Il Risorgimento italiano. La sottomissione e l’umiliazione dei meridionali

Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma
Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma

 

di Rino Duma*

Il plebiscito-farsa

Dopo l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, l’annessione del Meridione al Regno di Sardegna fu legittimata istituendo un plebiscito-farsa per ottenere dagli stati europei il loro beneplacito, ammantando ogni cosa con una veste di legalità. Il 21 ottobre 1860,il popolo duo-siciliano fu chiamato ad esprimere il proprio parere sull’annessione al Regno di Sardegna. Come era nelle previsioni, gli elettori si dichiararono favorevoli a larghissima maggioranza, legalizzando in tal modo il passaggio della sovranità dai Borbone ai Savoia.Ad onor del vero, al plebiscito partecipò solo il 19% della popolazione attiva, rappresentato esclusivamente dalle classi sociali agiate, soprattutto borghesi, buona parte delle quali era di stampo liberale. Nonostante ciò gli elettori furono costretti ad esprimere il voto palesemente, deponendo la scheda in una delle due urne, contrassegnate dal “sì” e dal “no”. Solo poche migliaia di persone, fedeli alla loro terra e al sovrano deposto, ebbero il coraggio di dissentire, ma furono irrise, minacciate e, in alcuni casi, picchiate e uccise.C’èda aggiungere che furono in molti, garibaldini compresi, a votare più volte, specialmente nelle grandi città. La stragrande maggioranza della popolazione, però, quella che aveva un reddito molto basso, quella abituata a curvare la schiena per dodici ore al giornonei campi, nelle industrie, nei cantieri, nei porti,quella popolazione, cheaveva a cuore re Francesco, venneinopinatamente esclusa dal voto.

Il plebiscito, insomma, fu un volgare e meschino imbroglio, degno solo della peggiore “mafia”, quella dei “colletti bianchi”, della quale i piemontesidell’epoca furono i precursori, lasciando un solco ben profondo dentro cui i futuri governi si mossero non sempre nell’interesse del popolo e delle parti sociali più bisognevoli.

Con l’unificazione dell’Italia, i governanti di Torino pianificarono scientificamente il declassamento della società civile del Sud.

 

La destabilizzazione di uno stato-moderno

Impossessatisi proditoriamentedel potere, i piemontesi cambiarono di colpo i connotati all’ordinamento giuridico, fiscale, economico, istituzionale, sociale e, soprattutto, di vita del Meridione. Furono immediatamente rimossi i magistrati di ogni livellogiudiziario, tranne quelli di comprovata fede piemontese, i questori, gli intendenti e i sovraintendenti, i prefetti, i comandanti di importanti presidi militari, i direttori dei maggiori uffici statali. I principali personaggi della vita pubblica d’un tempo furono sostituiti da funzionari piemontesi o lombardi. I sindaci furono catechizzati ad adoperarsi pro bono pacis e a sedare in ogni modo e con ogni mezzo le varie contestazioni locali, pena l’esclusione da eventuali sussidi nazionali.

Il sistema fiscale borbonico esonerava dal pagamento dell’imposta sul reddito le classi sociali meno abbienti, mentre prevedeva per quelle più agiate il pagamento di un unico tributo per singolofuoco(nucleo familiare). Tale sistema fu sostituito da un focaticoche colpiva tutte fasce reddituali, anche quelle più basse, che erano tassate in base al numero dei componenti di ognifuoco e in proporzione al reddito prodotto.

Furono istituite le famose ed inique tasse sul macinato e sul sale, che non tutti i cittadini riuscivano a sopportare. Furono creati ex novo balzelli, gabelle, dazi e piccole imposte che tartassavano in continuazionela vita quotidianaad ogni livello.

L’aspetto, però, che, più d’ogni altro, determinò una protesta di grande e grave portata fu l’istituzione della leva militare obbligatoria di cinque anni. Vale la pena ricordare che con i Borbone il servizio militare non era obbligatorio, bensì volontario. Questa inaspettata imposizione comportò un improvviso calo della manodopera nelle campagne, nelle officine e nelle industrie, che, per buona parte, furono costrette a ridimensionare sensibilmente la produzione. Ciò determinò, nel giro di poco tempo, un calo consistente della florida economia agraria ed industriale del Mezzogiorno.

Pian piano andò aumentando tra i giovani la contestazione ed ilrifiuto di prestare l’iniquo servizio di leva. Molti di loro subirono gravi processi penali e l’incarcerazione nelle fredde prigioni di Fenestrelle, nell’alto Piemonte, nelle quali, in precedenza,erano finiti i soldati borbonici che si erano rifiutati di passare nei ranghi dell’esercito italiano. L’unica possibilità per i renitenti era rappresentata dalla latitanza nei boschi, dove in tanti impugnarono lo schioppo e diventarono “briganti”,non per derubare ma per difendere la loro terra dallo straniero, come più tardi fecero i “partigiani” contro i tedeschi a tutela del suolo patrio.

 

Il fenomeno del brigantaggio

Già mezz’anno dopo l’Unità d’Italia, in diverse zone del Meridione, iniziarono a costituirsi bande armate di giovani renitenti, contadini e manovali senza lavoro con l’unico intento di riportare sul trono re Francesco di Borbone. Le prime schermaglie videro quasi sempre prevalere le bande brigantesche, che attaccavano drappelli di carabinieri in perlustrazione,tendendo loro degli agguati, per poi ritirarsi repentinamente nei boschi. I militari italiani subirono pesanti perdite, tanto che il governo centrale fu costretto ad adottare nuove strategie, rafforzando i servizi di pattugliamento e richiamando nel Meridione un esercito di centomila soldati. Fu inoltre approvato in Parlamento il disegno di legge del deputato abruzzese, Giuseppe Pica, che prevedeva condanne capitali nei confronti dei renitenti alla leva, di coloro che fornivano armi, viveri ed ogni sorta di aiuto ai briganti. La lotta si inasprì a tal punto da culminare con la distruzione di interi paesi, dei quali ricordiamo Casalduni e Pontelandolfo. L’ordine impartito dal famigerato gen. Enrico Cialdini ai suoi soldati fu quello di “non lasciare pietra su pietra”. Furono compiuti atti di estrema e inaudita violenza: i maschi fucilati, i bambini e i vecchi sgozzati, alcune donne, quelle belle tanto per intenderci, violentate a più riprese e, a spregio, infilzate con la baionetta nella vagina. Si vantò dell’impresa il crudele generale, esaltando le gesta dei suoi soldati e definendo i meridionali con una frase che rappresenta il razzismo più becero ed umiliante che nessuna pacificazione futura potrà mai cancellare.

Questa è Affrica(sic), altro che Italia!… I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono latte e miele!”.

 

L’aggressione al sistema monetario

Abbiamo avuto modo di ricordare in altre sedi che la grande ricchezza monetaria borbonica, secondo quanto dimostrato in Parlamento dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Francesco Saverio Nitti, ammontava a 443,2 milioni di lire-oro (si badi che ogni lire-oro pesava ben 4,5 grammi di oro e che oggi il suo valore equivarrebbe a non meno di 170 €). Se si prova a moltiplicare i milioni di lire-oro per il valore dellasingola lira si ottiene il considerevole importo di oltre 75 miliardi di euro. Chi scrive è dell’avviso, però, che non si trattava di lire-oro, ma di ducati d’oro, ognuno dei quali pesava 19,109 grammi e valeva intorno a 700 euro. Se ora proviamo a rimoltiplicare per questo nuovo valore, ci troviamo di fronte all’iperbolico importo di oltre 300 miliardi di euro! Comunque sia il fiume di denaro servì a coprire una minima porzione dell’enorme debito pubblico piemontese. La rimanenteparte, che ammontava a ben 120 milioni di lire-oro, fu equamente distribuita a tutti i cittadini del neo stato unitario.

Nel Meridione d’Italia, al posto del ducato, fu introdotta la lira-oro, che rimase in circolazione solo per pochi anni; in seguito fu sostituita da quella cartacea, che subì ripetutamente una continua svalutazione.

 

L’aggressione al sistema economico

Anche il sistemaeconomico subì un violento attacco. Agli inizi del 1863, l’immenso stabilimento metallurgico di Pietrarsa fu concesso in affitto, per 30 anni, alla modica somma di 45.000 lire, all’imprenditore Iacopo Bozza, vendutosi anima e corpo al nuovo governo.Per incrementare i profitti, il nuovo padrone ridusse drasticamente i posti di lavoro e la paga oraria, mentre aumentò le ore lavorative giornaliere per ogni operaio. Tali iniqui provvedimenti determinarono, come logica conseguenza,l’indizione di scioperi, da cui sfociarono gravi disordini repressi nel sangue. Il 6 agosto 1863 una carica di bersaglieri provocòla morte di 7 operai e il ferimento di 20.In seguito l’industria si riprese, ma mantenne dimensioni ed ambiti alquanto modesti.

Anche i grandi stabilimenti siderurgici di Mongiana in Calabria conobbero la stessa sorte. L’acciaio calabrese era il migliore in Europa, tanto da far invidia agli stessi inglesi, che se ne approvvigionavano in continuazione. Subito dopo l’Unità d’Italia, il governo italiano preferì ridimensionare gli efficienti stabilimenti della “Ruhr calabrese”, per favorire lo sviluppo di altre industrie del settore sorte nel nord. Gli stabilimenti calabresi, insieme alle vicineminiere di limonite (minerale di ferro), furono svenduti all’imprenditore calabrese Achille Fazzari, che tentò in ogni modo di riattivarli, impegnando tutte le sue risorse finanziarie ed assumendo ben duemila operai. Dopo alcuni anni di sacrifici e in mancanza di aiuti governativi, fu costretto a ridimensionare di molto l’attività, sino a chiuderla definitivamente.

Un consistente ridimensionamento subirono i cantieri navali di Castellammare di Stabia, le grandi cartiere campane, il setificio di San Leucio e i numerosi opifici dell’indotto. Lo stesso porto di Napoli, un tempo affollato di bastimenti e piroscafi commerciali, in entrata e in uscita, conobbe una crisi lenta ed inesorabile.

Furono in tante le maestranze, insieme ai moderni macchinari, ad essere trasferiti nelle industrie del nord. Furono in tante le opere d’arte trafugate dai palazzi reali e nobiliari per arredare quelli del nord e, perfino, i loro musei.

Tra i tanti provvedimenti scellerati adottati dal nuovo governo sono da ricordare l’incentivazione riservata ad aziende settentrionali ad investire nelle industrie e nel commercio del Sud, la privatizzazione del settore industriale pubblico, l’eliminazione dei dazi borbonici sull’importazione, che comportò il crollo del commercio internazionale ed interno. Scelte inopportune che determinarono il drastico ridimensionamento della produzione, la chiusura di diverse fabbriche e il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori.

In pochi anni, insomma, la grande economia del Sud fu costretta ad inginocchiarsi e a conoscere l’onta dell’umiliazione e della povertà.

Allo smisurato e incolmabile danno, seguì un’atroce e meschina beffa. Uno strisciante ed ignobile terrorismo psicologico s’insinuò nella coscienza della gente del Sud, che arrivò perfino a gratificare i loro stessi persecutori, considerandoli ed acclamandoli alla stregua di salvatori e benefattori. Attraverso la sistematica falsificazione della verità storica fu esaltato il mito risorgimentale. I giornali, le riviste, i romanzi, le commedie, i racconti, le canzoni, le opere letterarie e musicali, e, soprattutto, i libri di storia rappresentarono gli strumenti che fecero, apparire “vero” il “falso” storico. E ci riuscirono.

 

L’emigrazione

Dal 1863 in poi iniziarono i “viaggi della speranza”. Molti meridionali, per far fronte alla povertà e ai seri problemi ad essa collegati, decisero di abbandonare il loro paese e partire “per terre assaje luntane”, nella speranza di trovare un lavoro e una vita più dignitosa. Con un carico di poche valigie, interi nuclei familiari s’imbarcarono su bastimenti, vecchi e fatiscenti, verso “la Mèrica”, tutti ammassati in coperta, alla stregua di animali, per giorni, per mesi, privi di un ben che minimo supporto igienico, con due pasti quotidiani poco energetici, con una latrina comune situata in una zona non molto riservata del ponte, con un paio di infermieri che facevano da medici, con gli occhi protesi sempre all’orizzonte alla ricerca spasmodica della terraferma, che forse li avrebbe riportate a nuova vita.

Alcuni piroscafi affondarono a seguito di violente tempeste, ad altri non fu concesso di attraccare in porto perché a bordo vi era un’epidemia di colera o di tifo, altri ebbero la fortuna di approdare e di scaricare il prezioso “oro umano”, comprato a basso prezzo da mercanti senza cuore. Furono in molte le famiglie a patire le stesse sofferenze italiche. La gente si arrabattava alla meglio, viveva in squallide stamberghe prive delle essenziali condizioni di vita, mangiava cibo di scarsa qualità e si copriva con luridi stracci. Solo in pochi ebbero la fortuna di affermarsi e di costruirsi una vita adeguata alle loro aspettative.

In cinquant’anni di emigrazione, ben 10 milioni di italiani abbandonarono la loro patria. Di questi, la maggior parte erano meridionali, veneti e friulani, una modesta parte di altre regioni, anche del Piemonte. Solo nel 1915 la partenza verso le Americhe s’arrestò come d’incanto. I giovani, però, partirono ugualmente verso un destino ancora più crudele del migrante, partirono per la “Grande Guerra” per essere utilizzati come “munizioni” da mitraglia e palle da cannone contro gli Austriaci, a difesa di interessi e privilegi dei “Savoia”, che portarono,in settant’anni di regno, miseria e lutti alla maggior parte degli italiani. Poi, terminata la guerra, l’emigrazione riprese intensa sino alla fine degli anni ’60… e furono in tutto 14 milioni di disperati, sparsi in tutto il mondo.

Conclusione

Gentili lettori, la storia che vi ho raccontato non è affatto una storia inventata, né tantomeno una storia di parte, bensì una storia realmente accaduta e che mai alcun libro di scuola ha inteso ricordare e tramandare alle giovani e fuorviate generazioni di oggi.

Ora che avete letto i miei brevi scritti, vi invito a soffermarvi per qualche minuto, a meditare e a trarre le dovute riflessioni. Fatelo senza dare ascolto all’ingannevole richiamo che viene dalla vostra diversa appartenenza territoriale, politica, religiosa, sociale. Se lo ritenete opportuno, andate a consultare un buon libro di storia, oppure fate delle ricerche approfondite su Wikipedia. Vi accorgerete che le mie affermazioni non sono dettate da ragioni faziose, ma sono sacrosante e rispondono al vero. Perciò, continuate a meditare e, se potete, calatevi per qualche attimo nei panni di quella poveragente del Meridione che all’improvviso si trovò a subire l’occupazione straniera e a vivere un dramma epocale.

Fatelo – vi prego – anche se vi costerà molta fatica e susciterà in alcuni di voi rammarico, rincrescimento e rabbia. Solo in questo modo potrete capire quanto ebbero a soffrire le genti del sud e quanto ancora si facciano sentire, a distanza di 150 anni di Unità,alcunediscriminazioni sociali tra le varie genti italiche. Dispiace dirlo, ma oggi siamo molto distanti dal considerarci “Fratelli d’Italia”. Ciò nonostante “W l’Italia!”.

*Pubblicato su  “Il filo di Aracne”

Eccidi e inganni dell’Unità d’Italia

RISORGIMENTO INSANGUINATO

 PARTE I

Eccidi e inganni dell’Unità d’Italia

 
di Antonella Randazzo

Esistono retoriche e simbologie assai efficaci a catturare l’animo umano. Fra queste, la retorica delle guerre patriottiche e nazionalistiche, che si basa sul racconto di eventi storici che suscitano orgoglio, commozione e senso di trascendenza morale. Per ottenere questo risultato, le autorità si mostrano disposte anche a mistificare gravemente i fatti, creando falsi eroi e false imprese eroiche. E’ il caso degli eventi che portarono all’Unità d’Italia, passati alla Storia come “Risorgimento italiano”. A scuola ci hanno raccontato che all’epoca gli italiani elaborarono diversi piani ideologici per raggiungere la tanto desiderata unità nazionale, e che personaggi illustri, come Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II, in perfetta sintonia con ciò che gli italiani volevano, operarono per unire il paese dopo secoli di dominazione straniera. Il periodo risorgimentale emerge dunque come un momento storico ricco di idee che infervorarono gli animi degli italiani, che praticamente all’unanimità desiderarono porsi sotto l’autorevole potere dei Savoia. Tutto questo è molto commovente e lusinghiero, peccato che sia frutto di una mistificazione degli eventi reali.
In realtà l’Unità d’Italia fu un evento voluto “dall’alto”, ossia dalle autorità dei paesi egemoni (Inghilterra e Francia), e i Savoia non guardarono tanto all’interesse e alla volontà della popolazione quanto ai vantaggi personali e a quelli dell’élite a cui appartenevano.
Anche all’epoca dei fatti c’erano molte persone che nutrivano dubbi sull’idea che Cavour o Vittorio Emanuele II avessero a cuore le genti del meridione d’Italia. Si raccontava che Cavour, che non era mai stato nel sud Italia, avesse riferito in Parlamento “non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra”. (1) Anche Bixio non aveva mostrato molta considerazione per la Sicilia, quando aveva scritto alla moglie: “(La Sicilia) è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili”.(2)
Di certo, sia Cavour che Vittorio Emanuele II non avevano alcun interesse a migliorare le condizioni del sud Italia, mentre ne avevano parecchio a difendere gli interessi dei proprietari terrieri e dell’oligarchia dominante. Lo stesso Cavour apparteneva alla ricca classe nobiliare terriera piemontese.
L’Inghilterra iniziò ad imporre il suo potere nel Mediterraneo in seguito alle guerre napoleoniche, e aveva l’obiettivo di accrescere il suo dominio.

I Borbone non si erano sempre mostrati completamente sottomessi alle autorità inglesi, e desideravano concludere accordi con l’Impero Russo, che voleva avere una base navale nel Mediterraneo. Anche la Francia mirava ad accrescere il proprio potere sull’Italia, creando un protettorato sullo Stato

Lecce. Il monumento a Sigismondo Castromediano

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Occorre fare un passo indietro per conoscere la storia di questo manufatto e dell’uomo che l’ha ispirato. Si può seguire questo percorso leggendo il monumento che racchiude i momenti salienti della vita di questo grande personaggio, non solo patriota e poi deputato salentino della prima legislatura del Regno d’Italia, ma anche infaticabile custode della storia della nostra terra.

Il monumento, opera dello scultore Antonio Bortone (1844-1938), fu commissionato nel 1898 da Giuseppe Pellegrino, all’epoca Sindaco di Lecce, e, realizzato grazie ai contributi di Umberto I il Ministero l’Amministrazione Provinciale / il Capoluogo i comuni cittadini[1], fondi in parte raccolti grazie alla sottoscrizione aperta da Adele Savio, la nobildonna torinese cui Castromediano dedicò le Memorie[2].  Pellegrino insistette molto per farlo realizzare, tant’è vero che Bortone gli scrisse: «Se il monumento a Castromediano è veramente piaciuto ne sono essenzialmente contento per te mio buon amico che per vedere attuato quel tuo nobilissimo pensiero hai dovuto sopportare non poche amarezze e lottare molto»[3].

Bortone ha ritratto il Duca in piedi, appoggiato con la mano sinistra a una sedia, dov’è stata posata frettolosamente una coperta. Reca nella mano destra, porgendolo al visitatore, il manoscritto delle sue Memorie, l’opera in cui racconta i moti del 1848, la condanna, gli undici anni di carcere, l’esilio.

Potrebbe aver voluto rappresentare idealmente uno dei momenti più significativi della vita di Sigismondo Castromediano: l’incontro tra il duca e re Umberto I avvenuto il 23 agosto 1889 nelle sale del Museo Provinciale[4]. La coperta abbandonata denoterebbe l’accantonamento della vecchiaia e delle sofferenze subite, la postura altera di Castromediano, ritratto in tutto il suo vigore, è sinonimo dell’orgoglio di porgere al re, e quindi a tutta l’Italia, il suo contributo, e quello di tutta la Terra d’Otranto, alla Patria.

Ai piedi della statua, sul davanti, troneggia una rappresentazione della Libertà «nelle nobili fattezze di una matrona seduta», sul lato posteriore la Gloria è «simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg»[5].

Sul lato sinistro del monumento, sull’alto plinto in marmo si legge: Nei tormenti della pena / non mutò l’animo. Sotto sono elencate le carceri dove fu imprigionato: Procida, Montefusco, Montesarchio, Nisida, Ischia[6].

Sul lato destro, la scritta Ai compagni fedele / sdegnò privilegio / pari ne volle la sorte, è accompagnata dall’elenco dei loro nomi (qui riportati per esteso e correttamente): Nicola Schiavoni di Manduria, Michelangelo Verri di Lecce, Leone Tuzzo di Scilla, Maurizio Casaburi di Manduria, Carlo D’Arpe di Lecce, Nicola Donadio di Manduria, Francesco Erario di Manduria, Pasquale Persico di Lecce, Gennaro Simini di Lecce, Luigi Cosentini di Otranto, Giuseppe De Simone di Lecce, Dell’Antoglietta[7] di Lecce, Gaetano Madaro di Monteroni, Giovanni De Michele di Lecce, Salvatore Stampacchia di Lecce, Achille Bortone di Lecce.

ph Giovanna Falco

Scorrendo le pagine delle Memorie[8], si viene a sapere che queste persone (tranne il dottor Gennaro Simini, in precedenza espatriato), il 2 dicembre 1850 furono condannate a carcerazioni di varia entità (dai trent’anni di ferri inflitti a Castromediano e a Schiavoni all’anno di reclusione stabilito per Bortone), sentenza conseguente alla partecipazione, a vario titolo, ai moti del 1848, cui seguì l’arresto per cospirazione e insurrezione contro Ferdinando II. In questo elenco non sono citati il sacerdote di San Pietro Vernotico Nicola Valzani, il canonico Salvatore Filotico di Manduria (morto in carcere), Giuseppe Amati di Lecce. La frase che accompagna i nomi sul monumento, si riferisce al rifiuto di Castromediano alla proposta di grazia ottenuta nel 1854, per l’intercessione del Vescovo di Lecce Nicola Caputo, durante la sua detenzione a Montefusco.


[1] La targa è situata alla base del monumento, sotto l’aquila. Parteciparono con somme più o meno ingenti, anche il Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Pelloux e vari Comuni di Terra d’Otranto (Cfr. Ivi, pp. 54-55).

[2] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche – Memorie del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce 1895, 2 vol. (ed. anast., Bologna 1975).

[3] R. DOLCE PELLEGRINO, Il monumento a Sigismondo Castromediano nel carteggio Savio – Pellegrino  cit.,  p. 58.

[4] Il sovrano era venuto a Lecce per una breve visita con il figlio Vittorio Emanuele, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi e i ministri Benedetto Brin e Pietro Lacava. Cosimo De Giorgi era presente all’incontro. Racconta che: «Appena il Re lo vide con accento franco, affettuoso e sorridente, affrettando il passo innanzi a tutti corse ad abbracciarlo». I due, poi, si appartarono in una sala. Quando tornarono dagli altri, erano molto commossi. Castromediano non raccontò mai a nessuno quello che si erano detti, ma commentò l’evento sull’albo dei visitatori del museo. Sotto la firma del re e dei suoi accompagnatori, scrisse: «Con molta loro sodisfazione, tutto ammirando, commentando, spiegando, stettero in detto Museo dalle 5 e mezzo pom. sino alle 6. Onore che non dovrà giammai dimenticarsi» (C. DE GIORGI, Il Duca Castromediano e il Museo Provinciale di Lecce, in “Numero Unico”, Lecce 1896, pp.5-11: p. 5).

ph Giovanna Falco

[5] Cfr. Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti.

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/30/antonio-bortone-da-ruffano-1844-1938-il-mago-salentino-dello-scalpello/

[6] Le carceri dove Castromediano soggiornò più a lungo, oltre quelle leccesi (dove fu recluso dal 30 ottobre 1848 al 28 maggio 1851), furono Procida, Montefusco e Montesarchio (Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit.).

[7] Sul monumento manca l’iniziale del nome di Dell’Antoglietta, non si sa, dunque, se chi ha redatto l’elenco si riferisca ad Achille (condannato il 2 dicembre 1850 a quattro anni di prigione), o a Domenico che subì una condanna a dodici anni in un altro processo e incontrò Castromediano al momento dell’imbarco per l’esilio.

[8] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit., pp. 123-159.

Il Risorgimento in Puglia

Giuseppe Pisanelli

di Paolo Rausa

Il Mezzogiorno d’Italia ha svolto un ruolo non secondario nel processo risorgimentale, con un contributo notevole di vite perdute, per lo più sottaciuto nei documenti storici e nelle cerimonie ufficiali rievocative. Il Sud aveva per tempo già dato prova della sua vocazione repubblicana nella breve e tragica esperienza istituzionale della Repubblica Napoletana nel 1799 e poi nei moti rivoluzionari del 1820-21 e del 1848.

Anche la Puglia è stata componente significativa di questo lungo processo storico-culturale, che ha coinvolto i figli della borghesia e i semplici cafoni. A cominciare da Antonietta De Pace, nativa di Gallipoli e fulgido esempio di donna coraggiosa e intelligente, che è andata oltre le convenzioni che discriminavano le donne. Al grande giurista e politico tricasino Giuseppe Pisanelli (18121879), autore del primo codice di procedura civile del Regno d’Italia ed esule per la sua azione di animatore contro la monarchia borbonica, poi nominato Ministro di Grazia e Giustizia da Garibaldi e confermato nel Governo nel nascente Regno d’Italia. A  Sigismondo Castromediano di

Pittori pugliesi del nostro Risorgimento

di Lucio Causo

Francesco Netti – Le-ricamatrici levantine

 

   Francesco Netti è nato a Santeramo in Colle nel1832, ha frequentato le scuole degli Scolopi e si è laureato in Giurisprudenza a Napoli, si è spento nel 1894.    A Grez, in un paesino vicino a Fontainebleau, ha studiato Camille Corot e Gustave Courbert, ha viaggiato per l’Europa fino in Turchia.

Egli ha dipinto I Gladiatori, La pioggia sul Vesuvio in gara con Gioacchino Toma, I Mietitori curvi sulle falci con il sole della sua Puglia che spacca dall’alto le pietre delle Murge.

Pietro Marino, in occasione della retrospettiva dedicatagli nel 1980 nella Pinacoteca dell’Amministrazione Provinciale di Bari, visitata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, mentre era in allestimento, ha scritto che le 140 opere del Netti lo pongono fra gli artisti intellettuali, in controcanto con gli artisti del Nord, come Angelo Morbelli e Giuseppe Pellizza da Volpedo, animato dal Quarto Stato.

Il Netti è ritenuto anche un grande innovatore della critica d’arte. L’illustre santeramese ha dimostrato con evidente rischio la sua solidarietà verso i popoli in conflitto, militando da volontario nella Croce Rossa Italiana durante la guerra franco-prussiana.

Giuseppe de Nittis, L’ora tranquilla (1874)

Giuseppe De Nittis  è nato a Barletta nel 1846, dopo la sua permanenza a Napoli, ha raggiunto Parigi dove ha sposato nel 1869 Léontine Gruvelle con la quale ha ricevuto nel suo salotto E. De Concourt, Dumas figlio, A. Daudet, E.

Gli eroi pugliesi del Risorgimento Italiano

a cura di Paolo Rausa

 Ass.ne Regionale Pugliesi 

Invito conferenza

GLI EROI PUGLIESI DEL RISORGIMENTO ITALIANO  

Novo Umberto Maerna –Vice Presidente e Assessore alla cultura Provincia di Milano

Dino Abbascià – Presidente Associazione Regionale Pugliesi

Sono lieti di invitarla alla Conferenza

GLI EROI PUGLIESI DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Sabato 29 ottobre 2011 ore 17,30

Palazzo Isimbardi – Sala Affreschi

Corso Monforte,35 Milano  (MM1 San Babila)

“La Puglia partecipò all’epopea risorgimentale? E se sì, in quale misura? Sono domande che vengono spontanee quando si sente parlare solo di Cavour,

Libri/ Quell’“amara” Unità d’Italia, di Dora Liguori

 

di Rocco Biondi
 
Le storie che si leggono nel libro di Dora Liguori sono le stesse che abbiamo letto sui libri di storia a scuola, ma il punto di osservazione è totalmente diverso. Talvolta vengono usati ironia e sarcasmo.
Vengono presentati gli avvenimenti, storici e sociali, accaduti in Italia nei primi settantanni del diciannovesimo secolo, con particolare riguardo al decennio (1860-1870). Sono gli anni del cosiddetto (a posteriori) “Risorgimento”, quando si fece l’amara unità d’Italia. Unità che si è rivelata per il meridione come la più immane delle tragedie.
Sui fatti accaduti in quel periodo continua ancora a permanere il segreto di Stato. Una massa di documenti, circa centocinquantamila, dopo centocinquanta anni da quella Unità, sono ancora segretati. La verità continua ad essere occultata.
Per glorificare quella che fu spacciata come una liberazione, i vincitori Savoia assoldarono scrittori dell’epoca che fecero diventare inoppugnabile verità storica quello che era frutto di una spregiudicata fantasia. Nella realtà si trattò di una nuda e cruda conquista territoriale del Regno delle Due Sicilie.
Alla falsificazione storica un contributo determinante lo ha dato negli anni successivi il filosofo meridionale Benedetto Croce. La sua lettura addomesticata della storia è passata poi in tutti i libri scolastici. Chiunque volesse intraprendere la carriera universitaria era costretto ad adeguarsi. Il Sud ancora oggi sta pagando per quella falsa interpretazione della storia. E’ solo una bella favola quello che è stato raccontato circa il processo idealistico che portò all’Unità d’Italia. La conquista del Sud invece fu

Taranto e l’Unità d’Italia. Nicolò Cataldo Mignogna

 
 

 

ph Daniela Lucaselli

 

 

di Daniela Lucaselli

Un grande uomo, esempio di virtù civili, di acceso patriottismo, di amore per la libertà, di avversione accesa alla tirannide. Nacque il 28 dicembre 1808 nel Borgo antico di Taranto e visse i primi anni in questa città, teatro di lotte fra reazionari e giacobini, nelle mani dell’avventuriero Boccheciampe che voleva saccheggiarla per punirla dei suoi ideali liberali.

Il padre del nostro eroe, con l’aiuto di alcuni marinai, respinse i predoni e liberò la città dalla violenza delle bande sanfediste.

E’ proprio in questi momenti che si plasma lo spirito del nostro patriota, che mai si scoraggiò di fronte a delusioni, amarezze e tradimenti.  Studiò presso il seminario della città natale, ma il suo profitto fu scarso, dovuto al fatto che questi studi troppo retorici ostacolavano la sua libertà di pensiero e la sua creatività. Proseguì quindi come autodidatta. Lo studio dei classici, quali Dante e Foscolo, Machiavelli e Cuoco, della Storia Romana e dei Comuni medioevali, formarono il suo spirito di giustizia e libertà e alimentarono  l’entusiasmo e la condivisione per la Repubblica.

A Napoli si laureò in Giurisprudenza. Questi studi lo forgiarono  ulteriormente,  strinse contatti ed amicizia con giovani patrioti e frequentò circoli clandestini alimentati da ideali mazziniani.

Si iscrisse ai “Figlioli della Giovane Italia” di Benedetto Musolino,  si prodigò alla lotta politica e a divulgare le idee repubblicane in Abruzzo, Puglia, Calabria, a discapito della sua professione di avvocato. Controllato dalla polizia borbonica fu arrestato e rinchiuso per due anni nelle Carceri di S. Maria Apparente. Fu rilasciato per mancanza di prove. Il Commissario di

Taranto e l’Unità d’Italia. Vincenzo Carbonelli

 

 

di Daniela Lucaselli

Insigne patriota, compì i primi studi presso il seminario predilendo i grandi della letteratura latina ed italiana, quali Livio, Tacito, Dante, Machiavelli, Alfieri e Foscolo. Sono i grandi che predilesse, le cui “ossa sembrano ancor fremere amor di patria”. Andò a Napoli a studiare medicina e si iscrisse alla “Giovane Italia”.

Il suo “vivace” carattere ne fece un “capo” fra i giovani che lo conoscevano e lo seguivano.  Lo sdegno contro la tirannide, l’odio contro chi usurpava la sua terra con il proprio dominio, venne alimentato dall’esito negativo della spedizione dei fratelli Bandiera, ragion per cui si impegnò in prima linea per indurre il governo borbonico a concedere un sistema politico meno oppressivo e più libero.

Le riforma di Pio IX, di Carlo Alberto e del Granduca di Toscana alimentarono di speranza gli ideali patriottici, anche se Fernando II perseverava nel suo vetusto sistema poliziesco.

L’insurrezione di Palermo e la proclamazione della Repubblica in Francia diedero l’avvio ai moti rivoluzionari nel Mezzogiorno. Il 12 febbraio 1848 il nostro concittadino, alla testa di accesi liberali, diede vita ad una significativa rivolta. Percorrendo le vie di Napoli gridava”Abbasso il fedifrago Bozzelli”, che da liberale era diventato reazionario. Passò davanti al palazzo dell’Ambasciatore d’Austria, si appropriò dello stemma che raffigurava l’aquila bicipide, la ruppe e distribuì i pezzi a coloro che erano con lui. Era palese lo sdegno verso la nazione che aveva sostenuto i borboni

Taranto e l’Unità d’Italia. Cataldo Nitti

ph Daniela Lucaselli

di Daniela Lucaselli

Esponente di rilievo in Puglia, animato da nobili ed alti ideali patriottici, nacque a Taranto il 13 maggio 1808. La sua formazione la ricevette  nel Seminario tarantino e a Napoli si laureò in Giurisprudenza. Dedito alla letteratura classica compose rime e prose.

A Napoli frequentò la casa del’ex Arcivescovo Giuseppe Capecelatro e strinse amicizia con noti liberali, tra cui il concittadino Nicola Mignogna.

Tornato nella sua città natale si dedicò con zelo alla sua professione, rivolgendo uno sguardo particolare al mondo degli umili.

In una sua monografia, stampata a Napoli nel 1857, lo scrittore parla della crescente povertà del proletariato tarantino, dovuta, a suo parere,  alla decadenza dell’industria cotoniera, di cui Taranto vantava un impareggiabile primario nella Regione, dovuta al diffondersi delle macchine e dei prodotti tessili meno costosi. Sollecitava la gente del posto a dedicarsi, con spirito di sacrificio, zelo ed amore, all’agricoltura, che poteva diventare una rigogliosa risorsa, grazie alla ricchezza del suolo. Ma questi suggerimenti non furono ascoltati.

Francesco II nominò Ministro dell’Interno e della polizia un suo amico, Liborio Romano, che si prodigò per il buon esito del moto nazionale e della spedizione dei Mille, appena iniziata in Sicilia.

In Basilicata, terra strategica nella marcia dei Mille, erano presenti vivaci contrasti fra i reazionari e i liberali; le plebi erano insoddisfatte e costante era il presidio delle truppe borboniche. Bisognava affidare l’incarico ad un uomo di fiducia e il Romano pensò al nostro patriota. Il Nitti, che si era allontanato dalla politica militante, partì subito per Napoli per incontrarsi con l’amico e abbracciò la causa unitaria, fiducioso della monarchia di Vittorio Emanuele II. Il 14 agosto era a Potenza dove pubblicò un proclama, nel quale, sviscerando il suo odio contro la tirannide, chiedeva

Lecce. Le offese al monumento a Sigismondo Castromediano. Bisogna porre rimedio!

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

 

Kia + Gigi 12/10/10 Gigi ti amo by la tua Kia.

Kia conosci la storia del marmo su cui hai immortalato la tua dichiarazione d’amore? Lo sai che Sigismondo Castromediano, quell’omone in bronzo che porge un libro, non è solo il nome del Museo visitato durante qualche gita scolastica? Lo sai che hai impresso la tua firma a fianco a un elenco di nomi di persone che nel 1848 hanno sacrificato la loro libertà per perseguire un ideale?

ph Giovanna Falco

E che dire dei tanti altri “geroglifici” che imbrattano il monumento a Sigismondo Castromediano, posto al centro della piazzetta omonima sita a metà strada tra Palazzo Carafa e Palazzo dei Celestini? Per non parlare della macabra ridipintura delle unghie della statua della Libertà!

 
 
 

 

le unghie “smaltate” dal solito buontempone con cattivo gusto (ph Giovanna Falco)

 

 

Cari amministratori, perché in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia non ponete rimedio a questi atti di tracotanza giovanile, ripulendo il monumento dedicato agli avvenimenti che in Terra d’Otranto ne hanno permessa l’attuazione? Giacché, potreste correggere gli strafalcioni compiuti da chi in seguito ha messo mano al monumento, trasferendo ai posteri un’errata memoria: per cui Maurizio Casaburi e Francesco Erario, operai di Manduria condannati a nove anni di ferri, passano ai posteri come M. Casapuri e F. Isario, e il leccese don Giovanni De Michele, condannato a tre anni di carcere, è eternato come O. De Michele.

Ci si chiede, inoltre, perché sulla base del monumento è riportata la data MDCCCXII: non si riferisce ad alcun episodio della vita di Castromediano, nato il 20 gennaio 1811 e morto il 20 agosto 1895!

Eppure, nell’accorato discorso inaugurale del monumento a Sigismondo Castromediano, il 4 giugno 1905, Giuseppe Pellegrino declamava: «Noi

Taranto e l’Unità d’Italia. Giuseppe Massari

 

di Daniela Lucaselli

Elevatezza di pensiero, nobiltà di carattere, fiero patriottismo, così lo si può definire il nostro concittadino. Fu uno dei pubblicisti di spicco nel periodo risorgimentale; la sua innata passione di scrittore si ispirava a sani principi di morale e di patriottismo. La forte personalità, il suo temperamento passionale, la tendenza dialettica emersero nel giornalismo, uno strumento nelle sue mani atto alla divulgazione del proprio pensiero, pronto a risvegliare coscienze assopite dalla schiavitù, a illuminare menti asservite dall’ignoranza e a diffondere gli ideali di libertà e di indipendenza che infuocavano il suo animo.

Nacque a Taranto l’11 agosto 1821. Dotato di spirito vivace e buon ingegno, si dedicò dapprima  a studi letterari e filosofici nel seminario di Avellino, poi, a soli quattordici anni, a studi di  matematica e medicina, per poi ritornare alla tanto amata letteratura e filosofia. Frequentò la casa dell’abate pugliese Teodoro Monticelli, convinto sostenitore delle idee liberali, entrò in contatto con diversi patrioti, che avevano partecipato ai moti del 1799 e del 1820, dai quali apprese lo spirito di libertà, supportato dalla lettura delle opere di Pasquale Galluppi, che divenne suo maestro.

Pare che frequentasse la setta della Giovine Italia, fondata dal connazionale calabrese Benedetto Musolino.

Il suo agire irruento richiamò l’attenzione della polizia borbonica ed il padre, temendo per il futuro del figlio, che aveva nel frattempo pubblicato in un’edizione clandestina le poesie di Berchet, lo fece credere un ribelle e gli impose di emigrare a Marsiglia, in Francia.

Aveva solo 17 anni. Nella capitale francese conobbe Terenzio Mamiani, il quale gli consigliò di leggere la “Teorica del Sovrannaturale” di Vincenzo Gioberti, esule a Bruxelles. Il nostro connazionale si invaghì delle sue teorie. Dal novembre del 1838 intrecciò con lo studioso una relazione epistolare  e in due articoli,  inviati nel 1841 al “Progresso” di Napoli  intorno all’”Introduzione allo studio della filosofia” del filosofo, gli espresse la sua ammirazione, ne condivise gli ideali e i sogni, auspicando di vedere l’Italia rifiorire  nel suo antico splendore.

Tra i due nacque una intensa comunione d’intenti, anche se ben presto, il giovane abbandonò gli studi della filosofia per darsi all’azione. Entrò in contatto con altri esuli italiani, come Guglielmo Pepe, Filippo Buonarroti, Giovanni Berchet, Nicolò Tommaseo, con i quali strinse una forte amicizia

Taranto. Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

Una voce decisa vibrò all’unisono:

Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

di Daniela Lucaselli

Gli avvenimenti  tessono la  intricata tela della storia, le passioni colorano gli ideali, le lotte acuiscono le controversie ideologiche, il popolo rivendica la tanto desiderata libertà.

Il nostro Risorgimento nazionale… sul sangue versato di tanti eroi inneggerà la sua bramata libertà.

L’attesa, la speranza… vedere l’Italia “inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente”, risorta “virtuosa, magnanima, libera e una”. Così Vittorio Alfieri sogna la sua Patria.

Sono passati 150 anni… le iniziative e le manifestazioni si moltiplicano ogni giorno in tutta la Penisola  per rimembrare il sacrificio di chi, con la propria vita, ha contribuito all’unità della Nazione.

Il Risorgimento è innanzi tutto storia di uomini che, con il loro operato, hanno contribuito alla rigenerazione morale dell’umanità. Hanno dimostrato coerenza di principi, onestà di intenti e fede nell’ideale ed hanno fatto  diventare tutto ciò una realtà storica, concreta.

L’Unità d’Italia (già Dante auspicava l’unità spirituale degli italiani) è stato il coronamento dell’opera e dell’azione di uomini  insigni, appartenenti a tutte le regioni della Penisola,  che hanno sentito vibrare nel loro animo  la sete di un certo rinnovamento delle condizioni dell’Italia, l’unità, l’indipendenza, l’educazione del popolo e il suo benessere sociale ed economico.

Il processo risorgimentale ha comunque registrato nel suo insieme una esigua partecipazione di massa, specie se questo dato lo si riferisce  al

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!