La Grotta della poesia, dell’acqua dolce o del tradimento?

di Armando Polito

Immagine tratta ed adattata da DronEzine ed. 5, 2014, p. 27 (https://books.google.it/books?id=Z4ETBAAAQBAJ&pg=PA27&dq=grotta+della+poesia&hl=it&sa=X&ei=sh5bVZesL4X6ywP274HIBw&ved=0CB8Q6AEwADgK#v=onepage&q=grotta%20della%20poesia&f=false)

 

 

Immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Roca_Vecchia#/media/File:Roca_Vecchia_-_Grotta_della_Poesia.jpg

 

Nei pieghevoli turistici viene presentata come una delle più belle piscine naturali del mondo. Non è mia intenzione contestare minimamente tale classifica: sarei uno stupido autolesionista, a differenza di quei geni profittatori, anche nostrani, che hanno deciso di farvi sbarcare a poca distanza la TAP, acronimo di Trans Adriatic Pipeline, ragion per cui non so per quanto tempo ancora quel posto (inteso anche come sinonimo di luogo …) potrà essere conservato e se lo stesso toponimo, con deformazione popolare di pipeline, non cambierà in Grotta delle pippe1

In fondo, dirà qualcuno, la nostra grotta è abituata a questo trasformismo onomastico, sul quale presento alcuni documenti (chiamarli tutti fonti mi pare esagerato) con il relativo link in calce.

a)

“Il nome di questa spettacolare piscina naturale ha una duplice storia: secondo alcuni deriva da “posia”, un termine greco-medievale che indica una “sorgente di acqua dolce”; secondo altri deriverebbe da un’antica leggenda secondo la quale una principessa bellissima era solita fare il bagno nella grotta e quando la notizia si diffuse, moltissimi poeti si recarono personalmente nella cavità naturale per comporre versi in onore della fanciulla (da qui il nome di Grotta della Poesia).”

(http://www.meteoweb.eu/2014/08/grotta-della-poesia-roca-vecchia-spettacolare-piscina-naturale-del-salento-tra-storia-e-leggenda/308428/)

b)

Da Cosmo Picca, Da ogni spiaggia verso nuovi orizzonti, Youcanprint, 2013

(https://books.google.it/books?id=iHXaAwAAQBAJ&pg=PT16&dq=roca+grotta+della+poesia&hl=it&sa=X&ei=ke1aVZfCOoacygOdioGoBw&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=roca%20grotta%20della%20poesia&f=false)

c)

5

Da Mimmo Ciccarese, L’Ulivo e la Mezzaluna, Simbiosis Book, 2014

(https://books.google.it/books?id=HYKkBwAAQBAJ&pg=PA14&dq=grotta+della+poesia&hl=it&sa=X&ei=sh5bVZesL4X6ywP274HIBw&ved=0CEgQ6AEwCDgK#v=onepage&q=grotta%20della%20poesia&f=false)

d)

Da Enzo De Carlo, Quell’ultima route nel Salento, Youcanprint, 2014

(https://books.google.it/books?id=m1ukBQAAQBAJ&pg=PT15&dq=grotta+della+poesia&hl=it&sa=X&ei=tVdcVcDtI8GBU52sgLAD&ved=0CDMQ6AEwBA#v=onepage&q=grotta%20della%20poesia&f=false)

e)

“Ad un posto cosí romantico non si poteva assegnare nome piú adeguato di quello che si trova ad avere, “Poesia”. Ma sull’origine autentica della denominazione del luogo è necessario dire, purtroppo, qualcosa di meno fantasioso e ancor meno… poetico! Un tempo, a quel che si dice, la “Poesia piccola” era un angolo di mare molto pescoso, tanto che era stata incorporata all’interno delle mura cittadine di Roca. Tra l’altro si fa cenno ad una nobile signora, Donna Isabella, che vi trascorreva lunghe ore del giorno a pescare. Sulla sicurezza del posto i Rocani ritenevano la “Poesia grande” l’occhio vigile del mare messo a guardia della città. Ma i marinai turchi, che dominavano i mari in quel tempo, attraverso quel budello sottomarino che congiunge la “Poesia grande” con la “Poesia piccola”, riuscirono a penetrare nella città, se ne impadronirono e la depredarono. Quando i Rocani superstiti fecero ritorno nella città distrutta, maledissero quel luogo che, da quel momento, fu chiamato, con parola greca, “prodosìa”, che vuol dire “tradimento”. Ma con il passare del tempo, la straordinaria bellezza del luogo determinò tra gli abitanti la trasformazione della parola “prodosìa” nella piú semplice e accogliente “Poesia”.”

Da Antonio Nahi, Il libro degli altri, Zane, Lecce, 2010).

Sorvolo sulla leggenda antica in a), famosa e tramandata da generazioni in b); contaminata con quella delle sirene in c)2 e della principessa bellissima  in d), anche perché è complicato risalire alla prima generazione ed improbabile è il suo ritrovamento in qualche tradizione scritta; mi riservo, invece, di dire alla fine qualcosa su quella riportata in e) e per ora  mi soffermo su posia (ho aggiunto l’accento per evitare equivoci). In caratteri greci sarebbe ποσία, qualificato tanto in a) quanto in b) come medioevale. In effetti nel greco classico la voce è assente ma compare come seconda parte di molte parole composte: ἀκρατοποσἱα=il bere vino puro; οἰνοποσία=il bere vino; ὑδατοποσία=il bere acqua; φαρμακοποσία= assunzione di un farmaco, φιλοποσία=passione per il bere, etc. etc.

Quasi sicuramente ci saranno molti altri vocaboli del greco classico aventi come secondo componente ποσία. Non guasterebbe se qualche studente del classico, leggendo questo post, mi inviasse, magari sotto forma di commento, l’elenco completo ricavato sfruttando le opzioni di ricerca consentite dalla versione digitale del vocabolario di Franco Montanari opzionalmente associata alla versione a stampa3.

Le voci che, non possedendo il dvd, ho ricavato “manualmente”, bastano ed avanzano, comunque, per concludere che nella lingua parlata ποσἱα esisteva perché sarebbe assurdo immaginare che una parola composta si possa essere formata se prima non esistevano singolarmente i suoi componenti. Nel nostro caso l’assenza di attestazioni scritte di ποσἱα è dovuta proprio alla sua genericità e semplicità semantica (il bere puro e semplice) che nelle voci composte ha ceduto il posto alla specializzazione del significato. Nella lingua parlata, dunque, *ποσἱα era l’atto del bere o la stessa, generica, bevanda e la parola era imparentata con πόσις=bevuta; ποτής=il bere, πότης=bevitore, tutti collegati con il verbo πίνω=bere. E alla radice ποτ- si ricollegano i latini potàre=bere (da cui potabilis=bevibile, da cui l’italiano potabile) e potio=bevanda (da cui l’italiano pozione).

Se è senz’altro plausibile che Grotta della poesia sia deformazione di un originario Grotta della posìa, non è da trascurare, tuttavia, un’altra ipotesi basata sulla leggenda riportata in e) e sulla quale, come avevo preannunciato, ritorno perché di essa abbiamo la testimonianza letteraria di Antonio De Ferraris, più noto come il Galateo. Precisamente nel capitolo II del De situ Iapygiae uscito a Basilea per i tipi di Perna nel 1553 l’umanista di Galatone scrive:  Extra oppidum in medio veteris urbis locus cavus est, profundus X passibus, ad quem mare recipitur per subterraneos meatus, ut mihi visum est, non manufactus, sed natura aut fluctibus excavatos, per quos a mari ad foveam cymbis itur. Locus est vitulis marinis frequens. Eam foveam incolae Graeco nomine prodosian vocant; nos proditionem possumus dicere. Fama est per hunc quasi cuniculum urbem captam ac deletam fuisse (Al di fuori della città nel mezzo della vecchia città vi è un luogo cavo, profondo dieci passi nel quale il mare entra attraverso passaggi sotterranei, come mi è sembrato, non artificiale ma scavato dalla natura e dai flutti, attraverso i quali si va in barca dal mare alla fossa. Il luogo è popolato da vitelli marini. Gli abitanti chiamano con nome greco quella fossa prodosian4; noi possiamo dire prodizione5. Si dice che attraverso questa specie di cunicolo la città fu presa e distrutta).

Grotta della poesia, insomma, potrebbe essere deformazione non di Grotta della posìa ma di Grotta della prodosia6 ed essere, perciò, il tentativo, riuscito e supportato dalla tendenza del popolo a fraintendere e/o deformare le parole, di rimuovere un’esperienza terrificante. Acqua o non acqua, poesia o non poesia, Dio non voglia, comunque che con la TAP il prossimo toponimo sia Grotta del tradimento, anche se non connesso col ricordo del Galateo. Non sarebbe, comunque,  una bella alternativa al Grotta delle pippe ventilato all’inizio.

___________

1 Volutamente nel significato osceno ma ulteriormente metaforizzato in quello di occasioni mancate. Pippa è forma antica di pipa ed è dal latino medioevale pipa=recipiente, canale, cornamusa. Per il tramite del francese pipe è passato tal quale nell’inglese e come primo componente del composto pipeline. Insomma, noi prestiamo le parole e gli altri si fanno i fatti propri; più idioti di così …

2 Qui, però, la contaminazione è giustificata dalla natura, per così dire, ibrida del testo (tra guida turistica, romanzo, repertorio folcloristico). Ne approfitto per ricordare che Salento è il titolo del capitolo X e Grotta della poesia quello del capitolo XI di La svolta, romanzo di Christian Miano, Youcanprint, Tricase, 2013.

3 Sarebbe interessante conoscere se, come e a qual fine tale versione risulta utilizzata laddove i ragazzi l’hanno spontaneamente, o su sollecitazione dell’insegnante, comprata.  Ancora più interessante sarebbe sapere come il preside-manager-impresario-tuttofare della riforma renziana (insomma un burocrate, ancor più di quanto lo fosse prima …) o chi per lui, magari totalmente digiuno di greco e capace solo di digitare sul telefonino messaggi a velocità supersonica, farà a giudicare … e non solo questo.

4 In caratteri greci προδοσίαν, accusativo di προδοσία=tradimento. Per προδοσία vale, passo passo, quanto detto prima per tutti i composti con ποσἱα: anche qui il secondo componente (il primo è πρό=a favore di) δοσία nel greco classico non è attestato, ma ci sono δόσις=il donare e δότης=donatore, tutti collegati con il verbo δίδωμι=donare. Sterminata, poi, la serie di vocaboli terminanti in –λογία (da λόγος=discorso).

5 L’originale proditionem è accusativo di proditio, a sua volta dal verbo pròdere=tradire, che ha gli stessi componenti della parola greca esaminata nella nota precedente: pro=a favore+dare=donare.

6 Così il Rohlfs al lemma Poesìa nel III volume del suo vocabolario: “in testi medievali Prodosìa, dal greco προδοσία=tradimento?”.

Peccato che a Prodosìa scritto, fra l’altro con l’iniziale maiuscola, non si accompagni nessuna citazione più precisa dei testi medievali in cui comparirebbe. Non vorrei che il Rohlfs si fosse fidato troppo ciecamente di qualche collaboratore che ha letto come Prodosia il Prodomia attestato nel glossario del Du Cange, il cui lemma di seguito riproduco con la mia traduzione in calce:

 

PRODOMIA, Tradimento. Patto tra abate ed abitanti di Anagni anno 1332 nel registro 69 Archivio regio carta 175: Questa volta siano concessi dal vicario di Anagni avvocati sicuri … per proseguire … la causa d’inquisizione pendente contro parecchi di detta università nella curia del signorre, sul fatto del tradimento.

Cinema d’autore a “Lo sguardo di Omero” di Roca Nuova, ospite la Turchia

di Paolo Rausa

 

ulisse di franco piavoli

 

Il Festival di narrazioni filmiche “Lo sguardo di Omero”, IV edizione,  dedicato ai luoghi, alle culture e alle identità, si svolge dal 27 al 31 agosto al Villaggio di Roca Nuova di Melendugno. Paese ospite è la Turchia. Annalisa Montinaro, la Direttrice Artistica, è entusiasta: “Quando circa dieci mesi fa abbiamo iniziato a lavorare al Festival, decidendo di dedicarlo alla Turchia, piazza Taksim, nella magica città di Istanbul, non era ancora rimbalzata al centro della Storia. Oggi le manifestazioni del fine maggio scorso ci raccontano di un cambiamento in corso nella società turca e offrono al nostro festival l’opportunità di approfondimento sulle dinamiche sociali e culturali nel Mediterraneo.”  Orgogliosa, a ragione, di aver contribuito a questa edizione, che approda nella sua casa: Roca Nuova, un sito di rara bellezza, immerso negli ulivi che sorge nell’immediato entroterra di Torre dell’Orso, un insediamento rurale fondato nel XVI secolo. “Lo sguardo di Omero”, il cantore di gesta ‘inenarrabili’ e delle peregrinazioni di Ulisse, si propone di valorizzare i linguaggi cinematografici, quali privilegiate chiavi di accesso tanto ai “paesaggi dell’anima” quanto all’anima dei paesaggi. Un festival di narrazioni filmiche, dedicate ai luoghi, alle culture e alle identità dell’Europa e del Mediterraneo, dove il “paesaggio” non è solo il contesto dove avvengono le storie ma ne è il protagonista, in una contaminazione vicendevole con l’uomo. Perciò “Lo sguardo di Omero” premia l’arte della narrazione cinematografica, che riesce a riscoprire le identità del Mediterraneo, un crogiuolo di culture e civiltà che hanno permeato lo spirito umano. Il Festival si articola in tre sezioni con relativi premi, di contenuto paesaggistico-antropologico, culturale e ambientale. “Aspettando lo sguardo di Omero, Il Paesaggio si racconta alla Luna” parte il 27 agosto alle ore 20,30 con lo spettacolo multimediale “Sguardi sul Mediterraneo: Miti Leggende Storie” con video e letture sceniche tratte dalle Metamorfosi, dalla Medea, dai racconti fantastici de “Le Mille e una Notte”, da altri significativi autori fino a “Istanbul” di  Orhan Pamuk. Segue “Chiamata alle arti”, dedicato a Tiziano Terzani, uno spazio dove le letture, le canzoni e le immagini sono finalizzate alla realizzazione di un film ispirato a “Un indovino mi disse”. Dal giorno dopo, il 28, partono le proiezioni nel Cortile di Ulisse e nella Saletta Penelope, ore 20,15. Molti i titoli interessanti che riguardano vicende umane e aspetti ambientali dell’oikoumene mediterranea, da “La sposa del nord (Voci da Tangeri)” di Elisa Mereghetti e Marco Mensa, (sarà presente la regista), a “Souvenir Srebrenica” di Luca Rosini e Roberta Biagiarelli, un film inchiesta sul genocidio bosniaco dell’11 luglio 1995. L’Afghanistan nella condizione delle donne in “Come pietra paziente” di Atiq Rahimi, “Whinspering memories” (Ricordi a bassa voce) di Mehmet Binay è un documentario su un matrimonio rurale in un villaggio della Turchia meridionale.

Iran, la scuola delle donne

L’ambiente sardo domina le scene di “Su Re”, regia  di Giovanni Columbu. Con “Home” di Yann Arthus-Bertrand si vedranno le immagini delle bellezze della Terra minacciate dall’attività umana. E poi l’uomo e il paesaggio in  “Pescasseroli-Storie di uomini storie di natura” di Michele Imperio, i figli degli immigrati, nati in Italia ma senza diritti, in “Sta per piovere” di Haider Rashid. “La transumanza della pace” di Roberta Biagiarelli (sarà presente la regista) sui paesaggi e i pascoli del Trentino e della Bosnia-Erzegovina; “Tradinnovazione-Una musica glocal” di Piero Cannizzaro è un viaggio in alcune regioni italiane, fra cui la Puglia, sulla musica etnica, “Jeans e Marto” di Claudia Palazzi e Clio Sozzani è la storia di uno studente etiope, Roba, sul valore dell’istruzione, mentre “Muffa” di Ali Aydin affronta il tema della libertà di opinioni in Turchia. Il 31 la premiazione dei film e i Radioderwish. Info: www.losguardodiomerofestival.it, – tel. 320 0631370.

Leggende salentine tra Giuggianello, Roca e Leuca

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Ho già scritto, su queste stesse pagine, che “siamo quello che eravamo”.

Noi, che per avere un regalo bisognava aspettare la Befana. Ed essere promossi a scuola. Quando a scuola (come ovunque) si andava a piedi. Con scarpe risuolate, e magari fornite di tacce (sorta di piccole mezzelune d’acciaio, sistemate sotto i tacchi e la punta), a salvaguardia dei punti nevralgici delle nostre preziose calzature. Le quali dovevano durare fino e perfino oltre la crescita di numero del nostro piede!, e che comunque resistevano – mai saputo come – ad ogni più frenetica scorribanda, o alle nostre interminabili partite di pallone fra i pini e sul piazzale della “Stanzione” ferroviaria.

Era quello un tempo contadino, ingenuo e puro, che ora appare anch’esso da leggenda.

I libri, legati con un mollettone di gomma, li avvolgevamo in fogli di carta-paglia, per conservarli meglio, dovendo servire poi ai nostri fratelli minori. Come le giacche, che venivano più volte rivoltate e passate in eredità.

Nessuno spreco insomma. Nessun consumismo. Nessun capriccio. Spesso le nostre merendine erano costituite da una semplice fetta di pane appena irrorata d’acqua e spolverata di zucchero…

Eppure eravamo felici.

Poi siamo pian piano (o forse troppo rapidamente) cresciuti. Da adolescenti, quando il primo sputnik si è levato verso lo spazio, sognavamo che un giorno avremmo percorso distanze enormi in un solo secondo, più veloci della luce. Infatti, dopo più di cinquant’anni, ci troviamo imbottigliati nel traffico, alla disperata ricerca di una via d’uscita o di un parcheggio.

Qualche anno prima dello sputnik, anche a Galatina, in piazza san Pietro, era stata presentata alla popolazione una scatola magica, che si accendeva premendo un pulsante: dentro c’era un uomo che dava le notizie, poi appariva un gregge di pecore con la scritta “Intervallo”, di nuovo un altro signore che spiegava come sarebbe stato il tempo di domani, e un altro ancora che faceva domande come a scuola, a persone adulte, però, che quando sapevano rispondere vincevano un premio in gettoni d’oro…

Ancora non sapevamo che quella scatola, col tempo, ci avrebbe rubato i nostri sogni, e le favole della nonna, e il gioco dell’oca, o il prodigioso ntartieni, che noi pensavamo fosse un oggetto misterioso, ed era invece il segnale segreto, quando ci mandavano a ‘prenderlo’ da una zia o da una cugina più grande, che dovevano appunto intrattenerci, senza darlo a intendere, e lo facevano inventando per noi cunti e leggende, che più belli non si può…

 

 Sono ritornato di recente a Giuggianello, paesino tra i più simpatici del nostro territorio, tra Maglie e Otranto, abitato da gente cortese, e con varie interessanti curiosità.

La più nota è sicuramente l’area primordiale detta dei Massi de la Vecchia, di cui ci siamo fugacemente occupati in altra occasione: un grandioso ‘parco’ naturale, costituito da una serie di blocchi di roccia giganteschi, di età preistorica, ubicato dentro un uliveto appena fuori il paese. Fra tali rocce ce n’è una particolarmente spettacolare, costituita da una sorta di ‘torre’ stratificata, a forma vagamente di fuso, detta per l’appunto lu Furticiddhu (cioè la conocchia, nella parlata locale), culminante con un masso oblungo e schiacciato, che dà l’impressione di vacillare sulla sommità, e che per questo viene anche identificato come “la pietra oscillante”.

Ebbene, in questo posto di per sé molto fascinoso, sono inevitabilmente fiorite alcune leggende. Intanto, qui pare che abiti da tempo immemorabile il famoso Nanni Orcu (che è notoriamente il marito della Vecchia), terribile personaggio dei cunti del Salento, che da bambini ci ha fatto tremare le vene e i polsi (e che anche da grandi è meglio non incontrare).

Ma l’indicazione più interessante riguarda la famosa acchiatura (termine equivalente a tesoro: dal vernacolo acchiare, trovare), composta da dodici lumache d’oro massiccio, deposto in un luogo segreto della campagna, e custodito notte e giorno dalla Vecchia in persona. La quale, se avrete la sfortuna (o fortuna) d’incontrarla il 24 giugno, giorno di san Giovanni, vi potrebbe porre tre semplici domande oscure e misteriose, con queste due opposte conseguenze: rispondendo esattamente ai quesiti, conquisterete la preziosa acchiatura e ve ne tornerete a casa liberi e ricchissimi; in caso contrario, sarete pietrificati per l’eternità, e farete parte anche voi della spettacolare collezione di quei Massi,che adornano le campagne di Giuggianello da tempo immemorabile.

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ph Donato Santoro

 A proposito di acchiatura, bisogna sapere che il tesoro più importante e grandioso del nostro Salento si trova ancora nascosto in un tratto di territorio del versante adriatico, compreso tra Roca Vecchia e Torre dell’Orso, ed è a disposizione di chi abbia per primo la ventura di trovarlo.

Per i ricercatori più audaci e avventurosi, diamo qui alcune utili indicazioni (basate su teorie storiche e scientifiche, che si tramandano di generazione in generazione), augurando che qualche nostro Lettore, dopo secoli di inutili tentativi, porti finalmente a compimento l’impresa, ricordandosi altresì di questo prezioso contributo fornito da Il filo di Aracne.

Va intanto tenuto in conto che la favolosa Acchiatura di Roca è sepolta a sud-ovest della Torre di avvistamento. A nascondere il tesoro, per tener fede ad un voto religioso, fu, nella notte dei tempi, la Regina Isabella, aiutata da sette suoi fedelissimi servitori. Per trovare il prezioso nascondiglio, fate attenzione ad un segnale preciso e inconfondibile: un arco di dodici grosse pietre, attraversato da una specie di freccia in legno d’ulivo. Nella direzione della freccia si conteranno trentatrè passi, dopo di che si potrà cominciare a scavare, fino a raggiungere la profondità di un metro. Se si troverà una croce di ferro, vorrà dire che si è nella direzione giusta, e bisognerà scavare per un altro metro. Dovrebbe a questo punto affiorare una tavoletta di bronzo con l’immagine a rilievo della Madonna di Roca, segno anche questo che il percorso è esatto. Si scaverà ancora per un altro metro, e in fondo al ‘pozzo’ si troverà finalmente un forziere pieno di monete d’oro, gioielli e pietre preziose di inestimabile valore, che potrete riportare in superficie, sempre che, ovviamente, riusciate a dare la risposta esatta ad un arcano indovinello che vi sarà posto dalla solita Vecchia de lu Nanni Orcu, arcigna guardiana anche di questo luogo…

Sempre a Roca Vecchia si narra ancora di una giovane Principessa che ogni giorno, all’ora vicina al tramonto, amava fare il bagno in una grotta, restando in acqua fino al sorgere della luna. Una sera, un Poeta piuttosto timido la vide di nascosto, e se ne innamorò. Così ne parlò con un suo amico, anch’egli poeta, e questi ad un altro, e quest’altro ad un altro ancora, finché tutti i poeti del Regno non accorsero alla Grotta per ammirare la Principessa e comporre i versi più sublimi in onore della sua bellezza.

Ancora oggi, quella grotta è appunto conosciuta come Grotta della Poesia, e si dice che basta che due amanti vi entrino una sola volta per innamorarsi poi eternamente.

 

 Restando in zona, diremo che al Capo di Leuca, fanno… capo diverse leggende particolarmente suggestive, e qualcuna anche piuttosto drammatica.

Una di esse narra che San Pietro, arrivando dall’Oriente, abbia messo piede proprio alla punta estrema della penisola salentina, e da qui abbia poi proseguito verso Roma nella sua opera di evangelizzazione delle popolazioni italiche. A questa sosta del primo Apostolo della Chiesa è strettamente collegata la tradizione che vuole che nessuno possa entrare in Paradiso se, da vivo oppure da morto, non abbia fatto pellegrinaggio per almeno una volta al Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae. Sicché, molte anime di buoni cristiani, che in vita non ebbero la possibilità di effettuare tale visita, si fermano a pregare nel Santuario della Madonna prima di volare in cielo.

Sempre nel Capo, dove giocano e più spesso si azzuffano i due mari Adriatico e Jonio, s’intrecciano altre storie fantastiche. Come quelle che riguardano schiere di feroci dèmoni, i quali, per invidia delle bellezze di quei luoghi (che all’origine erano splendidamente rigogliosi), hanno via via sconvolto la costa, erodendo scogliere, o rendendo aspro e spigoloso il paesaggio, o creando infine grotte ed anfratti inaccessibili, che tuttavia, senza volerlo, danno a questi stessi luoghi un’insolita selvaggia bellezza.

Proprio da quelle grotte frastagliate, un’altra leggenda vuole che, durante le notti di tempesta, specialmente in inverno, escano ancora oggi torme di streghe scarmigliate che, sciogliendo i venti di burrasca, agitando le onde e accendendo con le loro fiaccole il cielo di fulmini, si mettono a ballare per ore in un turbinio di canti lamentevoli e cupi, allo scopo di attirare nel loro irrefrenabile sabba qualche solitario viandante.

Per cui, se proprio non se può fare a meno, nelle tempestose notti d’inverno, meglio starsene a casa.

L’Islam e la Puglia/ 4. Sino a Lecce

Per i nostri lettori uno studio inedito di Vito Salierno, uno dei massimi esperti di islamistica in Europa. Oggi la quarta ed ultima parte dedicata alla cartografia ottomana della Puglia.

 

Otranto nella mappa di Piri Reis

di Vito Salierno

L’ultimo attacco turco in grande stile fu quello dell’agosto 1620 contro Manfredonia, che fu conquistata e tenuta per alcuni giorni dai soldati della flotta di ‘Ali Pascià. Durante quella razzia i turchi rapirono da un convento una ragazza, Giacometta Beccarino, che dopo varie peripezie diventò la moglie del sultano Ibrahim il Pazzo, al quale diede il primo erede maschio, ‘Osman. Nel settembre 1644,  Zafira, questo il nome turco di Giacometta, e il figlio si recarono alla Mecca per compiere il pellegrinaggio, ma la nave e il convoglio di scorta furono attaccati dai Cavalieri di Malta lungo il viaggio. Zafira e l’erede furono condotti a Malta, dove Zafira morì senza abiurare alla sua nuova fede islamica. L’erede ‘Osman fu allevato dai Cavalieri di Malta nella fede cattolica, prese poi i voti diventando fra’ Domenico Ottomano, incaricato di missioni diplomatiche in Francia dal pontefice Alessandro VII. Nominato Priore e Vicario Generale dei Conventi di Malta, il frate che non fu sultano morì il 25 ottobre 1676, in odore di santità, durante la peste a Malta, curando gli ammalati.

Due carte sono dedicate alla Terra di Bari: Trani (qal’e-i Trani), Bisceglie (qal’e-i Pezaye), Molfetta (qal’e-i Malfatta), Giovinazzo (qal’e-i Giovinaso), Bari (qal’e-i Pari), Monopoli (qal’e-i Monapoli). Le altre quattro relative alla costa della penisola salentina sono le più belle e le più accurate: era il tratto che più interessava la marineria ottomana e di sicuro la mèta di numerosi viaggi di Piri Reis e dello zio Kemal.

Piri Reis

Brindisi, denominata città (shehr-i Brindis), è raffigurata con il porto interno chiuso da catene, con ai lati le torri di guardia, e il castello fortificato (burj-i Brindis) su un isolotto all’imboccatura; lungo la costa le isole Pedagne e la torre del Cavallo: “È bene sapere che, in tutte queste coste di Puglia di cui abbiamo parlato, non c’è porto più famoso di Brindisi (Brindis, Pirendis). Infatti, davanti alla città, c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi. Fra questo porto e Valona (Avlona, in Albania) ci sono cento miglia, e da Valona ad Otranto (Otorante) sessanta miglia. Da Brindisi ad Otranto ci sono quaranta miglia. Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa sulla quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Le navi straniere non possono entrarvi; fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai capi delle catene sorgono due grosse torri con sentinelle e difensori. Non potendo dunque alcuna nave entrare, ci si lega con le cime alla sponda che dà a maestrale e ci si àncora. Dato che le navi straniere non possono penetrare nel porto a causa dell’ottima guardia che fa l’isola col castello dalla parte del mare, le navi che stanno fuori si ancorano senza dover guardarsi dai nemici. Quest’isola fortificata col piccolo castello si chiama Isola di Sant’Andrea (Santa Andriya). Le grandi barça possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord-ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono tre isolette che chiamano Pedagne (Pedanye)”.

Otranto (qal’e-i Otorante) è inserita nel suo contesto naturale: da nord a sud, Lecce (qal’e-i Leç) con il suo scalo (iskaliya Leç), il borgo di Roca Vecchia (qal’e la Roqa), Otranto, il borgo di Tricase (qal’e-i Triqaze) con l’omonimo scalo (iskaliya Triqaze) e il capo di Santa Maria di Leuca (qavo Santa Marya): “Fra i borghi di Otranto e Brindisi, cioè a venticinque miglia da Brindisi, c’è la torre (pirgos) di San Cataldo (San Qatalde) in un luogo per caricar le navi che sta sotto il borgo di Lecce (Deleç) situato a sette miglia nell’interno. È ragionevole chiamare questi luoghi ancora Puglie. C’è un muro pronto, fatto già in tempi antichi. La parte avanti a questa torre è riempita di sassi a fare da molo. Verso il mare ci sono delle secche che non si vedono e alle quali bisogna prestare attenzione. La zona, che va da queste secche al molo, è rocciosa. A sud-est del molo c’è il borgo di Roca (Roqa) che un tempo era una grande città, e ora c’è solo poca gente”.

“Da questo borgo verso sud-est si trova, a cinque miglia, Otranto, che è un borgo sulla riva del mare situato verso nord-est. Sulla punta che sta dalla parte est del borgo c’è una torre (pirgos) detta “fano” ed è chiamata anche Pian Qolsode [forse la Torre del Serpe]. Di fronte a questa torre c’è un’isoletta, e dalla parte di sud-ovest c’è il porto della detta Otranto, ma in realtà non è un vero porto, ed è adatto solo per piccole navi che legano le gomene al molo e si ancorano nel mare. Da quel porto alla città di Valona, che gli sta di fronte ad est, un quarto a nord-est, ci sono sessanta miglia. Inoltre a trenta miglia a sud-est del detto borgo di Otranto c’è il Qavo Santamaria; fra i due, a due miglia all’interno, c’è un borgo chiamato Tricase (Triqara o Triqaze) che significa tre case”.

“Sulla costa, in corrispondenza di Tricase, c’è un qargador [il porto di Tricase]; lì si caricano le navi. È un molo e, verso sud-est, c’è un alto monte che chiamano Monte Santa Maria. A sud-est di quel monte c’è una punta bassa con bassifondi che chiamano Qavo Santamaria perché sulla parte superiore di quella punta c’è una chiesa denominata di Santa Maria. Poi, a quaranta miglia verso ovest dal Capo Santa Maria, c’è Gallipoli di Puglia (Puliye Kalibusi). Su questa via ci sono molte secche, rocce e sassi che si protendono per tre miglia verso il mare, e bisogna fare molta attenzione; e su queste coste ci sono rocce a forma di porto di fronte alle quali, a tre miglia nell’entroterra, c’è un borgo che chiamano Losenti (Ugento). Da questo borgo a Gallipoli di Puglia ci sono otto miglia verso occidente”.

La città, che Piri Reis chiama sempre Gallipoli di Puglia (nella nostra carta shehr Puliye Kalibusi e altrove Puliye Gelibolusu) per distinguerla dalla Gallipoli (Gelibolu) di Turchia, la sua città natale, è riprodotta e descritta in maniera dettagliata: è collocata al centro di un promontorio proteso nel mare Ionio e di un’isoletta congiunta alla terraferma da un ponte. Durante la guerra d’Otranto subì un assedio dei Turchi, ma non fu conquistata; non poche furono le scorrerie barbaresche – una è citata nel testo di Piri Reis: “Gallipoli di Puglia, verso sud, sta su una punta bassa. Questa punta è in realtà un’isola, ma dalle rive alla detta isola c’è un ponte sul quale si passa, e fra le due c’è il mare e il porto. Ad ovest del ponte le barça possono ancorarsi bene. […] Questo borgo si allunga nel mare per un miglio e intorno è tutto mare. Nella parte nord del borgo ci sono due piccole isole. Alcune imbarcazioni viandanti legano le gomene a quelle isolette e gettano le ancore nel mare; ma, ad un miglio verso sud, quel castello ha un’isoletta bassa e allungata che è un buon ancoraggio. [Le barça] legano le gomene alla detta isoletta e gettano le àncore verso ovest-nord-ovest in venticinque tese d’acqua e si ancorano così verso nord-ovest. È un buon ancoraggio e le barça escono ed entrano da due parti”.

L’itinerario pugliese si conclude a Taranto (qal’e-i Tarente), collegata allora da un solo ponte, con il golfo del Mar Grande delimitato dalle isole Cheradi: al centro, la città con il castello quadrangolare costruito alla fine del Quattrocento; ad est, il Capo San Vito (qavo Santa Vi) con l’omonimo santuario, le due isole di San Paolo e San Pietro, e ad ovest il convento dei Cappuccini: “Il borgo di Taranto (qal’e-i Tarente) circonda da tutte le parti un’isola bassa. Dalle sponde a nord di Taranto alla città ci sono sei miglia; verso est le due parti sono collegate da rocce, ma c’è uno stretto attraverso il quale possono passare le kadïrga [navi a venticinque banchi con quattro uomini ogni remo]. Un altro stretto è ad ovest: su questo, fra il borgo e la costa di Rumelia, c’è un ponte su cui passa la gente. Oltre il ponte, c’è un mare simile ad un lago; le navi non possono passare dietro il castello e si ancorano nel mare di fronte al borgo con àncora doppia, un’àncora di fronte al castello, l’altra verso sud-ovest. A quattro miglia a sud del castello ci sono tre isole, ma fra due di esse le navi non possono passare a causa delle secche. Solo navi corsare vi si ancorano. Presso la punta verso nord-ovest dell’isola più grande che sta ad ovest, si allunga verso ovest una fila di rocce dalle quali bisogna guardarsi. Dal borgo di Taranto a Brindisi, per via di terra, ci sono trentacinque miglia”. (4. fine.

 

mappa di Piri Reis

Per concessione del quotidiano Il Paese Nuovo di Lecce.

 

La tre precedenti parti sono state pubblicate:

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/03/31/l%e2%80%99islam-e-la-puglia1/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/07/28/l%e2%80%99islam-e-la-puglia-2-nel-paese-di-puliye/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/04/lislam-e-la-puglia-3-nel-segno-di-piri-reis/

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