddru pizzica la puma” (quando l’uccello dà un morso alla mela) che recita:

 

Quannu lu ceddru pizzica la puma

la ucca se la sente zzuccarata,

la ucca se la sente zzuccarata.

Cusì se sente na carusa zita

quannu se bacia cu lu fidanzatu.

Quannu lu ceddru vola su lu fiore

azzati beddra mia e facimu amore.

 

Versi tradotti in italiano:

 

Quando l’uccello da un morso alla mela

si sente la bocca zuccherata,

si sente la bocca zuccherata.

Così si sente una giovane fidanzata

quando si bacia con il fidanzato.

Quando l’uccello vola sopra il fiore

alzati mia bella e facciamo l’amore.

 

A quell’epoca, io avevo già preso a lavorare in banca, a Taranto, ma ebbi casualmente occasione di ascoltare la straordinaria esibizione della mamma del mio compagno Vittorio, attraverso l’apparecchio radiofonico della padrona di casa che mi ospitava da pensionante.

Una piccola chicca di ricordo, rimastami sempre impressa dentro.

Il primo nato di Gervasio e Concettina, Alessandro, intorno ai vent’anni, aveva concorso per l’arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza, ramo mare, partendosene così dal paese natio e, però, restandogli sempre legato, sino alla scomparsa.

Analogamente, aveva lasciato la famiglia d’origine il secondogenito Antonio, arruolandosi, da parte sua, nell’Esercito e compiendovi una lodevole carriera da Sottufficiale in una cittadina capoluogo nel Veneto, mai mancando, comunque, di tornare puntualmente, ogni estate, a Marittima. Anzi, sulla strada per l’Acquaviva, nei pressi della collinetta denominata Acquareddre, si è costruita una villetta di vacanza, adesso abitata, durante la stagione bella, dalla moglie, dai figli e dai nipotini, pure loro dimoranti, in via stabile, nel Veneto o in altre località lontane.

Termino, con un pensiero di vivida memoria all’indirizzo delle figure che non ci sono più: a cominciare da Gervasio e Concettina che, dalla dimora sopra le nuvole, continuano a guardare e a vigilare, credo soddisfatti, sulle generazioni succedutesi dopo di loro e, quindi, rivolgendomi ad Alessandro, Antonio e Vitale che li hanno raggiunti lassù.

Da ultimo, con un cordiale saluto al mio compagno di classe Vittorio, a Pippi e Mario e, pur non conoscendoli, ai tre figli maschi di Antonio, due dei quali, a quanto ho potuto apprendere, ispirandosi alla carriera militare del genitore, hanno scelto di calcarne le orme e sono arrivati a conseguire il grado di alti ufficiali dell’Esercito Italiano, mentre il terzo è un brillante avvocato. Da ragazzo di ieri, sospinto dalle comuni origini marittimesi, desidero esprimere ai suddetti ultimi giovani e affermati uomini d’oggi, sinceri complimenti e auguri. Ad maiora.

Fine d’anno, con ritorno all’Ariacorte

l’insenatura acquaviva di marittima, come era una volta

 

di Rocco Boccadamo

 

Qualche tempo fa, un Dirigente scolastico, nel presentare il mio libro “Luca e il bancario” e riferendosi, più in generale, alla mia attività scrittoria, osservava come le mie narrazioni, molto spesso, sfiorino, sublimandolo, un sito naturale definito e speciale, ossia a dire l’incantevole seno “Acquaviva” di Marittima.

Era proprio nel giusto, il suddetto commentatore, giacché l’Acquaviva è, per me, davvero un luogo impareggiabile e magico, una sorta di bomboniera marina, dove, fra l’altro, ho compiuto i primi passi o movimenti natatori.

E, tuttavia, per completezza di pensieri e sentimenti, il fantastico specchio d’acqua limpida e frizzantina in questione non è l’unico ambito che ho caro, provo, parimenti, un profondo attaccamento anche verso il piccolo e antico rione del paese, l’Ariacorte, dove, nel remoto 1941, sono venuto al mondo.

L’Ariacorte, insomma, si pone anch’essa come una bomboniera: di ricordi e dell’anima.

Già in altre occasioni, ho avuto modo di soffermarmi sul minuscolo sommario quadrilatero, delimitato e intersecato dalle analogamente minuscole vie Francesco Nullo, Giacomo Leopardi, Isonzo, Pier Capponi e Piave, con breve estensione laterale al tratto iniziale di Via Premuda.

E però, mi piace ripercorrere ancora una volta lo scenario, puntualizzando che la rievocazione, sotto l’aspetto temporale, spazia dalla fase dei miei primi passi (sic) sino agli anni cinquanta dello scorso secolo.

Erano stagioni in cui l’esiguo agglomerato si trovava affollato fitto di nuclei famigliari, ciascuno, in genere, con molti membri, perciò, nell’insieme, contava una novantina d’abitanti, fra bambini e infanti, adulti e vecchi.

L’attuale stato dell’arte demografico e residenziale si presenta, è ovvio, del tutto mutato, posto che, nell’Ariacorte, dimora stabilmente appena una decina di persone, cui, nel periodo estivo e in alcuni fine settimana, si aggiungono, all’incirca nello stesso numero, presenze di proprietari o inquilini di abitazioni, i quali, abitualmente, vivono fuori.

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La mia località di nascita, Marittima, ameno paesino del Basso Salento, ha per protettore S. Vitale martire e per compatrona la Madonna di Costantinopoli o Odegitria.

Da ciò consegue che, secondo una secolare consuetudine (che, per la verità, negli ultimi tempi sembra gradualmente affievolirsi), molti abitanti portino il nome di battesimo di Vitale e Costantino/Costantina.

Difatti, durante il citato lasso della mia messa a fuoco, anche nell’Ariacorte, su circa centonovanta domiciliati, se ne enumeravano ben ventidue con tali nomi: Costantino ‘a Marta, Costantino ‘a Matalena, Costantino ‘u Nardu, Costantino ‘u Toti, Costantino ‘u Stinu, Costantino ‘u fusu, Costantina ‘a patana, Costantina ‘u medicu (nonna), Costantino ‘u medicu (nipote), Vitale ‘u Nardu, Vitale ‘u Consiglio, Vitale ‘u quendici, Vitale ‘u ciucciu (nonno), Vitale ‘u ciuccio (nipote), Vitale ‘a zuccaretta, Vitale ‘u minicone, Vitale ‘u casinu, Vitale ‘u fusu, Vitale ‘u puce, Vitale occhi ‘e lampu, Vitale ‘a Matalena, Vitale ‘a Paziavita (vigile urbano).

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Mi viene da soffermarmi, in particolare, su due degli anzidetti, Costantina ‘u medicu (nonna) e Costantino ‘u medicu (nipote).

Aveva, la prima, una casetta terranea verso il compimento di Via Isonzo e, ivi, la donna, già vedova, accoglieva i nipoti Costantino, appunto, e Maria (sua sorella), rimasti a loro volta orfani di entrambi i genitori in età giovanissima.

La donna in questione era di corporatura minuta ma dotata di un forte carattere, decisa, determinata e, all’occorrenza, severa.

Mentre andava accudendo amorevolmente i due congiunti arrivatile in casa, rammento che, di solito, si appalesava severa all’indirizzo di noi, altri ragazzini del rione, non le piacevano i nostri giochi in prossimità della sua abitazione, che, magari, talvolta finivano col disturbare il suo sonnellino pomeridiano; col risultato che, ogni tanto, sequestrava la palla di gomma con cui ci abbandonavamo a lunghe serie di tiri al calcio da un’estremità all’altra di Via Isonzo.

Ad ogni modo, interponendo garbate insistenze, la palla c’era restituita.

Altro ricordo, Costantino, da giovane, aveva una fidanzata (zita), sempre di Marittima, G. A un certo momento, la coppia pensò bene di accelerare e anticipare i tempi del rituale sposalizio, compiendo la classica fuitina, iniziativa, all’epoca, affatto rara.

Il gesto suscitò vivaci reazioni di contrarietà e stizza nel papà della giovane e, per ciò, venne meno la possibilità che la coppia andasse a stare presso quella famiglia.

Al che, l’anziana nonna Costantina si offrì spontaneamente di seguitare a ospitare in casa sua il nipote Costantino, non più da solo ma con G.

Gli sposini rimasero presso la nonna, nell’Ariacorte, per un po’ di tempo, anche dopo il matrimonio, sino a quando l’anziana, amorevole ma insieme fedele al suo rigore, non sollecitò i giovani a trovarsi una casa per conto loro e a stabilirvisi.

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Si sono nel frattempo succeduti svariati lustri e decenni, il volto esteriore e l’atmosfera dell’Ariacorte appaiono letteralmente differenti.

Nonostante questa realtà, rimangono forti il mio affetto e l’intenso legame con l’isola entro i cui confini sono nato, sentimenti che mi accompagnano anche nella corrente stagione dai capelli bianchi.

Infine, quando – d’estate – i miei nipotini vengono a trascorrere le vacanze nel Salento, non esito a condurli a girare lentamente fra le sue viuzze, narrando loro.

Intanto, il lungo intervallo temporale si è dipanato pure per Costantino, ho spesso occasione d’incontrarlo, possedendo egli un podere giusto di fronte alla mia villetta del mare sulla via per l’Acquaviva e, da antichi sodali dell’Ariacorte, ci scambiamo insieme, immancabilmente, nostalgiche reminiscenze delle stagioni andate.

Costantino si avvia a inaugurare il suo novantaquattresimo calendario e, per sua buona sorte, egli vive ancora in autonomia, muovendosi, alternativamente, alla guida dei suoi due mezzi: un motofurgone “Ape” e un’autovettura.

Narrando il Salento| In memoria di A. (la goffa)

In memoria di A. (la goffa)

 di Rocco Boccadamo

 

V’è, nel natio paesello, una stradina, intitolata a un linguista e scrittore del diciannovesimo secolo, N.T., immediatamente posta a portata di mano provenendo, guarda caso, da un’altra via pure recante il nome di uno scrittore, G.P.

Al secondo o terzo numero civico sulla destra, insiste una minuscola abitazione, umile ma dignitosa, in cui vive, oramai da svariati decenni, un’anziana marittimese, sola, nel senso di mai andata a nozze, single, stando al gergo moderno.

Invero, non è a questa donna, già contadina e ora pensionata, compaesana come tante altre, normalmente inserita nell’attuale comunità, che i miei pensieri mirano a rivolgersi mediante l’alleata penna.

Nella fattispecie, l’ispirazione ha per fonte e nido l’intendimento, più del resto, di dare anima all’immagine della casetta in discorso, quale era, come si presentava e che sensazioni conferiva, andando a ritroso nel tempo, nel corso di lunghe lontane stagioni e, specialmente, di rievocare in sintesi, e però cercando in pari tempo di conferirle una sorta di omaggio postumo, la figura femminile all’epoca ivi dimorante.

Si, ancora una donna, nome di battesimo iniziante per A., zia della padrona di casa di adesso e, allo stesso modo, in vita, nubile.

Il suo appellativo anagrafico, accezione propria peraltro comune e diffusa nel luogo, era immancabilmente e perennemente accompagnato dall’epiteto ‘a coffa, scaturito, o da qualcuno inventato, come meglio si voglia, con riferimento alle caratteristiche di stravaganza, particolarità, disordine, vaghezza, approssimazione, precarietà, dei suoi abiti, della stregua di vestirsi – suonerebbe improprio, a ogni modo, parlare d’abbigliamento -, incuranti di orari, stagioni e occasioni.

E, insieme, per il suo diretto modo di porsi, esprimersi, pensare, alquanto atipico, raffazzonato e sconclusionato.

A monte di simili miseri panni complessivi della compaesana A., appare chiaro e palese che si ponessero radici e sorte d’origine ingenerose, che la natura, in altri termini, dovesse essere stata con lei matrigna.   

Ella era venuta al mondo molti lustri prima di me, perciò i miei ricordi, nitidi, risalgono a quando io ero infante e, lei, già pienamente adulta.

Come nota distintiva della sua esistenza, che ricorreva sistematicamente nel suo parlare, rammento l’accenno, segno di evidente desiderio e attesa, all’arrivo, dal vicino mare, di un bastimento, recante a bordo un immaginario capitano o cavaliere, o, semplicemente, un uomo, che l’avrebbe corteggiata e sposata.

Così, i giorni e gli anni di A. scorrevano sotto l’influsso di tale suggestione.

Non mancavano, sulla scia della sua fantastica credenza, gli “amiconi” compaesani che, colposamente, scivolavano a deridere e sbeffeggiare la donna: lei, di primo acchito, si inquietava, ma senza demordere o indulgere ad abbandonare la propria idea-speranza o miraggio.

A questo punto, mi piace soffermarmi sulla particolare circostanza che A., accanto alla vistosa goffaggine esteriore, detenesse e denotasse un’innata basilare dignità.

Per citare, pur in mancanza di risorse o, meglio, sebbene versasse in assoluta povertà, non l’ho scorta, neanche una volta, nell’atto di elemosinare o chiedere, semmai era solita accostarsi, con una certa esitazione, alle persone in cui s’imbatteva oppure agli usci delle case. E stava lì, ferma.

Risultato, puntualmente, spuntava in ogni occasione chi le offrisse una mano, una monetina, un piatto di minestra, un frutto, un indumento, un paio di scarpe usate: briciole di solidarietà, in fondo, e, però, lei si sentiva appagata.

Per il resto, A. s’aggirava fra strade e campi all’aperto e privi di muretti o recinzioni, raccogliendo rametti e cespugli derelitti o di scarto, che, poi, utilizzava per accendere l’annerito camino, in dialetto focalire, di casa, vuoi per scaldare qualche avanzo di vivanda, vuoi per cercare di mitigare il freddo durante il periodo invernale.

Nella sua abitazione, non esisteva un letto vero e proprio, si notava, appena, un rudimentale giaciglio. E, tuttavia, è credibile, di certo così veniva di pensare a me, non solo da bambino ma anche da ragazzo e giovinetto, che la paesana dell’ultima fila dovesse attraversare, di tanto in tanto, le sue notti d’indigenza con il conforto di sogni, magari, con frequenza addirittura maggiore rispetto ai compaesani abbienti.

A., come sopra ricordato, non era nata sotto le ali della fortuna e, però, a dispetto della quotidianità estremamente grama e del mancato attracco del bastimento con il cavaliere che la impalmasse, ha avuto il buon destino di campare a lungo, almeno secondo la media dei suoi tempi.

Quando giunse l’ora della sua dipartita, io avevo lasciato il paese d’origine da qualche decennio. Perciò, non posso che rimembrarla nelle sue sembianze di prima, recentemente ripropostemi e rinfocolate da un’antica sua espressiva fotografia.

In conclusione, A., un essere umano poverissimo, senza niente e, nondimeno, riassunto di un modello di vita semplice all’insegna della dignità, condizione che, oggi, è, purtroppo, assolutamente rara.

Grazie, A.

Nel Capo di Leuca| Zia Valeria e… dintorni

di Rocco Boccadamo

Secondo consuetudine ormai ultradecennale, domenica, 4 novembre 2018, data coincidente con il centesimo anniversario della fine della Grande Guerra, ho partecipato alla Messa nell’ex cattedrale di Castro, Perla del Salento.

Nella circostanza, meglio dire nella specifica ricorrenza di quel giorno, mi ha favorevolmente colpito una grande tovaglia bianca collocata a copertura dell’altare e recante, sulla superficie tesa di fronte ai fedeli, la seguente frase, a caratteri ben visibili finemente ricamati a mano: Onore ai caduti della 1^ guerra mondiale.

Non c’è che dire, anche nella Casa di Dio un segno di sensibilità verso la Storia.

 

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Nei paraggi della mia villetta del mare, esiste un fondo agricolo, purtroppo da tempo incolto, denominato “Aria ‘u Margiotta” (dal cognome di un antico proprietario, il maestro elementare marittimese don Peppino Margiotta, ormai da molti decenni passato a miglior vita).
Il terreno è recintato da un muro di tufi di media altezza, in buono stato di conservazione.
Cosa è successo?

All’interno del fondo devono esistere, verosimilmente, alcune piante, nate spontaneamente, di campanelle color viola.

Ora, il rametto di una di esse è riuscito ad attraversare il sottile interstizio fra un tufo e l’altro, dando vita, fuori dalla recinzione e quindi alla vista dei passanti sulla strada adiacente, ad alcune verdi foglioline e a due bellissime campanelle.

Prodigi della natura.

 

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Stamani, come mi capita sempre di fare quando mia moglie vola, per brevi periodi, dai figli e nipotini, ho compiuto un giro nel supermercato vicino a casa, per una serie di minuti acquisti e approvvigionamenti.

Spuntata ed esaurita la relativa nota, mi sono portato in corrispondenza di una delle casse ai fini del pagamento e, ivi, mentre mi accingevo, con l’abbozzo di una prima flessione, a trasferire buste, sacchetti e prodotti, dall’apposito contenitore poggiato a terra, sul ripiano scorrevole verso il registratore contabile, si è verificato un singolare episodio, tanto inedito e insolito, quando indicativo per il mio sentire.

La cliente posizionata in fila alla cassa dietro di me, per la precisione, una signora non giovanissima bensì nella terza età, notando, forse, il mio movimento non propriamente da atleta con muscolatura scattante ed elastica, si è gentilmente e premurosamente offerta – in parte, poi, attuando in concreto l’azione, nonostante i miei ringraziamenti e, in certo qual modo, un cedimento di pudica ritrosia – di effettuare l’operazione di trasbordo merce.

Mi ha dato da pensare, tale accadimento di cronaca spicciola e, in particolare, lungo il cammino di ritorno alla mia abitazione, mi ha conferito lo spunto per pormi un interrogativo, anch’esso di poco conto e, però, rivelatore e sintomatico, per lo meno quanto l’occorso in sé: “Ma io, che coltivo il vezzo di definirmi così, posso ancora chiamarmi e, soprattutto, sono realmente, un ragazzo di ieri? Oppure, si tratta di mera illusione?”.

Sia come sia, non intendo rinunciare a tale, se si vuole bizzarra, autodefinizione e, non fosse altro nel mio intimo, sono determinato ad andare avanti a oltranza, aggrappato a detto ancoraggio e riferimento ideale.

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Non mi riesce granché, oggi, di assegnare, alle mie note, un canovaccio di ragionata scorrevolezza, pertinenza e logicità; di ciò, chiedo venia ai potenziali lettori, prendendo, soltanto, la licenza di addurre, a mia scusante, la circostanza che, da circa un anno, mai m’era incolto prima durante i quattro lustri passati, verso in regime di separazione con la penna e la scrittura.

Stato di cose che, man mano che l’arco del “distacco” è andato allungandosi, si è trasformato, in seno alla mia coscienza, in una sorta di patimento e di rimorso morale, come da astinenza.

Questo, credo di poterlo affermare senza finire fuori tema, a dimostrazione che l’esercizio di adoperarsi, aprirsi ed esporsi all’indirizzo degli altri – ossia a dire degli spettatori/interpreti che, insieme con gli elementi e fattori specifici della natura, formano il vero e autentico piccolo grande mondo che circonda ciascuno di noi – mediante frasi e pensieri comunicativi, non importa se di livello e rango umile o elevato,  è valido a sostenere, accompagnare, allargare e, perché no, anche impreziosire, il comune e genuino solco  del nostro percorso esistenziale, del nostro stesso essere, con tutte le variegate sfaccettature, nel suo insieme.

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I miei nonni materni, Lucia e Giacomo, erano circondati da sei figli, di cui due maschi e quattro femmine.

Di queste ultime, la più grande, Immacolata, che si sarebbe poi identificata in mia madre, era venuta al mondo tredici anni prima dell’arrivo della più piccola, Valeria.

Tra dette due sorelle, intercorrevano perciò, ovviamente, sentimenti di genuino e intenso affetto, ma anche un certo senso di distacco, tant’è che, ancora adesso, a oltre mezzo secolo dalla scomparsa della mia genitrice, non passa inosservato che zia Valeria parli di lei con rispetto e deferenza: “Immacolata era la mia sorella grande, bastava un suo sguardo per capire, fare o no una determinata cosa, comportarsi bene”.

Valeria era stata battezzata con quell’appellativo, non tanto, com’era allora prassi, per ricordare o rendere omaggio al nome di una famigliare o parente, quanto per devozione verso l’omonima Santa, martire al pari del consorte S. Vitale, protettore di Marittima, anche perchè era nata il 28 aprile, esattamente nel giorno, secondo il Martirologio Romano, della commemorazione dei suddetti Santi.

Valeria, insieme con la sorella appena maggiore Raffaela e i due fratelli, fu presto avviata, già in parallelo alla frequenza delle Elementari, ai lavori agricoli, in aiuto e supporto ai genitori.

Nota di colore e autentico distintivo del legame fra le menzionate ziette e il nipote Rocco, in occasione, ossia a dire all’atto, della venuta al mondo, in casa, delle mie sorelline, prima Rita e dopo Teresa, io, com’era usanza, fui in entrambe le circostanze condotto nell’abitazione dei nonni materni, restandovi a dormire, infilato nel letto a una piazza e mezzo condiviso dalle due giovani donne.

In seguito, man mano che crescevo, perfettamente a conoscenza e aggiornato sui diversi lavori stagionali in campagna, raggiungevo spesso le zie in discorso nei giardini o fondicelli, di proprietà dei nonni o condotti a mezzadria, per dar loro una mano in talune incombenze: ad esempio, attingere l’acqua dal pozzo mediante una carrucola e una coppia di contenitori a forma di barchette, chiamati tragni, e versarla negli annaffiatoi o secchi con cui le giovani bagnavano le piante e gli ortaggi coltivati in due giardini, detti, rispettivamente, “delle signurine” (in quanto di proprietà di due sorelle marittimesi benestanti e non coniugate) e “della riciddra” (argilla), per richiamo alla natura del terreno (appunto, argillosa) che caratterizzava quell’area agricola.

Oppure, mi recavo al “Laricu” (largo), altro terreno, dotato di un ampio capannone, dove nonni e zii coltivavano il tabacco; lì, io collaboravo, sia nella raccolta, di buon mattino, delle preziose foglie, sia, anzi soprattutto, nell’infilzarle, una dietro l’altra, per mezzo di una piccola lancia (cuceddra, in gergo dialettale), formando in tal modo infinite serie d’insiemi sostenuti da fili di spago, posti, poi, a essiccare sotto il sole.

Lavori nei campi, amicizie paesane, pure sparuti e casti amorini, secondo i limiti e i canoni di quelle lontane stagioni, per zia Valeria, la quale era una ragazza di piacevole aspetto, anzi assai carina, di temperamento estroverso e d’innata gentilezza, volto e occhi di solito illuminati dal sorriso.

E, così, un paio di fidanzati (ziti) marittimesi, con i quali però i legami non divennero definitivi, sino a quando la sua aggraziata figura non fu “scoperta”, o adocchiata, in occasione della festa patronale di S. Vitale (erano, in tale circostanza, tradizionali e immancabili le sfilate o gli “strusci” delle ragazze in attesa di maritarsi lungo la via principale del paese, sotto le luci vivide delle luminarie (apparati, in dialetto).

 “Scoperta”, dicevo, da parte e per opera di un giovane forestiero, il quale, una volta scattato il colpo di fulmine, in breve volgere di tempo, decise di andare a casa di zia Valeria per “dichiararsi”.

Si chiamava, Toto (Salvatore) P., era nativo della vicina località di Ortelle, ma, da svariati anni, si trovava arruolato volontario nella Marina Militare, imbarcato sui sommergibili e, all’epoca, già nei ruoli dei sottufficiali con il grado di Secondo Capo.

Da subito, il “fidanzato” diede, invero, l’impressione di essere un giovane a modo e, insieme, il che non guastava, un buon partito. In particolare, si dimostrò profondamente innamorato, letteralmente preso da zia Valeria.

Nel corso del fidanzamento, condizione, per la verità, protrattasi non per molti anni, ebbe a verificarsi un episodio che lasciò il segno fra meraviglia e ammirazione.

In concomitanza con un Natale, credo, Toto, ritornato a casa in licenza, recò in regalo alla fidanzata un elegante cappotto confezionato (appare inimmaginabile, serbo davanti agli occhi i colori e la fantasia della stoffa), da lui sicuramente scorto e scelto in qualche vetrina di Taranto, luogo, dove prestava servizio. Un dono affatto comune, posto che, all’epoca, i regali nel campo dell’abbigliamento consistevano in una determinata metratura di tessuto, in seguito affidata, dal/dalla donatario/a, per la confezione, a un sarto o una sarta del paese.

Correva il periodo di Natale, dicevo sopra, con Valeria che si girava e rigirava fra mani e braccia, si provava, indossandolo a riprese infinite, quel capo, manifestando una gioia da settimo cielo, quasi si sentisse, insomma, con un altro riferimento proverbiale, felice come una Pasqua, per voler dire al massimo livello.

Abbastanza presto, in confronto alle consuetudini locali, i due “colombi”, i quali, del resto, vivevano fisicamente distanti, concordarono e fissarono la data delle nozze, marzo o aprile del 1954.

Favolosa si presentava nelle sue doti di semplicità e bellezza, esaltate dall’abito bianco, zia Valeria, all’altezza pure lo sposo, con indosso, a sua volta, l’elegante divisa militare da cerimonia.

Io contavo solo tredici anni, ma ero in grado di registrare l’intera scena con la precisione e l’abilità di un provetto regista cinematografico.

Dopo il rito religioso nella chiesa parrocchiale di Marittima, protagonisti e invitati, inclusi, ovviamente, i parenti e gli ospiti del neo-marito, via, tutti insieme, a raggiungere la casa degli sposi (il fabbricu nuovo, si diceva in dialetto) a Ortelle.

Anche il rinfresco restò impresso fra gli astanti, non ricalcava i soliti “complimenti” alla buona e spartani (qualche bicchierino di liquori fatti in casa e uno/due dolcetti ordinati a Nena Maroccia) serviti durante i comuni matrimoni marittimesi, ma consisteva in un ricevimento di qualità con una serie di portate gustose, oggi si parlerebbe di catering, commissionato al miglior bar pasticceria di Poggiardo.

Il giorno dopo, i freschi coniugi partirono per il viaggio di nozze (pure questa iniziativa non era comune e diffusa ma rara), nel corso del quale, rammenta il testimone tredicenne, transitarono anche per la località laziale di Alatri, con l’intento di dare un saluto e consegnare i confetti al mio fratello maggiore Antonio, che stava lì, in un convitto dei Padri Scolopi, a frequentare il Ginnasio.

Al ritorno dal viaggio, pur esistendo il fabbricu nuovo di proprietà a Ortelle, prestando, zio Toto, servizio a Taranto, la coppia si trasferì in quella città, in un appartamento in affitto in via Regina Elena, nei pressi della chiesa di S. Francesco di Paola.

Feci in tempo, io, all’età di diciannove anni e mezzo, intraprendendo, a mia volta, l’attività lavorativa giusto nel capoluogo ionico, a render loro visita, intanto che la famiglia, nel breve intervallo trascorso, si era allargata con ben tre figli: R. (figlio), R. (figlia), dai nomi uguali a quelli dei nonni paterni e L. (figlio), il cui appellativo ricordava la nonna materna Lucia, da poco mancata.

Un particolare indicativo: in quegli anni, come prima indicato, i bambini non nascevano in ospedale o in clinica, bensì nell’abitazione dei genitori, nel loro “letto grande” e la puerpera era assistita semplicemente dalla levatrice e, specialmente, dalle donne di famiglia già sposate, perciò zia Valeria, non avendo a Taranto alcun parente, nel dare alla luce i figli, per tutte le tre volte, si spostò sistematicamente a Ortelle.

A un certo punto, ragioni collegate al servizio di zio Toto imposero il trasferimento dell’intero nucleo famigliare ad Augusta, nel sud della Sicilia, e lì, vedi ancora una volta il filo che tiene vivi e lega gli autentici sentimenti affettivi, io e mia moglie Annunziata, sposi nell’aprile 1964, ci recammo in visita, durante il nostro viaggio di nozze.

Non molto tempo dopo, per ovviare ai pesanti e talora ardui spostamenti, zio Toto lasciò la Marina Militare, ottenendo, contestualmente, un impiego civile, sempre in seno all’amministrazione statale, a Como.

Una volta sistematisi lì, lo stesso zio Toto (purtroppo, deceduto quindici anni addietro), zia Valeria e i figli non hanno più lasciato la città lariana.

Tuttavia, Como, in barba alla sua posizione geografica a ridosso del confine, non ebbe a rivelarsi, almeno per me e la mia famiglia, una lontana America, atteso che, pure a noi, per colpa o merito del bancario Rocco, toccò, nel 1978, di andare a risiedere in Lombardia, a Monza, in pratica a due passi dalla casa degli zii.

Ci vedevamo spesso da loro, colpiva, all’ingresso dell’abitazione, in bella mostra, la sciabola da ufficiale del primogenito nostro cugino R., segno di continuità ideale e generazionale, nell’intimo e nel sano orgoglio di zio Toto, memore della medesima “arma” a lui assegnata in dotazione, quando, da militare, aveva conseguito l’avanzamento da Secondo Capo a Maresciallo di Marina.

Zia Valeria e zio Toto hanno così avuto modo di seguire la crescita dei miei figli, Pier Paolo, Imma e Daniele; accadeva, addirittura, che Annunziata ed io, dovendo in qualche circostanza assentarci brevemente da Monza, affidassimo loro i nostri più piccoli, Imma e Daniele, che, ancora adesso, rimembrano le lunghe partite a carte con i gentili e premurosi pro-zii.

Guarda ancora caso, mentre io ero impegnato a Monza, il terzo dei cugini, L., conseguì la maturità; al che, traendo anche spunto dalle buone votazioni da lui riportate, mi offrii di indirizzarlo per l’eventuale assunzione nella mia stessa banca, il che avvenne, in breve volgere di tempo, presso la filiale di Como.

L’ultima volta che mi sono recato sulle rive del Lario risale al giorno delle esequie di zio Toto.

Da allora, zia Valeria, ha inevitabilmente dovuto rinunziare agli annuali viaggi a Ortelle e a Marittima, d’estate, con la Fiat 850 del marito. Intanto, andava vie più avanzando l’età e le sopravveniva, ovviamente, qualche acciacco.

Sono rimasti, con saltuarietà, i contatti telefonici, gli auguri per Natale e Pasqua, l’invio puntuale, alla zia, dei miei libri, da lei letteralmente divorati con estremo piacere, nella contentezza di rivivere luoghi, posti, vicende, volti e racconti, in parte famigliari, conservati nella mente e nel cuore.

Nel dicembre 2017, l’ultimo dei cugini, L., il collega bancario, alla vigilia del cinquantanovesimo compleanno, ha deciso di compiere l’importante passo del matrimonio e, suo più recente atto di rilievo, con decorrenza 1° ottobre 2018, ha scelto di porre fine all’attività lavorativa, scivolando anticipatamente in quiescenza.

In detta, fresca occasione, il cugino ha inteso fare un regalo, graditissimo, a me, a mia moglie e a mia sorella Teresa, una sorpresa completamente inaspettata, scendendo per alcuni giorni a Ortelle e, si capisce, a Marittima, insieme con la moglie Valentyna e la madre, la cara zia Valeria.

Al che, noi salentini ci siamo immediatamente fiondati nel “nido” di Ortelle, l’antico fabbricu degli sposi sulla strada provinciale, che, abitualmente vuoto e silente, agli inizi del mese appena trascorso, per un improvviso prodigio, si presentava con la porta d’ingresso dischiusa.

È scattato un tuffo interiore nello scorgere, dopo tanto tempo, la figura di zia Valeria, insieme con la coppia di famigliari, con il suo solito sorriso e i tratti dolci e immutati – tranne, beninteso, taluni fisiologici aggiornamenti – rispetto alle stagioni lontane.

Portamento eccezionalmente eretto ove si consideri che ha superato gli ottantotto e, come partecipatoci, che le è pure toccato, a più riprese, di affrontare una sequenza di problemi di salute affatto marginali.

Per buona sorte, tali malanni hanno lasciato una sola traccia indicativa e tangibile, ossia a dire saltuari vuoti nella memoria, si, precisamente saltuari, nel senso che, dopo qualche pausa di obnubilazione su eventi e/o figure di persone, le visioni e i ricordi della zia si rifanno nitidi e i discorsi e ragionamenti collegati riecheggiano puntuali e in completa aderenza e attinenza.

In pochi minuti, intrecci intensi di sguardi e parole, quasi un rincorrersi di domande e di risposte. Emozione e commozione, accentuate dall’esserci ritrovati fra quelle pareti, già scenario di un mitico sposalizio.

Dopo il saluto a Ortelle, ho fortemente desiderato che, il giorno successivo, i parenti comaschi fossero ospiti a pranzo nella mia villetta alla “Pasturizza” di Marittima e, in tal modo, sono proseguiti i discorsi e le rievocazioni su stati di cose attuali e, specialmente, su occorsi passati, a completamento del grosso, affettuoso regalo – tengo a sottolineare ancora – da parte degli ospiti giunti da lontano e finalmente rivisti.

Così, che m’è venuto spontaneo di contraccambiare. Nell’arco del pomeriggio e sino al tramonto, ho fatto dunque accomodare i parenti sulla mia autovettura, intraprendendo, in loro compagnia, un percorso di rivisitazione di luoghi e rivitalizzazione di eventi e rimembranze

Il giro è invero iniziato sotto forma di un salto all’indietro di tre quarti di secolo, attraverso, cioè, una veloce visita alla marittimese Anita, coetanea e compagna delle Elementari di zia Valeria: e, qui, colpivano i sorrisi radiosi di due ragazzine di ieri.

Quindi, una serie di sopralluoghi su siti e posti che furono testimoni degli anni giovanili e degli impegni della zia nei lavori agricoli: il fondo dell’Aria, i Munti, il giardino delle Signurine e quello della riciddra, la Marina ‘u civile, il Serrito, dove si prendevano anche i bagni di mare, l’Acquaviva, Torre di Capo Lupo.

Il giro si è concluso con una sosta nella dimora comune di tutti i marittimesi, ombreggiata da cipressi secolari, e la sfilata al cospetto di tanti volti occhieggianti da fotografie impresse su lastre marmoree e/o di comune pietra leccese.

Fra le figure che non ci sono più, mi limito a citare unicamente quelle di mia madre e della nonna Lucia; quest’ultima, genitrice, come annotato in altro capoverso, sia di Immacolata che di Valeria, anche nell’effige del camposanto appare contraddistinta dai suoi capelli bianchi e ricci che rimandano quasi fedelmente alla chioma attuale della sua vivente figlia piccola.

Un’esistenza normale, ordinata e lineare e, però, piena, quella della zia, cui, è chiaro, è espressamente e nominativamente dedicata questa narrazione.

Allo stato, ella va completando il proprio percorso attorniata, oltre che dai figli, anche da cinque nipoti già grandi e, ormai bisnonna, anche da una pronipote.

Nell’atto di accomiatarci (a quel punto, affiorano i suoi menzionati saltuari vuoti di memoria), Valeria mi ha rivolto un interrogativo confidenziale, esclusivo e, insieme, estremamente affettuoso: “Ma, Rocco, dimmi un po’, tu sei figlio di Immacolata, la mia sorella grande, non è vero?”.

E, io, gli occhi accennanti a divenire per un attimo lucidi, mi sono portato dentro, custodendole gelosamente, le sue parole. 

Estate 1942 al Serritu
La protagonista, oggi

A Castro, una serata speciale con nuance di rosa

 di Rocco Boccadamo

La lucente Perla del Salento, stando alle puntuali descrizioni virgiliane, ha avuto la straordinaria ventura di attrarre e accogliere la piccola flotta di Enea reduce dal saccheggio di Troia.

In contemporaneo parallelo, si è per millenni posta come culla, misteriosa e silente, d’indicative vestigia storiche, fra cui primeggiano un eccezionale busto della dea Minerva e i resti di un tempio a lei dedicato, scoperti recentemente e che è possibile ammirare nell’area museale del Castello Aragonese, autentica sentinella simbolica della cittadina.

Già di suo, quindi, la località adorna e impreziosisce, con un coacervo di pregi naturali, miti, storia e patrimonio architettonico, lo specchio di mare – delimitato da cornici di roccia bruna e, a tratti, da tempi immemorabili, priva di umane orme – che segna la fusione fra Adriatico e Ionio.

Castro, però, non è solo richiamo e meta preferita di turisti, visitatori e vacanzieri che vi giungono dalle più svariate provenienze, ma rappresenta anche, per molti, un bocciolo di attaccamento e di amore, che spunta sin dal primo contatto con la sua essenza e immagine d’insieme, le sue distese d’onde limpide e cristalline, i fondali trasparenti, le sue bellezze naturali su ampia scala, dopo di che rafforzandosi e permanendo nel tempo, addirittura tramandandosi lungo i passaggi generazionali.

Non appare esagerato affermare che, a Castro, si respira aria di magia, frammista a un concreto e raffinato tocco di accoglienza e ospitalità, non solamente nella canonica stagione estiva, ma, pressoché, durante l’intero arco dell’anno. Inoltre, risalta vie più, gradualmente ma decisamente, l’impronta di carattere storico culturale che vi va prendendo piede e affermandosi.

A siffatto abito caratteristico proprio, è abbinato, in modo particolare nel periodo del solleone e dei bagni marini, un nutrito calendario di eventi, spazianti dalla musica, al teatro, all’intrattenimento per i piccoli e i giovanissimi, alla danza, all’enogastronomia, ai temi d’approfondimento in generale, allo spettacolo e allo sport

In tale ambito, degna di rilievo e meritevole di citazione, fra gli altri, sotto la data dell’imminente 10 agosto, è una manifestazione promossa e organizzata dall’Associazione culturale “Laboratorio per Castro” in uno con l’Amministrazione comunale e recante la denominazione ”Seafood in rose”.

Riguardo a detta iniziativa, dice l’assessore Valentina De Santis: “Quest’anno, alla tradizionale e classica Festa del mare, si è voluto conferire un contenuto aggiuntivo e inedito, ossia l’abbinamento fra il vino rosato, varietà enologica che dà tanto lustro al territorio salentino e pugliese, e la birra ambrata, con l’effetto di una bevanda morbida di tonalità rosa. Sarà una magnifica serata di festa nell’area portuale, illuminata con il medesimo colore, animata da gruppi musicali fra cui il noto complesso “Ariacorte”, con la possibilità di accompagnare, mediante l’anzidetta fusione vino rosato/birra, squisiti piatti di frittura di pesce. Prodotti, pesce e molluschi, locali, pescati e/o acquistati da operatori locali, pietanze preparate al momento con utilizzo di ingredienti naturali. Insomma, niente bisogno di slogan modaioli del genere a chilometro zero o simili. Nel corso della serata, particolare attenzione sarà posta pure ai fini della salvaguardia dell’ambiente, territorio e preziosità naturali circostanti, a cominciare dal contenimento dell’uso e del consumo di accessori di plastica. A fronte del servizio enogastronomico di cui anzi, sarà richiesto un modico corrispettivo e, ad ogni modo, il margine netto dell’iniziativa sarà destinato esclusivamente alla realizzazione di altri eventi”.

In conclusione, si profila davvero una serata cui non mancare, il prossimo venerdì 10 agosto 2018, nell’area portuale   di Castro, Perla del Salento.

Il paese natio

di Rocco Boccadamo

E’ l’estremo lembo abitato, a nord est, della mia Marittima (LE), con un angolo della “casa di tutti” contraddistinta da cipressi, il convento/santuario della Madonna di Costantinopoli e l’omonimo adiacente B&B. di charme realizzato, circa quindici anni fa, da un lord inglese, Alistair Mc Alpine.

Ricordo, con nostalgia, le S. Messe al buio (ossia nelle primissime ore della domenica), ascoltate in quel convento e le rudimentali partite a pallone disputate sullo spiazzo li presente – dove, il maestro delle Elementari, Alfredo, ci sottolineava che passasse il 40° parallelo – e sullo stesso rettilineo, all’epoca non ancora asfaltato e non percorso da automobili.

Scusatemi, mi rendo conto di essere ormai divenuto un uomo senza tempo (foto di Lucio Valguarnera).

Libri| Gli sposi di Monteruga

monteruga

Presentato a Lecce il libro “Gli sposi di Monteruga” di Rocco Boccadamo

 

Venerdì 2 marzo, al Fondo Verri in Lecce, s’è svolta la presentazione dell’ultima opera di Rocco Boccadamo, “Gli sposi di Monteruga”, Spagine Fondo Verri Ediz., dicembre 2017. Rocco, in questi anni, ci ha donato sistematicamente i suoi appunti di viaggio. La sua è una scrittura intimistica e paesaggistica, che ha la sua culla prevalente nei mari adamantini di Marittima e di Castro.

Boccadamo è un narrastorie popolare, giacché, di solito, i protagonisti dei suoi scritti sono pescatori, contadini, muratori, ciabattini. Le sue storie vivide d’amore hanno per primario fulcro quel popolo silenzioso, che fa la storia, nonostante tutto.

La presentazione del libro di Boccadamo, introdotta dal cofondatore del Fondo Verri Piero Rapanà, è stata curata, con l’autore, da Giuliana Coppola, da Eliana Forcignanò e da Mariagrazia Presicce.

In apertura, la scrittrice Giuliana Coppola, che a tanti di noi ha trasmesso il gusto per la lettura e per la poesia, ha insistito sulla cifra precipua della narrazione di Rocco: quella del ricordo. E, in effetti, gli appunti di viaggio di Boccadamo (viaggio nel sogno e nella realtà) sono interamente improntati sulla mansione che ha al centro la memoria. Giuliana ha rammentato opportunamente una frase famosa di Marquez: “La vita non è quella che viene vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Si può serenamente far rinnovellare la quotidianità, le cose, le persone, i luoghi, tramite il medium del racconto. Giuliana s’è giustamente emozionata leggendo, nella raccolta, la vicenda di Vitale, un ragazzo alto 1.55, eroe della Prima Grande Guerra.

Rocco, durante la serata, ha saputo dare una nitida e affettuosa descrizione della madre Immacolata, donna del popolo, devota alla famiglia e alla fatica, morta prematuramente. E sempre nel libro campeggia lucente l’Ariacorte, un quartiere di Marittima, una zolla rosso sangue, emozionante bomboniera della tradizione. Rocco è un narrastorie salentino lineare. C’è chi ha imparato a volergli bene incontrandolo de visu, e c’è chi l’ha conosciuto tramite i suoi scritti. Dai lavori di Boccadamo si sente la vibrante eco di una terra che ha santificato la fatica, la gioia, il dolore.

La giovane filosofa e poetessa Eliana Forcignanò ha citato il suo amato Jung, sostenendo che non bisogna credere a tutto quello che ci si racconta. Il narratore, ovviamente, interpreta una parte di realtà, la sua realtà, nel modo in cui gli appare: Rocco sa far rifiorire i luoghi dell’anima, sa far sbocciare le sue storie adolescenziali, giovanili, mature. Eliana Forcignanò ha insistito su un aspetto di rilevante importanza: quello simbolico. Lo scrittore procede, anche senza volerlo, per simboli. Parliamo e narriamo per simboli, come nel caso del racconto del tabacco.

La scrittura di Rocco è un percorso piano ed empatico, di sentimento, non si scorge bene che col cuore pulsante e con le vene gonfie d’amore. Talvolta, l’essenziale è invisibile agli occhi. L’autore tenta, mediante uno scavo nel sommerso, e un gioco nel manifesto, di far trapelare il conosciuto. La narrazione del ricordo è un lavoro certosino, che esige scandaglio fra i meati più oscuri e più chiari, e una ragione vera di vita. Il ricordo non deve essere mai stantio, ma quando è ben vezzeggiato e nutrito, diventa propulsore di un presente nuovo, inedito.

Rocco Boccadamo ha la capacità di tratteggiare il passato e l’oggi, con una visione pulita, in un eterno presente, che sa preconizzare il futuro. Un ringraziamento di cuore a Rocco per riuscire a risvegliare in noi il gusto della narrazione minimalistica e poetica. Chi legge i racconti di Rocco può notare, senz’altro, che lui arriva  anche ad aprire squarci lirici, riesce a svestire e vestire la Natura con occhi da poeta.

Si è trattato di una proficua serata di genuina cultura, snodatasi con leggerezza fra le pareti particolarmente attagliate e idonee del Fondo Verri, davanti a un folto auditorio e alla presenza, gradita, di Mino, Adele, Marisa, Ornella e Rossana, figli di due coppie di coniugi, marittimesi d’origine e tuttora viventi, che hanno trascorso una lunga parte della loro giovinezza a Monteruga: Floriana e Gino, Elvira ed Emilio (la seconda, sposatasi, con ciò ispirando il titolo della narrazione di Boccadamo, proprio nella chiesetta del Villaggio).

 

(Appunti fedeli sulla manifestazione, ordinati e rielaborati dal poeta e critico letterario Marcello Buttazzo).

 

Il nuovo libro di Boccadamo, “Gli sposi di Monteruga”

boccadamo

E’ stato appena pubblicato, con Spagine Edizioni (Fondo Verri) – Lecce, il nuovo libro dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo “Gli sposi di Monteruga” – Lettere ai giornali e appunti di viaggi.

Di seguito, un’interessante recensione al volume redatta dal poeta e critico letterario Marcello Buttazzo.

 

La scrittura del narrastorie Boccadamo

di Marcello Buttazzo

Fortunatamente, l’uomo preserva la memoria, la ravviva continuamente di linfa vitale. La memoria, conchiglia di vissuti, che navigano sulle spiagge del tempo. Rocco Boccadamo è un narrastorie salentino attento ai ricordi, ai trascorsi traversati con lo sguardo composto, discreto. Ogni anno Rocco ci ha abituato alle sue pubblicazioni, raccolte di articoli e lettere ai giornali. A fine anno, Boccadamo fa un compendio di ciò che l’ha colpito nel sommerso e nel manifesto e ci dona il suo libretto di storie. È appena uscito dell’autore salentino “Gli sposi di Monteruga”, appunti di viaggio, edito da Spagine (Fondo Verri Edizioni).

I luoghi sono sacri per Rocco, i luoghi della sua storia, della nostra storia, della sua infanzia e giovinezza, bordeggiate ai margini del sogno, della semplicità, della purezza fanciulla. Marittima, paesino natale dell’autore, l’insenatura dell’Acquaviva e Castro, sono delle perle, non solo di splendore paesaggistico, ma anche carne viva di memoria, di ricordo rosso d’incanto. In particolare, l’Ariacorte, piccolo quartiere di Marittima, viene evocata in tutta la sua francescana compostezza, abitata da gente del popolo, devota al lavoro e alla fatica. Si staglia limpidissimo il ricordo della madre Immacolata, morta giovanissima, che per Rocco è stata una fulgida figura di riferimento, capace di accoglienza e d’amore.

La narrazione di Boccadamo è, per l’innanzi, descrizione della gente, che scende essenzialmente fra le viuzze, fra le strade, di Marittima, di Castro, e di altre località vicine. I protagonisti dei suoi racconti sono pescatori, contadini, muratori, ciabattini, gente umile, con la notazione di spontaneità e di genuinità. Ma protagonista fondamentale delle pagine di Rocco è anche il paesaggio, il mare adamantino, la terra generosa, la via del tabacco, i quartieri assolati d’amore e d’attesa, d’umana speranza. Nel libro viene esaltato il valore e il sapore dell’amicizia. Una costellazione di persone s’affolla fra le righe, Nzino, Nino, Luigi, Antonio, tutta gente del popolo. Potremmo dire, con una vulgata scontata, che Rocco sia scrittore popolare, perché gli umili sono tenuti in massima considerazione. Loro fanno la storia.

Il nostro autore dedica pagine d’amore e di commozione a un grande uomo di Marittima, Vitale Boccadamo, distintosi per eroismo nel corso della Prima Guerra mondiale. Leggendo “Gli sposi di Monteruga” si comprende che Boccadamo, pur senza particolari implicazioni confessionali, abbia una precipua propensione per la mansione spirituale e religiosa. Molto belli sono i racconti su Castro e la sua Protettrice, la Madonna, Maria SS. Annunziata, e su S. Maria Maddalena, venerata a Castiglione d’Otranto. In un’era in cui eccessivamente si pontifica su grandi sistemi, ben venga questa prosa minimalista di Rocco, questo florilegio sulla vita quotidiana, ordinaria, che ci indica il passo, che ci segna la danza. Dobbiamo dire anche che ne “Gli sposi di Monteruga” il racconto si dispiega su due fronti coincidenti: il presente e il passato. Esiste un continuum nel tratteggio di ciò che è avvenuto tanti anni fa e di ciò che fluisce attualmente. E Rocco, marito, padre e nonno, dal suo osservatorio prediletto e buon ritiro della “Pasturizza” con pazienza tesse e ci rede partecipi. La fluidità della scrittura di Boccadamo si amplia con la meraviglia che l’autore prova in certi frangenti. Rocco descrive con stupore da poeta la magnificenza della Natura, i voli di storni paesani. E introduce scenari di fiaba con le storie del rospetto Pancino e del riccio Culèo.

La prefazione del libro è di Ermanno Inguscio. Nella postfazione Raffaella Verdesca tocca una corda cruciale quando scrive: “Uno scrigno, questo, che Rocco Boccadamo ci consegna grazie ai suoi scritti: parola-chiave, l’AMORE”. E, in effetti, l’amore è il motore che tutto muove, che ci rende compartecipi agli umani, che scioglie il gelo. Che ci salva la vita.

Gente marittimese: Capirizze, Capirizzi e Fiori

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di Rocco Boccadamo

Dal titolo delle presenti note, fanno capolino, non casualmente bensì in funzione dei contenuti e, specialmente, delle figure che, man mano, trovano anima e sviluppo, due singolari esemplificazioni di nomignoli o soprannomi, caduti e attaccatisi, secondo il lessico paesano, su determinate famiglie e/o persone.

Invero, da queste parti, siffatto genere di processo identificativo è più frequentemente veicolato da una coppia di precipue lettere minuscole dell’alfabeto precedute dal segno d’apostrofo, ‘u e ‘a, a seconda che ne segua un’accezione maschile o femminile, che si avvalorano e sostanziano in un caso, alla buona, indicante appartenenza o provenienza.

Qui, come dianzi accennato, la circostanza è però inconsueta, giacché gli appellativi menzionati sono, nell’ordine, in collegamento niente più che con un nucleo famigliare, contraddistinto da capigliatura spiccatamente riccia e un altro nucleo, proprietario di un piccolo fondo agricolo, denominato “Fiore”, che si raggiunge percorrendo Via Murtole in direzione della contermine località di Andrano.

Compiuta questa necessaria premessa e procedendo in un certo ordine logico, la rievocazione narrativa prende l’abbrivio da un’immagine a me particolarmente vicina e cara, ossia a dire quella dell’indimenticabile e dolce nonna materna, Lucia Frassanito, la cui famiglia d’origine e appartenenza era conosciuta e indicata, appunto, con la designazione di Capirizzi e Capirizze.

La predetta mia ascendente, insieme a nonno Giacomo, mise al mondo sei figli, fra maschi e femmine, con mia madre Immacolata primogenita, ma non è su di lei che intendo qui riferire, salvo che per il piacere di ricordarla in veste d’ideatrice, promotrice e protagonista di una minuscola joint venture, operante nell’ormai distantissima stagione della mia fanciullezza.

Nella sua famiglia era sempre allevata una capretta, dalla cui mungitura, è chiaro, si ricavava, quotidianamente, un quantitativo di latte risicato, assolutamente insufficiente per mettersi a trasformarlo in formaggio.

E, però, la brava donna, rimediava all’esigua produzione propria, mediante un accorgimento concordato con le famiglie del vicinato, anch’esse proprietarie di un capo ovino per ciascuna.

Un determinato giorno, gli allevatori, praticamente consorziatisi sulla parola, erano chiamati a conferire le rispettive produzioni, in blocco, alla famiglia X, il giorno seguente a un ‘altra e così via.

In tal modo, presso ciascun nucleo, veniva a concentrarsi, ogni volta, un’apprezzabile raccolta di bianco liquido, bastante per ricavarne, attraverso una lenta operazione di bollitura e con l’ausilio del caglio naturale, una piccola forma di formaggio.

Muovendo un passo indietro, nella povera abitazione a piano terra più un camerino sulla terrazza destinato al sonno e al riposo dei figli maschi, in vico Maggiore Galliano, nei pressi della piazza e della Chiesa Matrice di Marittima, nonna Lucia, da giovane, viveva insieme con i genitori Vitale e Grazia, le sorelle Cristina, Peppina e Teresina e i fratelli Michele e Cosimo.

Tutti i Frassanito marittimesi esercitavano indistintamente, per tradizione, il mestiere di muratore; così era, quindi, anche per il mio bisnonno (tataranne) Vitale, il quale, da esperto, aveva realizzato due piccoli monoliti in pietra leccese, con spigoli smussati e arrotondati, sistemandoli sulla terrazza di casa, a guisa di base d’appoggio per la ramificazione e la crescita, aiutate da fili di ferro incrociati, di una pianta di vite che, dal livello stradale, era lentamente salita sino a raggiungere il piano di copertura dell’abitazione.

A distanza di molti decenni, l’immobile in questione ebbe a passare di mano, quanto a titolarità, e a subire radicali modifiche, tuttavia uno di quei preziosi manufatti in pietra leccese è stato recuperato e conservato da una persona intelligente e fa ancora bella mostra di sé all’interno di una moderna dimora marittimese.

°   °   °

Cristina “capirizza” (per mia madre e per me, zia), a sua volta, si maritò con tale Vitantonio Cerfeda ed ebbe sei figli, un maschio e cinque femmine, nominativamente Immacolata, Adelina, Maria, Annunziata, Agnese e Vitale.

Una famiglia che, evento non frequente, finì con l’integrarsi, se non in toto, in misura preponderante, con i componenti di un vicino nucleo o focolare, quello di Vitale e Pasqualina Nuzzo, soprannominati i “fiori” (oppure ‘u fiore) di cui al titolo; anche lì, sei figli, però cinque maschi e una femmina, ovvero Toto, Pippi, Fiore (addirittura un nome di persona derivato dall’attaccamento del capofamiglia al suo fondo agricolo), Uccio, Tereso e Tetta.

Ciò, giacché le prime quattro “capirizze” dell’elenco divennero mogli dei primi quattro “fiori” e, altro particolare non comune, andarono ad abitare in quattro nuove abitazioni, appositamente fabbricate, attaccate in progressione lungo un comune viale e fronteggiate da distinti eguali orti/giardinetti.

Un tempo, erano strettissimi, si può dire a livello di fratelli e sorelle, i legami intercorrenti tra cugini, perciò mia madre Immacolata era un tutt’uno con la sua omonima cugina, sposatasi con Toto ‘u fiore.

Detta cugina, oltre a governare la casa, si occupava di cucito e, in special modo, del confezionamento di copri letti imbottiti di bambagia, quelli che oggi sono definiti piumoni

o trapunte, mentre, allora, si parlava di imbottite.

In occasione del nostro matrimonio, anche mia moglie ed io ci rivolgemmo a lei per farci fare la nostra imbottita, accessorio che conserviamo gelosamente, non tanto per uso concreto, quanto come valore e ricordo affettivo.

Ancora, l’ho appreso di recente, mia sorella Teresa ha fatto capo al di lei marito, Toto ‘u fiore, per piastrellare la sua grande cucina.

L’intenso legame fra le due Immacolata ha avuto per seguito un bel rapporto fra i rispettivi discendenti, secondi cugini fra loro; così è avvenuto relativamente a me e a Vitantonio, primogenito di Immacolata e Toto. Quasi coetanei, verso la fine degli anni cinquanta, abbozzammo, contemporaneamente, innocenti filarini con due ragazze di Castro, poi entrambi iniziammo a lavorare e mettemmo su famiglia, tuttavia, nonostante risiedessimo in località distanti, il bel sodalizio continuò.

Vitantonio, chiamato Uccio – come si legge in una narrazione dell’amico e scrittore marittimese Giuseppe Minonne, anche lui cugino di Toto ‘u fiore e, dopo la morte della madre, le seconde nozze del padre e l’arrivo della “mamma nuova” non propriamente gradita e accettata, frequentemente ospite, insieme con due sorelle, nella relativa casa e nel fondo “Fiore” – fece in tempo a far conoscere al vecchio nonno paterno Vitale la sua primogenita Olga.

Dopo di che, purtroppo, a Uccio restò una breve vita, in quanto, ad appena quarantuno anni, finì i suoi giorni in un paese lontano dove s’era temporaneamente trasferito per ragioni di lavoro.

Uccio, un ragazzo e un uomo eccezionalmente a modo, d’oro si può affermare. A breve distanza dalla sua scomparsa, ritornato a Marittima per le ferie, mi recai a casa dei suoi genitori e abbracciai la sua mamma Immacolata, dicendole solamente: “Era il migliore di tutti noi”.

Uccio se n’è andato, ma conservo vivo nella mia mente, e tengo a rivederlo ogni tanto nella casa di tutti fra i cipressi, il suo sereno sorriso.

°   °   °

Un’altra sorella di nonna Lucia, Peppina “capirizza”, si maritò con tale Carmine Sergi di Andrano e, dalla loro unione, nacque Rocco.

Quest’ultimo, sin da piccolo, più che nei confronti dei famigliari del ramo paterno, ebbe viva predilezione e forte affetto per i nonni, gli zii, le zie, i cugini e le cugine marittimesi, capirizzi e capirizze e pure per i rispettivi discendenti.

Rivedo Rocco, sebbene anche lui manchi da decenni, nell’atto di accogliere me e mia moglie che, ogni anno, compivamo una puntata ad Andrano in occasione della festa patronale della Madonna delle Grazie. Passavamo davanti a casa sua e ci salutavamo con ardore.

Puntuale la mia domanda: “Rocco, tua moglie Pasqualina, dov’è, come sta?” e lui a rispondermi sistematicamente, dando prova di delicatezza, affetto e rispetto per la consorte: “Rocco, la mia signora (da notare, non diceva mia moglie) è già andata avanti e mi sta aspettando all’esterno della chiesa per la processione della Madonna”.

Altra chicca che mi giunge alla memoria e mi sembra indicativa, Rocco Sergi ha avuto tre figli, Peppino, Lucia (divenuta suora) e Uccio. Il nome di battesimo dato alla figlia rispecchia, si pensi, quello della seconda moglie del padre Carmine, rimasto vedevo di nonna Peppina Frassanito “capirizza” e convolato successivamente a seconde nozze con una donna di Spongano chiamata Lucia.

Questo dimostra che, anche con una matrigna o con un patrigno, i nati di primo letto possono intrattenere buoni rapporti, sino, addirittura, come avvenuto in questo frangente, a dedicar loro il nome di un figlio.

°   °   °

Giovani marittimesi negli anni '70
Giovani marittimesi negli anni ’70

 

Venendo ora ai “capirizzi” Michele e Cosimo Frassanito, fratelli di nonna Lucia, atteso che, riguardo al primo, ho già avuto modo in passato di intrattenermi, tratteggiandone la figura e la carriera attraverso il racconto “Il mare di Meris” (Meris, sua unica figlia), incluso nella mia raccolta “Quando il gallo cantava la mattina” del 2012, qui mi concentro sul secondo, Cosimo, il quale, oltre che col nomignolo di “capirizzo”, era appellato “Cosimu longu” a motivo della sua elevata statura.

Zio Cosimo, sposato con zia Costantina, agli antipodi rispetto al fratello, era al vertice di una famiglia numerosa, ben otto figli (Antonietta, Elvira, Rita, Maria, Gino, Vitale, Eugenio e Franco), generati in un arco di tempo abbastanza ampio, al punto che l’ultima della nidiata, Maria (classe 1945), era più giovane del primo figlio avuto dalla sorella Antonietta.

Dimoravano in due abitazioni attigue a piano terra e primo piano, i predetti germani, immobili ora di proprietà, rispettivamente, di una coppia marittimese e di un noto personaggio televisivo.

Così gemelle e attaccate le case, così diverse e distanti le strade e le vicende esistenziali di Michele e Cosimo.

Il primo, sottufficiale di carriera in Marina, in giro per il mondo sino alla Cina, una lunga permanenza in Istria quando la medesima era territorio italiano, vita oltremodo tranquilla e senza scosse.

Al contrario, il secondo, zio Cosimo, peraltro sempre legatissimo e affezionato ai famigliari e parenti, ebbe invece a trovarsi coinvolto in un episodio di cronaca nera, l’uccisione di un compaesano marittimese, di cui gli fu fatto carico in concorso con il suocero, con lo sbocco anche, di un lungo periodo di detenzione.

La vicenda segnò un colpo devastante, non solo per lo zio Cosimo, ma pure per l’intera sua famiglia, che preferì lasciare Marittima e trasferirsi in una cittadina del Brindisino, avendo lì agio di contare su maggiori possibilità di lavoro.

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Alcuni dei “capirizzi” così emigrati non ci sono più e, però, quelli che esistono ancora, abitanti a Mesagne o in altre località (mi è stato riferito che l’ultimogenita Maria vive a Megève, in Francia), sono rimasti fortemente legati alle loro origini.  Un paio d’anni fa, in una rapida puntata da queste parti, hanno insistito con un parente al fine di ottenere una foto dell’insenatura “Acquaviva” così come si presentava negli anni cinquanta.

Un sito a loro carissimo e rimasto nel cuore, giacché, al pari dello zio Michele, il loro genitore possedeva una porzione del Bosco dell’Acquaviva, da dove erano soliti scendere a piedi per sostare e fare i bagni estivi nelle cristalline e fresche acque dell’amenissimo seno.

Da Marittima, senza tempo: storie di A., M. e V.

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 di Rocco Boccadamo

La mia amica marittimese A., la quale, già in passato, mi ha gentilmente fatto dono dello spunto ispiratore per una narrazione, dedicatale e poi raccolta in un volume che ne ha ripreso il titolo, dimostrando in certo qual modo di resistere allo scorrere di almanacchi e lustri, si conferma alla stregua di fonte inesauribile di piccole storie di vita e di costume, compresi i relativi personaggi, intrecciatesi e succedutesi, in tempi lontani, entro i confini del nostro paesello. Vicende e azioni comportamentali che non sono scivolate, progressivamente, lungo i solchi dell’oblio e dell’indifferenza, ma hanno, al contrario, lasciato tracce e segni.

A., sin da ragazzina e da giovinetta, si distingueva e, comunque, non passava inosservata, in seno alla comunità paesana; ciò, per un insieme di ragioni, vale a dire la sommatoria fra la sua prestanza fisica e il suo carattere estroverso, gioviale e allegro.

Di carnagione color bruno intenso, alta, formosa, grandi occhi scuri e lunghi capelli neri, intorno ai diciassette anni ebbe il suo primo fidanzato (zitu, in dialetto), un giovanotto di Spongano.

Per il genetliaco, questi pensò di regalare, alla sua amata, un vestito, da intendersi non come abito già pronto da indossare, bensì come spezzone, taglio, di un apposito tessuto.

Al che, A., particolarmente su di giri per l’inaspettato e gradito dono, non volle perdere tempo e si recò, lesta, nella vicina abitazione di alcune sue amiche.

Le medesime facevano parte di un nucleo famigliare considerevole, anche se non eccezionale per gli anni trenta/quaranta, comprendente, oltre ai genitori, ben otto figli, di cui sei femmine e due maschi.

Particolare degno di rilievo è che le ragazze – Ass., S., Ann., M., Ant. e T., i loro nomi di battesimo -, per lo meno le più grandi, avevano imparato un mestiere: una era sarta, un’altra magliaia e un’altra parrucchiera.

Quindi, a quell’indirizzo, A. avrebbe potuto farsi sia consigliare, sia materialmente cucire l’abito ricevuto dal fidanzato.

Sennonché, le anzidette amiche, dopo aver discusso del progetto sartoriale, strinsero in mezzo, circondandola letteralmente, la povera A. e, con la motivazione che la bellezza del suo vestito confezionando ne sarebbe uscita ulteriormente valorizzata, la convinsero a sottoporsi a un trattamento speciale dei capelli, la permanente, un’assoluta novità nel paese.

Detto fatto, pinze metalliche manovrate dalle abili mani di S. addentarono diffusamente la lunga, liscia e ondulata chioma di A., dopo di che seguì una sosta prolungata con il capo sotto un coperchio tondeggiante (casco) ma visto prima e, l’operazione, si compì.

Da un rapido sguardo nello specchio, l’acconciatura venuta fuori, pur stravolta in una foresta d’inediti ricci, non dovette dispiacere ad A., che, accommiatatasi dalle amiche, fece ritorno a casa.

Lì, purtroppo, accolta di botto da un accorato: ”Figlia mia, come diavolo ti sei conciata?”, per voce della madre e, ancora peggio, una volta rientrato, da una severa reprimenda, non solo verbale, per opera del padre, capo assoluto vecchio stampo, se non addirittura padrone, della famiglia, dal carattere impulsivo e irruento, che esigeva che tutti i componenti del nucleo chiedessero il suo preventivo assenso avanti di compiere qualsivoglia azione o passo.

L’uomo ebbe a prorompere, urlando, in una serie di: “Disgraziata, che hai fatto, ti sei ridotta a “nu pecoru rizzu” (un agnellino con la sua lanuggine arricciata). Ebbe paura, A., di fronte a quella violenta reazione, tanto che, nelle more che le acque si calmassero, preferì scappare fuori e andare a chiedere momentanea accoglienza e rifugio a una vicina di casa, la quale, per fortuna, la trattenne di buon grado e amorevolmente presso di sé, anche per dormire.

Tuttavia, A., a parte l’iniziale sgomento per lo sbotto del severo padre, non si ricredette riguardo alla nuova foggia dei suoi capelli, se li tenne così, ricci, convinta di star bene nel cambiamento, in ogni caso senza aver posto in atto alcunché di sconveniente.

In breve, trovò l’occasione, riservatamente, per un ritratto dal fotografo, che consegnò al fidanzato per ricambiare il suo regalo del vestito; inoltre, nel volgere di poco tempo, riuscì a prendersi la rivincita nei confronti dello stesso genitore, il quale, non soltanto finì col perdonare e accettare il cambiamento a “pecuru rizzu” cui A. s’era sottoposta, ma si prestò, finanche, ad accompagnare , con la sua bicicletta, la figlia, sistemata alla meglio sulla canna o sul sedile porta oggetti posteriore del velocipede, a Poggiardo, per periodici passaggi dal parrucchiere e la ripresa della permanente.

Successivamente, invero, maturarono nuove situazioni, apparentemente e pure sostanzialmente del tutto normali, in cui la cara A. si trovò a incappare sotto pesanti rilievi e/o secche inibizioni e diffide, provenienti, sistematicamente, dal padre.

Ad esempio, si scatenò il putiferio quella volta in cui la giovane, poco meno che ventenne, trovandosi temporaneamente emigrata insieme con la famiglia a Nova Siri, nel Materano, per la coltivazione del tabacco e altre attività agricole, in una giornata di grande calura e sudore, costretta, a un certo punto, a cambiarsi la veste che le s’attaccava sul corpo, decise d’indossare una sottana color rosa, confezionatale dalla madre, a giro maniche, fresca, adatta proprio all’estate.

Scorgendo la figlia mentre si dirigeva a riunirsi ai compagni di lavoro, in tale tenuta (da notare che, all’epoca, le donne contadine, specialmente le giovani, non mettevano il reggiseno), il padre la bloccò in malo modo, dicendogliene di tutti colori, e ancora di più.

°   °   °

V’era un’altra famiglia, a Marittima, pure in questo caso formata da sei o sette figlie di sesso femminile e da due maschi.

La minore delle donne, di nome M., fisicamente di bella presenza, incline a mettersi in mostra, da essere considerata amica un po’ di tutti i compaesani, a un certo punto, s’era messa a frequentare un “signorino” del posto, a voler dire uno scapolo di ceto abbiente, dal nome di battesimo R., preceduto, ovviamente, da tanto di “don”.

La circostanza era gradualmente divenuta di dominio pubblico in seno alla minuscola comunità.

Sulla scia di tale relazione, M. venne a trovarsi in dolce attesa e diede alla luce una creatura.

Di primo acchito, ci fu in giro qualche moto di scompiglio, ma poi, l’evento, anche se non insignificante, andò a evolversi per suo conto, semmai in clima di riservatezza e con qualche mistero circa l’epilogo.

Il fatto di cronaca, se si vuole sul fronte del costume, non sfuggì, però, alla vulgata spicciola da parte dei paesani, trasformandosi in estro per le strofette di una canzoncina che le donne, specialmente, si mettevano a intonare durante la raccolta, in gruppo, delle olive:

M. e don R.

hannu fattu na criatureddra (hanno generato una creatura).

M., poi, l’ha misa ‘ntra na spurteddra (M., poi, l’ha sistemata in una piccola sporta)

e l’ha ‘infilata a l’ucculeddra (e l’ha infilata alla maniglia – sottinteso, del portone di don R.).

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Altra storia di vita, intorno alla metà del secolo scorso, due giovani ziti (fidanzati) marittimesi, V. e Ch., fecero notizia, si fa per dire, tenendo anche conto della mentalità dell’epoca, non per un caso di fuitina pro matrimonio (ogni tanto, ne capitavano), ma per la circostanza dell’intervenuta gravidanza della donna prima delle nozze.

Niente di particolare, in fondo, solo un’accelerazione dei tempi rispetto al passo ufficiale, volto a mettere su famiglia, che la coppia era comunque intenzionata a compiere, come poi celermente avvenuto.

Nacque, dunque, il primogenito L., nome di battesimo rigorosamente basato su quello del padre dello sposo e, dopo, anche una figlia, M.

Giunto, a sua volta, in età adulta, il predetto L. si sposò ed ebbe un figlio, chiamato come il nonno paterno, ovvero V.

Corso delle cose che si ripete e si rinnova, sia L. che l’ultimo V., per avere un lavoro stabile e duraturo, contrariamente alla loro volontà, hanno entrambi dovuto lasciare il paese natio e trasferirsi nel Nord Italia.

Ciò, rimanendo fortemente legati a Marittima, ai luoghi, ai parenti, agli amici, in particolar modo V. L’ultimo suo ritorno è avvenuto agli inizi della corrente estate; oltre a prendere i bagni e a intrattenersi in sana allegria con gli amici, egli non saltava un giorno per passare da casa dei nonni, fermandosi a parlare specie col suo ascendente omonimo.

Ho appreso, fra l’altro, che tenendosi al corrente dello stato delle loro piccole proprietà agricole e intenzionato a dare una mano, nel corso delle recenti vacanze ha anche imbracciato una grossa scopa di saggina e dedicato non poco tempo a ripulire le aie (zone di terra rossa) sottostanti agli alberi di ulivo, nell’imminenza del prossimo raccolto dei preziosi frutti.

Purtroppo, una settimana fa, V., non ancora trentenne, è rimasto vittima di un tragico incidente sul lavoro, nella fabbrica piemontese in cui era riuscito ad entrare.

Ovviamente, le sue spoglie sono state riportate nella nostra Marittima e io, come accade in tutte le circostanze del genere che riguardano i compaesani, sono andato a stringere la mano, e a manifestare la mia vicinanza, ai genitori dello sfortunato e, con spirito particolare, ai nonni V., ultra novantenne, e Ch., rievocando, dentro di me, il loro lieto “evento”, antico di una sessantina d’anni.

A Boccadamo, il Premio Castrum Minervae 2017

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Domenica 6 agosto, cornice la splendida Piazza Vittoria della “Perla del Salento”, a Rocco Boccadamo, giornalista e scrittore salentino, è stato assegnato il premio in oggetto, sezione cultura, nell’ambito della prestigiosa manifestazione promossa e organizzata dal Comune di Castro e giunta alla XII edizione.

Questa la motivazione del riconoscimento attribuito a Boccadamo: ”Per aver scelto Castro come ambientazione dei suoi racconti e aver donato una sua pubblicazione ad ogni nucleo famigliare della comunità, contribuendo alla promozione del territorio e alla valorizzazione del tessuto sociale”.

Di seguito, i nomi degli altri premiati;

         Scuola primaria di Castro;

         Walter Graziani, funzionario Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;

         Luciano Barbetta, imprenditore di Nardò (LE), operante nel settore dell’abbigliamento di lusso e Presidente del Politecnico Made in Italy;

         Roberto Inciocchi, Capo redattore Sky TG24.  

boccadamo

22 luglio. C’era una volta, e c’è ancora, S. Maria Maddalena

Donato Antonio d'Orlando

di Rocco Boccadamo

Come riportato dal calendario, il 22 luglio ricorre la festa di S. Maria Maddalena, detta anche Maria di Magdala, seguace di Gesù, unica donna ad aver avuto il privilegio d’assistere alla sua crocifissione e, di seguito, prima testimone visiva e annunciatrice della sua risurrezione.

Nel Basso Salento, per quanto è a mia conoscenza, tale Santa è venerata e celebrata in un paesino non distante dal mio, ossia a dire a Castiglione d’Otranto, frazione del comune di Andrano.

A voler essere precisi, sotto il suo nome, non si tiene una festa vera e propria, con luminarie, fuochi d’artificio e bande musicali, del genere che, in onore del Patrono o di altri Santi, contrassegnano, nell’arco dell’anno, un po’ tutte le località del territorio, bensì una fiera mercato, che, un tempo, recava, in aggiunta, l’appellativo di “fiera delle cipuddre” (in italiano, cipolle).

Quanto al sito della manifestazione in parola, è rimasto identico lo slargo, contermine al camposanto, nella periferia di Castiglione verso il passaggio a livello delle Sud Est, su un lato del quale insiste anche una piccola chiesa, area che, quand’io ero ragazzo, si soleva utilizzare pure come campo di calcio.

Ritornando alla Santa e all’omonima fiera, si tratta di evento impresso dentro chi scrive da tempi ancora più lontani, ossia a dire risalenti alla mia fanciullezza, giacché, svariate volte, in quell’epoca, mi è capitata l’occasione di recarmi da Marittima a Castiglione, in compagnia dei miei nonni paterni, i quali, specialmente la nonna Consiglia, vi si portavano puntualmente, sia per devozione, sia e soprattutto per effettuare qualche utile acquisto dalle baracche e bancarelle ambulanti, che erano allestite ed esponevano le loro mercanzie in quello slargo di Castiglione.

Si consideri che, allora, nei singoli paesi, non esistevano esercizi commerciali, salvo uno per la vendita di pane e prodotti alimentari di stretta necessità e risicate botteghe (puteche) per la mescita di vino.

La trasferta a S. Maria Maddalena si svolgeva a bordo di traini in legno caratterizzati da lunghe stanghe e da grandissime ruote a raggiera con le circonferenze ricoperte e rinforzate mediante fasce metalliche.

Sui mezzi di trasporto in questione, a cassetta, con pareti laterali e posteriore (ncasciate), prendevano posto i passeggeri, sino a sei, seduti su rudimentali apposite assi, parimenti in legno, mentre il conducente si sistemava, redini in mano, all’inizio di una delle stanghe.

Maria Maddalena

Memorabile, in particolare, una delle mie avventure su traino in compagnia dei nonni e in direzione Castiglione, viaggio, iniziato, al solito, nelle primissime ore del mattino, ancora buio d’intorno, onde coprire in tempo utile i cinque/sei chilometri di distanza.

In quella circostanza, i miei ascendenti, unitamente a un paio di parenti, avevano, esprimiamoci così, noleggiato il traino di compare Peppe ‘u muricciu.

Purtroppo, a un certo punto, a meta ormai prossima, esattamente in corrispondenza del tratto viario terminale, in discesa, che andava a guadagnare il centro abitato, si verificò un incidente imprevisto: non si sa come, il cavallo ebbe a scivolare con le sue staffe e s’inginocchiò sul selciato, rimanendo lì immobile e incapace di risollevarsi.

Per il traino, fortunatamente, un deciso scossone, ma nessun danno a carico dei trasportati. Tuttavia, gli adulti furono costretti a scendere e ad aiutare il conducente, con compattezza di braccia e spalle, nello sforzo, non indifferente, di rimettere in piedi il quadrupede e, così, consentirgli di completare il viaggio.

Altro particolare che serbo a memoria in correlazione alla fiera di S. Maria Maddalena è un detto o proverbio popolare, recitante: “A S. Maria Matalena, va alla vigna e se ne vene prena” (in concomitanza del 22 luglio – maturazione, raccolto e vendemmia dell’uva ormai imminenti -, la/quella donna si reca in campagna per lavorare nella vigna e se ne ritorna pregna, ovvero in stato interessante).

Chiara l’allusione, non inverosimile, alla possibilità, in presenza di lavori in gruppo da parte di persone di entrambi i sessi, d’incontri e/o contatti strettamente ravvicinati e di qualche naturale effetto conseguente.

Breve inciso, venerdì 21 luglio, si è sposata una giovane amica e brava collega, nativa di Castiglione: un mare d’auguri, Tiziana.

Ampliando l’orizzonte in senso geografico, il nome Maddalena lascia scorrere e stagliarsi nella mia mente la figura di un’anziana compaesana marittimese, assai conosciuta e familiare all’intera comunità, giacché gestiva uno dei tre forni del paese, dove ciascuna famiglia si recava periodicamente per preparare e cuocere la provvista di pane, soprattutto friselle, detto  “pane fatto in casa” onde distinguerlo da quello che, saltuariamente se non in casi eccezionali, si acquistava presso il dianzi accennato negozio di generi alimentari.

E, poi, Maddalena era il nome di una graziosa giovinetta di un paese della Grecìa salentina, frequentante la mia stessa Scuola Superiore, sulla quale avevo messo gli occhi, beninteso come si poteva e intendeva, da diciassettenne, intorno alla metà dello scorso secolo, insomma senza alcunché di concreto.

Ad ogni modo, ancora adesso, nelle rarissime occasioni in cui succede che m’imbatta in quella Maddalena, un filo d’emozione sgorga a illuminare gli occhi del ragazzo di ieri.

 

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Conosco F.C. di Castro, mio coetaneo, dai primi anni delle Elementari

La memoria lontana me lo ripropone sotto forma di un bambino macilento, vestito alla buona, appartenente a una famiglia poverissima e numerosa che viveva in un’unica stanza.

F., quindi, talora era costretto anche a fare i conti con la fame, al livello che, in determinate circostanze, arrivava a spostarsi, tenendo per mano un fratello minore, finanche nella mia Marittima per chiedere l’elemosina.

Da giovane e adulto, il lavoro mi ha portato lontano ma, con l’andata in pensione e il rientro nel Basso Salento, ho avuto agio di rivedere F.

Ovviamente decenni a iosa trascorsi pure per lui, nondimeno, nella profondità del suo sguardo, ritrovo, nitidamente presenti, le tracce dei miei ricordi da fanciullo.

Ora, F. è pensionato, nonno e, soprattutto, sereno. E, io, avverto nel mio intimo un tuffo di contentezza ogni volta che m’imbatto in lui, in sella al suo scooter o seduto al bar per un tressette con gli amici.

 

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Stamani ho fatto il bagno al Lido La Sorgente di Castro, in compagnia del mio nipotino Andrea. Oltre che compiere una nuotatina insieme, ho coinvolto il piccolo nella pesca di qualche granchio.

A portata delle mie mani, non di quelle di Andrea, comprensibilmente ancora timoroso e inesperto, alcuni piccoli esemplari di detti crostacei, lestamente passati al sicuro di un retino e poi di un secchiello d’acqua salata.

Uno, in particolare, di apprezzabili dimensioni, color marrone scuro e ricoperto da una sorta di peluria (in dialetto, caura pelosa), ha lo speciale destino, per l’odierna cena, di essere cotto in un sugo di pomodoro fresco e di condire una piccola spaghettata per nonno Rocco e Andrea.

 

 

Ricordare per rivivere: bozzetti di storie dalla culla

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di Rocco Boccadamo

Doverosa premessa.

Come sono solito fare ogni volta che scrivo, ho brevemente pensato, in semplice autonomia da comune osservatore di strada e narrastorie, al titolo da attribuire alle presenti note.

Sennonché, immediatamente dopo, mi sono accorto che la prima parte del cappello s’identifica niente poco di meno che con un’espressione del grande maestro della psicanalisi Sigmund Freud, recitante, esattamente, “il ricordare è un rivivere”. Non me ne voglia, l’esimio personaggio, per l’involontaria e inconsapevole invasione di campo.

°   °   °

Sin dalla tenera età, vado avvertendo d’essere sfiorato da una sorta di speciale buona ventura, cioè a dire di sentirmi, in senso vasto, un tutt’uno con il mio paese di nascita, i suoi luoghi, la sua storia, fatta di piccole e svariate vicende, e, soprattutto, i volti e le figure della sua gente, che, a onore del vero, ho sempre considerato alla stregua di mia seconda famiglia, allargata, a fianco del nucleo di mera appartenenza per ragioni di sangue, con correlato ovvio primario legame affettivo.

Così che, negli anni – ormai sfioranti un arco di quattro lustri – della mia “seconda esistenza” sotto l’aspetto dell’impegno lavorativo e degli interessi d’elezione, mi è stato, a più riprese, dato d’evocare situazioni e spaccati di ricordi, riconducibili alla minuscola località natia e, in maggior dettaglio, una lunga sequenza di vicende e di determinati compaesani, con le loro caratteristiche, abitudini, doti, virtù e vezzi.

In questo odierno caso, lo spunto ispiratore mi è casualmente arrivato dalla necessità di eseguire una riparazione al timone della mia barchetta a vela, incombenza che mi ha condotto a una bottega artigiana posta alla periferia del paese, in direzione di Capo Lupo.

E però, avanti di raggiungere tale destinazione e lasciar espletare il lavoretto dianzi accennato, ho dovuto attraversare una zona del paese, a cominciare dal Largo Campurra, ora denominato Piazza della Vittoria, e, quindi, proseguendo più avanti verso la meta.

In detto percorso, idealmente uscio per uscio, quasi fossero ritagli di una pellicola di celluloide, si sono affastellate numerose, da sembrare interminabili, scene, che, sebbene in maggioranza ormai datate, mi si sono snodate davanti come se ancora intrise di vitalità e attualità.

marittima castello

A cominciare dalla menzionata “Campurra” di per sé, nel senso di slargo, il maggiore dell’intero paese, una volta delimitata, a nord, dalla cappella di S. Giuseppe, recante al centro un pozzo animato e arricchito sul fondo da risorse d’acqua sorgiva, declinante a scivolo verso sud est, sì da consentire il naturale deflusso indotto e guidato delle acque piovane in confluenza di un’adiacente voragine, conosciuta, in dialetto, con il sintetico appellativo di “ora”.

E mi sono sfilate alla vista le serie di greggi ovine che, sortendo di buon mattino dai rustici rifugi al coperto e dirette al pascolo, proprio sul prato della “Campurra”, avevano agio di prendere confidenza con i primi assaggi di erbe.

Transitavano, tali armenti, senza lasciare tracce o postumi di odori, giacché, forse, a quei tempi, le stesse campagne e, quindi, le distese di pascoli, non conoscendo né tantomeno subendo processi d’inquinamento, emanavano effluvi genuini e gradevoli.

Rocco, Saverio, Tommaso, i nomi di alcuni dei pastori di pecore di quelle stagioni lontane.

Ancora, il largo “Campurra”, in mancanza, nel paese, di un campo sportivo, era utilizzato dai ragazzi e giovani per partite di calcio alla buona, con, per rendere l’idea, due coppie di pietre a segnare le porte.

Vi giocavano parimenti, reminiscenza straordinaria, magari fronteggiandosi con squadre di marittimesi, gruppi dei soldati polacchi che, intorno alla fine del secondo conflitto mondiale, furono di stanza, per un breve periodo, a Marittima.

E, affacciato imponente sulla Campurra (c’è ancora adesso, ma vuoto), quasi a voler vigilare bonariamente sulle sottostanti azioni di vita e di attività quotidiane, il palazzo cosiddetto dell’arciprete vecchio, già abitato, precisamente, dal medesimo prelato e da una nobildonna sua nipote.

Attigua, l’abitazione della “Richetta ‘e l’ortu ‘u puzzu” (Enrichetta, proprietaria dell’orto con il pozzo/voragine), maritata con Vitale, quattro figlie femmine.

Appena più giù, il vicolo dove aveva casa, fra gli altri, una vecchia parente di mio zio Guglielmo Bianchi, anziana che, nell’anno 1945, rammento con precisione, fu prescelta, come segno di rispetto, per condurre al battesimo in chiesa, tenendoli fra le braccia, due neonati gemelli del mio ricordato zio, piccoli, i quali, purtroppo, in breve volgere di tempo, se ne ritornarono in cielo.

Oltre, la casa di Rosaria ‘u tatameu, in cui, in una sera stellata, la figlia Concettina, rimasta gravida antecedentemente al matrimonio, diede alla luce il suo primogenito, con gli inevitabili lamenti da parto e mamma Rosaria, saggiamente, a consolarla, esortandola nel contempo a darsi pace, giacché, le faceva osservare, ciò che stava vivendo l’aveva in fondo voluto tutto da sé.

Quindi, la residenza di una famiglia portante il mio cognome, cugini di primo grado di mio nonno Cosimo, e la casa di un altro nucleo, dal soprannome “Pisca”, nel cui ambito, una delle figlie, P., era stata temporaneamente la “zita” del mio zio materno T.

Adiacente, il piccolo spazio con il monumento ai caduti e, dirimpetto, i palazzotti di donna Uccia Russi e della famiglia Spagnolo, il secondo contraddistinto da un caratteristico aggraziato arco, menante in un portico e in un cortile padronale.

A succedersi, i locali terranei, ormai da lungo tempo chiusi, noti come “u trappitu ‘a nutara” (frantoio oleario e palmento per la trasformazione dell’uva) e, fra i restanti diversi fabbricati, i due stabili a piano terra e primo piano occupati dalle famiglie dei cugini Frassanito.

A dividere detti immobili, due vicoletti, il primo dei quali corrispondente alla ex dimora del mio prozio materno Michele, pure lui Frassanito e parente dei predetti, adesso di proprietà e svolgente funzione di ritiro, per riposo, relax e bagni marini all’Acquaviva e Porticelli, della nota artista televisiva e teatrale, oltre che scrittrice, Serena Dandini.

I Frassanito cugini, in origine, espletavano il mestiere di muratore, al pari di altri parenti col medesimo cognome (Giacomo, Luigi, Cosimo, Calogero, Donato).

In un dato momento, ritennero però opportuno di mutare la loro attività, accostandosi, sino a divenire esperti e specializzati, al lavoro di costruzione, soprattutto, ma anche di riparazione, di barche in legno (gozzi piccoli, medi e grandi e lancette) prevalentemente adibite alla pesca, ma utilizzate pure, man mano che prendevano piede il turismo e le attività hobbistiche, per fini di svago e di diporto.

I medesimi Frassanito, specie il nucleo famigliare di Vitale, agli inizi, poi di Salvatore, suo figlio, e di Vitale, Nino e Antonio, a loro volta discendenti di Salvatore, diedero gradualmente luogo a un interessante sviluppo della nuova attività, arrivando, almeno a livello artigianale e di correlata apprezzata qualità dei manufatti, a collocarsi fra i primi del Salento, spaziando, quanto a campo di azione, da Porto Cesareo, a Gallipoli, Leuca, Tricase, Castro (la totalità dei battelli o schifi dei pescatori locali era opera loro), Otranto, S. Cataldo.

Giovani marittimesi negli anni '70
Giovani marittimesi negli anni ’70

Purtroppo, con l’avanzare degli anni e il cambiamento di usi e di scelte, ad oggi, è ancora attivo unicamente il più giovane dei varcaluri, Antonio, e, addirittura, avendo il medesimo unicamente figlie femmine, v’è da ritenere che quando egli deciderà di appendere l’ascia al muro, avrà inevitabilmente termine una bella tradizione, anzi una saga, di un mestiere di qualità, dignitoso, che ha accompagnato svariate generazioni di addetti alle attività marittime e pescherecce o, semplicemente, di appassionati di barche, lenze e ami.

Come riferimento agli amici Frassanito in questione, è rimasto un fondo, detto “Schettu” (boschetto), piantumato a querce secolari, già appartenente a un benestante del paese, don Eugenio Russi, un sito dove, anticamente, aveva sede anche un frantoio sotterraneo, poi crollato e finito in abbandono e distruzione.

Riguardo al boschetto di che trattasi, conservo il dolce e nostalgico ricordo delle lunghe parentesi di svago e gioco che, ogni domenica mattina, trascorrevo lì con gli amici, dopo aver partecipato, non a caso bensì appositamente per restare libero, alla prima Messa presso il santuario della Madonna di Costantinopoli.

Ritornando per un attimo ai compaesani Frassanito, prima muratori e poi costruttori di barche, tengo a rimarcare due particolari, in apparenza secondari, ma, a loro modo, indicativi.

Della seconda famiglia di cugini (a capo, Mosè), facevano parte due figli maschi, Vitale e Tommaso, e due femmine, Ttetta (Concetta) e Damiana.

Anche Tommaso, in proprio, costruiva gozzi e lancette in legno e, adesso che lui non esiste più, il segreto del mestiere è custodito da suo figlio Vitale, ufficialmente docente di matematica e fisica, ma capace di realizzate barche, come, saltuariamente, in effetti, fa.

Delle sorelle Frassanito, invece, mi è rimasta impressa l’attività svolta dalla più grande, Ttetta, fino a quando non andò in sposa nella vicina località di Andrano (non so se ella sia ancora viva). Si occupava, infatti, di un lavoro normalmente insolito per una donna, ovvero faceva la calzolaia.

A esercitare tale mestiere, nel paesello c’erano già i mesci Tore, Leriu e Roccu, tuttavia pure Ttetta operava nel settore. A voler essere precisi, non realizzava calzature di pelle e cuoio, bensì, soprattutto, accessori fatti di materiali meno pregiati, cioè gomma, stoffe e tele, per lo più in forma di sandali, ma a volte anche chiusi.

Nella casa dei miei genitori, sei figli e un unico stipendio da impiegato comunale, non si navigava nell’oro, sicché, sovente, noi ragazzini indossavamo scarpe realizzate dalla Ttetta.

Leggermente oltre l’abitazione e la bottega dei barcaioli Frassanito più affermati, viveva un contadino del paese, tale Giuseppe, piccolo di statura e mingherlino, alla buona, cui era stato attribuito il nomignolo di Titeppe.

Ovviamente povero, il predetto, del resto come la grande maggioranza dei concittadini, e tuttavia, la domenica, probabilmente credendo di imitare qualcuno degli sparuti signori del paese (catena e orologio nel taschino del panciotto), aveva preso l’abitudine di presentarsi in piazza munito di una catena, da una parte fissata alla cintura e dall’altra infilata in una tasca dei pantaloni.

Al che, gli amici, per celiare, si compiacevano con lui chiedendogli di mostrar loro l’orologio che si poteva supporre fosse legato a quella catena, ma, alla curiosità dei compaesani, il buon uomo, onesto e sincero, non poteva far altro che rispondere: “No, guardate che tengo appeso semplicemente un coltello”. Ed erano, ovviamente, risate allegre, senza ombra di malizia, sfottò o derisione.

Lì accanto, in un vicoletto dove dimorava la famiglia di F.A., quattro figli fra cui due belle ragazze, all’interno di un giardinetto si apriva una modesta grotta sotterranea presentante, su tratti della volta, tracce di stalattiti e noi ragazzi, incuriositi, non esitavamo a cercare di calarci dentro tale cavità, invero servendoci di attrezzatture precarie se non pericolose.

Il centro abitato, a quel punto, va esaurendosi, ma destano curiosità e rappresentano tappe di egualmente vividi e intensi ricordi, i vari fondi agricoli che si susseguono, taluni dalle denominazioni strane o stravaganti, altri collegati ai particolari personaggi degli antichi proprietari, così da aver lasciato un segno nella memoria del narrastorie.

“Sciancateddri”, “Lamelogne”, “Cantine”, “Vigna ‘e l’api”, “Pizzeddri”, “Aria”, “Munti”, l’infilata di appellativi di questi fazzoletti di terra rossa, sui quali, da ragazzino, mi è capitato di familiarizzare, vuoi per la loro appartenenza a miei parenti, vuoi frequentandoli in compagnia di amici coetanei, figli dei proprietari.

Da notare, specialmente, che il terreno “Vigna ‘e l’api”, già di Vitale e Palma ‘u tunzi, adesso fa capo ed è condotto direttamente da un nipote, omonimo, un altro Vitale, il quale vi ha impiantato un moderno alveare dei preziosi insetti, un apiario utilizzato anche per finalità didattiche, a beneficio di scolaresche e, in genere, di persone interessate che vi convengono dal Salento e non solo.

Ritornando sui passi iniziali dell’escursione agricola, in zona “Aria”, è situato uno spazioso locale, già agricolo e in una seconda fase destinato ad attività artigianali.

In decenni distanti, vi s’infilavano e, all’esterno, si essiccavano sotto il sole, le foglie di tabacco e io stesso, scolaro e studente delle medie, mi sono più volte trovato lì seduto sul pavimento, per aiutare in tale fatica i miei zii Guglielmo e Nina.

Dopo, vi ebbe sede un’attività di confezionamento di capi e accessori tessili, per conto terzi.

Da alcuni anni, infine, è il sito di lavoro di Simone Fersino, un bravo giovane, artigiano o meglio dire artista dalle mani duttili e dotato di estro e inventiva, che si è specializzato, attraverso una lunga e seria preparazione, nella lavorazione del ferro battuto e in abbinate produzioni di pregio, attività che gli reca ordini non soltanto da committenti salentini, di Lecce in particolar modo, ma anche di altre località italiane.

Simone è, insomma, molto apprezzato per la sua opera; personalmente, in aggiunta a ciò, lo ammiro anche per aver rilevato una piccola vicina tenuta agricola, la “Vija”, con una costruzione padronale originariamente dipinta di un gradevole rosso e col tempo divenuta cadente, e aver fatto rinascere il tutto, con sacrifici e investimenti mirati, davvero a nuova vita.

E’ bello, per me, infine, annotare che Simone ha per nonna paterna la cara Maria, da bambina, ragazza e giovane, oltreché prima cugina, anche stretta amica di mia madre: a lei, che, tutte le volte che ci incontriamo, mi fa grande festa, voglio dedicare un saluto e un fervido augurio inusuale da queste righe, al pensiero, fra l’altro, che nel dicembre dell’ormai prossimo 2018, compirà il suo centesimo compleanno. 

Ecco, è proprio nella bottega di Simone che, come anticipato all’inizio delle presenti note, mi sono recato per la riparazione al timone della mia barchetta a vela. E, uscendomene a lavoro compiuto, non ho potuto fare a meno di volgere lo sguardo, come accade ogni volta che passo da quelle parti, su un lato del piazzale: precisamente, sullo scafo, tinteggiato di blu, di un’altra barca a vela, lì posto e conservato gelosamente da Simone, in memoria del fratello Andrea che, amante come pochi del mare e delle barche, appena ventenne, se ne andò per un’accidentale disgrazia mentre cercare di tutelare quel natante dagli effetti di una violenta burrasca.

 

Spezzoni di vita salentina all’insegna del tabacco

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 di Rocco Boccadamo

Antefatto. Qualche giorno fa, mi è casualmente capitato di visionare, sul computer, un vecchio video in bianco e nero, realizzato dalla RAI nel 1953, dedicato alla coltivazione e alla lavorazione del tabacco nel Salento, a cura del mitico giornalista e inviato Ugo Zatterin, inconfondibile la sua voce, e comprensivo di una serie d’interviste ad abitanti, soprattutto donne, del Capo di Leuca.

Documento, a dir poco emozionante per uno come me, ragazzo di ieri dai radi capelli bianchi e soprattutto, in piccolo, già diretto spettatore, se non protagonista, di antiche sequenze di vita contadina, autentiche pagine di civiltà e di storia, scritte, con matita e tratti di dura fatica, dalla gente di questo Sud.

Ciò, accanto al ricordo ancora fresco delle vicende appena successive alla seconda guerra mondiale e, specialmente, della fase in cui si poneva inarrestabilmente avvio a una grande, radicale riscossa o rivincita.

Una mutazione, tale ultimo evento, affatto effimera e di facciata, accompagnata e enfatizzata, al solito, da proclami e discorsi di non disinteressati rappresentanti del popolo nelle istituzioni, di qualsivoglia schieramento, bensì reale, concreta, solida, progressiva, tanto da toccare, in un pugno di stagioni, sì o no un decennio, l’impensabile traguardo, riconosciuto al nostro Paese anche a livello internazionale, del cosiddetto e però autentico miracolo economico.

E, si badi bene, a ulteriore merito degli attori, all’epoca nessun regalo, nessuna congiuntura favorevole, nessuna fase di tassi o cambi o prezzi delle materie prime favorevoli, nessun influsso, insomma, di condizioni propiziatorie, cadute dall’alto o dal contesto globale.

Unicamente, un’immensa marea d’impegno civile e sociale, frutto di singole personali gocce di sudore, di fatiche intense e immani, d’impegno inconsueto, indescrivibile, una cascata di volontà e dedizione che non conosceva confini, né di orario lavorativo, né di luoghi, né di settori.

Per restare al tema narrativo odierno, il tabacco si appalesava con le sue diffusissime e onnipresenti gallerie di filari, esse stesse intrise di una forza naturale prodigiosamente eccezionale. Giacché i modesti germogli o piantine ricollocati dai vivai nel grembo delle rosse e/o di colore grigio bruno zolle, crescevano, si elevavano sino a raggiungere, talora, l’altezza delle creature umane, uomini, donne, anziani, ragazzi, ragazzini, adolescenti, uno schieramento senza età e senza tempo che accudiva le piantagioni con amore, a modo suo appassionato, dedicandosi, sperando e, nello stesso tempo, emanando interminabili rosari di stille di sudore.

La storia, o avventura, della coltivazione del tabacco, vengono a mente le sue varietà Erzegovina, Perustizza, Xanti yakà, prendeva abbrivio con l’assegnazione, da parte dei Monopoli di Stato, di un’area prestabilita su cui si poteva piantare, più o meno piccola, quando non sacrificata, a seconda delle dimensioni delle proprietà agricole dei richiedenti. Concessione diretta, oppure, nel caso di messa a dimora colturale da svolgersi in regime di mezzadria, indiretta, con la relativa pratica espletata, in tale ipotesi, a cura di grossi proprietari o latifondisti che, a loro volta, trasferivano i permessi ai loro coloni.

A seguire, la semina, con relativi vivai o ruddre contraddistinti anche dalla sistemazione, sui cordoli perimetrali di fertile terra concimata, di centinaia o migliaia di piantine di lattuga (insalata), che successivamente, per, alcuni mesi, avrebbero rappresentato un non trascurabile contributo per la gamma di pietanze delle povere mense contadine.

Poi, la piantagione vera e propria, la zappettatura e, finalmente, il graduale raccolto, partendo, giorno dopo giorno o a brevi intervalli, dalle foglie più basse rispetto al terreno (1^, 2^, 3^, 4^, 5^ raccolta).

Intanto si susseguivano le stagioni, arrivando ad abbracciare, fra semina e raccolto, una buona metà del calendario, ovvero l’arco da fine gennaio ai primi di agosto.

Non sembri retorica, ma, con nostalgia ed emozione, si potrebbe fare un accostamento approssimativo rispetto all’umana gestazione. In fondo, così come dal seme dei padri e dal grembo femminile si attendeva, come tuttora si attende, lo sbocciare e l’arrivo di una creatura sana e bella, parimenti dalla semina del tabacco si aspettava, con fiducia e ansia, il germoglio e la crescita di piante/foglie belle, sane, forti e fruttuose.

Un vero e proprio impegno a doppia ripresa, sempre all’insegna della fatica, consisteva nello stacco, di buon mattino, immediatamente dopo l’alba, delle foglie verdi e ancora umide di rugiada  dagli steli delle piante, badando a rispettare rigorosamente la platea dei filari; quindi, da metà mattinata, nell’infilaggio delle medesime in lunghe, piccole lance (cuceddre) per la formazione di pesanti file/assemblaggi, che, appese man mano a rudimentali telai  in legno (talaretti o tanaretti), sarebbero state a lungo fatte essiccare sotto il sole.

Non senza saltuari interventi delle persone accudenti, sotto forma di corse sfrenate, di fronte a pericoli o imminenza di acquazzoni, onde trasportare le anzidette attrezzature e i preziosi contenuti al coperto di capannoni o rifugi rurali.

Una volta, il prodotto, divenuto secco, con le file si formavano i chiuppi, per rendere l’idea una specie di grossi caschi di banane, tenuti appesi, per un’ulteriore maturazione o stagionatura del tabacco, ai soffitti dei locali.

E, alla fine, lo stivaggio del tutto in grosse casse di legno e la loro consegna, per la lavorazione finale delle foglie, alle “manifatture” o magazzini, in genere gestiti, dietro concessione da parte dei citati Monopoli di Stato, a cura di operatori abbienti, soprattutto proprietari terrieri, dei vari paesi.

All’interno dei magazzini, le donne, in certi casi a partire dalla giovanissima età e sino a raggiungere ragguardevoli carichi di primavere, dopo le fatiche richieste dalla coltivazione e dall’infilaggio delle foglie verdi, riprendevano a lavorare a giornata per due/tre mesi all’anno.

Così, fra una stagione del tabacco e la successiva, si procreavano figli, si stipulavano fidanzamenti e celebravano matrimoni, grazie anche ai nuovi “frabbichi” (case di abitazione), per i giovani maschi, e ai corredi, per le femmine, realizzati proprio mediante i sudati profitti che era dato di trarre dalla coltivazione e vendita del tabacco.

La scenografia dell’attività in parola era anch’essa ambivalente, nel senso che, talora, l’ambientazione rimaneva totalmente circoscritta in loco, nei paesi e nelle campagne del Salento, mentre, in altri e diffusi casi, si spandeva su plaghe distaccate e distanti, a partire dagli ultimi territori verso sud ovest della provincia di Taranto, sino a una lunga sequenza di località del Materano.

Nel secondo contesto, avevano luogo, mercé l’ausilio di grosse autovetture noleggiate con conducente, vere e proprie migrazioni temporanee di numerosi interi nuclei famigliari: dalla mente di chi scrive, giammai si cancellerà l’immagine delle considerevoli partenze di compaesani marittimesi, per il tabacco, nelle primissime ore del 29 aprile, il giorno immediatamente successivo alla festa patronale di S. Vitale.

Riprendendo l’antefatto al primo rigo delle presenti note, nel documentario di Zatterin, le sequenze erano girate interamente dalle mie parti.

Sennonché, ieri, nel compiere un viaggio in auto con i miei famigliari per una breve vacanza sul Tirreno, è stato per me come veder girare ancora un analogo documento, improntato a nostalgia e amore per il sano tempo lontano, che tanto mi ha dato e lasciato e, perciò, mi è fortemente caro.

Ciò, scivolando lungo la statale 106 Ionica e i primi tratti della 653 Sinnica, e scorrendo e leggendo le indicazioni segnaletiche di Castellaneta, Ginosa, Metaponto, Marconia, Scanzano, Bernalda, Marconia, Pisticci, Casinello, Policoro, Montalbano Ionico e via dicendo.

Non erano, almeno per il mio sentire, meri appellativi di paesi e contrade. Invece, generavano l’effetto di immagini palpitanti, con attori, non importa se in ruoli di protagonisti o di comparse, identificantisi nella mia gente di ieri e, in fondo, in me stesso.

 

I comizi in piazza di una volta, con correlate razzie e abbuffate di nespole

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di Rocco Boccadamo

Ieri sera, mi sono messo ad assistere, arrivando a trattenermi solamente sino a un certo punto, allo spettacolo, propinato come interessante e, però, più che altro triste e avvilente, del talk show di turno, in onda nel palinsesto di una nota ed estesa rete televisiva privata.

Fra gli argomenti proposti, a spiccare maggiormente, è stata la vicenda, invero affatto nuova e/o originale, della diffusione, anzi pubblicazione, di alcune intercettazioni telefoniche, dal contenuto, se non clamoroso, indubbiamente ad alto effetto in seno alla pubblica opinione, aventi per protagonisti un padre e un figlio, o viceversa.

Con la speciale peculiarità, che uno degli interlocutori s’identifica con il più importante esponente politico e, fino a poco tempo fa, anche governativo, del nostro Paese.

Di fronte al conduttore della trasmissione, un esperto e affermato giornalista (l’autore, diciamo così, dello scoop) e un parimenti conosciuto personaggio politico dello schieramento del dianzi richiamato leader, chiaramente lì mandato come panzer contraddittore e negatore all’estremo delle evidenze, o per lo meno verosimili evidenze, emerse dalla faccenda, che, forse, doveva rimanere segreta.

Tra le parti sono sprizzate scintille e, addirittura, volati insulti a ripetizione, eccessi certamente non cancellati, alla fine, dalla stretta di mano di pura maniera.

Segno e conferma, cotanta scena, della campagna elettorale che, dalle nostre parti, si svolge e sussegue ormai in permanenza.

Esausto, anche perché erano suonate le ventitré, ho pigiato sul tasto stop del telecomando, non senza, tuttavia, in quell’attimo, ricondurre alla memoria, nitide e fresche, le immagini di stagioni elettorali lontane, circoscritte in archi di due/tre mesi, vere, autentiche e animate, con la medesima intensità, dai protagonisti, o candidati come meglio dir si voglia, da una banda e dalla gente, dall’altra.

Sia che fossero elezioni politiche, sia che si trattasse di consultazioni amministrative, l’impostazione e il clima erano quasi identici e, soprattutto, non esistevano, allora, distanze o distacchi fra le popolazioni e il cosiddetto palazzo.

Anche se, di là dalle procedure ufficiali e dalle regole burocratiche, gli eventi si tenevano alla buona, con veicoli di comunicazione consistenti appena in immaginette propagandistiche (santini) degli aspiranti consiglieri o onorevoli e manifesti, con o senza l’effige della persona in lista, che ricoprivano i muri delle case e degli edifici in genere.

E poi, ovviamente, i comizi all’aperto, tenuti dai gareggianti locali o dai potenziali parlamentari.

A comprova della sopra ricordata vicinanza fra la gente e il potere politico, a queste ultime manifestazioni in piazza partecipava l’intera comunità paesana; chi amava assistervi, in piedi o accomodato su una seggiola portata da casa, nelle prime file rispetto al palco dell’oratore, arrivava sul posto anche due ore prima dell’evento, già annunciato per le vie del paese anche per opera del pubblico banditore, che girava in bicicletta, con tanto di suoni di tromba per richiamo.

Pure noi piccoli marittimesi, con riferimento al periodo dal 1948 al 1958, eravamo coinvolti nell’atmosfera delle tornate elettorali e nella relativa “macchina” organizzativa, in ciò agevolati dalla circostanza che coincidevano con la fase finale dell’anno scolastico, le verifiche erano terminate e si attendevano solamente gli scrutini.

Ad esempio, collaboravamo con gli adulti nell’affissione dei manifesti e nella distribuzione dei santini.

Ma, con la furberia propria della fanciullezza e dell’adolescenza, la sera, in concomitanza con i comizi, compivamo spesso un’altra azione.

In sostanza, sicuri di aver spazio libero e di non essere scoperti, anziché trattenerci in piazza dove si raccoglieva la totalità della popolazione, sciamavamo in direzione di giardini e campi in zone periferiche della località. Lì, varcando agevolmente muretti di recinzione o dischiudendo precari portoncini, ci portavamo ai piedi o sui rami di alberi di nespole, piante di cui possedevamo un vero e proprio inventario logistico, cogliendone e mangiando a più non posso i succosi frutti, che giungevano a maturazione giusto in quel tempo.

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Da notare che, per via delle cene frugali appena consumate in famiglia e, quindi, dello stomaco ancora capiente, tali scorpacciate clandestine si protraevano a lungo, all’incirca per tutta la durata dei comizi.

Le nostre missioni per incette di nespole iniziavano, di solito, dal fondo “Monticelli” del mio nonno paterno Cosimo e, dopo, proseguivano in vari altri appezzamenti di parenti o semplici conoscenti, dove sapevamo perfettamente che ci fossero piante della specie.

Ad agevolare la nostra opera, rispetto al manto del buio, timido nella prima sera e via via più fitto, il brillio delle stelle e, quando c’era, il raggio delicato della luna, mentre, qua e là, grilli, lucciole delicate e civette stanziali davano l’impressione di non accorgersi o non curarsi delle nostre invasioni, seguitando, invece, a manifestare le loro abituali voci e lucine color verde azzurro.

Tutto si compiva, alla fine, con il rientro nelle nostre abitazioni, abbinato o confuso con il ritorno dei nostri genitori e parenti che avevano partecipato ai comizi.

Morale, vuoi mettere quelle antiche esperienze di campagne elettorali con le manifestazioni e caratteristiche che hanno luogo adesso?

Libri| Luca e il bancario

Copertina 2016_colore:Coprtina Il geco (boccadamo)

di Marcello Buttazzo

L’amicizia è un giacimento di calie preziose, un tesoro di sole, uno dei beni immateriali di più inesausto sapore, che armonizza il mondo, che salva la vita. Ho conosciuto Rocco Boccadamo nel settembre 2012, a Lucugnano, a Palazzo Comi. Con Vito Antonio Conte e con Giuliana Coppola presentavamo il mio libretto di poesie, “E ancora vieni dal mare”, nella Casa di rose del preclaro poeta. A Rocco, di cui in passato avevo già letto alcune sue lettere sulle rubriche de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e de “Il Corriere del Mezzogiorno”, donai la mia silloge. Su quell’incontro Rocco scrisse amorevolmente sul sito della Fondazione Terra d’Otranto. Prima del trascorso Natale, Rocco s’è recato nel mio paese, Lequile, e mi ha donato il suo ultimo lavoro “Luca e li bancario” (pubblicato da Spagine – Fondo Verri Edizioni). Rocco ha avuto, finora, varie e intense esistenze. Agli albori delle primavere, sboccia la sua vita fanciulla, bambina, di arguto adolescente, di giovinetto diligente e studioso. Una esistenza giocata e bordeggiata a Marittima, nei paesi vicini, con il riverbero del mare negli occhi, confortato dalla Natura e dagli affetti più cari. Dopo il diploma, conseguito in modo brillante, Rocco ha iniziato, quasi subito, per una serie di motivi, l’attività lavorativa di bancario. Che lo ha portato in giro per l’Italia. Un lavoro denso di soddisfazioni, di abnegazione, di alacre operosità. Nel libro “Luca e il bancario”, mi colpisce, tra le tante cose, la descrizione emozionale e vibratile di Rocco nel ricevere il suo primo stipendio. Nella fase adulta, lui ha traversato e traversa il tempo e respira il suo giardino più intricato di sogno e di sperimentazione: quello della scrittura. Da grande Rocco ha deciso che la scrittura dovesse essere la sua ineludibile compagna di viaggio, la panacea universale, la sua musa prediletta e preferita, campo immenso di rossi papaveri e d’esplorazione del vivente. Dal 2004, pubblica sistematicamente i suoi volumetti di storie vivide d’amore e di paesaggi incontaminati. Scrive su Internet, per diversi periodici, con puntualità e parsimonia, con uno stile sobrio e pulito. Da tempo, seguo con interesse i deliziosi bozzetti del nostro prolifico Autore sul periodico Spagine del Fondo Verri. Il Fondo Verri, per noi anime indocili, vagolanti come la luna, è una fucina di arte e di cultura. Forse, questa fase matura della vita di Rocco si può sostanziare come quella più articolata, da certi punti di vista più ricca di placide, serafiche albe nuove e inedite. Lui è padre, è marito accorto, è nonno premuroso di alcuni bellissimi ragazzi e dolcissime fanciulle. È una persona umile e perbene, integrata nel connettivo sociale, è un uomo rispettoso e contegnoso. È un narrastorie leggiadro ed elegante. Semplice e diretto nell’incedere e nel procedere scritturali, ma con una visione allargata e ad ampio spettro, conscio che la sua prosa lineare sia quella più benaccetta e fruibile. Lui mediante la scrittura, tramite la prosa e il racconto, recupera la capacità di paziente rabdomante, che va alla ricerca delle venule più chiare, che scandaglia con passione i vissuti. Avverto tutto ciò anche e preminentemente in “Luca e il bancario”: il nostro narrastorie tramite il medium della scrittura s’abbandona sovente sulle ali del ricordo, della pacificatoria reminiscenza. Rivive gli anni passati, quando la vita era un primordiale virgulto di primavera e di sogno. Rocco sa far rivivere con movenze umanissime e palpabili tutto un universo di uomini e di donne, di gente della sua Marittima, di Castro, della sua terra natia rosso sangue di zolle marroni. La scrittura, si sa, può diventare uno strumento pacifico e non violento per interrogare a fondo il proprio sé e per gettare un ponte conoscitivo e creativo con l’altro da sé. È una medicina benedetta che terapeuticamente ci fa affrontare il tempo gaio e quello triste, il pianto e la gioia, il sole e la tempesta, la caduta repentina, la salita vertiginosa. Rocco narra le storie, descrive di sé, ma soprattutto degli altri. Lui, da anni, conferma la sua dote precipua di narrastorie, legato alla memoria che è carne viva. La sua è narrazione del ricordo, sovente tratteggiata con vivida nostalgia: sa scavare a fondo nei vissuti bambini e giovanili. La sua è narrazione del paesaggio, perché le località cristalline, di adamantina purezza, di Marittima, di Castro, di Acquaviva, campeggiano spesso, con storie umanissime e pulsanti di passione. Racconto di luoghi, perché nelle pagine di “Luca e il bancario” i campi d’ulivo, i boschi di virente colore, compaiono con veste anche lirica. Descrizioni davvero dettagliate e felici del paesaggio e, soprattutto, della gente d’intorno. I protagonisti veri sono contadini, allevatori, lavoratori, calzolai, ciabattini, insomma quel popolo multiforme e silenzioso, che solitamente ha fatto e fa la Storia. La gente che la vulgata comune dipinge come marginale, ma che per Rocco ha una centralità assoluta. “Luca e il bancario” è, altresì, un diario di viaggio, che percorre gli spostamenti dell’Autore bancario per varie città d’Italia. Ho potuto notare, fra le altre cose, la sincera devozione di Rocco, che è sia laica, che religiosa e spirituale. In lui vibra potente l’amore per l’umanità, per la gente umile. Lui sa anche celebrare doverosamente festività come l’Assunzione, sa dare la sua carezza a figure come Sant’Antonio da Padova, alla Madonna, a San Francesco, anima folle stremata d’amore. Quella di Rocco è narrativa degli affetti: Il padre è una figura sempre viva di fulgente luce. L’universo immaginifico e reale del nostro Autore si vivacizza di tanti protagonisti del popolo: il novantenne Orlando intento con il suo coltellino a raccogliere bacche e fichidindia, Vicenzu ‘u cuzzune e il suo asinello dalla lenta andatura. Il contadino compare Vitale. Ed ancora Consiglio, nachiro (capo ciurma nei frantoi oleari in autunno), Teodoro avvezzo a far bagni a pelo d’acqua.  Come non ricordare il cugino Luca sempre pronto alla battuta e al sorriso. Ed ancora l’anziano contadino Luca. La vita è un continuum, si susseguono le varie fasi in un collante di relazioni. È quello che succede anche al nostro Autore che, pur peregrinando per l’Italia, deliberatamente non recide mai i propri legami, rinnovellando sempre di nuova linfa vitale le sue radici. La sua villetta fiorita alla “Pasturizza”, è una sorta di buon ritiro, un posto d’elezione, uno specchio d’anima. L’Acquaviva (insenatura prossima a Castro Marina) è un porto di bellezza adamantina. Marittima brilla in tutto il suo lucore, di aurore frementi d’amore, di sole assetato di visioni, di crepuscoli screziati e aranciati, di notte fruscio di stelle silenziose e assorte. In “Luca e il bancario”, Rocco con dolcezza e con delicatezza ci conduce attraverso questi Frammenti di vita salentina. In essi traspare un amore sviscerato per la sua terra, utero di mare, madre accogliente, culla d’eterno. C’è davvero un filo conduttore che anima “Luca e il bancario” e tutti gli scritti di Rocco Boccadamo: è la soavità amaranto dell’amicizia, che ci lega e ci cattura al lume d’un’idea. Infine, vorrei dire che nelle opere di Rocco c’è un anelito francescano, una manifesta esortazione a vivere una esistenza di piccoli passi quotidiani e ordinari. E la sua cifra poetica più sentita risiede proprio nella tendenza di voler tratteggiare con occhio giustamente benevolo quella umanità silenziosa e umile, che fa la Storia.

 

“Luca e il bancario” di Rocco Boccadamo, Spagine Fondo Verri Edizioni, dicembre 2016

Da Marittima: zolle di storie e di ricordi, nel solco della tradizione

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di Rocco Boccadamo

Nella piccola località che mi ha dato i natali, non sono, invero, molte le ricorrenze che riescono a preservarsi di là dal tempo, senza sostanziali scalfitture, e cui, insomma, di generazione  in generazione, si continua immancabilmente ad annettere un substrato di valore e d’importanza, soprattutto sul piano ideale e morale, cercando, altresì, a ogni singola cadenza, di inquadrarle in una cornice di adeguata visibilità e solennità.

Al primo posto, fra esse, si colloca la festa del Patrono, S. Vitale martire, che si svolge annualmente, per secolare tradizione, il 28 aprile.

E ciò, giacché non v’è marittimese che, a prescindere dalla cifra della sua personale fede religiosa e relativa concreta pratica, non si senta legato al Protettore, milanese d’origine, milite cavaliere nelle schiere dell’imperatore romano Nerone, a un certo punto della sua vita convertitosi al cristianesimo e, quindi, per quest’ultima scelta da lui considerata irrinunciabile, costretto ad affrontare e subire il martirio.

Vitale ebbe per sposa Valeria, che lo rese padre di due figli, Gervasio e Protasio: e, però, qui mette conto di rimarcare non tanto la composizione del focolare domestico del Santo, quanto la circostanza particolare che tutte e tre le persone care al capo famiglia fecero la sua medesima, gloriosa fine.

Sullo specifico tema, mi piace rammentare un episodio, diciamo così, moderno, marginale ma in certo qual modo indicativo, capitatomi, anzi, in fondo, da me promosso, un paio d’anni fa, in occasione di una breve puntata nel capoluogo lombardo per rivedere i figli e i nipotini ivi residenti.

Era di pomeriggio e a un certo punto, dopo un giro insieme nel vicino Museo della Scienza e della Tecnica, mi trovavo con Andrea in zona S. Ambrogio e, lì, il piccolo, teneva a indicarmi l’Istituto presso il quale sarebbe andato a frequentare le Scuole elementari.

Sennonché, parallelamente, a me, ebbe ad accendersi una lucina nella mente, dopo di che afferrai per mano Andrea, chiedendogli di starmi sul passo sino all’interno della contermine, omonima Basilica e, precisamente, sin dopo l’altare.

Il nipotino mi veniva dietro in silenzio, dando però a vedere di essere un po’ stupito di tale itinerario.

Arrivati a destinazione, indirizzai il suo sguardo e la sua attenzione su due figure di scheletri, rivestiti di paramenti sacri, che giacevano in un’urna di vetro illuminata e in bella vista sotto l’altare, sussurrandogli che quei resti appartenevano ai Santi fratelli Gervasio e Protasio, figli di S. Vitale, protettore di Marittima, paesello dei nonni paterni e luogo di una parte delle sue vacanze estive al mare.

Andrea strabuzzò gli occhi, incantato, e proferì un sostenuto: ”Ma, come, nonno…! Che mi stai dicendo? Si tratta proprio dei resti veri di due Santi?”.

Naturalmente, fu intensa la scena del racconto del piccolo ai genitori, alla nonna e, il giorno seguente, ai cuginetti.

In  seno a passate narrazioni e rievocazioni, mi è già occorso di intrattenermi intorno alle celebrazioni in onore di S. Vitale e, fra l’altro, di porre in risalto che, dal punto di vista stagionale e specialmente del clima, l’evento, per consuetudine radicata, segnava, nel sentir comune dei marittimesi, una sorta di spartiacque fra l’inverno compreso il marzo capriccioso da un lato e la bella stagione dall’altro.

A suffragio di ciò, il 28 aprile coincideva anche, nella maggior parte delle mura domestiche del paesello, con l’introduzione del riposino pomeridiano, evento, per la verità, affatto gradito da noi ragazzi.

Che l’estate fosse non lontana, era confermato da un’ulteriore, puntuale circostanza.

Il Comitato festa ingaggiava, ogni anno, due Complessi Bandistici, che diffondevano le loro sinfonie, sia seguendo la processione lungo le vie del paese con il simulacro del Patrono, sia esibendosi schierati sull’apposita “cassa armonica”, autentica selva di luminarie, allestita nella piazza.

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Orbene gruppi di “bandisti”, specialmente se provenienti dall’entroterra e da località montane e, perciò, normalmente più fredde, subito dopo mezzogiorno e in attesa di riprendere le loro prestazioni, si recavano a piedi da Marittima all’insenatura “Acquaviva”, transitando giusto davanti all’abitazione dei miei genitori, per fare o prendere il primo bagno.

Così andavano, di solito, le cose sul piano meteorologico; nondimeno, ogni tanto, accadeva qualche eccezione.

Guarda caso, in questo periodo del 2017, alla vigilia o quasi di S. Vitale, in queste plaghe salentine, il clima è, se non precisamente freddo, fresco assai, il mattino e la sera le temperature segnano 7-8 gradi. Di conseguenza, ci si meraviglia, dimostrando tuttavia di aver memoria corta.

Mi spiego. Correva il 1961, io avevo appena compiuto vent’anni, dall’estate precedente ero fidanzato con A. e da pochi mesi avevo preso a lavorare a Taranto, dove anche A. risiedeva con la sua famiglia.

Per quella festa di S. Vitale, così come ci fu il mio ritorno a Marittima, i miei genitori invitarono e si proposero di ospitare anche A.

Successe, purtroppo, che, la sera del 28, nonostante il calore emanato dalle sfarzose luminarie, in giro, sulla strada centrale del paese, percorso d’elezione delle passeggiate, su e giù, dei ragazzi e delle ragazze, ma anche degli adulti, e, parimenti, nella piazza dove campeggiava la cassa armonica su cui si esibivano a turno le bande musicali, spirava un’arietta se non proprio fredda, fresca e non da poco.

Rammento che A., la quale, qualche tempo prima, aveva avuto problemi di salute, per prudenza indossava un cappottino sopra il vestito e, tuttavia, sia lei, sia mia madre, all’epoca quarantaquattrenne, sua compagna di passeggiata nell’ambito della festa, a un certo momento avvertirono il bisogno di non trattenersi oltre all’aperto e pensarono di chiedere ospitalità alla famiglia di E. F. che abitava esattamente in piazza, tra la cassa armonica e la Chiesa Madre.

I padroni di quella casa si dimostrarono lietissimi di accogliere le due donne, tra loro e la mia famiglia, a parte i legami di compaesani, esistevano anche quelli di compari e comari, poiché un figlio di E.F, A. detto U., era stato, nel 1948 o 1949, mio padrino di Cresima.

E qui, pure su tale punto ho già avuto modo di riferire, quando si diventa compari, si rimane tali per sempre.

Non venga da sorridere, il mio padrino (o nunnu) U.F. regalò a me  figlioccio (o sciuscettu) una banconota da 500 lire italiane, accompagnando la consegna del dono con la frase: “Ecco, con questi soldi, potrai comprarti un paio di pantaloncini”.

Per chiudere la parentesi, devo ricordare che, tra padrino e figlioccio, a contare non è davvero l’entità del regalo intercorso, bensì l’intensità del sentimento che viene a instaurarsi fra le due figure.

Per dire, compare U., una quarantina d’anni dopo, già sposato e padre di due figlie arrivate alla maggiore età, in un’occasione, incontrandomi insieme con la primogenita, oltre che salutarmi e farmi salutare dalla figlia, ebbe a raccomandare a quest’ultima: “Senti, quando, un giorno, io non ci sarò più, ricordati che, per qualsiasi cosa, potrai fare affidamento su questa persona, ti rivolgerai a lui”.

Anche ora, U. se n’è andato da un bel pezzo, la sua figliola in discorso mi dà sempre segno di considerazione, rispetto e amicizia, un particolare, a mio avviso, bello e positivo.

Il capo famiglia E.F., esile e di statura medio bassa, si distingueva, pure in vecchiaia, per il suo incedere di buona lena, dava quasi l’impressione di muovere lesti i propri passi, magari a piedi scalzi, con piacere; io, sin da piccolo, me lo godevo quando transitava davanti a casa mia per portarsi dal paese a un suo fondo agricolo situato luogo la litoranea fra l’Acquaviva e la Marina dell’Aia.

Ritornando ad A. e alla mia, allora giovane, mamma, stettero bene insieme, per qualche ora, all’interno dell’abitazione di E.F., avendo agio, dal 1° piano, di osservare i compaesani numerosi nella piazza sottostante per la festa, come pure di ascoltare le arie eseguite dalle Bande musicali che si alternavano sulla cassa armonica.

Dal punto di vista dello svolgimento materiale, adesso, ovviamente, la festa di S. Vitale è profondamente cambiata, in linea, del resto, con i radicali mutamenti verificatisi, nei decenni, su scala generale.

Nondimeno, la ricorrenza mantiene il suo tradizionale valore e significato e seguita a essere sentita anche nell’animo dei marittimesi del terzo millennio.

 

Dal Salento: fra i ricordi e il presente, i segni di uno speciale dopo “Coena”

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di Rocco Boccadamo

Secondo il calendario liturgico della Chiesa Cattolica, fra i riti della settimana che precede la Pasqua, come pure nel radicato sentire dei credenti e/o praticanti, spicca e si rinnova puntualmente la rievocazione del “Giovedì Santo”.

Le relative cerimonie religiose, com’è noto, culminano con la celebrazione della Messa denominata “in coena Domini” e, in particolare, con la Lavanda, per opera dell’officiante (dal Sommo Pontefice, sino al più umile parroco di montagna), dei piedi di dodici persone, di qualsiasi età o sesso o censo, che vogliono simboleggiare le figure dei Discepoli, riuniti a tavola accanto al Maestro, per l’ultimo pasto insieme prima del suo sacrificio sul Calvario.

Dopo di che, la pisside, contenente i segni sacramentali del corpo di Cristo, rimane esposta sino al giorno successivo, per l’adorazione da parte dei fedeli.

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A proposito del precipuo rito di detta ostensione, una volta si parlava di “sepolcro”, mentre, adesso, vige la definizione, semplicemente, di luogo di presentazione solenne del simbolo di Cristo, sempre vivente.

Con l’ormai cospicuo passare delle stagioni, nella mente del ragazzo di ieri, è venuta ad allestirsi una vera e propria galleria, vie più ricca, d’immagini del “sepolcro” o “luogo”, come meglio piaccia appellarlo, incominciando dai tempi dell’infanzia e dell’incipiente giovinezza nel paesello natio e giungendo all’attuale dimora nella Capitale del barocco.

E, così, per citare sul tema, dopo Marittima, a seguire in scansione temporale, Taranto, Messina, Squinzano, Napoli, Imperia, Catania, Monza, Roma, Milano e Lecce.

Eccettuato il riferimento alla località d’origine, dove era, ed è, aperta in via permanente al culto solo la Chiesa matrice, in tutte le altre città, in concomitanza con la sera del Giovedì Santo, è venuto a presentarsi il costume della visita a più chiese, in numero sempre dispari, e, di riflesso, l’occasione di scoprire e ammirare una considerevole serie di siti o luoghi o angoli del genere in discorso.

Da quelli assolutamente semplici per fattura, esponenti soprattutto vasi con tenere piante di lino o di grano, a quelli sontuosi ed eleganti, insomma di realizzazione in certo qual modo artistica.

Avevo addosso venti primavere, quando a Taranto, ho intrapreso i miei giri per le visite ai “sepolcri” e, però, seguito a compierli anche adesso, che mi trovo a quota settantasei, con le gambe e le ginocchia ovviamente un tantino arrugginite, ma, tuttavia, sembra, idonee a permettermi ancora la scarpinata, ispirata a devozione, di alcuni chilometri.

Anche ieri, dopo aver assistito ai riti nella Parrocchia del quartiere dove abito, mi sono messo in cammino, per circa un’ora e mezza, nella sera incalzante.

Di buona lena, ho raggiunto altri quattro luoghi sacri della città, che mi astengo dal citare nominativamente, giacché, nella circostanza, rappresentano grani, identici, del medesimo rosario di fede personale.

A ogni tappa, come dicevo all’inizio, l’approccio con un’immagine, anzi cornice, differente dal punto di vista dell’estetica e dei segni o simboli.

Nella prima sosta, mi si è parata innanzi agli occhi la scena di una piccola barca di legno, in parte ricoperta da mucchi di reti da pesca e recante in bella mostra, adagiati fra poppa e prua, una coppia di remi.

Una semplice idea di mare, insomma, un habitat a me specialmente familiare e caro, in cui ho pensato di individuare tre altrettanto semplici significati.

L’imbarcazione, alla stregua di simbolo, oggi purtroppo dall’impatto sovente tragico, e comunque anello di fratellanza, con il mondo che fra le onde lavora e, inoltre, s’avventura in viaggi, affrontandone i rischi e i pericoli, alla ricerca di una vita migliore.

Le reti, segno di speranza in risultati e traguardi positivi, i remi, infine, come arnesi e presupposti di buona volontà e d’impegno.

Nel secondo luogo, accanto al semplice tabernacolo, ho scorto alcune pagnotte, una serie di rametti d’ulivo e una giara con la scritta “offerte per i poveri”: non v’è dubbio, formule, pure queste, tutte di estrema concretezza ed essenzialità, anche alla luce delle caratteristiche tradizionali e naturali di questa terra, messaggi veramente espressivi e indicativi.

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Nella successiva chiesa, ho riscontrato la presenza di alcune focacce di grano, bianche, al naturale.

Nell’ultimo luogo visitato, invece, mi ha colpito un semicerchio di lanterne accese e, però, dalle fiammelle tenui, forse a voler suggerire sobrietà e umiltà, sentimenti che, anche in seno alle comunità avanzate e in parallelo alle più moderne tecnologie, v’è da pensare che non guastino.

Di fronte alle lanterne, la raffigurazione di un pozzo con abbinato flusso d’acqua incessante.

Nel percorrere il tratto di strada per il rientro a casa, quasi senza avvedermi del traffico circostante e della presenza, in pizzerie o ristoranti o pub, di persone intente a mangiare la cena o uno spuntino similmente a un giorno qualunque, ho rivisitato la sequenza del mio cammino, sentendomi, dentro, pieno e appagato, per aver vissuto, a modo mio e come sempre, l’esperienza dei riti conclusivi del Giovedì Santo, con lo speciale dopo “Coena” per finale.

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Su quella bici di Rocco…

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SU QUELLA BICI DI ROCCO BOCCADAMO E …DI COME ABBIAMO PEDALATO QUANDO POI FINALMENTE È ARRIVATA

di Vanni Greco

Mi domando spesso se le attese deluse (come per “la bici desiderata e non avuta” di Rocco Boccadamo) (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/08/92481/) di noi ragazzi e adolescenti di qualche tempo fa, che hanno dovuto fare i conti con padri poco disposti ad assecondare richieste di beni non strettamente necessari, e madri impegnate a rimodulare con affetto e con successo la frustrazione del figlio e l’intransigenza del marito, siano state utili allo sviluppo della personalità e della capacità di coltivare speranze e progetti per la vita adulta che avessero più probabilità di essere realizzati. Se la necessità di dover spesso rinunciare e quasi sempre accettare il rinvio del bene giudicato superfluo, abbia favorito una distanza dalle pulsioni dell’istinto e maggiore equilibrio e stabilità nei confronti dell’alternarsi di vittorie e sconfitte che, senza eccezioni, segnano la vita di ogni essere umano.
O se, invece, la limitata soddisfazione di tutti i bisogni che esprimeva quell’età abbia rappresentato un limite allo sviluppo della capacità di sognare e di realizzare, con la spinta creativa che li accompagnava, un progetto di vita radicalmente migliore per sé e per gli altri.
Oppure ancora, se quelle rinunce abbiano garantito un accumulo tale di energia che, una volta approdati all’autonomia personale e professionale, si sarebbe liberata in capacità di cambiamento della propria parte di mondo e con esiti decisamente positivi ed oggettivamente apprezzabili.

A distanza di alcuni decenni, il tentativo di fare un bilancio della propria vita credo non aiuti molto nella ricerca di risposte a queste domande, perché non è mai agevole prender le misure reali di ciò che è stato, dei successi e delle sconfitte e ricondurli a meriti ed errori propri, dei propri genitori o di chi ha avuto un ruolo importante nella nostra vita. E senza nemmeno scomodare il “caso”, benigno o meno, che pure entra in misura determinante negli eventi umani.
Si tratta di domande che mi sembra mantengano tutta la propria legittimità anche di questi tempi che pare abbiano abbandonato del tutto il modello nel quale molti della mia generazione e delle precedenti sono cresciuti, e dal quale ne hanno preso talmente le distanze da risultare, forse, agli antipodi. L’impressione, infatti, è che oggi il genitore debba e voglia assecondare qualunque richiesta dei figli. Mi domando se ciò accada per reazione alla propria esperienza adolescenziale, se per saggia consapevolezza sugli effetti dell’uno o dell’altro modello oppure ancora se dipenda dal bisogno degli odierni genitori di evitare qualunque ostacolo alla continua ricerca della propria felicità individuale; una ricerca che l’attenzione e l’impegno verso i figli rischia di compromettere e che risulti, quindi, più facile facendosi sostituire da beni materiali in abbondanza che possano opportunamente distrarre e tenere occupati i figli.
Un ribaltamento, ammesso che corrisponda alla realtà, che rischia di indurre quelli come noi, che pure portano ancora qualche cicatrice del passato, a riversare giudizi talvolta pesanti sulle nuove generazioni di genitori e figli; e che, nel migliore dei casi, alimenta l’inquietudine per il loro futuro che appare senza sbocchi e senza speranza.
Giudizi e paure che ritornano, di generazione in generazione. E, ogni volta, l’ultima generazione di giudici ed osservatori sembra convincersi o teme d’essere la penultima nel computo totale.
È, dunque, davvero a rischio, ogni volta per colpa delle nuove generazioni, il regolare processo di sviluppo e di benessere che continua da alcuni millenni o, secondo altre letture, la storia delle nostre tutto sommato giovani democrazie?

Comincio a dubitare che i giudici più severi in realtà siano gli stessi che, nel pieno delle loro forze, sopravvalutavano o nemmeno s’interrogavano sul valore del proprio contributo al miglioramento del mondo, preferendo puntare il dito sui loro contemporanei, responsabili di tutti i mali.
Mentre, gli osservatori realmente più angosciati forse confondono il destino dell’intero mondo con la crescente, ma non ancora ben riconosciuta paura di chi si avvicina alla propria uscita individuale dal mondo; proiettando così sulle nuove generazioni un destino che è solo personale.

E se, invece, finché c’è ancora tempo, provassimo a fare e, soprattutto, a fare meglio di quanto non abbiamo fatto finora?

O, in alternativa, lasciare responsabilmente il campo a chi, magari sorprendendoci, potrebbe fare meglio, anche molto meglio di noi.

Da Maglie, ricordo di una bici tanto desiderata

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Da Maglie, ricordo di una bici, tanto desiderata e, però, non avuta

 di Rocco Boccadamo

Stamani, per il disbrigo di una pratica, mi trovavo a Maglie, la signorile cittadina del medio Salento che, fra l’altro, come è noto, ha dato i natali al compianto statista Aldo Moro.

Nel percorrere lentamente in auto una vecchia stradina del centro storico, dalle case basse sovente abbellite da ameni cortili, sono stato d’un tratto colpito da un’insegna di carattere commerciale in grande stampatello, recitante “RESTI”. In corrispondenza, invero, si stagliavano un paio di grigie saracinesche abbassate e, quindi, mute.

Tuttavia, quelle cinque lettere del cartello, in un baleno, andavano prodigiosamente a scatenare nella mia mente un piccolo indicativo ricordo, lontano e, insieme, vivo e guizzante, incentrato su un preciso e determinato episodio risalente, si pensi un po’, alla metà dello scorso secolo.

Correva l’anno 1953, io ero in prima media e, senza volermi esaltare, sul piano del profitto scolastico me la cavavo bene.

Nel paesello natio di Marittima, frequentavo, allora era normale, un’ampia cerchia di amici, coetanei o quasi, e, fra essi, ve n’era uno, D.A., più grandicello rispetto a me, che ammiravo e, anzi, invidiavo per una particolare ragione.

Mosca bianca nel gruppo, egli possedeva una bicicletta, non proprio da adulti, ma nemmeno mini, vale a dire del genere usato da qualche raro bimbetto; insomma, il suo, era un velocipede di dimensioni mediane (a cominciare dalla circonferenza delle ruote), ma, nello stesso tempo,  in tutto attrezzato e completo come se si trattasse di un’autentica bicicletta, sicché gli consentiva di scorrazzare di gran corsa per le vie della località e, talora, anche, di convincere le ragazzine a sedersi sulla canna.

Per rendere più efficacemente l’idea, mi viene di tirar fuori l’immagine di un letto: come c’è quello a due piazze o matrimoniale, c’è quello a una piazza o lettino ed esiste pure il modello a una piazza e mezzo. Ecco, la bici di D. si potrebbe accostare al concetto dimensionale di “una piazza e mezzo”.

Da parte mia, saltuariamente, convincevo il fortunato amico a cedermela per un giretto, beninteso solo per pochi minuti, e, in quei momenti, andavo letteralmente in sollucchero.

Di riflesso, non perdevo occasione per mettere in croce i miei genitori, affinché comprassero un mezzo a due ruote, magari usato, per me o, quanto meno, da adoperare alternativamente con i miei fratelli.

Loro replicavano che ciò non era fattibile, le misurate risorse finanziarie famigliari non potevano essere destinate a un acquisto della specie e, poi, osservavano che ero ancora piccolo. In fondo, loro cercavano di prendere tempo, io, nondimeno, li martellavo senza sosta.

Concentrato su tale obiettivo, rammentando che, in occasione dell’andata a Maglie per gli esami d’ammissione avevo scorto un grande negozio di vendita, guarda caso, di biciclette, non mi feci scappare lo spunto di una missione, nella cittadina, di mia madre, mio padre, la nonna materna Lucia, lo zio Toto e la sua promessa sposa Maria, per l’acquisto di vestiti, scarpe e altri accessori, in vista, esattamente, del matrimonio dei predetti zii Toto e Maria.

Aggregatomi, dovetti inizialmente sorbirmi i passaggi dai Magazzini Candido e dai vari negozi Puzzovio, Santese e De Giorgi; dopo, invece, convinsi il gruppo ad accompagnarmi in quella stradina citata in apertura, dove era ubicato l’esercizio di vendita di biciclette.

Lì, mi soffermai a girare a lungo, divorando con gli occhi i bellissimi modelli esposti, ma… i prezzi erano letteralmente inabbordabili.

Purtroppo, l’azienda non trattava bici usate e, alla fine, quindi, restai a bocca asciutta.

Mi toccò, di conseguenza, attendere l’estate dell’anno successivo per veder soddisfatto il mio sogno: in casa, arrivò una seconda bicicletta usata per noi ragazzi, intanto che quella preesistente serviva a mio padre per andare e tonare dall’ufficio.

La prima escursione che compii gongolante ebbe come meta la Marina di Andrano, dove s’inaugurava l’impianto elettrico, al posto delle vecchie lampade a acetilene, nella chiesetta dedicata alla Madonna.

Un amico magliese, mi ha appena riferito che la ditta Resti, che di generazione in generazione andava vendendo biciclette, ha chiuso da circa un decennio; della sua realtà, sopravvive, però, quell’insegna in grande stampatello che ha ispirato, al ragazzo di ieri, la rievocazione della presente, semplice e minuscola antica storia.

Vitale Boccadamo da Marittima, medaglia d’argento al valor militare

Onore al merito di un grande eroe marittimese

Vitale Boccadamo, M.A.V.M.

di Rocco Boccadamo

Devo ammettere che pure a uno come me che conosce a fondo, almeno così ritiene, la propria plaga natia, nel senso specifico delle fondamenta, degli scenari tipici e strutturali, dei limiti, confini e dettagli delle proprie origini, può, talvolta, accadere di non avvedersi, anche per lungo tempo, di un determinato particolare, vie più se il medesimo coincide con un aggiornamento risalente a epoca, diciamo così, non antica.

La suddetta confessione/considerazione non viene a sgorgare e cadere casualmente e/o per mero sfogo concettuale. Giacché il mio proposito, in veste di narratore, di stendere le presenti righe trae spunto, esattamente, da un minuscolo particolare colto qualche mese fa, un segnale d’indicazione toponomastica, fra i tanti che si affacciano all’imbocco delle strade e viuzze della località di Marittima in cui sono nato, ho vissuto stabilmente sino a diciannove stagioni e abito tuttora per sei mesi l’anno.

Alla periferia a sud est del paese, un’arteria invero contrassegnata da scarsissimo traffico, in proseguimento della preesistente Via S. Bernardo e, quindi, sfiorando la zona agricola comunemente conosciuta come “Pustizze”, nella parte inferiore sino a congiungersi con Via Maria SS. Di Costantinopoli, quasi al suo incrocio con la certamente più nota e ancor più storica e trafficata Via Acquaviva (ora, peraltro, ufficialmente e precisamente denominata Via Agostino Nuzzo), reca l’intitolazione “Boccadamo Vitale – M.A.V.M.”.

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Nel notare il relativo cartello segnaletico, di primo acchito, nonostante che la popolazione marittimese si collochi sotto le duemila anime, non sono riuscito a identificare il personaggio.

Né maggior lume, a tal fine, ho potuto trarre consultando la deliberazione della Giunta comunale, che risale al 2011, relativa alla dedicazione della via e contenente una serie di dettagli sulla figura, compresa la motivazione all’origine e presupposto della scelta.

Poi, però, memore degli intensi legami di conoscenza, consuetudine e vicinanza che, sin dall’infanzia, mi sono sentito vocato, con naturalezza e piacere, a intrecciare e tenere con la generalità dei nuclei famigliari del paese, a un certo punto, non ho potuto fare a meno di andare a fondo e cercare di determinare, con precisione e chiarezza, di chi si trattasse. In altri termini, chi fosse, a quale focolare dovesse riferirsi, quel piccolo, anzi grande, eroe marittimese (una medaglia d’argento al valor militare non è un’onorificenza qualunque, non è per tutti, né, tanto meno, si può registrare in ogni paese), di cui mai avevo sentito parlare in precedenza e che, quindi, doveva essere rimasto, purtroppo, a lungo negletto nella memoria, nel ricordo e nell’ammirazione dei compaesani e delle stesse autorità locali.

Pongo quest’ultimo accento, atteso che, avanti di compiere le mie personali ricerche approfondite con finalità identificative, sono venuto a sapere che l’iniziativa dell’intitolazione di quella strada a Vitale Boccadamo, non era stata coltivata, sviluppata e conclusa localmente, avendo, bensì, preso abbrivo a seguito della segnalazione, da parte di un parlamentare della zona agli amministratori comunali, circa l’esistenza di un nativo di Diso/Marittima, Vitale Boccadamo, decorato di M.A.V.M., e ciò per essere caduto eroicamente durante la prima guerra mondiale.

Tale informativa, a quanto riferitomi, lì per lì, richiese che anche il Sindaco pro tempore e i suoi collaboratori ponessero mente locale e operassero diversi riscontri per dare un volto e un’appartenenza precisa all’illustre personaggio.

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Dire che, in una delle mie prime narrazioni intorno al paesello di Marittima, pressappoco quindici anni addietro, fra l’altro così annotavo:

Regnava una totale e assoluta familiarità, si conosceva tutto di tutti, i vecchi avevano presenti i nomi finanche dei neonati e, analogamente, anche i bambini conoscevano quelli degli anziani.

Indimenticabili i semplici giochi delle serate estive nelle viuzze dei vari rioni, sotto una casuale lampadina dell’illuminazione pubblica, se e quando esistente, altrimenti al buio rischiarato solo dal luccichio delle stelle e dalla luna: si partecipava in numerosi, serenamente e gioiosamente, a prescindere dall’età.

Quotidianamente, anche col tempo inclemente, i giovani, gli adulti e gli anziani, di sera, erano soliti “uscire in piazza”, con lo scopo prevalente, se non esclusivo, di incontrarsi, far crocicchi, parlarsi e, così, tener sempre aggiornate le reciproche conoscenze.

Magari, ci stava anche qualche passata dalla bottega di mescita del vino, ma, ripeto, essenzialmente si discorreva, del più e del meno, come nell’agorà delle civiltà antiche.

Le ricorrenze delle feste, almeno delle principali, rinfocolavano vieppiù gli stimoli ai contatti, alla socializzazione, alle passeggiate, in coppie o in gruppi. In quelle circostanze, si registrava anche il fenomeno dei numerosi compaesani – residenti altrove – che mai mancavano all’appuntamento di un rientro, seppure breve; si materializzavano, in tal modo, più ampi e festosi spunti per incontrarsi.

Quando qualcuno versava in cattive condizioni di salute, non passava giorno senza che i compaesani, a frotte, di solito al rientro dalle fatiche nei campi, passassero a rendergli visita, per informarsi sul decorso della malattia, per condividerne le sofferenze mediante due parole o un sorriso.

Nei ragazzi e negli adolescenti era radicata l’abitudine, la domenica, di assistere alla “prima” messa al Convento; si saltava giù dal letto verso le cinque e mezzo, in certe stagioni ancora notte, si compiva il tragitto a piedi sotto l’incanto di cieli tersi e stellati. La funzione, per le otto, era già terminata e, così, si aveva a disposizione l’intera mattinata, per giochi e divertimenti nel boschetto sulla via dell’Arenosa.

D’estate, i giovani, se non c’era altro da fare, si attardavano in piazza o nelle strade principali del paese per tutta la notte, sino alle prime ore del mattino, discorrendo e scherzando, ma senza schiamazzi per non arrecare disturbo agli altri, in un clima di autentica amicizia e di schietto cameratismo.

Succedeva, non di rado, che la loro permanenza così prolungata s’incrociasse con le prime sortite da casa degli adulti, i quali, ancora buio, si avviavano verso i campi. Ed era molto bello scambiarsi, insieme, quel buongiorno avente un sapore assolutamente speciale.

Saltuariamente, di solito nella tarda serata del sabato, si spostavano in gruppi verso le marine per pescare i granchi, qualche scorfano o, magari, i polpi, sorprendendoli sugli scogli bassi e nelle buche a ridosso del bagnasciuga erboso sotto il fascio di luce di rudimentali lampade ad acetilene. In qualche punto, i gruppi s’incontravano e facevano il confronto dei rispettivi bottini che, intanto, strusciavano scivolando lungo le pareti interne delle caratteristiche anfore di rame o zinco (capase).

Gli usci delle case restavano in genere aperti, il rispetto della proprietà altrui era sacro, le notizie di qualche furterello costituivano un evento davvero eccezionale.

 

E poi, l’ultimo ma in certo qual modo pertinente, mio richiamo narrativo, contenuto nel racconto “Congedo dalla bella estate salentina: sui passi di Luca”, pubblicato in seno al volume “Luca e il bancario” – Edizioni Spagine Fondo Verri, dicembre 2016:

Luca, mio gemello di cognome perché primo cugino del mio nonno paterno Cosimo (al pari di Donato ‘u culiniuru, Costantino e Toto ‘u pulinu e di un certo Caianu), era un uomo dotato di grande giovialità, il classico amicone, anche se gravato, come, del resto, tutti, dal peso del lavoro sulla terra rossa e, in più, condizionato pure da un grave difetto o imperfezione nel camminare, non so se dipendente da un motivo congenito o dai postumi di qualche infortunio o caduta non curati adeguatamente.

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Dopo la parte introduttiva e di ambiente, adesso avverto dentro, prevalente, il bisogno che queste righe siano indirizzate e rivolte eminentemente a rendere onore e omaggio all’unico vero protagonista del “racconto”, all’eroe, a Vitale Boccadamo, nipote, figlio del figlio Salvatore, del Donato ‘u culiniuru, citato quale cugino carnale del mio nonno paterno Cosimo e, dunque, anche mio lontano parente.

Di famiglia contadina, analogamente e ovviamente come quella da cui provengo io stesso, Vitale nacque a Marittima il 9 luglio 1894 e lì visse da bambino, adolescente e giovane, sino a quando fu chiamato alle armi.

Mi torna facile vederlo in quelle lontane stagioni della sua esistenza, paesano fra paesani, presto avviato ad aiutare i genitori nei lavori in campagna, magari sospingendo al pascolo una pecora o una capretta.

Ho motivo di credere che gli fossero familiari determinate zone del comprensorio natio, in special modo la strada che conduceva e anche adesso porta verso l’insenatura Acquaviva, inframmezzata, a un tratto, dal cosiddetto canalone nella zona delle “Oscule” dove i progenitori di Vitale possedevano o conducevano qualche fazzoletto di terra.

Sullo sfondo la modesta ma caratteristica collina delle “Acquareddre” (piccole acque), verso la quale si affaccia l’imbocco della via da poco intitolata.

Non richiede speciale ardire configurare, quindi, che adesso, a distanza di oltre un secolo dai tempi dei suoi percorsi terreni sul frammento di territori in questione, Vitale continua idealmente a percepire gli stessi odori, la luce, i richiami, il frastuono, quando lieve e quando forte, delle onde del mare vicino, confidando i suoi pensieri, le sue attese, speranze e prospettive alla natura, al cielo azzurro, alla vegetazione e agli arbusti che, in buona parte, non hanno fortunatamente subito modifiche, con l’accompagnamento di cinguettii amici. Non senza rimirare, estasiato, la maestosità dei due carrubi giganti del contermine fondo agricolo “Mastefine”.

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Questi i connotati e le indicazioni personali di Vitale impressi sull’Estratto del suo Foglio matricolare concernente il servizio militare:

–         statura: m. 1,55;

–         torace: m. 0,81;

–         capelli: colore castani, forma lisci;

–         occhi: castani;

–         colorito: bruno;

–         dentatura: sana;

–         arte o professione: contadino;

–         sa leggere e scrivere: no.

Tratti somatici e altre caratteristiche e requisiti del tutto comuni, ove si rapportino all’epoca cui risalgono.

Vitale Boccadamo lasciò Marittima, chiamato alle armi, nel luglio 1916, con inquadramento nell’83° Reggimento Fanteria dell’Esercito e giunse, nel successivo ottobre, in territori dichiarati in istato di guerra. Dopo aver partecipato alla nona e alla decima Battaglia dell’Isonzo, rientrò al Corpo d’appartenenza nel dicembre 1917.

A distanza di pochi mesi (febbraio 1918), arrivò nuovamente in territori dichiarati in istato di guerra, con inquadramento nel 47° Reggimento Fanteria. Nel successivo giugno, prese parte attivamente alla Battaglia del Piave (o del solstizio) e nel corso dei correlati combattimenti, il 15 giugno 1918, morì a seguito di ferita da pallottola nemica, in località Zenson di Piave.

Il biennio dedicato al servizio della Patria ebbe a rivelarsi, per il giovane marittimese, un’eccellente scuola formativa, di crescita morale e umana, verosimilmente a completamento e rafforzamento dei sani e solidi principi di vita semplici e seri maturati e accumulati durante i precedenti periodi trascorsi in famiglia, tra i compaesani e gli impegni di lavoro nei campi.

Se è vero che, la “statura” d’insieme di Vitale ricevette una graduale ma decisa sublimazione e crescita, specialmente sotto le insegne, ritenute insostituibili, della dedizione alla Patria, dell’altruismo e dell’esempio positivo e attivo all’indirizzo dei compagni, o, per meglio dire, nel caso di un soldato, dei commilitoni.

Al culmine ed epilogo della sua azione, egli ebbe, difatti, a dimostrarsi una vera e propria pietra miliare per impegno, iniziativa e coraggio, e solo ciò spiega il tenore, parola per parola, della motivazione con cui, in seguito al suo estremo sacrificio in battaglia, fu ritenuto meritevole di un’altissima onorificenza, sotto forma di Medaglia d’argento al valor militare:

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Distintosi già in parecchie azioni di pattuglia, sempre pronto ad offrire la sua opera nelle più pericolose operazioni, fu di valido aiuto al suo comandante di compagnia, infervorando i compagni, e dando loro costante mirabile esempio d’ardimento e di alte virtù militari. Slanciatosi poi fra i primi all’assalto, irrompeva con impeto tra le file nemiche e, ferito a morte, incitava fino all’ultimo istante i compagni alla lotta.

Zenson di Piave, 15 giugno 1918

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A tuo ulteriore e speciale merito, caro Vitale, al narratore tuo compaesano, omonimo di cognome e lontano parente, viene di rimarcare che la medaglia assegnatati dall’allora governante Re d’Italia acquista notevole maggior valore in virtù delle tue doti di uomo semplice e di umile meridionale. L’autentica grandezza non si misura per mezzo di stereotipi o regole generiche, ma è tanto più evidente e indicativa quanto più promana dall’animo, dall’essenza genuina e dal disinteresse rispetto a obiettivi utilitaristici o di vuoto egoismo.

Dal tuo arrivo al mondo nella Piazza Re Umberto I della comune Marittima, sono passati oltre 120 anni e il prossimo calendario segnerà esattamente un secolo dal tuo sacrificio sul fronte del Piave.

Si tratta, indubbiamente, di notevoli spezzoni temporali (mi permetto di segnare, sul tema, che mia madre, classe 1917, ha compiuto, idealmente da lassù, un secolo proprio qualche giorno fa e che nel 2018, insieme con un importante anniversario dalla tua dipartita in battaglia, a Marittima, a Dio piacendo, ben quattro nostre compaesane – Valeria, Ntina. Bice e Maria – celebreranno il loro secolo di vita), tuttavia, alla presenza di figure del tuo spessore, a mio parere, non possono esserci né quantificazioni di calendari, né somme di stagioni, né indici numerati di età.

Cosicché, anche l’ascesa in alto, viene a mantenere una continuità esistenziale, nel caso tuo con il legame proprio del gruppo di concittadine, che fra un anno, con lo stesso “18”, segnale indicativo del tuo percorso finale, registreranno un egualmente indicativo traguardo di vita.

La via, nei paraggi delle Oscule, delle Acquareddre, del Canalone e dell’Acquaviva, al cui imbocco ora si staglia nitidamente il tuo nome, ti rende maggiormente presente nell’ambito della minuscola realtà paesana e, da ultimo, anch’io, attraverso queste note che ho fortemente e sinceramente voluto rivolgerti, mi auguro di concorrere a renderti più vicino e idealmente ancora e sempre vivo in mezzo a noi.

Terminando, mi piace inserire in calce, alla stregua di parte integrante della mia rievocazione, taluni atti, documenti e immagini che sono un tutt’uno con la tua persona e la tua vita, sino all’eroico compimento.

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Castro e la sua Protettrice

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di Rocco Boccadamo

Si contano, ormai, a milioni, in Italia, in Europa e addirittura Oltre Oceano, le persone che conoscono, hanno visitato e amano Castro, la minuscola ma fulgida e unica Perla del Salento.

D’altronde, la località rappresenta, davvero, un eccezionale concentrato di storia, monumenti, vestigia, bellezze naturali e tradizioni.

Riguardo all’ultimo aspetto anzi richiamato, è risaputo, anche, che la cittadina ha per protettrice la Madonna, precisamente Maria SS. Annunziata, cui è intitolata la chiesa parrocchiale, appellata, a buon titolo, ex cattedrale, a motivo che Castro, fra l’altro, è stata, sino al 1818, sede vescovile.

Un’intensa e viva devozione regna, da secoli, in seno alla popolazione, tant’è che, fra gli abitanti, sono diffusi i soggetti dal nome, chiaramente dedicato, di Annunziata, Nunziata, Nunziatina, Tina e Nunzio.

Ogni anno, in onore della Vergine patrona, nella seconda metà di aprile, si svolgono solenni festeggiamenti, sia di carattere civile, con luminarie e fuochi d’artificio, sia d’impronta prettamente religiosa.

Il cuore delle celebrazioni religiose è la processione, con la statua in cartapesta della Madonna portata lungo le strade del paese; vi partecipa l’intera comunità, evidentemente pervasa da spontaneo riguardo e devozione verso la Vergine tutelare.

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Uomini, donne, bambini, giovani, anziani, tutti in corteo rigorosamente con l’abito della festa e adornati sobriamente di ori e preziosi. E’ il caso di rimarcare “sobriamente”, giacché, nella fattispecie, non è questione di moda o ostentazione, bensì di un atto di mero omaggio e di devozione alla Madonna.

A proposito della protettrice Maria SS. Annunziata e dei connessi festeggiamenti, quest’anno mette conto di dare rilievo a un evento straordinario assai indicativo: il restauro del simulacro in cartapesta, affrontato, sotto il coordinamento del parroco pro tempore don Fabiano Leone, grazie al generoso sostegno di alcuni devoti e della popolazione castrense in generale.

L’intervento di ripristino della statua è stato appena ultimato e la Madonna – sabato 25 marzo, giorno della sua festa liturgica – farà ritorno, bella e splendente come e più di prima, nella sua Casa.

Stille di scrittura, intorno a cento anni di dolcezza

Stille di scrittura, intorno a cento anni di dolcezza: 20 marzo 1917 – 20 marzo 2017

di Rocco Boccadamo

Esattamente un almanacco fa, in concomitanza con una meno indicativa e strettamente personale ricorrenza, mi venne di cavare dalla penna le seguenti note, incipit di un testo intitolato “I quindici lustri di un narrastorie salentino” e opportunamente più articolato:

Duemila sedici meno mille novecento quarantuno, fanno settantacinque. A Marittima, Basso Salento, nel rione popolare dell’Ariacorte, erano circa le 3:00 del mattino di una lontana, lontanissima domenica intorno a metà marzo, quando, nella modesta abitazione a piano terra di proprietà dei coniugi Immacolata e Silvio, si accingeva a venire al mondo il loro secondogenito, ossia a dire, si andavano schiudendo alla vita gli occhi dell’autore delle presenti righe.

A quei tempi, è diffusamente noto, i bambini non nascevano in ospedale oppure in clinica come accade adesso, bensì nella casa dei genitori, sul letto grande, con la puerpera, sorretta, assistita e aiutata dalle mani abili della levatrice e dall’esperienza delle altre donne di famiglia già sposate e mamme.

Nel ruolo d’ostetrica condotta comunale si trovava Donna Elvira Vainò, originaria, se ben ricordo, della zona di Galatina, la quale abitava nella frazione capoluogo di Diso, insieme con il marito Don Consalvo e, ironia del fato, senza figli. Lei compieva il suo prezioso servizio, con copertura, anche, ovviamente, delle altre frazioni di Marittima e Castro, muovendosi in sella a una bicicletta da donna e portando con sé, appesa al manubrio, una capiente borsa, contenente quanto necessario all’atto degli interventi d’assistenza. Pur essendo, la protagonista del lieto evento che stava per maturare, una donna mite e soprattutto paziente, i suoi naturali e comprensibili lamenti durante il travaglio arrivavano a raggiungere l’udito dei vicini e di qualche compaesano che si trovava a transitare lì, all’angolo tra la breve via Nizza (così era denominata l’attuale via Piave) e la strada che, ancora oggi, si diparte in direzione di un vasto comprensorio agricolo, fino alla scogliera demaniale, per sfociare in corrispondenza dell’amenissima, anzi, in un certo qual modo magica, insenatura “Acquaviva”.

Sì, un comune effetto, in questo caso beneaugurante, delle doglie, percepibile anche all’esterno delle mura domestiche strettamente interessate, che suscitava sentimenti di tenerezza all’indirizzo di una giovane mamma (a distanza di alcuni giorni, avrebbe compiuto ventiquattro anni), da tutti conosciuta e stimata, in seno alla minuscola località, per le spiccate doti di semplice e intensa bontà, dolcezza e cordialità. Ancora oggi, capita, spesso, sotto lo stimolo di reminiscenze ormai così distanti e, tuttavia, sempre vive, che siffatto impulso emotivo s’ingeneri dentro di me, nel ricordo di mia madre. Pensare, che, dopo averne fatti, in totale, ben sei, di figli, la donna se ne sia andata esattamente mezzo secolo addietro, col nascituro di quella metà marzo 1941 nel frattempo arrivato a venticinque primavere, in sostanza pressappoco alla stessa età della sua mamma intenta, sul lettone di casa, a dischiudere generosamente il proprio grembo per lui.

1953, mia madre in abito da festa per il matrimonio del fratello Toto.
1953, mia madre in abito da festa per il matrimonio del fratello Toto.


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Allora, il riferimento anagrafico era, è ovvio, a me e, però, dalle suddette righe, traspare come il sentimento e la mano del narratore incedessero indirizzandosi e rivolgendosi a un’altra precisa persona, con l’intento di rendere un ennesimo, forte omaggio postumo, alla sua indimenticabile figura.

Già, mentre, scorrendoli alla stregua dei cerchi concentrici arrivati a spuntare e a sovrapporsi con straordinaria precisione lungo il tronco di un ulivo senza età, mi rendo conto che i miei grani esistenziali hanno, nel frattempo, oltrepassato di un’unità gli indicativi quindici lustri, in occasione del presente nuovo spunto a narrare, mi succede, specialmente, d’avvertire dentro sentimenti più forti, un’emozione che mi prende quasi come un nodo in gola, dita che, serrandosi a impugnare e guidare la penna, non denotano l’abituale assetto fermo ma, al contrario, sembrano inevitabilmente prese da fremito e tremore. Ancora già, sull’orizzonte innanzi a me, si staglia una differente data di nascita, 20 marzo 1917, e dunque, con riferimento a quell’altra persona, nel mese andante, viene a comporsi e a rintoccare un intero secolo.

Ed è grande il desiderio, anzi il bisogno, nel sentire del ragazzo di ieri, di cercare di ripercorrere, almeno per qualche tratto, il suo purtroppo breve passaggio accanto alle persone care e famigliari e, allargando lo scenario, a tutti quelli che hanno avuto agio di conoscerla e frequentarla.

A connotare la sua figura, le precipue doti di dolcezza, empatia, semplicità, generosità, bontà, impegno, pazienza, spirito di comprensione e tolleranza, amorevolezza e mitezza, qualità o virtù, assimilate, con concorso quasi equanime, dai genitori Lucia e Giacomo. Ma, oltre che alla naturale vicinanza a questi ultimi, tracciando un arcobaleno ideale poggiato su una serie di generazioni, mi piace riandare pure alla consuetudine, di mamma Immacolata, ragazzina e adolescente, di compiere un affettuoso e intenso scambio suppletivo con la sua progenitrice nonna Raffaela, nella cui casetta, per lunghi periodi, si portava, puntualmente, la sera, restandovi a dormire.

La mia famiglia nel maggio 1949 (manca l'ultimogenito che nascerà nel dicembre successivo)
La mia famiglia nel maggio 1949 (manca l’ultimogenito che nascerà nel dicembre successivo)

 

Ciò, in parallelo, alla prestazione, da primogenita, di costanti cure verso i fratelli e le sorelle più piccoli e, ancora, dei primi aiuti a beneficio dei genitori, ai fini dell’espletamento dei lavori in campagna.

Intanto, avanzavano le sue stagioni, contraddistinte in via preponderante, fa niente se lo ripeto, da dolcezza, toni sempre concilianti, compostezza e sorriso sulle labbra e negli occhi. Andava, così, sbocciando e fiorendo una giovane donna esemplare e, insieme, di bell’aspetto e, perché tale, affatto inosservata e, a ogni modo, assai benvoluta fra coetanei e coetanee. Esito di siffatte qualità, ad appena ventun anni, passava già a sposarsi. A proposito della sua giovane età all’atto delle nozze, lei soleva talvolta rammentare, sorridendo, a se stessa e a chi la ascoltava, come la sua fortunata metà (mio padre), soprattutto agli inizi del ménage, se ne uscisse con l’evidenziazione, in dialetto salentino, “eri nna vagnona, mancu mpinnata bbona” (traduzione in italiano: “eri una ragazza, neppure ricoperta a sufficienza da piume, peli e (nel nostro caso umano) capelli”. Mpinnata o meno, nell’arco di dieci anni, ben sei maternità e lei, per ciò, intensamente e diuturnamente presa dalle fatiche, anche dure, per crescere la prole.

Quante fasce (all’epoca, non esistevano i pannolini) da avvolgere, svolgere, pulire e lavare, quanti lavandini di piatti, pentole e stoviglie, quante pappine da predisporre e somministrare, quanti bucati, piccoli e grandi (cofini), da eseguire.

Rivedo ancora, vivide, screpolate, talora quasi sanguinanti, le sue mani consumate e rovinate dal sapone e dalla liscivia (acqua del cofinu, a lungo portata a ebollizione insieme con strati di cenere per pulire e rendere bianco il bucato più grosso).

Purtroppo, i precari benefici di qualche pomata che il medico di famiglia le prescriveva, erano vanificati dall’impossibilità di fermarsi o di tenere riguardati gli arti, le necessità della famiglia non concedevano tregua, con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi, i tempi della guarigione si protraevano.

Intanto, lei si occupava anche di seguire i figli durante i loro primi impegni scolastici. Inoltre, in talune occasioni, non esitava a intervenire con la sua pacatezza per fronteggiare e controbilanciare qualche saltuario e inevitabile sbotto del capo famiglia, inducendolo, in breve, a quietarsi e a passare alle scuse.

Come era bello, per noi figli, man mano che ci avviavamo alla crescita, osservare il suo volto nei momenti di serenità, con gli occhi neri che brillavano sopra e accanto a un composto, e a modo suo accattivante, accenno di sorriso!

Fino a quando, poco più che quarantenne, una terribile frana non ebbe a caderle addosso, raggelando, d’intorno, tutti e tutto.

Ciò nonostante, durante la parentesi di circa sette calendari che si susseguì, pur tra sofferenze, preoccupazioni e comprensibili timori, giammai mutò il suo modo di comportarsi. Quasi, a voler, fortemente, continuare, come se nulla le fosse occorso, a incoraggiare e spronare, la sua famiglia, le persone care e gli amici, a non abbattersi, a guardare, invece, avanti e ad aver fede e fiducia.

A un certo punto, nel decorso del problema di salute, si aprì un precipizio, lasciandole, però, lo spazio di vedere due figli mettere su, a loro volta, una famiglia e la gioia di tenere, sia pure a fatica, tra le braccia, nel ruolo di madrina di battesimo, il primo nipotino, la cui vicinanza le allietò anche il Natale che precedette la sua dipartita.

Estate 1942 al Serritu, con nonni e zii e zie materni
Estate 1942 al Serritu, con nonni e zii e zie materni

Messi di ricordi, a lei correlati, si muovono, dal sentire inferiore alla mente, e si affastellano. Si tratta per me di un vero e proprio patrimonio ideale e morale, che, da sempre, tengo a serbarmi accuratamente dentro, come compagnia per le mie giornate, sia in rapporto al periodo più lungo già percorso, che riguardo al sentiero che mi resta davanti. Avverto, nondimeno, il bisogno di inserire, in questi appunti, la memoria di una particolare lettera, purtroppo, andata in seguito, non so come, perduta, che volli scriverle, verso la fine del 1965, da Firenze, dove mi trovavo, temporaneamente, per ragioni di lavoro. Con un tono colloquiale, in quel testo, mi soffermavo, principalmente, sulla circostanza che lei avesse concorso a formare e allevare una famiglia numerosa, con sei figli nettamente diversi tra di loro e, però, tutti contraddistinti da una caratteristica comune: il bene profondo, un’autentica devozione nei suoi confronti.

Ora, a così tanti anni di distanza temporale, mi sta sembrando di dedicarle una seconda lettera, che, non a caso, desidero chiudere con una piccola serie di documenti, ricordi e immagini che hanno a che fare con la speciale destinataria.

Con sincero, immenso affetto e amore, carissima mamma, anche a nome (lo faccio senza alcuna remora pure per loro), di tuo marito (mio padre) che si trova lassù con te e degli altri tuoi figli (miei fratelli e sorelle).

Annali di vita salentina: gli sposi di Monteruga

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di Rocco Boccadamo

Fino agli anni quaranta/cinquanta dello scorso secolo, la mappa della Penisola Salentina evidenziava nitidamente, sia sotto lo stretto profilo fisico e/o naturale, sia secondo il sentire e la conoscenza della gente, un particolare tratto di territorio, incuneato, quasi a lambirne i confini ufficiali, fra le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tale fazzoletto di Puglia era denominato – lo è ancora, per le connotazioni e gli sviluppi residuali – comprensorio dell’Arneo, un vasto agro sostanzialmente incolto, se non selvaggio, ricoperto pressoché interamente di una bassa e fitta macchia, latifondo posto in capo, dal punto di vista della titolarità, a uno sparuto numero di famiglie abbienti, principalmente ai Tamborino di Maglie.

A detta plaga, nelle condizioni d’abbandono in cui versava, si attribuiva, in giro, soprattutto cattiva fama, correlata al suo utilizzo, sovente, come nascondiglio o rifugio, quasi impenetrabili, da parte di figure (sarebbe, forse, più giusta l’accezione figuri) irrispettose delle leggi e delle ordinarie regole di civile comportamento e buona condotta.

Conseguente eco di ciò, in una sorta di tamtam surreale, la definizione di “briganti”, accennata a bassa voce, se si vuole approssimativa e, però, indicativa, veniva a correre, di tanto in tanto, con conseguenti singulti di timore e preoccupazione, sulla bocca e nella mente delle persone, diciamo così, corrette o perbene.

Altro riflesso, ad esempio, i trasportatori che, per mezzo di traini, dalle alte ruote a raggi, lunghe stanghe anteriori e sospinti da quadrupedi, recavano merci, prodotti e beni vari da Lecce a Taranto (allora gli autocarri erano rarissimi), nell’intento di evitare o ridurre i rischi di brutti incontri con i personaggi di cui sopra, evitavano di percorrere il tratto stradale Nardò – Avetrana, in corrispondenza della boscaglia più folta, durante le ore notturne. Per lo meno, se costretti a coprirlo al buio, non procedevano da soli, bensì in carovana.

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Nel periodo fascista, il Governo decise di porre in atto, un po’ in tutto il Paese, una serie di operazioni di bonifica agraria; per il territorio su descritto, affidò il compito alla S.E.B.I. Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazione.

Quest’ultima, rilevò una parte dell’Arneo dagli storici proprietari privati e aprì un pubblico bando rivolto specialmente all’indirizzo di contadini e braccianti del Basso Salento, proponendo ai medesimi di spostarsi dai paesi d’origine, dai miseri poderi singolarmente posseduti, dalle precarie giornate lavorative sotto padrone (quando c’erano), verso, precisamente, le terre da bonificarsi, poste, alla fine, appena un po’ più a Nord, nell’Alto Salento.

All’inizio, gli aderenti avrebbero contribuito direttamente, dietro regolare retribuzione, con l’ausilio di attrezzature e mezzi meccanici procurati dalla S.E.B.I., alle opere di sbancamento per la trasformazione della macchia in superfici coltivabili, dopo di che, a ciascuno, sarebbe stato assegnato un appezzamento (due o tre ettari, secondo la composizione del nucleo famigliare), dove coltivare specialmente tabacco, salvo piccole aree da impiegarsi per differenti varie colture destinate alle occorrenze domestiche.

Nel frattempo, con oneri parimenti a suo carico, la S.E.B.I. metteva a dimora molte migliaia di ulivi e vaste estensioni di viti, patrimoni che, poi, sarebbero passati in gestione, non ai coloni, bensì ai massari, cioè i responsabili delle preesistenti masserie acquisite dai privati e, in certo qual modo, fiduciari della società neo proprietaria.

In parallelo alla trasformazione dei terreni, si realizzavano stalle, silos, un frantoio, serbatoi per l’acqua potabile, uno stabilimento vinicolo e una grande manifattura, su tre piani, per la lavorazione del tabacco.

Veniva in tal modo a sorgere o nascere l’insediamento o borgo o piccolo paese di Monteruga, richiamato nel titolo di queste note.

Dopo essere stata dotata, oltre che delle strutture operative prima menzionate, anche di una trentina di abitazioni per i coloni arrivati da fuori e provvisoriamente sistematisi nelle vecchie masserie (senza contare quella, con qualche confort aggiuntivo, a uso del fattore e della scuola), Monteruga arrivava a rappresentare una realtà funzionale, residenziale e di vita laboriosa, umile e insieme civile. Vi risiedevano, fisse, circa duecentocinquanta/trecento persone, entità che poteva lievitare nei momenti di concentrazione dei raccolti e/o delle varie attività lavorative.

Le case erano composte di due stanze, con servizio igienico e giardinetto sul retro, erano servite da impianto elettrico e si rivelavano, con certezza, maggiormente vivibili rispetto all’alloggio, sotto forma di angusto monolocale, a disposizione di ogni singolo colono nelle masserie.

Nella fase finale del cantiere di edificazione, nel borgo sarebbe sorta anche una chiesetta, dedicata a S. Antonio Abate, che c’è ancora e, anzi, rappresenta la struttura conservatasi meglio.

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Volendo tracciare una carta geografica più ristretta e determinata, se l’Arneo si poneva, nell’insieme, alla stregua di fulcro, ideale e virtuale abbraccio, fra tre provincie, si può osservare come anche Monteruga detenesse, e annoveri pure oggi, una polivalenza di riferimento.

Sul piano della viabilità stradale, essa si affaccia, difatti, sul rettilineo provinciale che da S. Pancrazio Salentino (Brindisi) corre in direzione di Torre Lapillo di Porto Cesareo (Lecce), esattamente all’altezza del Km.7, punto mediano dell’arteria.

Dal lato meramente amministrativo, il suo territorio ricade, invece, nel feudo del Comune di Veglie (Lecce), anche se tale centro abitato si trova più distante, cioè a quattordici chilometri.

Tuttavia, per estrema precisione, va annotato che una piccola porzione dell’agro dove insiste il borgo di Monteruga, di là da un certo portone o arco del perimetro edificato, riguarda il territorio di Torre Lapillo, frazione di Porto Cesareo, quest’ultima località, da alcuni decenni Comune autonomo, prima, a sua volta, frazione di Nardò (Lecce).

A comprova del richiamato spicchio di territorio con differente competenza o appartenenza, è sufficiente rilevare che, a brevissima distanza, poche centinaia di metri, da Monteruga, è situato il grande circuito o anello o pista per prove e collaudi di autovetture, di pertinenza della casa automobilista tedesca Volkswagen, noto come Pista di Nardò.

Infine, sul piano religioso, Monteruga faceva capo alla parrocchia, incardinata nell’arcidiocesi di Brindisi – Ostuni, di Guagnano (Lecce), località distante, all’incirca, dieci chilometri.

Non suonino fini a se stessi e rasentanti la pignoleria, gli elementi di dettaglio anzi elencati, giacché, unicamente alla luce di determinati particolari, è dato di conferire ancoraggio e spiegazione logica a talune vicende, soprattutto a un episodio, vissute, in decenni ormai trascorsi ma non lontanissimi, dalla comunità già stanziale di Monteruga e di cui si farà rievocazione più avanti.

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Nata all’insegna, con i buoni auspici e sotto l’effetto di un poderoso e, perché no, benemerito stimolo impresso dalle autorità governative, nella pur delicata parentesi di transizione dello Stato dal regime monarchico a quello repubblicano, in altre parole fra la fase conclusiva dell’ultima guerra e il primo lustro immediatamente successivo, la realtà di Monteruga avrebbe dovuto recare tutti i presupposti per una lunga, interessante e proficua vita.

Si poteva, addirittura, intravvedere un suo positivo influsso sulle comunità tradizionali limitrofe, specie quelle di dimensioni limitate, che incedevano, indubbiamente, su binari di sviluppo sociale a scartamento ridotto, con traversine di povertà, indigenza e arretratezza più evidenti e accentuate.

Invece, non è dato di sapere come, forse per un’imperscrutabile e misteriosa nemesi storica, forse semplicemente sulla scia dei corsi e ricorsi delle cose, nonostante l’apparente ordinata gestione e amministrazione complessiva, la giovinezza del sito, intesa come buona salute, andò avanti a malapena per un quarto di secolo, un trentennio a voler abbondare.

Epilogo, fra il 1970 e il 1980, in concomitanza con l’abbandono, da parte della mano pubblica, del complesso, già fatto oggetto d’ingenti investimenti, e il ritorno del bene in testa a privati, purtroppo senza, almeno sinora, nessuna ipotesi o prospettiva concreta di rilancio di Monteruga e di una diversa destinazione d’uso, l’insediamento finì con lo svuotarsi del tutto.

E, da un pezzo, sopravvivono esclusivamente le tracce dei suoi edifici, manufatti, abitazioni, esercizi lavorativi, pochi gli immobili ancora integri, in prevalenza, invece, cadenti e/o diroccati e saccheggiati da mani incivili quando non vandaliche.

Per la precisione, un’idea di accettabile resistenza e mantenimento si riscontra unicamente nelle strutture del grande magazzino per la lavorazione del tabacco e della chiesetta.

Risultato, in sintesi d’immagine, un paese fantasma.

Si ricava la sensazione che nessuno abbia il desiderio o la volontà, non dico d’interessarsi, ma neppure di accostarsi a ciò che in quella plaga c’è stato e di cui, comunque, rimangono chiari segni e testimonianze materiali e tangibili ancora fresche.

Insomma, solo silenzio assoluto, in ogni senso, e abbandono.

Anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione e d’informazione, stampa e web, sono rarissime le occasioni in cui si parla di Monteruga.

Del resto, con la privatizzazione, è venuta a mancare la vicinanza delle amministrazioni locali contermini, in particolare del comune di Veglie competente per feudo; infine, partiti i fedeli, è cessata anche la presenza da parte della Chiesa.

Pochi e occasionali riferimenti si riscontrano in internet sotto la voce “Monteruga”, ove si eccettuino alcuni recenti saggi e/o articoli e due libri, uno a firma di Michele Mainardi e l’altro pubblicato da Adriana Diso.

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Si esaurisce qui la trattazione espositiva intorno a Monteruga, dalla nascita, alla sua purtroppo breve esistenza attiva e alla fine.

E, però, intende andare avanti l’applicazione analitica dello scrivente, da osservatore e narrastorie, con l’attenzione e la suggestione interiore spostate e orientate verso una serie di figure fisiche, esattamente due nuclei famigliari fra loto molto vicini, marittimesi d’origine, perciò compaesani, che, a suo tempo, hanno a lungo vissuto a Monteruga, ivi attraversando, da protagonisti di primo piano o testimoni prossimi e coinvolti, un’intensa serie di avvenimenti ed eventi.

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Nella natia Marittima, lo scrivente, classe 1941, iniziò piccolissimo, appena dopo l’ascolto degli iniziali accenni/riferimenti a tata (papà), mamma, nonni, a sentir parlare, talvolta, di trappiti (frantoi oleari), parmenti (stabilimenti vinicoli), tabacco (coltivazione delle relative piante a foglie verdi) e fieu (accezione, la più strana di tutte e, per ciò, a lungo rimasta per lui misteriosa e senza significato).

Si trattava di voci o echi, con associate immagini di gruppi di compaesani, anche cospicui, che lasciavano il luogo d’origine, in pratica emigravano, spostandosi temporaneamente in aree distanti (Brindisino, Tarantino, Basilicata). A ciò indotti, dal bisogno di accedere a opportunità lavorative meno precarie, con i cui proventi far fronte alle ordinarie necessità famigliari e, possibilmente, mettere da parte qualche risparmio che sarebbe stato poi utilizzato per preparare il corredo (dota) per le figlie femmine e costruire una nuova casa (frabbicu) a beneficio dei discendenti maschi che dovevano sposarsi.

Già avanti rispetto a detta, precocissima esperienza del narratore, nell’ambito della minuscola comunità marittimese, esistevano due determinati nuclei o focolari, che, di qui in poi, concorrono indicativamente ad animare le presenti note.

Il primo, dal cognome del capo famiglia A., nella sua massima composizione, sarebbe giunto ad annoverare otto membri viventi (più due nati morti o deceduti subito): Costantino e Ttetta (Maria Concetta) i genitori, Adele, Floriana, Clementina (detta Tina), Elvira, Settimia e Maria (quest’ultima, venuta alla luce proprio a Monteruga), le figlie, ben sei.

Due particolari sui nomi di battesimo, nello stretto rispetto delle usanze e tradizioni dei tempi passati: Floriana, a voler perpetuare l’appellativo del nonno paterno, Settimia, invece, a rimarcare che era, esattamente, la settima creatura venuta al mondo fra quelle mura domestiche.

Il secondo nucleo, dal cognome del capo famiglia P., comprendeva, da parte sua, i genitori Cosimo e Isabella e cinque figli: Attilio, Rita, Luigi (Gino), Emilio e Maria.

La famiglia A., volle porsi sull’esempio di due/tre altri gruppi di concittadini che già avevano preso l’iniziativa di lasciare Marittima e andare a vivere in masseria (fra S. Pancrazio Salentino, Veglie e Torre Lapillo).

Cosicché, attirata dalla prospettiva di attività lavorative sicure e continue (quanto all’uomo, nelle operazioni di bonifica e, una volta, le medesime, esauritesi, nelle coltivazioni agricole dirette, in primis il tabacco; circa le donne, in numero progressivamente crescente man mano che le figliole si facevano più grandi, dall’opportunità, non meno importante e redditizia, dell’impiego per tre/quattro mesi all’anno nella manifattura tabacco), fu la prima a partire, si era ancora in guerra, nel 1943, sistemandosi inizialmente nella masseria “Ciurli” e, in seguito, nelle nuove e più confortevoli abitazioni del borgo vero e proprio di Monteruga.

Analogo passo, a distanza di qualche anno, dopo un’esperienza di “prova” maturata dal giovane Gino, chiamato a lavorare da una compaesana, già loro vicina di casa, che dimorava da qualche tempo in una masseria, compì pure la famiglia P.

Nonostante l’impegno per l’adattamento nella nuova realtà, le prove della fatica e anche alcuni tristi eventi che sopravvennero colpendoli direttamente o indirettamente, non ebbero mai a pentirsi della scelta, i due gruppi di marittimesi, anzi erano contenti, si sentivano più liberi e aperti, in confronto ai ristretti limiti delle relazioni sociali e interpersonali nel paesello natio.

Per gli adulti c’erano le partite a carte sotto i portici coperti o nell’osteria – bottega di mescita del vino (puteca); riguardo specialmente ai giovani, in masseria, e ancor meglio a Monteruga, era loro dato agio di avvertire più ampi orizzonti, di crescere e di arricchirsi dentro, attraverso i contatti con i colleghi/amici emigrati, originari di altre diverse piccole località del Basso Salento (Diso, Vitigliano, Botrugno, S. Cassiano, Scorrano, Galatina).

Oltre al lavoro, anche duro, vi erano spazi per frequentazioni, svaghi, amicizie, sorrisi, affetti e amori; saltuariamente, balli in famiglia sulle note del grammofono, oppure, allargati, all’aperto, seguendo i ritmi dal vivo di complessi musicali o orchestrine che qualcuno dei residenti, con conoscenze nel settore, riusciva a portare a Monteruga.

In un’occasione, nel borgo, arrivò e si esibì addirittura il rinomato Gran complesso bandistico “Maestro Carlo Vitali” di Bari.

Fin qui, un quadretto in linee generali, ma limitato a taluni, ancorché tangibili, aspetti.

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Nei giorni scorsi, ho voluto incontrare quattro degli attori protagonisti dell’epopea, a voler dire esperienza concreta e reale, di Monteruga, viventi, attivi e lucidi: Floriana ed Elvira A., insieme con i rispettivi mariti, Gino ed Emilio P. (innamoramento, fidanzamento e, in un caso, anche celebrazione del matrimonio, avvenuti proprio nel minuscolo borgo).

A proposito delle coppie come sopra formatesi, Emilio ha tenuto a rilevare che, pur essendo più giovane, è stato lui, per primo, a mettersi con Elvira e, solamente dopo, il fratello Gino, ad allacciare rapporti con Floriana.

All’atto delle nozze, la sequenza temporale si è però rovesciata; per la precisione, gli sposi più anziani, per pronunciare solennemente il “Sì”, hanno fatto ritorno nella natia Marittima, mentre Elvira ed Emilio (guarda la combinazione, due nomi con le medesime iniziali) hanno voluto, a ogni costo, coronare il loro sogno a Monteruga, il 1° maggio 1960, in quella semplice chiesetta, facendo convenire lì, dal luogo d’origine, una vasta schiera di altri famigliari e parenti.

V’è una bella fotografia, ovviamente in bianco e nero, che immortala l’evento, con un piccolo mondo antico, trasferitosi, per festeggiarlo, nel piccolo mondo nuovo di Monteruga.

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A benedire le nozze, una figura assai benvoluta dalla comunità monterughese, don Giovanni Buccolieri, per tutti Papa Nino, originario di S. Pancrazio Salentino, a lungo preposto spirituale a Guagnano, prima da vice parroco e poi da parroco, e in mezzo alla gente del piccolo borgo agricolo da poco inaugurato.

Papa Nino si distingueva per la sua vicinanza e le premure all’indirizzo dei poveri e disadattati; si ricorda che, in un’occasione, arrivò a prelevare “furtivamente” un paio di scarpe (forse appartenenti a una persona abbiente) che erano nella bottega del padre calzolaio per una riparazione, per passarlo a un miserabile sofferente che era perennemente a piedi nudi.

Emilio, poco tempo dopo l’emigrazione da Marittima a Monteruga, si era arruolato in Marina, spesso si trovava di stanza a Taranto e faceva su e giù, per vedersi con la fidanzata, a cavallo di una Vespa (esiste un’altra istantanea, invero non comune in quell’epoca, con i due innamorati in sella allo scooter, a Monteruga, e, sullo sfondo, sorridente, Maria, la sorella di Emilio).

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In tema di fidanzati e mogli, i quattro amici intervistati mi hanno anche riferito del terzo figlio P., Attilio, il maggiore, il quale, nei primi anni cinquanta, da poco giunto a Monteruga e pur avendo una zita (fidanzata) al paese natio, s’invaghì di un’altra Maria, appartenente a una famiglia terza, quella di un massaro del borgo: quest’ultimo non era per niente favorevole al rapporto della figlia con un “comune” colono, sicché la coppia si determinò a compiere la classica fuitina, sposandosi rapidamente e restando a vivere, come a distanza di tempo avrebbero fatto anche Gino e Floriana, nella natia Marittima.

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Ecco, ora, le note non liete, per non dire tristi e dolorose, accennate prima.

Nel 1946, a ventuno anni, dopo una repentina e fulminante malattia, nel giro di otto giorni, venne a mancare, a Marittima, dove si era temporaneamente recata insieme con una sorella, Adele, la più grande delle sei A.

Nel 1954, cessò di vivere, a Monteruga, anche il genitore Costantino A., pure lui ancora relativamente giovane, le cui spoglie furono sepolte nel cimitero di Porto Cesareo, in Comune di Nardò, e tale destinazione finale, per la circostanza che il punto di Monteruga su cui sorgeva l’abitazione della famiglia A. ricadeva in quello spicchio di area rientrante, precisamente, nei confini comunali neretini.

Peraltro, in seguito, a distanza di una dozzina d’anni, i resti di Costantino A. furono trasferiti da Porto Cesareo al camposanto di Marittima, a cura della vedova Ttetta e con l’ausilio, io ero completamente all’oscuro di tal episodio, di mio padre Silvio, già a lungo impiegato all’anagrafe e Ufficiale dello Stato Civile e dunque, diciamo così, esperto in siffatto genere di pratiche.

Infine, pressappoco nella metà degli anni cinquanta, a Monteruga, rimase vittima di un incidente sul lavoro il giovane marittimese, lì emigrato, Pippi, che faceva il trattorista.

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Formavano un insieme di belle ragazze le sei (a un certo punto, purtroppo, rimaste in cinque) sorelle A., come si può vedere da un’altra fotografia.

Certamente, non restavano inosservate; mi è stato detto, da Elvira, che, quando, in mancanza ancora della chiesa a Monteruga, si recevano insieme a piedi, per ascoltare la Messa, a S. Pancrazio salentino (quattordici chilometri, fra andata e ritorno), sovente qualche abitante del paese, al loro passaggio, commentava: “Vardàti, ce belle piccinne ne manda Monteruga” (osservate che belle ragazze arrivano da Monteruga).

Oltre ai lavori in campagna e nella manifattura tabacco, le giovani A. si occupavano di altre attività, erano divenute esperte di cucito e ricamo (Clementina detta Tina, sartoria, Elvira e Floriana, nell’ordine, tombolo e telaio, con esatti attrezzi di legno, a tutt’oggi conservati, costruiti da un abile falegname di S. Pancrazio Salentino).

Avevano un discreto numero di clienti, non solamente a Monteruga, ma, pure, nelle località contermini.

Non a caso, la loro abitazione era denominata la casa delle mescie (maestre).

In punto, per mostrare il significato del termine dialettale fieu richiamato prima, a lungo rimasto misterioso per l’infante Rocco.

Fieu  sta per feudo, da intendersi nell’accezione di contrada o comprensorio o grande estensione di terreni. I marittimesi di sessanta/settanta anni fa, specie le donne, partivano dal paese per il fieu, nell’Alto Salento, per la campagna di raccolta, a mano, delle olive, che si protraeva lungo un arco stagionale di due/tre mesi.

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Nell’intento di completare appieno il mio giro d’orizzonte propedeutico alla stesura delle presenti note, in aggiunta ai vari dati raccolti qua e là e alle confidenze dirette dei citati quattro amici e compaesani già vissuti a Monteruga, ho avvertito la necessità di compiere personalmente una visita materiale all’interno del borgo.

E’ stato, invero, un giro veloce, sotto un cielo grigio e, tuttavia, sufficiente a farmi avvertire e assimilare una piccola catena di suggestioni che esclusivamente il contatto materiale poteva lasciare scaturire ed emergere.

Non mi soffermo sulla descrizione delle strutture edificate che mi si sono parate innanzi agli occhi in fedele aderenza con quanto già trovato descritto, unico particolare di novità un grande disegno a colori vivaci, moderno, tipico dell’oggi, sulla parete interna di una delle abitazioni utilizzate dai coloni.

Con lo sguardo, invece, ho raggiunto, soffermandomi, una collinetta che si erge a breve distanza del borgo, il “monte” la definizione datale dei residenti, su cui, stando al racconto di Floriana ed Elvira, durante le parentesi di svago, erano solite radunarsi compagnie di ragazze e giovani, al fine di cogliere fiori di campo e…sognare.

Dalle medesime fonti, ho anche sentito che, dalla sommità, durante le giornate terse, si scorgeva non soltanto la vicina distesa dello Ionio, ma anche, in direzione sud, il campanile del Duomo di Lecce.

Mi piace e, nello stesso tempo, mi pare doveroso, terminare questo cammino di scrittura dando sparute righe di spazio alla quiete, pace assoluta, aleggiante e imperante nel cuore, che, per sé, non cesserà mai di battere, della minuscola Monteruga, sensazione notevolmente dominante in confronto a tutti i restanti elementi posti d’intorno e a contorno, vuoi che siano semplicemente opera della natura, vuoi che rappresentino frutti dell’attività umana che una volta vi pulsava.

E il silenzio, nei suoi contenuti più profondi, a parer mio, può significare anche storia che travalica il tempo.

monteruga8

I due Antonio nella pescheria, cicorie e finocchi dal sapore di neve

boccadamo 

di Rocco Boccadamo

Anche stamani, veloce puntata, sempre piacevole e gradita, nei miei conclamati luoghi dell’anima, Castro e Marittima, con immancabile passaggio, e conseguente fugace sguardo innamorato, al cospetto dell’insenatura “Acquaviva”, minuscolo sito naturale di struggente bellezza.

Come accade di solito, la prima sosta della “Golf” è sull’uscio della pescheria per antonomasia della Perla del Salento, già “Adriatica” o “Cooperativa Adriatica”, da qualche tempo, invece, portante la denominazione di “Mediterranea” e gestita da (O)Ronzino.

Oggi, dopo circa una settimana di serio condizionamento, se non d’integrale fermo, arrecato alla locale gente di mare dalle eccezionali precipitazioni nevose, per di più, a tratti, accompagnate da forti soffi di tramontana, sì da assumere le caratteristiche di autentiche bufere, il bancone di vendita dell’esercizio si presenta ben rifornito, segno che gli amici castrioti che vivono di pesca hanno avuto agio di riprendere la loro attività.

Presenti numerosi avventori, a catturare il mio sguardo, in particolare, una cassetta di sontuose orate, un’altra di freschi calamari di grossa dimensione, apprezzabili quantitativi di triglie, merluzzi e ricciole e, poi, cefali, salpe, ombrine, pesci serra e boghe in abbondanza.

A parte il vasto assortimento ittico, durante la mia sosta da Ronzino, sfociata nell’acquisto di due calamari, un merluzzo e una salpa, sono stato colpito da un estemporaneo, simpatico duetto fra due amici pescatori, entrambi portanti il nome del Santo di Padova: Antonio ‘u (figlio di) Nunzio, un gioviale gigante con i baffi, capo barca del natante consortile qui chiamato “chianci” e Antonio, figlio di Adriano e per nonno un altro Antonio, un ragazzone/omone prossimo ai trent’anni, facente parte (forse, è l’elemento più giovane) dell’equipaggio dell’anzidetta “chianci”.

I due omonimi, oltre a lavorare a bordo del barcone, sono anche proprietari di battelli personali che, quando il mezzo grande è a terra o non esce, utilizzano per svolgere attività di pesca, diciamo così, individuale.

Nella circostanza, si trovano nell’esercizio commerciale esattamente in veste di operatori in proprio e si accingono a conferire il frutto del loro lavoro, riposto in semplici sacchetti di plastica.

Il turno, spetta per primo ad Antonio il giovane, il quale depone sul piatto della bilancia, in ordine, un certo quantitativo di ombrine e pesci serra, a seguire un po’ di scorfani ancora vivi e, alla fine e con tanta cura e accortezza, un prezioso esemplare (mezzo chilogrammo di peso) di cicala.

Trascorrono alcuni minuti per la consegna del suo pescato, non dimostra di aver fretta Antonio marinaio semplice, tanto è che, a un certo punto, l’altro, il comandante, sbotta, celiando sorridente: “Ma insomma, non finisci mai, tu, quanta roba hai preso?”.

E il povero, a schermirsi, confidando e lamentando che il ricavato di oggi sarà a mala pena sufficiente a compensare la spesa per la riparazione di un guasto occorsogli al salpa rete.

Il secondo Antonio, a sua volta, depone sulla bilancia un’ombrina e un pesce serra di medie dimensioni.

Con questa scena, termina la mia visita alla pescheria, passo, quindi, a bere un caffè alla “Chianca” e rimonto in macchina.

Appena un centinaio di metri più avanti, sfioro due altri castrioti, i quali, approfittando subito del sole piacevole e al fine di recuperare i giorni trascorsi inevitabilmente tra le mura domestiche, hanno appena intrapreso, come spesso fanno, una passeggiata lungo la litoranea. Scambio di saluti al volo, auguri per il nuovo anno e via.

Di lì a poco, sono all’altezza della mia cara insenatura “Acquaviva”, arresto d’istinto il motore e catturo, intensamente sino a lasciarmelo penetrare dentro, l’azzurro splendente della piccola distesa, incuneata fra i suoi due costoni fino a ieri chiazzati di manto candido.

Guadagno casa mia, compiendo anche una leggera scivolata, per fortuna senza danni, su un tratto di cortile ancora ghiacciato, per cambiarmi le scarpe e attrezzarmi con un paio di guanti che adopero per i lavori agricoli.

L’obiettivo è di cercare di recuperare, da minuscolo coltivatore diretto per la prima volta chiamato ad affrontare i postumi di una nevicata addosso alle coltivazioni orticole in un vicino giardino e alla Marina ‘u tinente, qualche pianta di cicoria e un po’ di finocchi.

Per buona sorte, le piante in discorso non sono state bruciate dal gelo e si presentano ancora in vita, seppure parzialmente ammaccate e con le foglie spiegazzate.

Ad ogni modo, mi va bene; mentre maneggio, ai fini della raccolta, un comune coltello da cucina, provo una sensazione strana e inedita nel contatto con quegli ortaggi frammisti alla terra, già rossa e ora umidiccia e abbrunitasi, e ai residui nevosi.

Tuttavia, a prevalere sono certamente sentimenti di contentezza e di appagamento per le immagini e i frutti concreti del mio odierno breve ritorno ai luoghi natii e/o delle vacanze durante le belle stagioni.

Idealmente e interiormente ben sostenuto, subito dopo mezzogiorno, riprendo la “Golf”, arrivando a varcare la soglia dell’abitazione cittadina puntualmente per il pranzo.

Boccadamo e il suo “Luca e il bancario”

Copertina 2016_colore:Coprtina Il geco (boccadamo)

Domenica 8 gennaio 2017, alle ore 19.30, presso l’Associazione culturale “Fondo Verri”, in Lecce, Via S. Maria del Paradiso 8/A (Porta Rudiae), nell’ambito della rassegna “Le mani e l’ascolto” 2016/2017, avrà luogo la presentazione dell’ultimo libro dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo “Luca e il bancario“, Spagine Fondo Verri Edizioni, dicembre 2016.

Insieme con l’autore, interverranno: Giuliana Coppola, giornalista, scrittrice e critica letteraria; Eliana Forcignanò, filosofa, poetessa e critica letteraria; Mauro Marino, operatore culturale e cofondatore del Fondo Verri.

Al giro di boa, su rotta 75

2017

di Rocco Boccadamo

 

Non per mero vezzo, ma del tutto spontaneamente, così mi viene di appellare, beninteso con ovvio riferimento soggettivo, il compimento dell’almanacco 2016.

Tuttavia, con pari schiettezza intellettuale, devo subito annotare che la cospicua cifra, integrante in senso anagrafico l’intestazione di queste note, non è da me avvertita alla stregua di un fardello che genera o deve necessariamente dar luogo ad ansimi e sospiri e/o come un campanello d’allarme di fronte a perigli e acciacchi ineludibili e inevitabili e/o come un avvicinamento al “fu” (passato a migliore vita).

Infatti, riguardo al progressivo assommarsi di primavera dal lato anagrafico, è da un pezzo che, dentro, vado dicendomi che io, ragazzo di ieri, sono, in fondo, senza età.

I giorni e le stagioni mi scorrono accanto leggeri, a ogni dischiudersi degli occhi, come pure durante l’ammirazione stupita, verso ovest, dei rossi tramonti salentini, mi sembra di registrare una conquista, di essere beneficiario di un prodigio.

In tal guisa, adesso, si succedono, dunque, i miei scalini esistenziali.

Di siffatta visione e del mio personale convincimento, ho di recente reso confidenza alla cara amica Giuliana, invero un po’ meno “ragazza di ieri” rispetto a me, e mi è sembrato che lei, sorridendo con la sua consueta dolcezza, annuisse e concordasse.

In tema di anni, capita sovente che mi si accostino pensieri e piccole riflessioni sulla circostanza che mio padre se n’è andato a pochi passi (mesi) dagli ottanta; mentre, il suo  genitore, ossia mio nonno Cosimo, classe mille ottocento settantanove, arrivo fino al mille novecento ottantadue, dunque, con un bagaglio di oltre centodue primavere.

Ad ogni modo, non mi pongo neppure minimamente l’idea di elaborare termini di paragone o di congetturare scadenze alla luce dei suddetti riferimenti al livello di predecessori famigliari.

Del resto, come prima ricordato, sono uno senza età.

Ritornando brevemente alla figura dell’avo paterno ultra centenario, la mia amica Alba, nata da una Boccadamo, ha appena voluto gentilmente inviarmi l’albero genealogico, da lei realizzato con paziente lavoro di ricerca, concernente un determinato ramo della gente marittimese portante tale cognome.

In conclusione, per quel che la riguarda e, allo stesso modo, mi concerne, così come mio nonno Cosimo e il suo, Costantino, erano primi cugini, i rispettivi bisnonni, Generoso Silvestro e Antonio Maria, vantavano il legame di fratelli.

Grazie di cuore, Alba, per l’originale è prezioso documento, amabilmente passatomi.

Ecco, in estrema sintesi e secondo gli aspetti e le vicende essenziali, come si è rivelato e dipanato il 2016, sia nel mio sentire, sia sotto l’aspetto di concreto coinvolgimento.

Riprendendo il titolo, nella sfera del mio mondo più prossimo, famigliari e altre persone vicine, paragono il 2016 a una sorta di gerla (è la seconda volta che mi scorga quest’accezione), invero assai affollata di avvenimenti, per di più dai colori diversi e anche opposti e contrastanti.

In primo piano, purtroppo, non sono mancati problemi di salute: ove, fortunatamente, risolti e superati, ove, tuttora presenti sulla scena, con sfide che continuano. Di riflesso, confidenze e consuetudini con figure specialistiche e strutture addette ai lavori.

Una serie di prove, insomma, e non liete, rispetto alle quali, tuttavia, c’è una costante diffusa: la ragionata consapevolezza dei protagonisti chiamati a farsene carico, che il primo rimedio o presidio curativo si trova in loro stessi, nella loro volontà e determinazione di non rinunciare e, anzi, di tentare sempre.

Carichi di preoccupazioni su più versanti, insomma, e, però, con relativi pesi alleviati dalla gioia e dal piacere di vedere crescere, sane e belle, le giovanissime leve famigliari, idealmente frutti dei campi esistenziali che noi adulti abbiamo cercato di creare e coltivare al meglio.

Come dire, tirando le somme, preoccupazioni ma anche consolazioni autentiche.

Frattanto, prosegue la rotta del ragazzo di ieri, a 360 gradi, con o senza la barchetta a vela dondolante nel porticciolo e/o filante sulle distese che fronteggiano le amate scogliere.

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L’altro ieri, nel primo pomeriggio, sotto una temperatura rigida per queste plaghe e nella vivacità dei soffi di tramontana, ho compiuto una puntatina a Castro, mio conclamato luogo dell’anima, al pari dell’insenatura “Acquaviva” e della natia Marittima.

Bevuto un caffè ritemprante allo “Speran” sulla piazzetta, dietro il bancone tre carinissime ragazze di cui una moldava, ho imboccato lo scalo delle barche per l’immancabile occhiata di fine anno al vecchio e al nuovo porticciolo.

In una delle grotte che si trovano da secoli scavate nei lastroni di roccia sulla sinistra della discesa, ho trovato il giovane amico Luigi S., pescatore e artigiano tuttofare e, d’estate, “barquero” (socio della cooperativa che gestisce lo stazionamento delle imbarcazioni da diporto), in compagnia di Nzino, quest’ultimo quasi mio coetaneo, il quale stava sistemando il suo conzo in un grande cesto di vimini. Alla mia domanda se si accingesse a calarlo, Nzino ha risposto  di no, “l’ultima volta l’ho fatto prima di Natale”. Poi, l’uomo è di getto passato a ringraziarmi sentitamente e calorosamente per il dono, ricevuto a casa, del mio libro “A Castro con il cuore” ed è stato per me assai gratificante sentirmi da lui definire “u meiu casciaru” (il migliore degli abitanti di Castro).

Quando, io, ho visto i natali non a Castro, bensì nella contermine località di Marittima.

A un certo punto, è arrivato anche Nino, il mio mitico pescatore di saraghi, nella circostanza, però, vestito non da lavoro ma con abiti di festa; con il suo abituale sorriso, “ad aprile saranno novantatré” mi ha confidato, non senza aggiungere, a seguire, “anche a me è arrivato il tuo libro, grazie”.

Proseguendo, sulla banchina interna lato mare del porto nuovo, ho scorto tre persone, Antonio, comandante della “chianci” (barca consortile), Luigi S. e un’altra di cui non conosco o ricordo il nome, impegnate in una conversazione ad altissimo volume, vertente sul numero di reti o altri strumenti calati in mare e anche sui rispettivi più recenti risultati in fatto di pescato.

Oltre la diga foranea, mentre sulla distesa liquida si palesavano nitidamente i segni della tramontana, in barba ad essi, Antonio S., pure lui, d’estate, “barquero”, sul suo battello calava a più riprese e, con l’ausilio del “salpa rete”, tirava su il lungo attrezzo di pesca a maglie.

Dopo, ho scelto di restarmene per un po’ seduto al sole e riparato dagli spifferi della tramontana a ridosso dell’alto muraglione verso nord.

Lì, via ancora a snocciolare pensieri, ricordi, esperienze, incontri, storie, immagini, un rosario di tasselli di umanità e dintorni dei più svariati.

Il congedo da quel luogo tanto caro è stato sereno e all’insegna del sorriso e accompagnato, altresì, dallo scontato proposito di presto ritornarvi.

Finendo, statti bene e lungo sonno, 2016, nonostante tutto, senza rancore; quanto a te, anno nuovo, ti aspetto e, mi raccomando, sii buono e bravo!

Un mare di auguri a tutti.

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