Dal Carnevale alla Pasqua. I riti della Settimana Santa a Gallipoli

di Paolo Vincenti

 

Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.

Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina.  Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione.  Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.

Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].

La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati.  È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.  I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].

Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.

Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.

In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].

Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.

A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.

Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.

La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.

Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].

Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].

Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.

I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].

Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.

La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani.  Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.

 

A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.

Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].

Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te li Vastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.

Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.

Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.

 

Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla.  La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.

Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.

Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].

Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].

Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24].  In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].

Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite.  “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si dicevascapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].

Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”).  Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].

A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].

Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].

Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.

Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].

Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

 

Note

     [1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.

     [2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.

     [3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.

     [4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.

     [5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

     [6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

     [7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.

     [8] Ibidem.

     [9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

     [10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [11] Ibidem.

     [12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

      [15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [16] Ibidem.

     [17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

   [19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [21] Ibidem.

     [22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.

     [23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.

     [24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.

     [25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

     [27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.  Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

     [28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

     [29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

     [30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

     [31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.

     [32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

     [34] Ibidem

     [35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.

 

Fede e tradizione nella settimana santa a Tutino

di Fabrizio Cazzato


La Settimana Santa è una delle ricorrenze dell’Anno Liturgico più sentita e celebrata nelle varie parrocchie e chiese confraternali della nostra città di Tricase. Il momento più suggestivo delle celebrazioni religiose esterne si ha nel corso della giornata del Venerdì Santo, con la processione dei Misteri avviata dalla chiesa di San Domenico; anche il Venerdì antecedente la Domenica delle Palme, quello denominato di Passione o dei Dolori, vede la comunità di Tutino recarsi in silenzioso raccoglimento con la statua dell’Addolorata alla chiesetta extraurbana della Pietà.

Grazie alla solerte organizzazione delle nostre Confraternite si può constatare una fattiva partecipazione ai santi riti degli iscritti ai pii sodalizi e dell’intero popolo tricasino.

Le sei Confraternite attive di Tricase contano ormai, rispetto al passato, pochi aderenti, per lo più anziani e il cambio generazionale è molto lento e faticoso. Tuttavia queste aggregazioni laicali cercano in tutti i modi di testimoniare la fede guardando al futuro, resistono alla globalizzazione culturale presente e non dimenticano il passato con le loro tradizioni e la loro storia plurisecolare.

Alcune di esse, fondate verso il XV secolo, quindi prima della Controriforma del Concilio di Trento (1545-1563), sono scomparse e forse riaffiorate nei secoli successivi.

La confraternita più antica di Tricase (e della Diocesi di Ugento) è la Congregazione laicale dell’Immacolata e San Nicolò di Tutino, già presente  nel “500 di cui il testo redatto  delle regole ai confratelli nel 1649 risulta essere il più antico che si possa conoscere delle Diocesi dell’estremo Salento.

Essa ebbe anche una forte azione moralizzatrice della sua attività religiosa, devozionale e penitenziale, espressa attraverso la preziosa rappresentazione della Passione di Cristo, raffigurata in ventiquattro formelle del bellissimo affresco recentemente restaurato, consistenti nella recitazione visiva dei testi evangelici della Passione di Gesù.

Questo tipo di devozione personal-popolare, che solitamente si svolgeva negli oratori confraternali, fu via via sostituite da vere e proprie performance recitative (tragedie), fino a giungere alle processioni con le statue raffiguranti i vari personaggi della Passione, Gesù Cristo e l’Addolorata.

Quest’ultima è la protagonista assoluta del Venerdì Santo. Con il lungo velo poggiato sulla testa e il suo voluminoso abito nero, sfila nel suo incedere lento tra le orazioni dei fedeli, per le vie della nostra città.
Sarebbe opportuno osservare con degna nota la statua “ a manichino “ dell’Addolorata conservata nella chiesa di San Gaetano di Tutino (sede della Venerabile Confraternita dell’Immacolata e san Nicolò), la quale appartiene alla vasta produzione della statuaria processionale pugliese e che ricalca in un certo modo i ricami a caratteri profani delle madonne vestite della Catalogna e dell’Andalusia spagnola.

Tale genere di statuaria è conosciuta col termine di “Madonna vestita” (tra queste ricordiamo la statua della Madonna Immacolata in S. Angelo e le statue della Madonna del Rosario e dell’Addolorata in San Domenico), in quanto leggera e maneggevole, destinata all’uso processionale e che veniva generalmente portata dalle donne.

Il più diffuso modello del genere è la statua della Madonna (ma ci sono anche statue di santi), realizzata in legno o cartapesta per quanto riguarda testa, braccia e mani, mentre il corpo è un semplice “manichino vestito”.

In prossimità dei riti pasquali, la statua viene sottoposta al rito della vestizione; l’evento commovente è un rituale privato e quasi segreto, privilegio di poche consorelle (e in alcuni casi di una sola). Le donne si riuniscono intorno alla statua spogliandola, togliendole l’abito giornaliero, facendole indossare (a partire dalla biancheria intima) gli abiti solenni e sontuosi della cerimonia.

L’abito  finemente ricamato in filo d’oro e pietre preziose dell’Addolorata di Tutino, indossato in occasione dei riti della Settimana Santa appartiene alla tipica tradizione sartoriale della manifattura salentina ottocentesca. Venne realizzato da tal Teresina da Taranto agli inizi del ‘900 e commissionato per devozione di Addolorata Alfarano.
Amorevolmente custodito dalla Confraternita l’abito della Vergine, in raso di seta nera, è costituito da un’ampia gonna e da un corpino; su di esso si sviluppa un ricamo in oro eseguito con punto steso e punto lamellare con disegni floreali a racemi e volute, di chiaro rimando alle forme rinascimentali. Sul petto è mostrato in evidenza un cuore trafitto da una spada in gemme rosse.

Il volto sofferente ed intenso ha un roseo incarnato (sicuramente lucidato a cera) e la sua triste bellezza è segnata da lacrime realizzate in resina, tanto da far brillare i suoi occhi in pasta vitrea; il lungo velo, poggiato sulla testa, nasconde una vera capigliatura legata a treccia. L’abito è completato da un velo in seta nera, realizzato nello stesso periodo, con puntina da piccola frangia in oro, sul quale si distribuiscono alcune stelle ricamate in filo oro a punto lanciato.

Grazie all’impegno e alla dedizione della signora Maria Meraglia,  con la collaborazione della confraternita stessa, in occasione della visita dei “sepolcri” del giovedì santo, è quasi un obbligo per i fedeli sostare in preghiera anche al cospetto della Pietà, allestita nella chiesa di san Gaetano a Tutino (foto in basso).

l’esterno della chiesetta di Tutino innevata (2017) (tutte le foto sono di Fabrizio Cazzato)

Riflessioni sulle reliquie della passione di Cristo della chiesa di Santa Maria del Tempio in Lecce

di Giovanna Falco

 

In occasione della Settimana Santa 2012 su Spigolature Salentine è stato pubblicato l’articolo Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie[1], dove elencando i frammenti sacri attestati nel 1634 da Giulio Cesare Infantino nelle chiese leccesi, si citano anche quelli conservati nella chiesa di Santa Maria del Tempio[2].

Approfondito l’argomento, è stato possibile apprendere ulteriori notizie inerenti reliquie e reliquiari custoditi, forse sino ad una delle soppressioni ottocentesche, nella sagrestia della chiesa dei padri Riformati, e mettere a confronto le testimonianze tra loro discordanti a causa della natura delle fonti: relazioni francescane e descrizioni che, pur se scritte da testimoni oculari, non possono essere considerate attendibili in mancanza di documenti che ne attestano la veridicità.

Infantino cita  «Il Santissimo Chiodo del Signore. Una Spina della Corona di Christo. Due pezzotti del legno della Santa Croce»[3]. Nel Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò la relazione di padre Gonzaga del 1646 riporta le «una Spina ed un Chiodo di Nostro Signore»[4], così come padre Giovan Battista Moles da Turi nel 1664: «una Spina Coronae Christi Domini Salvatoris nostri, unusque Clavus»[5]. L’abate Giovan Battista Pacichelli del 1686 enumera oltre al Chiodo «una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce»[6]. Negli anni Venti del Settecento, infine, padre Bonaventura da Lama elenca: «due spine della corona di Cristo Signore nostro, ed uno de’ chiodi che lo trafissero» e «una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore»[7].

Dal confronto si nota come tutte le fonti concordano sulla presenza del Chiodo, ma non c’è corrispondenza sul numero delle Spine (padre da Lama a differenza degli altri ne cita due), né sul legno della Croce. Le relazioni seicentesche del Chartularium, pur se successive alla Lecce sacra,non menzionano questa reliquia. Infantino, inoltre, fa riferimento a «Due pezzotti del legno della Santa Croce», ma solo «un pezzo» è menzionato da Pacichelli. Queste due ultime testimonianze differiscono da quella di padre Bonaventura da Lama:

«Essendo poi morto in questo Convento il Padre Antonio da Castellaneta Predicatore dei Riformati, l’anno 1675, lasciò una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore, datali da un Paesano, qual diceva con fede giurata, che soleva tenerla in petto Urbano VIII»[8].

Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg
Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg

A differenza dell’abate Pacichelli, che riferisce quanto gli fu raccontato durante la sua visita al convento, cioè che la reliquia era stata donata ad un frate «dalla Principessa Donna Olimpia Panfili»[9], padre da Lama cita “una fede giurata” probabilmente conservata nell’archivio francescano.

È stato possibile appurare che dal 1635 al 1645 fu vescovo di Castellaneta Ascenzio Guerrieri, già «Cappellano Segreto d’Urbano VIII»[10], canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin e precettore del cardinal nepote Francesco Barberini[11]. Dato che si è a conoscenza di almeno un altro manufatto simile a quello leccese,  «due particelle del Sacro Legno della Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo adattate in forma di croce»[12] donate da Urbano VIII (1623-1644) a Barberini, non è del tutto inverosimile supporre che il vescovo di Castellaneta abbia posseduto la reliquia pervenuta successivamente alla chiesa di Santa Maria del Tempio.

Nel 1629 il papa trasferì nella basilica di San Pietro alcuni frammenti della Croce, ribadendone il valore cultuale con la bolla del 9 aprile Ex omnibus Sacris Reliquiis:

«Urbano, estraendo da una Croce del Santo Legno della Croce, che si conserva nella chiesa di s. Ananstasia, e da un’altra parimente conservata nella Chiesa di s. Croce in Gerusalemme, alcune particelle, le fece includere in una Croce di argento, di preziose pietre ornata, e di questa fece un dono alla Basilica Vaticana, ordinando che fosse collocata fra le Reliquie maggiori, e mostrata ne’ consueti giorni al popolo, dopo la Sagra Lancia, e prima della Sagra Veronica, con Indulgenza plenaria ogni volta, che si mostrassero queste tre sacrissime Reliquie»[13].

La reliquia di Santa Maria del Tempio, dunque, potrebbe essere uno dei frammenti della Sacra Croce portati, secondo la tradizione, da san Girolamo e sant’Elena a Roma e custoditi, rispettivamente, nella basiliche di Sant’Anastasia e di Santa Croce in Gerusalemme. Accurate ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org
Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org

In qualche modo la storia della chiesa di San Giovanni in Gerusalemme si era già intrecciata con quella di Santa Maria del Tempio anche attraverso le vicende del Chiodo: Raimondello Orsini del Balzo, cui padre da Lama attribuisce la donazione della sacra reliquia, intorno al 1386 commissionò per la basilica romana il trittico reliquiario detto altare di San Gregorio[14].

Il Chiodo «assai grosso con la punta tagliata»[15] ove «si vedono stille di sangue»[16], all’epoca di Infantino era riposto «in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[17]. Data l’epoca di fondazione del convento (1432), nel 2012 si è attribuito l’atto di devozione a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Nel 1664 padre Moles scrive «Clavus repositus ab Excellentissimo Domino Joanne Antonio Baucio Ursino Comite Lytij ut supra»[18], perché gli assegna erroneamente anche la fondazione di Santa Caterina in Galatina[19]. Senza alcun dubbio Bonaventura da Lama reputa che il Chiodo fu donato con «la Pace, che teneva seco il Conte di Lecce, Raimondo»[20], morto nel 1407.

National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:National_gallery_in_washington_d.c.,_gian_lorenzo_bernini,_monsignor_francesco_barberini,_1623_circa.JPG
National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org

Non è dato sapere se l’atto di devozione sia da attribuire a Raimondello o ai suoi eredi, sta di fatto che, attenendosi a quanto tramandato dalle fonti, ci si chiede perché una reliquia reputata così importante sia stata offerta alla Madonna del Tempio e non alla basilica di Santa Caterina in Galatina fondata da Raimondello e dotata dagli Orsini del Balzo di numerosissimi frammenti sacri, tra cui una Spina, una scheggia della colonna della flagellazione e un’altra fede appartenuta a Raimondello[21], né alle leccesi chiese di Santa Croce (dove fu sepolta Maria d’Enghien) o di San Giacomo nel Parco (fondata da Raimondello)[22]. Forse la famiglia nutriva una particolare venerazione per una immagine miracolosa della Madonna del Tempio, attribuita nel 1647 da padre Diego Tafuro da Lequile a San Luca[23], conservata in «un’antichissima Cappella che per antica tradizione si dice esse stata de’ Principi di Taranto»[24], ricadente nei giardini del convento di Santa Maria del Tempio.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org

I leccesi nutrivano una forte venerazione per la reliquia, perché «per quem Clavum Cives Lytientium multa, et continua beneficie recipiunt»[25] e il «Venerdì Santo la sera, concorre tutta la Città, a baciare il Santo Chiodo, ed insieme la Croce, e le Spine, tutte quel giorno rubiconde»[26], riposte dopo il 1634 in un unico reliquiario d’argento, una croce scrive Pacichelli, un’Ostensorio secondo padre da Lama, che aggiunge:

«Nel Chiodo anche si vedono stille di sangue, né mai l’acqua toccata dal Chiodo per bisogno d’Infermi, che la chiedono con divozione, ha potuto per lo spazio di tanti anni cancellare, o generare, com’è solito del ferro, la ruggine»[27].

L’usanza di immergere nell’acqua il sacro Chiodo «per divozion de gl’infermi» è riportata anche da Pacichelli, che con disappunto ricorda «non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano»[28].

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie-2/

[2] Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979). Sulle reliquie in Santa Maria del Tempio cfr https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/  .

[3] G. C. Infantino, op. cit., p. 210.

[4] B.F. Perrone, Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò. Documenti inediti sulla presenza dei Frati Minori in Puglia e a Matera dal 1429 al 1893, p. 80.

[5] Ivi, p. 130.

[6] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, p. 76. Riguardo l’opera dell’abate Pacichelli cfr. su questo sito https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/  e La Terra d’Otranto ieri e oggi, 14 articoli di Armando Polito di cui l’ottava parte è dedicata a Lecce https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

[7] B. Da Lama, Cronica de’ Minori osservanti riformati della provincia di S. Nicolò, a cura di L. De Santis, Lecce 2002, 2 voll., vol. II, p. 56.

[8] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[9] M. Paone, op. cit., p. 76. Olimpia Maidalchini Pamphili (1592-1657) era la discussa cognata di Giovan Battista, papa Innocenzo X (1644-1652), e nel suo testamento devolse un congruo lascito affinché fossero celebrate messe presso le chiese dei Minori Riformati a Roma e a Viterbo, cfr. http://212.189.172.98:8080/scritturedidonne/Testamenti/Pamphili/pdf/MaidalchiniO.pdf .

[10]G.M. Crescimbeni, L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 274.

[11] Cfr. http://web.tiscali.it/enteliceoconvitto/moticense6/5Flaccavento.htm

[12]S. Crepaldi, Santi e Reliquie. Devozione popolare nella diocesi novarese, Cologno Monzese 2012, p. 147. La reliquia, dopo svariati passaggi di proprietà, nel 1717 fu offerta da mons. Lorenzo Gallarati alla comunità di Tornaco nella diocesi di Novara (cfr. Ibidem). Lo stesso pontefice devolse nel 1634 «una Croce di argento con un pezzetto del legno della Santa Croce» alle monache carmelitane della chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Firenze (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Tomo I, Firenze 1754, p. 324).

[13]G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici da san Pietro sino al felicemente regnante Pio papa VII, Tomo 9, Roma 1822, p. 222. È la reliquia con cui la mattina del Venerdì Santo in San Pietro è data la benedizione solenne. Puntuali notizie sulle reliquie maggiori della Basilica di San Pietro e la loro provenienza sono in F. Cancellieri, Descrizioni delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma 1818, pp. 144-152.

[14] Cfr. http://www.cassiciaco.it/navigazione/monachesimo/conventi/monasteri/italia/toscana/fivizzano/bosco.html. Per l’immagine del reliquiario cfr. http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=302.

[15] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

[16] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[17] G. C. Infantino op. cit., p. 211.

[18] B.F. Perrone, op. cit., p. 130.

[19] Cfr. Ivi, p. 129.

[20] B. Da Lama, op. cit., p. 56. Sulla suppellettile liturgica denominata pace, cfr. http://www.silvercollection.it/pace.html

[21]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/note-sulla-chiesa-e-sul-tesoro-di-s-caterina-dalessandria-in-galatina/

[22]Cfr. P.F. Palumbo,  LibroRosso di Lecce. Liber Rubeus Universitatis Lippiensis, 2 voll. Fasano 1997, vol. I, p. 61. Nella sagrestia del convento francescano era conservato anche «Il dito di San Giacomo Apostolo, che lo tiene in petto, in Statoa di mezzo busto» (B. Da Lama, op. cit., p. 56).

[23] Cfr. Cfr. B.F. Perrone, op. cit., p. 102.

[24] G. C. Infantino, op. cit., pp. 208-9.

[25] B.F. Perrone, op. cit., pp. 130-131.

[26] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[27] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[28] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

 

I riti della settimana Santa a Gallipoli (Lecce)

Hans Memling, Mater Dolorosa (1480)

di Paolo Vincenti

La prima festa che si tiene a Gallipoli è quella dell’Addolorata. A celebrare l’Addolorata è la confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria, nel venerdi precedente la Domenica delle Palme. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e, durante il rito religioso, viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi,  lo Stabat Mater, la cui musica venne composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dall’opera di Jacopone da Todi. Secondo Cosimo Perrone, studioso di storia locale, l’interpretazione dell’Oratorio Sacro, a Gallipoli, risale al 1697 e fu introdotto dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguito per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella chiesa delle Anime.

Come Oratorio Sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886 e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro. E’ tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria.

La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Fino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva questa famiglia.

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo.

Il Mercoledì Santo, vi è la tradizione della vestizione delle Addolorate, da parte di alcune confraternite come, in primis, quella della Misericordia. Vi sono numerose statue dell’Addolorata a Gallipoli e per l’esattezza: quella

Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro

Domenico Fiasella (1589-1669), San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana; 1616, Sarzana – Chiesa di San Lazzaro (da http://www.comune.sarzana.sp.it/citta/Cultura/)

di Giovanna Falco

Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando U Santu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].

Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.

Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].

A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.

Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.

A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.

Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.

Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].

I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.

Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].

Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.

Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].

Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].

Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.

Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.

Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.

la colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, innalzata nel 1682, opera del maestro muratore Giuseppe Bruno

Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].

Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].


[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.

[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.

[3] Cfr. http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/le_feste_bizantine_sabato_lazzaro-24858.html?p=598866. Il Sinassario del cristianesimo orientale, trova corrispondenza nel Martirologio Romano: raccoglie il profilo biografico e agiografico di tutti i santi del calendario bizantino.

[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.

[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).

[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.

[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).

[8] E. ROTUNNO, op. cit., p. 11.

[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.

[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).

[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.

[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.

[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.

[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.

[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).

La processione del venerdì santo a Maglie

di Emilio Panarese

 

Alla cara memoria di mio padre,

che per molti anni diresse

la processione del Venerdì santo

La cerimonia più interessante, che fa più folclore e colore e richiama a Maglie molti abitanti della provincia, è, senza dubbio, la processione del venerdì santo, una processione tipica, che non ha l’eguale nel Salento e che nell’arco di un secolo ha subito parecchie modifiche e rimaneggiamenti.

Della processione di ottanta anni fa ci è rimasta la descrizione di A. De Fabrizio; l’aprivano una ciurma di fanciulli scapestrati, coronati di spine, urlanti l’Ave Maria/ ora pro nobbi/ nobbi/ nobbi o tirantisi dietro un carro col calvario e tre croci.

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Emilio Alessandrì,1908)

 

Un cenno relativo a questo primo gruppo della processione si trova pure in un giornale magliese del 10 aprile 1893 (Il sabato, A. I, n.l): “Aprivano come al solito il funereo corteo mattutino del venerdì santo teneri fanciulli con la corona di spine sulla testa. Alcuni si battevano le reni con funi, altri trascinavano pesanti croci sulle spalle […], ripetuta tre volte la cara invocazione dell’Ave Maria, li ho visti, dinanzi al piazzale di una chiesa, genuflessi a gruppi sull’erba verde, e aspettare il passaggio del resto del corteo”.

Fanciulli genuflessi con croci (foto dell’inizio del secolo scorso)

 

Dietro, a lenti passi, “come i superbi del Purgatorio dantesco”, venivano dei giovani, curvi sotto il grave peso “di grosse pietre o di pesantissime croci o muniti di discipline[1] di ferro: [erano] peccatori pentiti, che un tempo, nudati fino alla cintola, s’insanguinavano le spalle a furia di battiture”; una manifestazione di spettacolo pubblico costituente un momento rituale di risposta alle incertezze della vita quotidiana da parte degli umili, che, “esasperando i concetti di penitenza e di umiltà, giungevano all’autoflagellazione” [2].

Del gruppo cicalante e scomposto dei fanciulli col capo coronato di rovi o di edera, da pochissimi anni, non è rimasto più nulla:

Ma petre a mmanu e nzarti, e ncurunati

d’edere torte, mandra de vagnoni

fiji de maramaja scarrufati

fàcune li ggiudei e li mallatroni

(Nicola G. De Donno)

che, muniti di sassi, battono forte, passando, a tutte le porte e ai portoni dei ricchi, ribelli ai comandi del capogruppo, il banditore Picci:

Lu Picci te cumanna li vagnòni

ca ncurunati cu lle corde a mmanu

vannu bbattènnu a ttutti li purtuni.

(Nestore Bandello)

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1980)

 

Dopo il vivace, festoso frastuono, a passi gravi, misurati, solenni, incedeva il secondo tronco: “due lunghe file di confratelli con le statue dei Misteri; indi una schiera di fanciulli, vestiti d’angeli, recanti gli strumenti della Passione, e di fan-ciulle che cantano, accompagnate dalla musica, un inno d’occasione; infine la bara di Cristo e la statua della Madonna [Addolorata] intorno a cui si affolla una moltitudine di donne velate di nero”.

 

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Questo secondo tronco ha subìto nel tempo notevoli modifiche: sono rimasti tra l’una e l’altra statua, i bambini e le bambine, che con passo incerto e traballante e con viso smarrito, procedono, imitando momenti della Passione o sotto il peso di lignee croci:

La croce an coddu ca pisa pisàra,

li carniceddi cuperti de sacchi

russi, li peticeddi intru lli lacchi,

de spine vere la curona mara.

(Nicola G. De Donno)

Fanciulli con i simboli della passione (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Gruppo delle coriste (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Le fanciulle, invece, velate di nero, che, accompagnate dalle note della banda, cantano il monotono, struggente ritmato lamento, riecheggiante il celeberrimo preludio intensamente melodico del 3°atto della Traviata verdiana, diventate giovanette, e passate dietro la bara di Cristo, rievocano l’abitudine dei virgines lectas puerosque castos, che cantavano il carme in onore degli dei.

Gruppo delle coriste, primo piano (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Delle parole dell’Inno[3]  (…È morto il mio Dio!/ È morto il ben mio!/ Un popolo rio/ tal morte gli die’/. Piangete, o pietre,/ spezzatevi al duolo/ [ … ] Quel sole che in cielo/ fa tanto splendore/ la morte l’ha reso/ già tutto squallore!) fu autore, stando alla testimonianza orale dell’avv. Guido Colucci, il prof. Gioacchino Pelegalli, che negli anni 1885-’86 insegnava nella 3a classe ginnasiale ed era prefetto o istruttore nell’annesso convitto. Luigi Visconti[4], immigrato a Maglie con la famiglia dal Salernitano, compositore e valente direttore d’orchestra della vecchia banda di Maglie, appassionato pucciniano, vi adattò abilmente la musica.

Le statue dei Misteri: Cristo all’orto, Cristo alla colonna, Cristo e Pilato, Ecce homo (opera del noto scultore leccese Eugenio Maccagnani), Cristo sotto il peso della croce incontra la madre, Cristo in croce, introdotte via via, col passare degli anni,

Parrocchia della Purificazione: le statue attendono di essere trasportate in processione; in primo piano La Pietà (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù alla colonna (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù condotto al giudizio tra Pilato ed un pretoriano (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Statua dell’Ecce homo dello scultore leccese Eugenio Maccagnani (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù incontra la Madre (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù in croce (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

sono portate a braccio dai soci dell’Associazione per la processione per il venerdì santo (più semplicemente oggi Organizzazione del venerdì santo), i quali, per l’occasione, indossano nere eleganti giacche da cerimonia sulla camicia inamidata e il cravattino nero a farfalla, così come nei versi del sonetto “La purgissione de li misteri” di Nicola G. De Donno:

Ggente tirata a ccira, ncravattata

e ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa

[. .. ]

“ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa” (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

E Ccristu, e sette spade de Maria,

cantilenati a nnenia scunzulata

su nn’aria a vvalzerlentu de Traviata

su’ rreliggione e ssu’ bburgheserìa

 

La Madonna Addolorata all’uscita dalla settecentesca chiesa (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

La Madonna Addolorata (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

o di Nestore Bandello

 

Cunfraternite in luttu e statue sacre

purtate da Majesi stracallati,

angileddi, cuperte funerarie,

la Croce de Gesù – chiangi ca pati-

Piccoli angeli (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Piccole Veroniche (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

e di Orlando Piccinno

Pàssane stendardi tutti mbardati,

pàssane fratellanze (.)

visciu pòsima, forkrore paisànu

mistu a ccose sante: imu sbajatu?

No! la ggente se carca ai marciapieti,

li bbasta cu sse custa. Pia canzone

le caruse càntane, citti li preti! …

 

La banda della processione al passaggio dalla piazza (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

e, infine, nel suggestivo quadro di Rina Durante:

[…] “questi ex contadini, con la faccia cotta dal sole, si calano dentro elegantissimi smokings, e sfilano tra due ali di popolo inginocchiato. tra i merletti neri delle donne, i gigli degli angeli e degli aspiratangeli, portando a spalla le figure della passione, livide, allucinate che sembrano uscite dalla fantasia di Goya, con i maggiorenti che marciano avanti, la banda che accompagna il Cristo, che ondeg-gia tra le ali degli angeli e i pennacchi dei carabinieri in alta uniforme, e non sembra più di stare a Maglie, ma a Siviglia. una Siviglia di molti secoli fa”.

La bara di Gesù scortata da quattro carabinieri in alta uniforme (foto di Roberto Panarese, 1986)

 

La processione[5], che nei primi anni del secolo, sotto la gestione di alcuni mercantuoli o ambulanti, era assai scomposta, divenne invece, una volta affidata alle vigili ed attente cure di un Comitato [6]  per la processione del venerdì santo, la più ordinata e la più importante delle processioni magliesi, la più popolare manifestazione della religiosità magliese insieme con quella dei SS. Medici, specialmente quando a dirigerla trovò abili ed esigentissimi presidenti come il maestro artigiano Giuseppe Panarese (padre di chi scrive), che, tranne i dieci anni passati in Africa orientale, fu presidente dal 1924 al 1968, e fu chi introdusse nella processione la divisa di cerimonia: smoking con petti lucidi, colletto inamidato, gilet bianco, cravattino nero a farfalla, bottone gemello, guanti di pelle bianchi, calze nere e scarpe nere lucide[7].

Il gruppo dei soci dell’Associazione della processione del Venerdì santo, che il 20 aprile 1924 firmò la scrittura privata col priore dell’Arciconfraternita delle Grazie (in basso al centro il presidente Giuseppe Panarese)

 

Questo innesto di matrice borghese nel folclore pasquale – come bene ha colto Nicola De Donno – fu storicamente significativo e non violento; un modo nuovo – secondo noi – di continuare e di aggiornare una tradizione e un tentativo, ben riuscito, di nobilitare con l’abito elegante, la scomposta processione di un tempo, di darle dignità e decoro, ed anche una rara occasione, concessa a contadini e ad artigiani e a commercianti, di ostentare la loro ascesa socio-economica con l’ap-propriazione di strumenti borghesi. La compostezza dignitosa dello smoking diventa parte integrante dell’esibizione, dello spettacolo.

Il presidente Giuseppe Panarese precede i soci che portano la bara di Gesù (1962)

 

L’incedere lento e compassato degli attori in abito nero, tra un silenzio funereo, che il lamento ritmato della banda rende estremamente solenne e carico di spetta-colarità, altro non vuole essere che una simbolica esegèsi della gestualità essen-ziale, della muta recita collettiva, della spontanea drammatizzazione popolare, una mimata decodifica dell’esasperata tensione religiosa per la morte di Cristo.

 

Alcune delle usanze magliesi del secolo scorso o dei primi decenni di questo sono cadute ormai in disuso.

Qui ricordiamo quella della sacra rappresentazione in piazza secondo antiche consuetudini diffuse in Umbria e in altre regioni d’Italia nel XV secolo, come riferisce il De Fabrizio: “Molti anni fa la processione si fermava in piazza, e il predicatore della quaresima faceva rappresentare una devozione, che per lo più terminava con una disputa tra l’arcangelo Michele e il demonio”.

Di questa usanza è rimasto il ricordo in un antico strambotto popolare di Muro, tramandata e raccolta da Piero Pellizzari, direttore del Ginnasio Convitto Capece tra il 1879 e 1’84 (La canzune de Vennardìa santu, “Lo studente magliese”, IV, 6-7, dic. 1882).

 

A mmenzu chiazza se cercâa piatate,

mancu la purgissione nci capìa.

Puggiara Ggesù Cristu cu ssoa Matre,

ogn’àngiulu lu jersu sou dicìa.

Sant’Àngiulu s’ìa misu pe’ ‘ucatu

la parte te lu populu facìa:

“Satana, nu ttantàre le persone,

cu nnu ffaci difridda la diuzione!”.

 

Frammento di quest’antica devozione o rappresentazione drammatica (su un palco o talamo, su cui si erigevano le mansioni, costruzioni di legno indicanti i vari luoghi dell’azione) doveva essere pure – secondo noi – il seguente canto popolare magliese, anonimo, in endecasillabi, pubblicato ne ”Lo studente”, III, 6 (4.4.1881), che vuole essere racconto, dramma e preghiera insieme:

 Na chiterra se fice lu meu Diu,

cu quattru corde la ncurdàau,

la prima e la seconda nu ttinìu,

la terza e la quarta se spezzàu.

La prima foe Giuda e llu tradìu,

la seconda foe Pietru e llu nagàu,

la terza foe Toma e nnu cridìu

ci nu vvitte le piaghe e lle tuccàu.

***

Chiange mo’ la Maria, pòara donna,

ca lu fiju è ssciutu a lla cundanna.

Nu llu spettati cchiùi ca nun ci torna,

è ssciutu sse prisenta a ccasa d’Anna.

Mo se partìa chiangennu la Madonna.

cu bbiscia ci lu tròa a quarche bbanna;

lu scìu cchiàu ttaccatu a nna culonna.

cu lla cruna de spine e corde ncanna.

Quattru palore disse la Madonna:

“Fiju, nnu tte canùsce cchiùi la mamma!”.

 

Un’altra usanza magliese scomparsa, forse perché in stridente contrasto con la mestizia e l’ora di penitenza della processione, era quella di esporre la merce davanti all’ingresso delle botteghe durante il passaggio della processione. Anche i macellai, che per tutta la quaresima erano stati costretti a tener chiuso il locale per la prescritta rigorosa astinenza, come nel detto Duminica su lle parme e all’autra duminica pane e ccarne, e che fin da quel giorno, cioè da venerdì, avrebbero potuto macellare la carne, che si sarebbe venduta non prima della resurrezione, ne mette-vano “in mostra  i tagli, fregiati di stellucce e di carta dorata”.

Pure caduto in disuso, nel primo decennio di questo secolo, fu il cosidetto trapasso, “per cui – riferisce sempre il De Fabrizio – si deve star digiuni da giovedì a sabato santo, con questo patto non molto lusinghiero: chi ci  lascia la pelle, si danna l’anima; chi la scampa si guadagna non so quali indulgenze”.

 

note al testo:

[1]Quest’usanza di far penitenza e di espiare le proprie colpe nel giorno di venerdì santo, con la flagellazione ritmica delle spalle con le discipline (cordicelle nodose a forma di frusta che avevano all’estremità stelle taglienti di rame o di acciaio o, come a Maglie e a Muro, anelli di ferro con punte) era assai diffusa in quasi tutta la Terra d’Otranto e risaliva a certe antiche ed insane pratiche dei Flagellanti o Battuti (Vattenti) o Saccati: E ppoi ncìgnane cu sse dèscene cu lle discipline a rretu le spadde, ca le pòrtane tutte spujacate, e ogne bbotta ca se dàune se zzumpane la carne e ssanguinìsciane tutti. E se pe ccasu c’è quarche nnamuratu e ppassa de nanzi a lla zzita, e nnu lu vite bbonu sanguinisciatu, scumbìnane, nu sse òlune cchiùi, ca dice ca nu ss’ave fattu ‘nore, percé ci cchiùi se scorcia, cchiùi ede bbrau. Per questo i Flagellanti, giunti sotto le finestre della loro innamorata, raddoppiavano vigorosamente i colpi, volendo provare che erano disposti a spargere tutto il sangue in suo onore; “Un colpo per il cielo e un altro per la terra!” (cfr. “Lo studente magliese”, IV, 6-7, Archivio Biblioteca Maglie).

[2]Carmelo Caroppo, Lo spettacolo subalterno nel Salento, in “Tempo d’oggi, IV (19)

[3]L’inno, di sedici versi senari, non sempre rimati, è diviso in due parti. Povero e inconsistente il contenuto, ma intensamente drammatica la musica. Dopo un “adagio quasi lento”, seguito da un “crescendo” di ottoni e percussioni e da un angoscioso ritornello, si conclude con malinconici squilli di ottone.

[4]Luigi Visconti, compose in musica nel 1888 anche i versetti dell’ Inno di Natale per la Congregazione di Maria SS.ma delle Grazie. Fu socio onorario, nello stesso anno, della Società operaia magliese “Patria e progresso”. Nel 1893 aprì in Maglie “una scuola di musica” assai frequentata. (Cfr. Emilio Panarese, Ottocento filarmonico magliese, in “Tempo d’oggi”, VII, 5)

[5]Stando ai documenti dell’archivio dell’Arciconfraternita delle Grazie, che si riferiscono agli anni 1849, 1850, 1876, 1906 e 1907 (per i quali rimandiamo all’Appendice), assai semplice è stata sempre la processione del venerdì santo sino al 1924: il trasporto della sola “barella di Cristo morto secondo l’antica consuetudine” e quello, nel 1850, della statua di Cristo all’orto era affidato per pochi ducati a dei devoti. Nel 1901 compaiono, per la prima volta, “quattro splendidi lampioni fatti costruire a Milano, del valore di L. 400” e, nel 1907 , una banda ben organizzata diretta dal maestro Giuseppe Miglietta.

[6] Secondo lo statuto, i soci eleggono il comitato, il quale, a sua volta, si sceglie il presidente, che dura in carica cinque anni e che può essere anche rieletto più volte. I soci, che negli anni 1924-30 erano solo 30, sono oggi 101. Ad essi si sono aggiunti 35 piccoli soci. Dal 1924 ad oggi il Comitato ha eletto come presidenti Giuseppe Panarese (anni 35), Ettore Morelli (anni 10), Otello Spertingati (anni 7), Oronzo Piccinno (anni 8), Mario Puzzovio (anni 5). I soci hanno partecipato, meno che negli ultimi anni, anche alla processione del Giovedì santo (visita ai sepolcri). In questa occasione usavano il cravattino bianco. La processione del venerdì santo si è svolta sempre di mattina; di pomeriggio, dal 1951 in poi. Da alcuni anni al gruppo delle statue si è aggiunta quella di Cristo e Pilato.

[7]Cfr. la scrittura privata del 20.4.1924, firmata dal priore della Confraternita delle Grazie, Augusto De Donno, e dai trenta soci dell’Associazione della processione del venerdì santo: i firmatari si obbligavano dal 30 aprile 1924 sino al venerdì santo del 1930, senza interruzione “di portare il simulacro di Cristo morto, di lasciare a beneficio dell’Arciconfraternita un obolo annuale di L. 300 nella prima domenica di quaresima, di donare tutta la cera portata in processione e la bara nuova montata al completo in quell’anno”. Si addossavano inoltre tutte le spese occorrenti “per la musica e il canto, secondo l’antica tradizione”.

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.366-371 – Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

Gallipoli e il suo Malladrone

Il Malladrone di Gallipoli
Il Malladrone di Gallipoli

di Francesca Fontò

La chiesa di S. Francesco d’Assisi, in riviera Nazario Sauro a Gallipoli, è la più antica del centro storico. La tradizione popolare ne attribuisce la fondazione allo stesso S. Francesco nel 1217.
La chiesa venne eretta nel XV secolo dai francescani ed è stata interamente rimaneggiata alla fine del XVI sec, con l’arrivo a Gallipoli dei frati riformati. La facciata in carparo è del 1736. L’interno maestoso è scandito da tre navate, interamente abbellito di stucchi nel primo ventennio del ‘700.
Questa chiesa è molto cara ai gallipolini che la chiamano la “Chiesa tu ‘Mmalatrone”- la chiesa del cattivo ladrone- o, più semplicemente, “ Mmallatrone”.
Entrando in chiesa, alla nostra destra si apre la cappella funeraria degli spagnoli che apparteneva alla famiglia Gorgoni, ceduta alla moglie di don Giovanni Della Cueva, Anna Massa Capece (baronessa di Collepasso) nel 1680 con il vincolo di non spostare il dipinto di San Francesco, ivi presente, in nessun’altra chiesa di Gallipoli.
Il regio castellano di Gallipoli, Giuseppe Della Cueva, vi fece collocare all’interno un Cristo Morto in legno, con ai lati il buon ladrone, Disma ed il cattivo ladrone, Misma, entrambi crocifissi.
I ladroni sono delle figure abbigliate in stoffa, con testa, mani e piedi in legno. La leggenda narra che il peccato del Mal Ladrone fosse così intenso da corrodergli non solo l’anima, ma anche le vesti che realmente si laceravano, tanto da dover essere periodicamente sostituite.

La religiosità dei gallipolini si respira ancora oggi, soprattutto nella Settimana Santa e nelle ricorrenze dei santi protettori rigorosamente onorati e festeggiati ed è sorprendente la riverenza per il Malladrone, materializzazione della tentazione e del demonio per antonomasia. I delinquenti sono per sfortuna, nella storia più prestigiosi e più conosciuti, ecco perché tanta gente da diversi luoghi è incuriosita dal Malladrone, il nostro “illustre concittadino”, che oltre venti secoli fa per superbia non volle ascoltare il Signore mostrandosi disdegnoso, rabbioso e saccente.
Anche Gabriele D’Annunzio, che senti parlare del “Mal ladrone” di Gallipoli volle vederlo, ma nel cuore della notte e con una candela che illuminava il solo volto, ne rimase così colpito da definirlo di orrida bellezza.
Il ghigno di Misma, secondo la credenza popolare, sarebbe costituito dai denti veri di un condannato a morte(anche se nel recente restauro si è constatato che i denti sono di legno) ed è così malefico che va riconosciuto il merito dell’ignoto artista, per aver raffigurato in maniera così efficace il peccato e la cattiveria di Misma.

L'altro ladrone
L’altro ladrone

La chiesa dopo oltre 10 dieci anni di lavori è stata riaperta al culto nel settembre del 2005 e durante il restauro si è avuto modo di verificare che il muro su cui poggia la croce del “Mal ladrone”, essendo più esposto all’azione del mare, viene attraversato dalla salsedine che, invisibile, ne deteriora le vesti, anche se noi preferiamo restare ancorati alla credenza popolare che vuole identificare nel logorio delle vesti di Misma, il logorio dell’anima corrosa dal peccato.

Il cammino dei Perdoni (quarta ed ultima parte)

Il Pellegrinaggio ai Sepolcri

Posta di perdoni in adorazione davanti al repositorio

 

Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri sta per avere  inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.

Dal portone principale della Chiesa del Carmine, in piazza Giovanni XXIII, escono le poste dirette a far visita ai Sepolcri allestiti nelle chiese della città vecchia; le poste dirette ai Sepolcri della città nuova escono invece dall’ingresso della sagrestia, in via Giovinazzi. L’uscita della prima posta, è fissato per le ore 15 del Giovedì Santo, seguono poi a intervalli regolari le altre coppie di perdùne – in tutto sono circa cinquanta. I confratelli avanzano a passo lentissimo, alzando quel tanto che basta, ora l’uno, ora l’altro piede, per farlo ricadere quasi sullo stesso punto della strada, accompagnandosi con un tipico, estenuante, dondolio  chiamato ‘a nazzecàte. Il completamento dell’intero percorso può richiedere così diverse ore – pur essendo relativamente breve – e il Pellegrinaggioprosegue per tutta la serata fino alla mezzanotte, per riprendere poi la mattina presto del Venerdì Santo e concludersi intorno alle undici. Può capitare, la mattina del Venerdì Santo, che i confratelli del Carmine incrocino quelli dell’Addolorata, ancora intenti nella loro Processione, uscita la mezzanotte del giorno prima dal Tempio di San Domenico nella città vecchia; quando ciò avviene si genuflettono in segno di riverenza davanti alla Croce dei Misteri e alla statua dell’Addolorata.

L’ultima posta ad uscire dalla Chiesa del Carmine nella tarda serata del Giovedì Santo prende il nome di ‘u serrachiése ad indicare il compito di chiudere, serrare, le chiese per l’approssimarsi della notte. Nicola Caputo – noto studioso e appassionato cultore delle tradizioni tarantine, che ai riti della Settimana Santa ha dedicato numerose opere – avanza a tal proposito una suggestiva ipotesi: il termine serrachiése potrebbe derivare anche da “serraschiere” con il quale si indicava nell’impero ottomano il comandante supremo delle forze armate che ordinava l’uscita e, per l’appunto, il rientro delle truppe; così da serraschiere si sarebbe passati, nel nostro caso, aserrachiese (Cf  N. Caputo, I giorni del Perdono, Taranto 1995, 40).

Chiesa del Carmine, particolare del campanile

 Le chiese da visitare nel giro della città nuova sono: San Francesco di Paola, SS. Crocifisso e San Pasquale. Le poste dirette ai Sepolcri della città vecchia visitano invece le chiese di San Giuseppe, San Domenico, Basilica cattedrale (San Cataldo) e Sant’Agostino. Il loro numero si è notevolmente ridotto rispetto al passato, molte di esse infatti sono state distrutte o trasformate in Rettorie, per le quali non è concesso allestire il Sepolcro. A partire dagli anni sessanta discutibili scelte di politica industriale a livello nazionale e una certa miopia da parte degli amministratori locali nel valutare il peso delle loro decisioni in fatto di gestione del territorio, hanno determinato lo spostamento in massa della popolazione tarantina dalla città vecchia verso aree periferiche, del tutto anonime e prive delle necessarie strutture di carattere associativo – i famosi “quartieri dormitorio”. La città vecchia, abbandonata da gran parte dei suoi abitanti, ha subito così un lento e inesorabile declino, il cui esito è ancora oggi davanti agli occhi di tutti, nonostante i numerosi progetti di recupero urbanistico e i tanti cantieri aperti nel corso degli anni. Gli ultimi importanti interventi di risanamento e riqualificazione urbana del centro storico di Taranto fanno però sperare in una sua rinascita, ne è esempio la riapertura, anche se non ancora al culto, di molte delle sue splendide chiese.

Cambio delle poste per l’adorazione

Attualmente è solo la Confraternita del Carmine a compiere il Pellegrinaggio ai Sepolcri, ma in passato esso veniva svolto da tutte le confraternite tarantine ancora attive. Facilmente i numerosi e colorati cortei si incontravano lungo il percorso, e quando ciò avveniva i confratelli si salutavano con ‘u salamelìccheil salamalecco –  parola di origine araba che si rifà all’espressione al-salām ʿalaykum – “la pace sia con voi” – che in ambito islamico costituisce la maniera appropriata di salutare un proprio correligionario. Una sorta quindi di omaggio reciproco ancora oggi praticato dalle poste quandosi incontrano nelle chiese o per le strade della città: nell’incrociarsi le coppie di perdùne si tolgono i cappelli e si salutano sbattendo contro il petto i rispettivi rosari e medaglioni.  Se si considera poi che ogni sodalizio portava in processione la troccola – strumento di legno finemente lavorato e  intarsiato che, se opportunamente agitato, produce il caratteristico suono, vero e proprio simbolo dei riti della Settimana Santa tarantina – si può ben immaginare il frastuono che si poteva avvertire per i vicoli e le stradine della città vecchia. A tal proposito in un atto notarile del 1708 si legge che il Vicario Capitolare fu addirittura costretto a proibirne l’uso (Cf Caputo, I giorni della Perdono, cit.). Nel 1875 fu invece l’allora sindaco f.f. Domenico Sebastio  ad intervenire con un’ordinanza, ma non ne cavò nulla in quanto quell’anno la troccola uscì regolarmente (ivi.).

Per antico privilegio, sancito addirittura da sentenze di tribunale, ai confratelli del Carmine spettava – e spetta tuttora considerato che tale diritto non è mai stato abolito – la “dritta”, le poste del Carmine avevano cioè la precedenza su tutte le altre per quanto riguardava l’adorazione davanti al Sepolcro: al solo affacciarsi in chiesa dei confratelli del Carmine le coppie delle altre congreghe, anche se assorte in adorazione, si sarebbero dovute prontamente alzare per lasciare loro il posto.

I Sepolcri sono impropriamente chiamati così: infatti non rappresentano il luogo in cui fu deposto il corpo di Gesù la sera della sua crocifissione – che avvenne di venerdì – ma vogliono ricordare l’istituzione del sacramento dell’Eucarestia da parte del Cristo durante l’Ultima Cena  – per l’appunto il Giovedì Santo. Tutto intorno agli altari delle chiese che li ospitano vengono preparate importanti scenografie, utilizzando per lo più fiori freschi, candele, stoffe colorate, fondali dipinti, piccole statue in cartapesta ecc. In passato non era raro l’uso della cera che, abilmente modellata,  donava all’insieme un’atmosfera più calda e di maggiore suggestione. Non mancano i cosiddetti piatti del Paradiso: bassi contenitori in cui sono stati fatti germogliare, al buio, grano, orzo e, a volte, leguminose. Le pallide, esili, piantine vengono poi avvolte da fogli di carta crespa colorata e collocate sugli altari. In passato, trascorsa la Settimana  Santa,  le mogli dei contadini passavano in chiesa a riprendersi i piatti benedetti e le piantine, sbriciolate nei campi, avrebbero dovuto garantire, o almeno così si sperava, una stagione favorevole e un abbondante raccolto.

Saluto tra i confratelli anziani

 

 

 

 

Al centro del Sepolcro viene posto il Repositorio che contiene l’Ostia consacrata, davanti alla quale i confratelli, con il cappuccio alzato, si inginocchiano per l’adorazione. Al sopraggiungere della coppia che segue alle loro spalle, questi si abbassano il cappuccio mentre quelli appena giunti, dopo una breve genuflessione, si portano sul lato destro dell’altare. Il confratello più “anziano” della coppia appena arrivata si avvicina al più “anziano” di quella ancora inginocchiata e gli sussurra in un orecchio: “Sia lodato Gesù e Maria”, al quale viene risposto al medesimo modo: “Sempre sia lodato”. Segue l’abbraccio tra le due poste, entrambe si genuflettono davanti al Sepolcro e per i confratelli appena giunti, dopo essersi inginocchiati e aver alzato i cappucci, può iniziare il momento di adorazione. Il Pellegrinaggio prosegue e le coppie si alternano regolarmente fino a concludersi, come abbiamo visto, nella tarda mattina del Venerdì Santo, con il rientro di tutte le poste alla Chiesa del Carmine.

Poche ore ci separano dall’inizio della Processione dei Sacri Misteri, ma sono ore di calma apparente. Fedeli, turisti, semplici curiosi, confluiscono da ogni dove nelle vie del centro, per accalcarsi di fronte all’ingresso della chiesa. Tutta la città sembra ora fermarsi, quasi a voler trattenere il respiro, nell’attesa che il portone principale si riapri e lasci intravedere la sagoma del troccolante. Il lungo corteo dei confratelli incappucciati, uniti in un silenzioso raccoglimento, lentamente andrà sgranandosi tra le vie del borgo: i riti della Settimana Santa tarantina stanno per rivivere uno dei suoi momenti più intensi ed emozionanti.

(Fine)

 

Informazioni, notizie storiche, aneddoti e curiosità sui riti della Settimana Santa di Taranto, contenuti in questo e nei precedenti articoli, sono stati tratti in massima parte dalle opere di Nicola Caputo al quale rivolgiamo un doveroso ringraziamento per l’infaticabile lavoro di ricerca e conservazione delle tradizioni popolari tarantine.

Per le indicazioni bibliografiche e le note al testo ci permettiamo di rinviare a:

F. Lacarbonara, Il cammino dei Perdoni. Il Pellegrinaggio ai Sepolcri nei riti della Settimana Santa di Taranto, in «Spicilegia Sallentina», 7 (2010), 87-96.

 

Testo e foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI – tutti i diritti riservati –

 

Per la prima parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/25/taranto-il-cammino-dei-perdoni-prima-parte/

Per la seconda parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/26/taranto-il-cammino-dei-perdoni-seconda-parte/

Per la terza parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/27/taranto-il-cammino-dei-perdoni-terza-parte/

Le festività pasquali fra storia e tradizioni gastronomiche salentine

di Paolo Vincenti

La Pasqua è una festa mobile perché legata alla luna piena di marzo. Agli albori del Cristianesimo, la Resurrezionedi Cristo veniva celebrata ogni domenica. Successivamente,  la Chiesa volle celebrare la Pasqua in un periodo dell’anno ben definito e, dopo molte dispute, si stabilì che fosse il Concilio di Nicea del 325 d.C. a fissare la data di questa ricorrenza. Partendo dalle norme del Concilio di Nicea, per le quali la Pasqua doveva cadere la domenica seguente la prima luna piena di primavera, la data venne calcolata sulla base dell’equinozio di primavera e della luna piena, utilizzando per il computo il meridiano di Gerusalemme, luogo della morte e resurrezione di Cristo.

La parola Pasqua viene dall’ebraico “Pesach” che significa “passaggio” ed indica quindi una transizione dalla vita alla morte, dalla condizione di peccato alla purificazione, ma anche, nel particolare periodo dell’anno in cui è festeggiata, passaggio dall’inverno alla primavera.

La data della Pasqua ortodossa non coincide con quella cattolica, perché la chiesa ortodossa utilizza il calendario giuliano anziché quello gregoriano. Perciò,  la Pasqua ortodossa cade circa una settimana dopo quella cattolica. Il Giovedì Santo, si ricorda l’istituzione del Mistero dell’Eucarestia.  Il rito dei “Sepolcri” è un atto di devozione antichissimo. Probabilmente, fu avviato a Roma, nel 1500, da San Filippo Neri. Questo atto di devozione consisteva nella visita a sette chiese e altrettanti sepolcri: sette come i sacramenti. Fin dal Medioevo, infatti, si avvertì l’esigenza di far visita , durante il periodo pasquale, ad un luogo in cui simbolicamente trovare Cristo morto e fargli la veglia. Questa consuetudine si trasformò in un atto penitenziale, nel Cinquecento, con la visita appunto ai Sette Sepolcri ed è giunto fino a noi, con il pellegrinaggio che si tiene,  nella notte del Giovedì Santo, nelle varie chiese per partecipare così, con la preghiera e la contrizione, alle ultime ore di vita di Cristo. Nella messa del Giovedì Santo, in Coena Domini, si tiene la lavanda dei piedi, ovvero il sacerdote lava i piedi a dodici persone, sempre uomini, che simboleggiano i dodici apostoli ai quali Gesù volle lavare i piedi durante l’Ultima Cena.

Un’altra usanza liturgica che avveniva più spesso in passato, in questa giornata, era quella di legare le campane delle chiese. Anzi, un tempo, le campane, durante  tutta la Quaresima, dovevano restare legate, così come restavano muti anche i campanelli delle case e le sonagliere dei cavalli,  e al loro posto suonavano le tròzzule.

Le tròzzule sono un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota,  faceva  un grosso baccano. Le tròzzule sono uno strumento antichissimo, usato  prima dell’introduzione delle campane.  I primi cristiani se ne servivano per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera. A partire dal Quattrocento, vennero usate dai Benedettini nei conventi, per poi passare nelle chiese.

Il giorno del Venerdi Santo è dedicato all’adorazione della Croce e nelle chiese molti anziani e anziane si raccolgono in contemplazione, sgranando il rosario.

Durante il periodo pasquale, fanno la loro comparsa  numerose specialità gastronomiche, alcune strettamente legate alla nostra tradizione salentina, altre invece di portata nazionale o anche internazionale. Pensiamo alle uova di cioccolato, ormai onnipresenti.

L’uovo è un simbolo di fecondità; dall’uovo inizia la vita e, come abbiamo già detto, è chiaro il riferimento alla purificazione e alla rinascita in senso cristiano. Delizia per il palato sono anche le colombe pasquali che rimandano all’uccello simbolo della pace.

L’agnello di pasta di mandorla, detto pecureddhu, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.  Un tempo, l’agnello di pasta di mandorla era preparato solo dalle suore Benedettine del Convento di San Giovanni Battista, ora lo si può trovare in tutte le pasticcerie di Lecce e provincia.  Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte.

I quaresimali sono speciali biscotti per i quali Martano detiene l’esclusiva in provincia di Lecce: sono fatti con mandorle, zucchero, farina, uova e possono essere ben accompagnati da un vino moscato. I taralli sono biscotti al forno preparati con zucchero, uova, strutto e farina.  La scarcella, dallo spagnolo “escarcela”, è un dolce comune a tutta la Puglia, ed è  un pane fatto con zucchero, farina, uova e vaniglia, che assume le forme più disparate. Queste forme avevano tutte dei significati particolari.  A completare questo dolce, un uovo crudo, nel centro, fissato con una croce di pasta.

La scarcella è basata su una antica tradizione germanica. Negli anni,  l’addobbo della scarcella si è arricchito e  si diffuse l’abitudine di ricoprirla di naspro ed è diventata così una delle maggiori specialità dei pasticceri pugliesi. Già nel Settecento, il gastronomo salentino Vincenzo Corrado elencava ben venticinque ricette diverse per realizzarla. Può prendere la forma di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, di tromba.

Sulla tavola il giorno di Pasqua,  non può mancare l’agnello. L’agnello, che deve essere da latte e provenire dagli allevamenti locali (ma molto buoni oggi sono anche gli agnelli di importazione) viene cotto sui carboni, oppure in casseruola al forno con funghi e patate, o  lampascioni. A volte, alla carne di agnello, che è poco digeribile, specie se l’animale non è molto giovane, si preferisce quella di capretto. In passato, quando a causa delle ristrettezze non ci si poteva permettere l’agnello, si compravano solo le interiora e si preparava lu nturtijiatu al forno con le patate. Nella zona di Lizzanello, in sostituzione del tradizionale agnello, si usava lu chinu, cioè un piatto a base di pollo, con uova, pane e formaggio, passato al forno. I più poveri, che non potevano permettersi neanche questo, usavano la trippa al posto del pollo.

Non può mancare neanche la pasta al forno, piatto molto ricco, con polpettine, uova sode, scamorza affettata e pezzetti di salumi. In molti centri, come a Tricase, vi è ancora l’usanza di grattugiare del pane e poi friggerlo, per condire la pasta, la cosiddetta muddhica.; a volte, viene aggiunto anche miele e ricotta per rendere ancora più gustosa questa specialità.

La ricotta marzotica è realizzata facendo maturare la ricotta e aggiungendo erbe di campagna, e la si può mangiare da sola o grattugiata sulla pasta. Il benedetto  funge da antipasto: in un unico grande vassoio, sono contenuti fette di salumi, uova sode non ancora sgusciate, carciofi tagliati in quattro e fette di arancia. I turcineddhi sono degli involtini realizzati con le interiora e cotti rigorosamente alla brace, accompagnati dalle patate.

A Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale è la scapece, specialità tutta gallipolina. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la cuddhura. Dal greco “kollura”, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce,  come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Fra cuddhure e puddhiche non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche.

Fra i dolci , immancabili i  mustazzoli, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto. Oggi sono realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e gileppu, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao.

A Pasquetta, nelle scampagnate per tutto il Salento, gli alimenti che caratterizzano la cosiddetta colazione al sacco, sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, le uova sode e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode. Ma per non essere troppo lunghi, facciamo terminare qui questa tappa del  nostro viaggio pasquale, fra storia e tradizioni gastronomiche salentine.

Taranto. Il cammino dei Perdoni (terza parte)

I Perdoni

Sono loro, le perdùne (i perdoni) a incarnare l’anima più profonda e autentica dei riti della Settimana Santa tarantina, almeno per quanto riguarda le processioni portate avanti dalla Confraternita del Carmine. A tal proposito corre l’obbligo di precisare che col termine perdùne si indicano solo i confratelli di questa congrega, mentre i membri di tutte le altre confraternite sono chiamati più comunemente le fratelle (i fratelli). Fedeli alla vecchia regola dei Carmelitani scalzi, essi solo percorrono l’intero tragitto del Pellegrinaggio ai Sepolcri e della Processione dei Misteri a piedi scalzi, quasi a voler rimarcare con questo sacrificio il loro intento penitenziale; in tutte le altre occasioni invece i confratelli del Carmine indossano scarpe bianche con coccarda blu sul dorso e calze nere.

Posta di perdoni

L’abito di rito si compone di un ampio camice bianco, detto anche sacco, stretto in vita da un cordoncino e lungo fino a metà gamba, per rendere ben visibile i piedi nudi. Infilati sul camice, due grandi scapolari o abitini di panno nero o blu scuro recano la scritta, ciascuno, o Decor o Carmeli. Della coppia di confratelli, il più anziano – per anzianità è da intendersi qui quella di appartenenza alla Confraternita – sarà sempre quello disposto a destra (a sinistra per chi guarda) e porterà sul davanti lo scapolare con su scritto Decor e sul di dietro quello con su scritto Carmeli. L’altro confratello, per consentire a chi guarda di poter leggere sempre la scritta Decor Carmeli sia che si ponga di fronte sia che si ponga dietro la coppia, avrà gli scapolari invertiti: Decor sul di dietro e Carmeli sul davanti; il Priore e gli assistenti indossano, a ragione del loro ruolo, scapolari ricamati con fregi dorati e argentati.

A ricordo del flagello che percosse il Cristo scende, a sinistra dello scapolare anteriore, una cinghia scura, mentre a destra si può osservare un ricco medagliere e una lunga corona del rosario. Una mantellina color crema detta mozzetta – formata da un unico pezzo di lana di forma circolare e chiusa sul davanti da 22 bottoni ricoperti di stoffa nera – viene posta sul camice fino a ricoprire interamente il busto e il dorso del confratello. In occasione dei riti della Settimana Santa un lungo cappuccio bianco con due minuscoli forellini all’altezza degli occhi è calato interamente sul volto del confratello, mentre in tutte le altre manifestazioni è portato alzato sulla testa. L’abito è completato da un cappello nero – orlato con un nastro azzurro che scende da entrambi i lati del cappuccio – da un paio di guanti bianchi e da una lunga asta, bianca anch’essa, sormontata da un pomello nero, detta mazza o bordone.

Durante il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri il cappello è portato in testa, per la Processione dei Misteri è calato invece dietro le spalle, ad eccezione del troccolante – il confratello che si è aggiudicato l’ambito simbolo della troccola e probabilmente il più significativo di tutta la Processione – che lo indossa sempre. Il rito della vestizione si svolge nell’oratorio della confraternita, sotto lo sguardo attento dei responsabili e dei fratelli più anziani, pronti a curare ogni minimo dettaglio. Compiuti gli ultimi preparativi la posta – ossia le coppie di perdoni che partecipano ai riti, ad eccezione dei portatori dei simulacri e dei singoli simboli – chiamata da un membro del consiglio di amministrazione del sodalizio, si appresta ad uscire, non senza aver reso prima omaggio alla Croce dei Misteri posta in un angolo dell’oratorio.

Le poste sono numerate – prima, seconda, terza, e così via – per stabilire l’ordine di uscita dalla Chiesa del Carmine in occasione del Pellegrinaggio ai Sepolcri e per indicare la loro giusta collocazione in seno alla Processione dei Sacri Misteri; il tutto si svolge in una composta atmosfera di intima commozione e partecipazione sincera. A’ prima posta – letteralmente: la prima posta, ancora oggi la più ambita – diretta ai Sepolcri della città vecchia, come quella diretta ai Sepolcri della città nuova, si appresta così ad uscire dalla Chiesa del Carmine.

Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri ha inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.

(Fine terza parte)

 

Testo e foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI – tutti i diritti riservati –

 

Per la prima parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/25/taranto-il-cammino-dei-perdoni-prima-parte/

Per la seconda parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/26/taranto-il-cammino-dei-perdoni-seconda-parte/

Per la quarta parte vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/28/il-cammino-dei-perdoni-quarta-ed-ultima-parte/

Taranto. Il cammino dei Perdoni (seconda parte)

Le “gare”

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta dei riti e delle tradizioni della Settimana Santa tarantina con la descrizione di uno dei suoi momenti più significativi: le “gare”.

Taranto, Processione dei Sacri Misteri

Il privilegio di portare in processione i simulacri, o di ricoprire un ruolo attivo durante le stesse, doveva essere particolarmente ambito se già a partire dai primi anni del XIX secolo si ha notizia di “offerte” o di “pie oblazioni” da parte dei confratelli. Contributi, questi, ben accetti dalle congreghe se si decise, considerato anche l’aumentare dei confratelli che facevano richiesta di partecipazione ai riti, di procedere a vere e proprie “gare” o “aste”. Da allora la tradizione si è trasmessa fino ai giorni nostri e il termine con cui sono indicate queste assemblee è rimasto immutato.

Il meccanismo è quello di una vera e propria asta con aggiudicazione finale al miglior offerente e viene indetta sia dalla Confraternita del Carmine sia da quella dell’Addolorata per coprire i notevoli costi che le processioni comportano (tra bande musicali, addobbi floreali, artigiani per l’allestimento del Sepolcro e la manutenzione dei simulacri ecc.). Oltre a ciò l’offerta in denaro viene impiegata anche per iniziative benefiche di varia natura a favore del sodalizio e della parrocchia di appartenenza. Dal 1979, per rispetto nei confronti dei luoghi sacri, le “aste” non hanno più luogo in chiesa ma in altri locali. Le assemblee, che per tradizione si svolgono sempre la sera della Domenica delle Palme, sono riservate ai soli confratelli (anche se c’è sempre qualcuno che riesce a intrufolarsi vinto da insanabile curiosità) e vengono convocate dai rispettivi priori.

Dietro un lungo tavolo sul quale è appoggiata la troccola – strumento di legno finemente lavorato e intarsiato che, se opportunamente agitato, produce il caratteristico suono, simbolo dei riti della Settimana Santa tarantina – siedono il Padre spirituale, che apre la “gara” con una orazione, il Priore della congrega e gli altri componenti del consiglio di amministrazione. Oltre alla troccola, sul tavolo, sono disposte anche due candele accese e un campanello che, agitato dalla mano del Priore, sancirà l’aggiud

La troccola

icazione del simbolo o del simulacro, messi in “gara” uno per volta. Il segretario della congrega scandisce a voce alta le varie offerte e per le statue, che sono portate a spalla da quattro persone, è un confratello che si fa portavoce in rappresentanza del suo “gruppo”. Le offerte si susseguono una dopo l’altra fino a quando viene annunciata l’ultima chiamata in cui vengono scanditi:

 

1. nome del simbolo o del simulacro
2. nome e cognome dell’offerente
3. la somma che l’offerente dichiara di essere disposto a versare.

A questo punto, se non vi sono altre offerte, un vigoroso scampanellio da parte del Priore sancisce l’aggiudicazione della statua o del simbolo messo in “gara”. Il confratello del Carmine dovrà versare subito un congruo anticipo per poi saldare il tutto entro e non oltre il Venerdì Santo, giorno dell’uscita della processione, mentre nel caso delle “aste” indette dalla Confraternita dell’Addolorata, i confratelli dovranno versare seduta stante la somma offerta.

Terminate le “gare” e aggiudicati i simboli e i simulacri, l’attesa dei confratelli e di tutti i devoti è ormai rivolta al primo pomeriggio del Giovedì Santo, quando dalla chiesa del Carmine l’uscita delle prime poste di perdoni segnerà l’inizio dei riti della Settimana Santa tarantina.

(Fine seconda parte)

 

Testo e Foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI- tutti i diritti riservati –

I riti della settimana Santa a Gallipoli (Lecce)

Hans Memling, Mater Dolorosa (1480)

di Paolo Vincenti

La prima festa che si tiene a Gallipoli è quella dell’Addolorata. A celebrare l’Addolorata è la confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria, nel venerdi precedente la Domenica delle Palme. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e, durante il rito religioso, viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi,  lo Stabat Mater, la cui musica venne composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dall’opera di Jacopone da Todi. Secondo Cosimo Perrone, studioso di storia locale, l’interpretazione dell’Oratorio Sacro, a Gallipoli, risale al 1697 e fu introdotto dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguito per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella chiesa delle Anime.

Come Oratorio Sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886 e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro. E’ tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria.

La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Fino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva questa famiglia.

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo.

Il Mercoledì Santo, vi è la tradizione della vestizione delle Addolorate, da parte di alcune confraternite come, in primis, quella della Misericordia. Vi sono numerose statue dell’Addolorata a Gallipoli e per l’esattezza: quella

Taranto. Il cammino dei Perdoni (prima parte)

I riti della Settimana Santa di Taranto, tra fede, storia e tradizione popolare

Processione dei Sacri Misteri, poste di perdoni

 

di Francesco Lacarbonara

Raccontare i riti della Settimana Santa di Taranto, per chi a Taranto è nato è vissuto come me, non è impresa facile. Basterebbe poco, infatti, per lasciarsi trascinare dai ricordi delle tante processioni alle quali si è assistito fin da bambino, col rischio di scivolare così in un nostalgico sentimentalismo che, seppur onesto e legittimo in quanto espressione di un sano attaccamento alle proprie origini, non renderebbe ragione della complessità del fenomeno che stiamo per trattare.
Non sarebbe però neppure corretto ridurre il tutto a una mera, e alquanto asettica, operazione di ricerca storico-antropologica (con i relativi risvolti sociali e psicologici) nel tentativo, forse vano, di analizzare razionalmente un evento che, a ventunesimo secolo ormai avanzato, continua a riproporsi con lo stesso immutato carico di coinvolgimento emotivo, vuoi per chi del rito è protagonista, vuoi per chi al rito partecipa come semplice, ma mai indifferente, spettatore.

Proveremo allora ad accostarci al rito della Perdonanza tarantina con la giusta dose di curiosità per una “sacra rappresentazione” che torna ad inscenarsi nuovamente tra le vie del borgo e della città vecchia di Taranto. Ma lo faremo anche con il dovuto rispetto per coloro che vivono la Settimana Santa con spirito di fede e devozione e, anche se solo per pochi giorni, si apprestano a trascendere i confini della quotidianità per affacciarsi, con un sentimento misto di timore e tremore, nella dimensione del sacro e del mistero. Seguiremo in particolare il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, oggi svolto solo dai confratelli della Confraternita di Maria SS. del Monte Carmelo. Ci occuperemo in un secondo momento del rito della Processione dei Sacri Misteri (condotto anch’esso dai confratelli del Carmine) e di quello della Processione della B.V. Addolorata, tanto cara a tutti i tarantini e portata avanti, con devozione sincera e immutato attaccamento alle tradizioni, dai confratelli della Confraternita di Maria SS. Addolorata e San Domenico. Tale confraternita fu fondata nel 1670 dai Padri Domenicani che prestavano servizio nel Tempio di San Domenico, situato nella parte più alta della città vecchia di Taranto; il Tempio fu edificato nel 1302 sulle fondamenta di una Chiesa probabilmente sorta agli inizi del XIII secolo e fu solo a partire dal 1870 che la Confraternita assunse il titolo di San Domenico e dell’Addolorata.

Le origini
Occorre risalire al XVI secolo, periodo che vede Taranto sotto la dominazione spagnola, per ritrovare le prime tracce dei riti della Settimana Santa tarantina. Le numerose e nobili famiglie spagnole residenti in città introdussero e diffusero tra la popolazione locale usi e costumi importati dalla madre patria, anche a carattere religioso. Nascono così le prime confraternite e hanno inizio i primi pellegrinaggi, come avveniva già da diverso tempo in molte città della Spagna, quali, ad esempio, Siviglia, Saragozza, Malaga e Barcellona.
A questo periodo però si deve far risalire solo il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri, che si svolgeva la mattina del Venerdì Santo da parte delle confraternite già allora esistenti in città. È probabile però che forme di devozione nei confronti dei sepolcri fossero diffuse già da prima, sulla scia di quanto raccontato nella Peregrinatio Aetheriae, nota anche come Itinerarium Egeria. Eteria, o Egeria – probabilmente una donna facoltosa di origine spagnola vissuta tra il IV e il V secolo – descrive in una lettera, scritta in un latino colloquiale, i luoghi da lei visitati durante un suo pellegrinaggio in Terrasanta. Dal suo racconto, ricco di particolari curiosi, si sarebbe iniziato a rappresentare nelle chiese scene riproducenti i luoghi santi, con il chiaro intento di riproporre i momenti più significativi della Passione e della Morte di Cristo, il tutto offerto alla devozione popolare.

Processione dei Sacri Misteri, statua di Cristo morto
Per le processioni dell’Addolorata e per quella dei Misteri si dovrà invece aspettare la metà del XVIII secolo, ma per raccontarne le origini occorre fare prima un piccolo passo indietro. Tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700 Don Diego Calò, discendente della omonima famiglia giunta a Taranto nel 1580, ordinò e fece venire da Napoli due statue, di cartapesta e di autore ignoto, quella dell’Addolorata e quella di Cristo Morto, per essere custodite nella cappella gentilizia del suo palazzo. In occasione del Venerdì Santo venivano invitate dal patrizio tarantino tutte le confraternite per portare in processione i suddetti simulacri tra le vie della città vecchia che a quel tempo, ma sarà così fino a ben oltre metà ottocento, rappresentava la sola area urbanizzata. La pia tradizione famigliare si trasmise fino al 1765, allorquando un suo discendente, Don Francescantonio Calò, fece dono delle due statue alla Confraternita Maria SS. Del Monte Carmelo, fondata ufficialmente il 10 Agosto del 1675 con un decreto dell’allora Arcivescovo di Taranto Mons. Tommaso Sarria. Diversi documenti riportano invece come data di fondazione il 1577, anno in cui la comunità dei frati Carmelitani si trasferì dalla Chiesa della Madonna della Pace, nella città vecchia, alla Chiesa di Santa Maria extra moenia, detta Chiesa della “Misericordia”, e per l’appunto nel 1577 dedicata alla Vergine del Carmelo.

Fu così che il Venerdì Santo del 1765 i due simulacri varcarono per l’ultima volta il portone di Palazzo Calò per raggiungere in processione quella che diventerà la loro sede definitiva, la Chiesa del Carmine extra moenia, ovvero in aperta campagna, in quello che è diventato adesso il cuore del borgo di Taranto, nella città nuova.
Questi due simulacri, più volte restaurati nel corso degli anni per ovviare all’inevitabile usura del tempo, sono gli stessi che vengono portati in processione ancora oggi dalla Confraternita del Carmine, insieme ad altre statue che si sono aggiunte nel corso degli anni, a completare il racconto plastico della Passione e Morte di Gesù mediante la raffigurazione dei suoi momenti più drammatici e significativi.

(Fine prima parte)

 

Testo e Foto di:

Francesco Lacarbonara – MMXI- tutti i diritti riservati –

Statuaria processionale “da vestire”. L’Addolorata di Nardò

ph Mino Presicce

di Marcello Gaballo

Nella basilica cattedrale di Nardò da oltre due secoli si venera una bellissima statua dell’Addolorata, conservata in un’artistica teca lignea a base esagonale, protetta da vetri. Nella parte sottostante, fino a qualche anno fa, era collocata anche la statua del Cristo morto, poi definitivamente sistemata in un’urna in vetro, come si può vedere nella prima cappella della navata destra.

Le celebrazioni della Vergine Addolorata, o Desolata, come più facilmente ricorda il popolo neritino, sono utile occasione per soffermarci sull’opera artistica, molto interessante e particolare, la cui costante devozione è ancora molto sentita.

E’ una delle più belle statue processionali esistenti in città e ancora oggi, come accaduto per secoli, viene portata “a spalla” dalle devote nella processione del venerdì santo,  seguendo quella del Figlio morto.

La figura ricalca l’iconografia tradizionale. Lo sguardo affranto è rivolto al cielo e i lineamenti felicemente resi  dallo scultore conferiscono all’opera una suggestiva espressività, assolutamente consona alla tragicità dell’evento, per il quale si giustificano anche il pallore cutaneo e la posizione delle mani, in asse con il capo sollevato sul quale poggia una corona argentea.

A grandezza naturale, con struttura a manichino ligneo, richiama molto la tipologia della statuaria “da vestire” settecentesca napoletana. In mancanza di documenti che consentano di datarla e attribuirla, mi sembra possa ritenersi proprio di questo secolo, e della prima metà per essere più precisi, commissionata dal vescovo Antonio Sanfelice o dal suo successore Francesco Carafa, anch’esso napoletano, entrambi squisiti mecenati della chiesa neritina, che arricchirono di notevoli opere d’arte.

Il manichino, che non sembra aver mai subito restauri, è scolpito ed eseguito completamente a mano, forsein legno di noce, con patina e lucidatura a cera; la testa, le mani e i piedi, ottimamente rifiniti, sono dipinti con ottima resa dell’incarnato, anche perché rappresentano le sole parti visibili.

La peculiarità del simulacro, oltre che nell’interessante capigliatura castano chiara, è di essere provvisto di snodi in corrispondenza delle spalle e dei gomiti, probabilmente per consentire di indossare il luttuoso ma sontuoso abito, che si prevedeva dover essere rinnovato periodicamente a causa dell’usura del tempo. Le mani con parte dell’avambraccio si inseriscono nelle braccia grazie ad un perno in legno grezzo tornito.

La statua poggia su base lignea a foglia oro finemente intagliata, forse coeva con i quattro angeli in cartapesta dell’800, che reggono gli strumenti della Passione e che fanno corona con il simulacro mariano.

L’attuale parroco, Mons. Don Giuliano Santantonio, vicario episcopale dei Beni Culturali della diocesi di Nardò-Gallipoli, nonché direttore dell’omonimo ufficio,  ha provveduto di recente a commissionare un nuovo abito per la statua, in sostituzione dell’altro, alquanto dozzinale, realizzato negli anni 50 del secolo scorso. Lo ha commissionato alle suore benedettine dell’abbazia di S. Maria di Rosano, fornendo un modello disegnato dallo stilista neritino Gianni Calignano, che nulla ha preteso per la sua prestazione. Ne è risultato un bel lavoro, con alcune differenze rispetto al precedente che valorizzano maggiormente il simulacro, esaltando la bellezza e l’eleganza della Signora in lutto.

Il corpetto con pieghe si sovrappone alla gonna e l’apertura è sulle spalle, per consentire di indossarlo, fermato da bottoni in sostituzione della pessima cerniera lampo del precedente. Il colletto è cucito sul corpetto solo sul davanti, per consentire di farlo passare al di sotto dei capelli fluenti sul petto della statua. L’ampio manto è fissato con spilli ad un fermacapelli in metallo, rivestito di stoffa e fissato in modo stabile attorno alla testa. La stoffa dell’abito e del manto è in seta di color nero.

ph Mino Presicce

Un prezioso ricamo in oro filato laminato, alto 7 cm,  è presente su tutto il bordo del manto e della gonna, oltre che sulla cintura del corpetto, sul bordo delle maniche e delle sottomaniche; quello del colletto è alto 3,5 cm. I bordi sono rifiniti con una frangia dorata, simile al precedente abito.

Sembra originale il fazzoletto, graziosamente ricamato, che è fissato alle mani.

ph Mino Presicce

Per completezza occorre anche annotare che il basamento è stato restaurato nell’aprile 2011, come è stato anche per i quattro angeli, restaurati da Lidiana Miotto. Il tutto con le offerte dei fedeli, opportunamente sollecitati dal solerte parroco, che sta dimostrando grande attenzione nei confronti del patrimonio diocesano e di Nardò in particolare.

particolare della testa e delle mani. Il vestito è quello precedente
retro della statua con il vecchio abito. Si noti la particolare disposizione della capigliatura
gamba e piede destro
uno dei quattro angeli in cartapesta posti sul basamento, restaurati di recente
un altro degli angeli che reggono gli strumenti della Passione

Gallipoli. Il venerdì della Madonna

di Salvatore Magno

Nella piccola cittadina, arroccata su un’isola e cinta dalle antiche mura medievali, la Settimana Santa, con tutti i suoi riti religiosi e le tradizioni popolari rappresenta il principale avvenimento dell’anno.

Tutto inizia sette venerdì prima e, di settimana in settimana, un’agitazione sottile, quasi impalpabile come una febbre, si impadronisce di tutti, senza distinzione di sesso, età o ceto sociale per esplodere il venerdì che precede la Domenica delle Palme lasciando che i suoi sintomi facciano effetto per tutta la Settimana Santa fino a spegnersi silenziosamente nel Lunedì dell’Angelo, affogata nell’unico rito pagano legato alla Pasqua: la gita fuori porta.

Una tradizione affondata nella notte dei tempi, vuole che in quel venerdì, la settecentesca statua raffigurante la Madonna Addolorata, che per tutto l’anno è conservata nell’oratorio dedicato alla Vergine del Carmelo, venga portata nella casa di una delle famiglie patrizie fondatrici della confraternita, lì viene vestita con preziosi abiti, addobbata di con ex-voto e, infine, adornata con capelli donati dalle devote, per poi tornare nella Sua chiesa. Alle dodici in punto in solenne processione la statua viene portata in cattedrale, dove alla presenza della cittadinanza, del vescovo e di tutte le più alte autorità si svolge lo storico concerto in Suo onore.

Far parte dell’orchestra o del coro è motivo di vanto ed orgoglio per tutti, dall’ultimo dei coristi al tenore solista, dal più umile musicista su su fino al

La pratica dell’asta nei riti della Settimana Santa a Gallipoli

La pratica dell’asta nei riti della Settimana Santa della confraternita di Santa Maria degli Angeli di Gallipoli, alla luce di un documento del 1762 *

 

di Antonio Faita

In  “… Animos eorum maceravit…”, pubblicato alcuni giorni fa , illustrai come, nel XVIII sec., la confraternita di Santa Maria degli Angeli curava i riti della Settimana Santa e in particolar modo la processione dei Misteri nei giorni di Giovedì e Venerdì Santo1.

Sulla base delle testimonianze descritte sin dal 1726 ho messo anche in risalto una certa ritualistica penitenziale che si svolgeva all’interno dell’oratorio, fino a produrre negli anni a seguire un cambiamento, sia nella liturgia penitenziale quaresimale che nello svolgimento di questi riti, nei quali prese sempre più corpo la reiterazione di queste pie pratiche2.

Rileggendo attentamente i documenti del “Libro degli Annali e Conclusioni dal 1727 al 1766”, emerge un nuovo particolare, una pratica inedita, forse unica nel suo genere, non solo in Gallipoli ma presumibilmente in tutta la Puglia, riguardante lo svolgersi d’una “gara d’asta” per l’aggiudicazione dei simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata. Questa forma d’asta veniva praticata  e lo è tuttora, nel capoluogo jonico, come famosi sono in tutto il mondo i riti della Settimana Santa, unici nel loro genere di maggiore coesione e identità3. Infatti il momento cruciale sia del pellegrinaggio ai sepolcri che delle due processioni è costituito dalle aste, le “gare”, “gli incanti” nel Calabrese, per l’aggiudicazione dei simboli che vede impegnate sia la confraternita dell’Addolorata, sia quella del Carmine.

In realtà le aste sono delle assemblee straordinarie dei confratelli e, pertanto, possono partecipare alle “gare” tutti gli aggregati che mediante libere offerte si aggiudicano i simboli delle due processioni e le varie immagini sacre. Alcuni studiosi, dei riti tarantini ritengono che l’aggiudicazione per asta, da molti contestata, si effettui forse dalla nascita dei riti della Settimana Santa, tra la seconda metà del XVII sec. e i primi del

Gallipoli e il suo Malladrone

Il Malladrone di Gallipoli
Il Malladrone di Gallipoli

di Francesca Fontò

La chiesa di S. Francesco d’Assisi, in riviera Nazario Sauro a Gallipoli, è la più antica del centro storico. La tradizione popolare ne attribuisce la fondazione allo stesso S. Francesco nel 1217.
La chiesa venne eretta nel XV secolo dai francescani ed è stata interamente rimaneggiata alla fine del XVI sec, con l’arrivo a Gallipoli dei frati riformati. La facciata in carparo è del 1736. L’interno maestoso è scandito da tre navate, interamente abbellito di stucchi nel primo ventennio del ‘700.
Questa chiesa è molto cara ai gallipolini che la chiamano la “Chiesa tu ‘Mmalatrone”- la chiesa del cattivo ladrone- o, più semplicemente, “ Mmallatrone”.
Entrando in chiesa, alla nostra destra si apre la cappella funeraria degli spagnoli che apparteneva alla famiglia Gorgoni, ceduta alla moglie di don Giovanni Della Cueva, Anna Massa Capece (baronessa di Collepasso) nel 1680 con il vincolo di non spostare il dipinto di San Francesco, ivi presente, in nessun’altra chiesa di Gallipoli.
Il regio castellano di Gallipoli, Giuseppe Della Cueva, vi fece collocare all’interno un Cristo Morto in legno, con ai lati il buon ladrone, Disma ed il cattivo ladrone, Misma, entrambi crocifissi.
I ladroni sono delle figure abbigliate in stoffa, con testa, mani e piedi in legno. La leggenda narra che il peccato del Mal Ladrone fosse così intenso da corrodergli non solo l’anima, ma anche le vesti che realmente si laceravano, tanto da dover essere periodicamente sostituite.

La religiosità dei gallipolini si respira ancora oggi, soprattutto nella Settimana Santa e nelle ricorrenze dei santi protettori rigorosamente onorati e festeggiati ed è sorprendente la riverenza per il Malladrone, materializzazione della tentazione e del demonio per antonomasia. I delinquenti sono per sfortuna, nella storia più prestigiosi e più conosciuti, ecco perché tanta gente da diversi luoghi è incuriosita dal Malladrone, il nostro “illustre concittadino”, che oltre venti secoli fa per superbia non volle ascoltare il Signore mostrandosi disdegnoso, rabbioso e saccente.
Anche Gabriele D’Annunzio, che senti parlare del “Mal ladrone” di Gallipoli volle vederlo, ma nel cuore della notte e con una candela che illuminava il solo volto, ne rimase così colpito da definirlo di orrida bellezza.
Il ghigno di Misma, secondo la credenza popolare, sarebbe costituito dai denti veri di un condannato a morte(anche se nel recente restauro si è constatato che i denti sono di legno) ed è così malefico che va riconosciuto il merito dell’ignoto artista, per aver raffigurato in maniera così efficace il peccato e la cattiveria di Misma.

L'altro ladrone
L’altro ladrone

La chiesa dopo oltre 10 dieci anni di lavori è stata riaperta al culto nel settembre del 2005 e durante il restauro si è avuto modo di verificare che il muro su cui poggia la croce del “Mal ladrone”, essendo più esposto all’azione del mare, viene attraversato dalla salsedine che, invisibile, ne deteriora le vesti, anche se noi preferiamo restare ancorati alla credenza popolare che vuole identificare nel logorio delle vesti di Misma, il logorio dell’anima corrosa dal peccato.

La febbre di Pasqua (Il Venerdì della Madonna)

di Salvatore Magno

Nella piccola cittadina, arroccata su un’isola e cinta dalle antiche mura medievali, la Settimana Santa, con tutti i suoi riti religiosi e le tradizioni popolari rappresenta il principale avvenimento dell’anno.

Tutto inizia sette venerdì prima e, di settimana in settimana, un’agitazione sottile, quasi impalpabile come una febbre, si impadronisce di tutti, senza distinzione di sesso, età o ceto sociale per esplodere il venerdì che precede la Domenica delle Palme lasciando che i suoi sintomi facciano effetto per tutta la Settimana Santa fino a spegnersi silenziosamente nel Lunedì dell’Angelo, affogata nell’unico rito pagano legato alla Pasqua: la gita fuori porta.

Una tradizione affondata nella notte dei tempi, vuole che in quel venerdì, la settecentesca statua raffigurante la Madonna Addolorata, che per tutto l’anno è conservata nell’oratorio dedicato alla Vergine del Carmelo, venga portata nella casa di una delle famiglie patrizie fondatrici della confraternita, lì viene vestita con preziosi abiti, addobbata di con ex-voto e, infine, adornata con capelli donati dalle devote, per poi tornare nella Sua chiesa. Alle dodici in punto in solenne processione la statua viene portata in cattedrale, dove alla presenza della cittadinanza, del vescovo e di tutte le più alte autorità si svolge lo storico concerto in Suo onore.

Far parte dell’orchestra o del coro è motivo di vanto ed orgoglio per tutti, dall’ultimo dei coristi al tenore solista, dal più umile musicista su su fino al

Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro

Domenico Fiasella (1589-1669), San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana; 1616, Sarzana – Chiesa di San Lazzaro (da http://www.comune.sarzana.sp.it/citta/Cultura/)

 

di Giovanna Falco

Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando U Santu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].

Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.

Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].

A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.

Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.

A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.

Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.

Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].

I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.

Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].

Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.

Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].

Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].

Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.

Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.

Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.

la colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, innalzata nel 1682, opera del maestro muratore Giuseppe Bruno

Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].

Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].


[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.

[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.

[3] Cfr. http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/le_feste_bizantine_sabato_lazzaro-24858.html?p=598866. Il Sinassario del cristianesimo orientale, trova corrispondenza nel Martirologio Romano: raccoglie il profilo biografico e agiografico di tutti i santi del calendario bizantino.

[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.

[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).

[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.

[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).

[8] E. ROTUNNO, op. cit., p. 11.

[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.

[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).

[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.

[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.

[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.

[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.

[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).

I Pappamusci di Francavilla Fontana e i riti della Settimana Santa

Si è inaugurata il 20 marzo a Roma, nella Sala S. Rita di Roma, una interessante mostra fotografica su “I Pappamusci”, uno dei più antichi e suggestivi riti legati alle celebrazioni della Settimana Santa, che si svolge a Francavilla Fontana, in Puglia. Alla cerimonia di inaugurazione sono intervenuti, tra gli altri, Vincenzo della Corte, Sindaco di Francavilla Fontana, Giordano Fantozzi, Presidente Nuova Coscienza, S.E. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, Ludovico Maria Todini in rappresentanza dell’Assemblea Capitolina.
A conclusione il baritono di Francavilla, Mario Micocci, ha cantato due  stazioni della Via Crucis.

La mostra resterà nella Capitale dal 21 al 24 marzo.

Attesissimo evento da parte dei Francavillesi e dei tanti turisti che giungono in città durante il periodo pasquale, il rito è poco noto ai pugliesi. Buona quindi l’occasione per richiamare l’attenzione sul pellegrinaggio dei “Pappamusci” e sulla Processione dei Misteri, tradizioni religiose che si

Te le “Cennareddhe” … a Pasca, a Gallipoli

di Paolo Vincenti

Te le “Cennareddhe” … a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina), è il titolo del volume, edito dal Santuario Maria Ss. del Canneto,con il patrocinio del Comune di Gallipoli,  a cura di  Luigi Tricarico, con la collaborazione di Cosimo Spinola. Il libro offre uno spaccato delle tradizioni popolari gallipoline, con riferimento al periodo pasquale. Luigi Tricarico, o Mba Pì, come è conosciuto da tutti a Gallipoli  (con il suo soprannome  si presenta anche sulla copertina del libro) , è un infermiere

Statuaria processionale “da vestire”. L’Addolorata di Nardò

ph Mino Presicce

di Marcello Gaballo

Nella basilica cattedrale di Nardò da oltre due secoli si venera una bellissima statua dell’Addolorata, conservata in un’artistica teca lignea a base esagonale, protetta da vetri. Nella parte sottostante, fino a qualche anno fa, era collocata anche la statua del Cristo morto, poi definitivamente sistemata in un’urna in vetro, come si può vedere nella prima cappella della navata destra.

Le celebrazioni della Vergine Addolorata, o Desolata, come più facilmente ricorda il popolo neritino, sono utile occasione per soffermarci sull’opera artistica, molto interessante e particolare, la cui costante devozione è ancora molto sentita.

E’ una delle più belle statue processionali esistenti in città e ancora oggi, come accaduto per secoli, viene portata “a spalla” dalle devote nella processione del venerdì santo,  seguendo quella del Figlio morto.

La figura ricalca l’iconografia tradizionale. Lo sguardo affranto è rivolto al cielo e i lineamenti felicemente resi  dallo scultore conferiscono all’opera una suggestiva espressività, assolutamente consona alla tragicità dell’evento, per il quale si giustificano anche il pallore cutaneo e la posizione delle mani, in asse con il capo sollevato sul quale poggia una corona argentea.

A grandezza naturale, con struttura a manichino ligneo, richiama molto la tipologia della statuaria “da vestire” settecentesca napoletana. In mancanza

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