Della morte nel 1799 del “giacobino” ugentino Oronzo Santacroce

 

di Luciano Antonazzo

 

Pietro Palumbo nel suo Risorgimento Salentino[1] descrisse i molteplici scontri, sfociati in omicidi, tra i fautori della Repubblica Napoletana ed i filo-Borbonici nel Salento.

Per quanto concerneva Ugento, testualmente scrisse a pagina 47:

“Ugento era lacerata dai partiti Santacroce e d’Alessio, il primo democratico, l’altro borboniano. Alle notizie di Lecce e di Campi gli odî si riaccesero e parve giunto il momento di sbarazzarsi dei giacobini. Il popolo fu spinto a tumultuare da Francesco d’Alessio, da Ippazio Viva e da Pasquale de Paolis, i quali decisero di ammazzare Oronzo Santacroce.

Suonando il vespero degli 11 febbraio [1799] un esercito di sfaccendati, di preti, di disertori, allagò le vie armato di schioppi e con le coccarde rosse ai cappelli. A quel rumore il Santacroce, indovinando le sinistre intenzioni della folla, segretamente uscì alla campagna. Scoperta la fuga, i più audaci gli corsero alle spalle, e il Santacroce sparò ed uccise Salvatore Pongo [Ponzo] il quale stava per ghermirlo. Ma raggiunto da altri fu finalmente colpito da punte di baionetta ed ucciso con pietre”.

In realtà però questo avvenimento ebbe luogo la notte del 15 marzo del 1799, presso la Porta San Nicola, ad ovest delle mura bizantine, e non in campagna, come ci attesta don “Hippatius Canonicus Theologus Colajanni Aeconomus Curatus” che registrò la morte del Santacroce nel libro dei defunti della cattedrale di Ugento. Questa registrazione ricalca l’esposizione di fatti riportata dal Palumbo, ma è più cruda nella sua realtà. Egli, quasi come cronista dell’epoca, testualmente riportò:

Uxenti die decima quinta Mensis martii anni R. S. millesimi septingentesimi noni, hora vigesima tertia cum dimidio, Orontius Santacroce, vir Barbarae Paschali coniugis de Uxento, aetatis sua annorum circa quadraginta, obiit extra muros hiuiusce Civitatis prope Portam vulgo dicta Santi Nicolai, ex violenti populari impetu lapidibus fractus, insimulatus tamquam Religiosissimo Regi nostro Ferdinandi IV rebellis, Gallisque hostibus amicus, vulgo Jacobinus; quam paullo ante ipse tormenti bellici laxata rota ignito globulo Salvatori Ponzo se se proprius inseguenti mortem intulisset in ipso dicto Portae Santi Nicolai fornice audituque. Ipse autem Orontius S. Croce in mortis articulo dato poenitentiae signo, ab adomudum Reverendo P. Magistro F. Alberto Arditi Carmelita de Praesitio Sacramentaliter absoluto decessit. Cuius corpus in proximum S. Oratorium Beatae Mariae Virginis sub titulo Assumptionis jam sequente nocte illatum, sequenti mane in Cathedralem Ecclesiam apportatutum, ibidem peractis ex R.R. Sacris cerimonis in sepultura heredum quondam canonici D. Antonii Sava inumatum fuit[2].

A questa segue la registrazione della morte di Salvatore Ponzo di circa trenta anni, deceduto “ex ictu sclopeti, qui sibi vulnus inflictum fuit ab Orontio S. Croce[3]. Il Ponzo ebbe il tempo di confessarsi allo stesso Colajanni e di ricevere il viatico, prima di rendere l’anima a Dio. La mattina seguente fu officiato il rito funebre ed il suo corpo fu deposto nella sepoltura dell’Università.

I tragici avvenimenti sopra descritti ebbero uno strascico ancora più crudele il giorno dopo.

Nello stesso registro dei defunti, dopo l’annotazione della morte del Ponzo, si legge infatti:

Uxenti die decima septima mensis martii millesimi septingentesimi noni, hora septima noctis praecedentis anima innocentis puellae Aemiliae S. Croce filia quondam Orontii Santacroce, aetatis suae annorum quatuor, et mensis unius cum dimidio in Coelum advolavit; convulsionibus enim repente abrepta fuit puella, quia imprudenter ducta fuissete in Sacrum Oratorium sub titulo Sanctae Mariae in Coelo Assuntae ad videndum Orontium S. Croce patrem suum vulneribus saucium domique miserrime jacentem. Cuius puellae corpus in Ecclesiam Cathedralem seguente mane illatum, expletis ex R.R. Sacris cerimoniis in sepultura heredem quondam canonici D. Antonii Sava simul cum patrem depositum manet[4].  

Oronzo Santacroce era nato il 24 ottobre 1658 dal notaio Vito e da Maddalena Nicolazzo, ed era fratello del notaio Francesco. Quest’ultimo venne implicato nella vicenda dei due omicidi ma, da quel che è dato sapere, ne uscì indenne. Di lui Nicola Vacca scrisse:

“Viene notato di perduto genio repubblicano. Mostrò tutta la premura di democratizzare quel luogo. Si insignì di coccarda tricolorata. Sparlò in pubblico dei sovrani.  Fu carcerato ed indi abilitato. Vi seguirono due omicidi, per i quali se n’è persa la memoria dal sig. udit.re D. Antonio Greco, ed esso Santacroce fu abilitato”[5]. 

 

[1] P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), Gaetano Martelli Editore, lecce 1911.

[2] Trad.: “Ugento giorno quindici dell’anno della Riconquistata Salvezza 1799, all’ora ventitreesima e mezza, Oronzo Santacroce, marito di Barbara Pascale, coniugi di Ugento, all’età sua di circa quarant’anni, morì fuori le mura di questa città, vicino la porta dal volgo detta di S. Nicola in seguito a violento impeto popolare, fracassato con pietre, accusato sia come ribelle al nostro religiosissimo re Ferdinando IV, che come amico ai nemici francesi, per il volgo giacobino; il quale poco prima, esso stesso, con un’ infuocata palla di scioppo (tormenti bellici laxata rota),  a Salvatore Ponzo che proprio lui inseguiva, aveva arrecato la morte nello stesso detto arco ed adito della Porta di S. Nicola.  Lo stesso Oronzo S. Croce, dato in articulo mortis il segno della Penitenza dal molto Reverendo Padre Maestro frate Alberto Arditi carmelitano di Presicce, assolto sacramentariamente, decedette. Il cui corpo già deposto la notte seguente nel vicino S. Oratorio della Beata Vergine Maria sotto il titolo dell’Assunzione, la mattina successiva fu portato nella chiesa cattedrale, nello stesso luogo, avendo adempiuto secondo i Riti alle sacre cerimonie, fu inumato nella sepoltura degli eredi del defunto canonico don Antonio Sava”.

[3] Trad.: “per una ferita che gli fu inflitta da Oronzo Santacroce mediante un colpo di schioppetto”.

[4] Ugento -Archivio parrocchia della Maddonna Assunta, registro dei defunti 1798-1808, cc. 70r-70v.

Trad.: “Ugento, giorno diciassette del mese di marzo 1799, all’ora settima della notte precedente, l’anima dell’innocente fanciulla Emilia Santacroce, figlia del fu Oronzo Santacroce, all’età di anni quattro e mesi uno e mezzo volò in cielo; infatti la fanciulla fu repentinamente portata via dalle convulsioni perché imprudentemente era stata condotta nel Sacro Oratorio sotto il titolo di S. Maria Assunta in Cielo per vedere il padre suo straziato dalle ferite e nel tempio miseramente giacente. Il di cui corpo, della fanciulla,   portato il corpo la mattina seguente nella chiesa cattedrale, dopo aver adempiuto secondo i riti alle sacre cerimonie, rimane deposto insieme con il padre nella sepoltura degli eredi del fu canonico don Antonio Sava”.

[5] N. VACCA, I rei di Stato del 1799, Vecchi & C. Editori, Trani 1944, p. 98.

Liborio Romano e Sigismondo Castromediano

LIBORIO ROMANO NEI RICORDI DI SIGISMONDO CASTROMEDIANO

(in appendice segue la trascrizione del testo manoscritto del Castromediano)

di Maurizio Nocera

Sulla provenienza del manoscritto

Il 30 settembre 1980, lo storico gallipolino Domenico (Mimì) De Rossi (Gallipoli, 17 agosto 1911 – estate 1981) faceva richiesta alla presidenza della Società di Storia Patria per la Puglia (Bari) della

«costituzione in Gallipoli di una sezione della Società, facendo presente che Gallipoli, antica città marinara, ha un prezioso patrimonio storico-culturale mai finora messo in luce tranne saltuari studi a carattere vario [… Lo scrivente], già iscritto all’albo dei giornalisti, [afferma di avere] cinquant’anni di attività pubblicistica, avendo pubblicato 33 monografie riguardanti il Salento, particolarmente in campo storico-economico».

Questo documento, firmato dallo storico locale e da altri sei giovani studiosi della città, era indirizzato al giudice Donato Palazzo, in quel momento Procuratore della Repubblica per il Tribunale dei Minori di Lecce e Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia che, una volta costituita la sezione gallipolina, divenne il primo Commissario.

Durante gli anni 1978-79, ancor prima di formulare la richiesta ufficiale della costituzione della sezione, il presidente della Società, prof. Francesco Maria De Robertis, interpellato dal De Rossi e da chi qui scrive, ci aveva indicato di coordinarci appunto col giudice Palazzo affinché elaborassimo un progetto di eventi che permettesse sul piano pratico la costituzione della sezione. Così, per circa due anni, Domenico De Rossi e chi qui scrive, ogni settimana (preferibilmente il lunedì mattina) ci recavamo a Lecce, presso il Tribunale dei Minori (sito allora sulla strada per la stazione ferroviaria) per conferire col giudice. Le riunioni duravano non più di mezz’ora. In esse, il presidente Palazzo ci indicava quelli che potevano essere i campi di ricerca, che dovevano avere poi come sbocco un convegno. Alla fine furono selezionati tre campi di lavoro: “Brigantaggio”, che fu affidato a Domenico De Rossi; “Risorgimento salentino” a chi qui scrive; “L’attacco navale e la presa di Gallipoli da parte dei Veneziani nel 1484”. Altra indicazione che ci diede il giudice fu quella di concentrare tutto il materiale a nostra disposizione nei settori di ricerca specifica, per cui le carte sul brigantaggio a De Rossi, quelle sul Risorgimento salentino a me e quelle sulla presa di Gallipoli allo stesso giudice.

A quel tempo, io frequentavo già alcuni grandi storici della Questione meridionale, fra cui Tommaso Fiore (Altamura, 7 marzo 1884 – Bari, 4 giugno 1973) e suo figlio Vittore (Gallipoli, 20 gennaio 1920 – Capurso, 21 febbraio 1999), entrambi autori autorevoli di libri e saggi sul Meridione e sull’annosa questione; il lucano Tommaso Pedio (Potenza, 17 novembre 1917 – Potenza, 30 gennaio 2000), autore del volume Brigantaggio e questione meridionale (Edizioni Levante, Bari 1979); Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003), giornalista de «l’Unità» e presidente del Sindacato Nazionale Scrittori d’Italia, autore del libro Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia (Editori Riuniti, 1969), e soprattutto frequentavo, perché mi è fu pure maestro di storia e di vita, lo storico Franco Molfese (Roma, 1916-2001), vicedirettore della Biblioteca della Camera dei Deputati e autore del famoso libro Storia del brigantaggio dopo l’Unita’ (Feltrinelli, Milano 1964). Soprattutto per Molfese e per De Jaco scrivevo a macchina i loro manoscritti che poi, in bella copia, una volta consegnati, finivano sui banchi della composizione tipografica.

A quel tempo non c’era ancora la fotocopiatrice e, se c’era, bisognava fare chilometri e chilometri di strada per andare a trovarne una, per cui le carte antiche o te le trascrivevi manualmente oppure le prendevi in consegna per lavorarci sopra e successivamente le ridavi al legittimo proprietario. Quindi, sulla base delle indicazioni del giudice Palazzo, io cominciai a convogliare le mie carte (e i libri) sul brigantaggio verso Mimì De Rossi il quale, a sua volta, convogliò quelle sue riguardanti il Risorgimento a me, mentre insieme convogliammo le nostre carte (e i libri) sulla presa di Gallipoli allo stesso Palazzo.

In quegli anni Mimì De Rossi usava andava in giro per paesi e paeselli del Salento a vendere o a donare i suoi libri freschi di stampa (in cambio ovviamente di altri libri o altre carte antiche) presso studi di notai, avvocati, commercialisti, antiche famiglie di nobili in rovina. Spesso ero io che lo accompagnarlo con la mia macchina. Nacque tra di noi una profonda confidenzialità. Non poche carte del suo archivio personale, soprattutto quelle riguardanti il Risorgimento salentino (Bonaventura Mazzarella, Antonietta De Pace, Beniamino Marciano, Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni Carissimo, Oronzio De Donno, Giuseppe Libertini ed altri ancora), Mimì le consegnò a me affinché elaborassi il progetto del convegno come stabilito dal giudice Palazzo. Ad esse si aggiunsero anche le carte che Aldo Barba, padre di mio cognato Emanuele Mario, eredi del grande medico cerusico, letterato e risorgimentalista gallipolino Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), mi consegnò per questa stessa ricerca.

Sfortunatamente, quando la sezione gallipolina della Società di Storia Patria per la Puglia sembrava ormai cosa fatta, Mimì De Rossi venne a mancare nell’estate 1981 e, sia la ricerca sul brigantaggio, sia quella da me condotta sul Risorgimento salentino, s’interruppero. Continuò invece la ricerca del giudice Palazzo, che ebbe il suo epilogo nel Convegno nazionale, organizzato dalla locale sezione della Società di Storia Patria per la Puglia e dal Comune di Gallipoli (sindaco Mario Foscarini) tenutosi, in occasione del quinto centenario dell’evento storico, nella sala poligonale del Castello angioino il 22-23 settembre 1984 col titolo La presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto.

Subito dopo questo importante evento, anche il giudice Palazzo, divenuto nel frattempo commissario della sezione della Società di Oria, lasciò Gallipoli e la nostra sezione si diede un suo organigramma. La vita del sodalizio continuò ad andare avanti con qualche presentazione di libri e qualche altra ricerca (ricordo, ad es., quella sulla “Fontana greca o ellenistica”), ma non si parlò più di convegni sul Brigantaggio o sul Risorgimento salentino. Accadde così che le carte d’archivio sul brigantaggio, che io avevo dato a Mimì De Rossi, rimasero presso i suoi eredi, mentre le sue presso di me. Per la verità, data la mia stretta vicinanza con la famiglia De Rossi (soprattutto con la moglie Clara e i figli Pina e Fernando), tentai di intavolare il discorso delle “carte”, ma i suoi eredi mi consigliarano di tenerle io e di continuare la ricerca. Poi il tempo è passato e queste carte erano rimaste nel dimenticatoio di una biblioteca come la mia, che oggi si compone di alcune decine di migliaia di volumi e documenti vari.

Così oggi, scartabellando tra queste vecchie carte d’archivio e venendo a conoscenza del 150° anniversario (2017) della morte di Liborio Romano, è riemerso il manoscritto del Castromediano, che mi sono preso la briga di trascriverlo. Sono personalmente contrario a che le carte d’archivio restino sepolte per secoli fino al loro inevitabile deterioramento, quando poi la loro conoscenza può invece aggiungere qualcosa in più alla crescita della coscienza civile, morale e culturale di una comunità umana.

Francamente, una volta trascritto il documento, ho pensato che in esso non ci fossero delle grandi novità sulla vita e l’opera di Liborio Romano. Di lui si sa quasi tutto. Tuttavia l’ho prima mostrato a Giovanni Spano, presidente dell’Associazione culturale “Don Liborio Romano”, quindi l’ho inviato al prof. Giancarlo Vallone, secondo me uno tra i più qualificati storici italiani, per di più grande conoscitore del Romano, il quale mi ha risposto dicendo che «una certa sua valenza, questo documento ce l’ha. Infine ho inviato copia del manoscritto anche al prof. Fabio D’Astore».

 

Ed ora qualche riflessione su Liborio Romano

«Tutti coloro che finora hanno trattato Liborio Romano, lo hanno presentato come un personaggio squallido, camorrista voltagabbana, nel peggiore dei casi, ambiguo, controverso nel migliore dei casi».

Questa affermazione è dell’on. Ernesto Abaterusso, sindaco di Patù nel 1996, che l’ha scritta nella presentazione al libro di Francesco Accogli, Il personaggio Liborio Romano. Precisazioni bio-anagrafiche. Contributo all’epistolario[1].

Questo incipit mi è necessario per dire che di questo straordinario personaggio salentino di Patù sappiamo ormai tutto o quasi tutto. Su se stesso ha scritto in primo luogo direttamente lui, poi suo fratello Giuseppe, ancora qualche altro suo parente. Immenso l’elenco di scrittori o sedicenti tali borbonici, neoborbonici, conservatori, reazionari, antipopolari che, secondo di come gira il tempo o la situazione politica, si sono dichiarati di centro, di destra, qualora anche di sinistra, ma di una sinistra tanto strana da sconfinare (o meglio confinare) con il limite del conservatorismo reazionario Otto/Novecentesco. Alcuni di questi scrittori o sedicenti tali hanno scritto di Liborio Romano, del brigantaggio ed anche della camorra napoletana unicamente per fare cassa e per vanagloriarsi. Sono rari gli storici veri che hanno saputo affrontare il personaggio con serietà e con una messe di studi dai quali è emerso un giudizio sereno molto vicino alla realtà storica. Oltre ai citati Molfese, i due Fiore, Pedio, De Jaco e qualche altro, mi riferisco al prof. Giancarlo Vallone, il quale ha dedicato più di un libro (fondamentali i volumi Dalla setta al Governo: Liborio Romano, Napoli, Jovene 2005, e la sua curatela al volume dello stesso Romano, Scritti politici minori, «Studi Salentini» Editore, Lecce 2005). Vallone ha apportato un contributo di conoscenza ineludibile per chi voglia sapere di e su Liborio Romano.

Si è detto e scritto che Liborio Romano fu Ministro di polizia e che in quanto tale fece accordi con la camorra per il passaggio dei poteri da Casa Borbone a Garibaldi prima e, successivamente, a Casa Savoia. Questa storia degli accordi tra Stato e settori malavitosi va letta attentamente. Oggi abbiamo un libro in più per conoscerne tali intrecci. Mi riferisco soprattutto alle pagine emergenti dall’importante Processo conoscitivo a Liborio Romano, statista o trasformista?, tenutosi a Patù il 17 luglio 2011, patrocinato dall’Associazione Culturale “don Liborio Romano” (presidente Giovanni Spano), dal Comune di Patù (sindaco Francesco De Nuccio), dalla Società di Storia Patria per Puglia di Lecce, e col tribunale giudicante composto dal Dr. Franco Losavio (già consigliere Corte d’Appello di Lecce e Taranto), prof. Mario Spedicato (presidente Società Storia Patria Lecce), prof. Vittorio Zacchino (storico); l’Accusa rappresentata dal prof. Mario De Marco (storico e pubblicista) e dal prof. Luigi Montonato (storico e politologo); la Difesa fu tenuta invece dal dr. prof. Salvatore Coppola (avvocato e storico) e dal prof. Fabio D’Astore (docente Università del Salento).

Dalla lettura del processo, pubblicato poi come libro (“…giudicate sui fatti”. Liborio Romano e l’Unità d’Italia, Edizioni Panico, Galatina, 2012), si evince chiaramente che

«Liborio Romano [fu] una delle figure più incombenti della storiografia risorgimentale, patriota, giurista, politico, personaggio ambivalente» (Zacchino, p. 14); che

«La salvezza di Napoli e il trapasso incruento del Regno delle Due Sicilie dai Borbone ai Savoia, comunque li si voglia considerare, furono operazioni coraggiose, temerarie, chiaramente funzionali all’Unificazione e alla nascita della nazione italiana» (Zacchino, p. 15); che

«Romano […] autorevole protagonista del Risorgimento, e soprattutto tenace propugnatore dell’autonomia del Mezzogiorno, nel più vasto ambito unitario, e perciò co-artefice dell’unificazione nazionale» (Zacchino, p. 16);

«a Liborio Romano, il più discusso personaggio dell’Ottocento Meridionale, è dovuto il titolo di padre della patria unificata, di strenuo difensore delle autonomie del Mezzogiorno, di protagonista del Risorgimento» (Zacchino, p. 33).

L’accusa, affidata nel processo a De Marco e a Montonato, non è affatto tenera nei confronti del Nostro anzi, leggendo i testi, ho avuto la sensazione che si sia esagerato un po’ in quanto a supposti tradimenti politici e a rapporti con la malavita. Mi si dirà: è questa la funzione dell’accusa. Molto convincente invece mi è apparsa la difesa, affidata a Coppola e a D’Astore, i quali hanno difeso a spada tratta il loro assistito. Alla fine del dibattimento, il verbale del processo, a firma del segretario prof. Walter Cassiano, fa giustizia di quanto detto, scritto e letto a premessa del Dispositivo della sentenza per il procedimento penale storico a carico di: Romano Liborio (Patù 1793).

Concordo solo parzialmente con la sentenza, che assolve l’avvocato Liborio Romano dall’imputazione di tradimento, mentre lo condanna a mesi sei per avere egli coinvolto alcuni capi camorristi nell’organizzazione della Guardia Nazionale napoletana. Ricordo a me stesso e a chi mi legge che il Romano, prima di diventare Ministro di polizia era stato avvocato e, come si sa, nel foro di Napoli, la sua stella forense brillava, anche nella difesa per questo tipo di persone associate nel delinquere. L’Italia, si è sempre detto, è la patria del diritto, per cui don Liborio sapeva il fatto suo. D’altronde è egli stesso che ha scritto che, per quanto riguarda la questione camorra, si trattò solo di una misura necessaria e molto limitata nel tempo (appena un paio di giorni) mirante a cercare di contenere le manifestazioni di piazza e salvaguardare l’ordine pubblico. Non dimentichiamo che l’obiettivo di quel momento storico era la più grande rivoluzione politica dell’800: l’unità della patria Italia, per la quale, sin dal tempo di Virgilio, cioè 2000 anni fa, i differenti popoli della penisola anelavano. Non per nulla, nella storia dell’umanità e delle rivoluzioni politiche, c’è stato un tale Machiavelli, che disse e scrisse «il fine giustifica i mezzi».

Su Liborio Romano si sono dette e scritte tante altre cose, moltissime false e comunque distorcenti. Nessuno, però, almeno finora, ha voluto approfondire il suo operato relativo appunto all’ordine pubblico. Le manifestazioni di piazza a Napoli sono state sempre qualcosa di straordinaria importanza. Nessuno può dimenticare cosa accadde in città nel 1799 con l’istaurazione della Repubblica Partenopea. Ci furono migliaia di morti prima e dopo quel fatidico gennaio. In quella vicenda la Puglia e il Salento perdettero il fior fiore della loro più alta intellighenzia giuridico-letteraria. Ancora nel 1821 e nel 1848 ci furono altre insurrezioni, e tutte rivolte sempre a un unico obiettivo: la democratizzazione del regno delle Due Sicilie come fase transitoria verso l’Unità d’Italia.

Anche nel 1859 e nel 1860 Napoli era divenuta una polveriera, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Ma, come si sa, non accadde nulla di tanto drammatico. Quindi ci si chiede: perché, in quell’eccezionale momento, la rivoluzione politica, che pure ci fu, non comportò l’insurrezione e la guerra civile? Semplicemente perché lì, nella capitale del regno delle Due Sicilie, si trovava ad operare un uomo, un avvocato, un politico, un ministro degli Interni e di polizia di nome Liborio Romano. Nella storia delle rivoluzioni politico-sociali, non è mai accaduto che un rivolgimento di tale portata (la caduta di un regno, quello dei Borbone, con la sostituzione di un altro, quello dei Savoia) si sia compiuto senza spargimento di sangue e, per di più, con il raggiungimento dell’obiettivo primario dell’intero Risorgimento: l’unità della nazione Italia. Persino lo stesso re napoletano – Francesco II di Borbone – e la sua famiglia ebbero salva la vita riparando nella fortezza di Gaeta. Quando mai?, se pensiamo a quanto accadde a Parigi nel 1789, oppure quanto accadde nella stessa Napoli nel 1799. Un esempio per tutti: la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 non finì forse con la strage dell’intera famiglia dello zar Nicola II?

Quindi, se nella Napoli del 1860, ci fu un passaggio di “consegne” senza spargimento di sangue tra il potere borbonico e quello di Garibaldi prima, successivamente a quello di Casa Savoia, il merito sarà stato pure di qualcuno. Per me, fu merito dello statista Liborio Romano il quale, compiuto questo suo alto dovere di rispetto del popolo napoletano e meridionale tutto, non fu poi tanto riconosciuto né dai suoi avversari politici interni (i soliti opportunisti di sempre) allo stesso ex Regno di Napoli, né (ma questo era scontato) dai “vincitori” savoiardi cavouriani.

La questione del mancato spargimento di sangue a Napoli è stato sempre il motivo di fondo di Giovanni Spano, il quale, in una dichiarazione alla stampa di qualche anno fa, dichiarò:

«il mio obiettivo è stato sempre quello di fare luce su una figura [Liborio Romano] ritenuta controversa, ma che ha avuto la giusta chiave per portare all’Unità d’Italia senza spargimento di sangue. In questi anni ho approfondito molto sull’aspetto caratteriale di Romano, scoprendo che era molto amato dal popolo prima di diventare statista. Il nostro avvocato preferiva difendere gratuitamente i poveri e i napoletani lo chiamavano fraternamente “Don Libò”»[2].

La marginalizzazione del Romano all’interno del primo parlamento italiano (fortemente piemontesizzato) e, soprattutto, la continua e persistente contrarietà alla sua proposta di legge per la costituzione della Guardia nazionale su base unitaria (con l’inserimento di personale militare del Nord e del Sud) furono alla base di quello squilibrio Nord-Sud che noi oggi scontiamo ancora. Qualsiasi proposta in tal senso da lui fatta nel primo governo unitario sia successivamente in parlamento, gli veniva immediatamente respinta dai cavouriani e dai reazionari di ogni risma e specie. D’altronde è quello che abbiamo visto anche alla fine della seconda guerra mondiale quando, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e l’inizio della Resistenza (8 settembre 1943), a combattere la dittatura mussoliniana fondamentalmente furono i partigiani delle Brigate garibaldine.

E cosa accadde poi di quei partigiani, molti dei quali avevano dato la vita per la libertà e la democrazia? In un primo momento, il primo governo antifascista li inserì nelle varie componenti delle Forze armate, ma, appena giunto il 18 aprile 1948 e la “vittoria” (oggi sappiamo con evidenti brogli elettorali) di una sola parte politica, tutti i partigiani, e i patrioti, e le staffette, e chi aveva concretamente collaborato alla caduta della dittatura fascista e alla liberazione dell’Italia dall’occupante nazista, spesso immolandosi la propria vita, furono messi alla porta, cacciati senza neanche un foglio di via. Tutti, e non esagero quando dico tutti. Sapete chi fu a occupare quei posti rimasti vacanti dalla cacciata dei partigiani? Ebbene, furono richiamati gli ex repubblichini di Salò più qualche vecchio arnese dell’ufficialità militarista distintasi sotto il regime. Per questo non è peregrino pensare che la marginalizzazione del Romano fu anche alla base di quel tremendo fenomeno passato alla storia italiana col termine di brigantaggio.

Su tale storia c’è una pagina illuminante dello storico Franco Molfese, che scrive:

«Quando Farini assunse la luogotenenza a Napoli, la dittatura garibaldina era già scossa dalle crescenti “reazioni” e le “reazioni”, e la loro repressione, generavano automaticamente il brigantaggio./ Tuttavia, le “reazioni” dell’autunno 1860 appaiono poca cosa di fronte alla grande “reazione” dell’estate del 1861, che fu la vera matrice del grande brigantaggio, durato fino al 1864, e del brigantaggio in genere, durato fino al 1870. Ora, quando si scatenò la rivolta contadina dell’estate del 1861, i moderati governavano in maniera esclusiva da otto mesi. Come fu possibile che il largo favore borghese e popolare, che nel 1860 aveva salutato l’avanzata garibaldina nelle provincie meridionali e aveva reso possibile l’improvviso crollo della monarchia borbonica, appena un anno più tardi si fosse tramutato in un malcontento che raggiungeva tutti gli strati della società meridionale? La responsabilità di ciò […] è da addebitarsi fondamentalmente alla politica dei moderati (“piemontesi” e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani), che mirarono soltanto a reprimere, a centralizzare, ad addossare carichi alla stremata economia meridionale, e a monopolizzare il potere, respingendo in tal modo all’opposizione anche quella grande maggioranza della media e della piccola borghesia urbana e rurale che seguiva Liborio Romano e che era liberale, in fondo moderata, unitaria ma “autonomista”, non “annessionista”. Il clero venne vessato e spaventato, senza che il suo potere economico venisse sradicato. Ai contadini venne promessa solennemente la ripresa delle operazioni demaniali, e poi non se ne fece nulla. I moderati [piemontesi liberali conservatori più transfughi dell’ex regno delle Due Sicilie] optarono fin dall’inizio per la repressione con la forza dell'”anarchia” nel Mezzogiorno, e al momento critico non ebbero forze militari sufficienti per sventare o, quantomeno, per domare rapidamente la sollevazione contadina a direzione reazionaria. È difficile, perciò, negare che il brigantaggio fu sostanzialmente il risultato negativo di tutta l’azione di governo dei moderati./ Però, un’altra linea per fronteggiare il malcontento contadino esisteva ed era quella espressa, sia pure confusamente, dalle correnti democratico-autonomiste. Quella “linea” si era anche precisata per tempo in un programma realistico (attuabile), quello di Liborio Romano. […] Se i moderati avessero apprezzato ed attuato il programma Romano […] quasi certamente l’esplosione della “reazione” del 1861 sarebbe stata sventata, il brigantaggio già sviluppatosi (ancora poca cosa nell’inverno 1860-61) sarebbe stato spento con molto meno sangue e con minori sforzi e tutto il processo dell’unificazione ne sarebbe risultato meno travagliato»[3].

Sappiamo come sono andate le cose e le conseguenze di quella che molti definiscono l’annessione del Meridione al Nord, oggi la scontiamo ancora. Non è forse vero che, a 160 anni e passa dall’Unità d’Italia, gli squilibri tra Nord e Sud rimangono ancora tutti aperti? E non è forse vero che il Meridione sta pagando il prezzo più alto dell’attuale crisi economico-finanziaria? Certo che sì. Ed è certo pure che indietro non si può andare, che non si può ridividere l’Italia, che non si può dimenticare la storia fatta. Ecco allora che la visione dell’Italia unita che aveva in mente 150 anni fa Liborio Romano ha ancora oggi una sua validità e ad essa occorre necessariamente ritornare, se vogliamo uscire dalla gabbia infernale dello squilibrio Nord-Sud. Oggi, quando noi pensiamo alla patria Italia, all’unità dell’intera penisola, i nostri riferimenti vanno a Garibaldi, a Mazzini, per alcuni momenti possono andare anche a Cavour (che continuiamo a considerare l’opportunista di quel fausto momento) ma, accanto a questi nomi, dobbiamo avere il coraggio di aggiungere il salentino di Patù, Liborio Romano. Anzi, forzando un po’ la storia, si potrebbe scrivere che l’Unità d’Italia (1861) la si deve soprattutto a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Liborio Romano.

 

Infine due parole sul manoscritto di Sigismondo Castromediano

Dalla lettura del testo non ci sono grandi novità, e tuttavia, come dice il prof. Giancarlo Vallone, una sua qualche valenza ce l’ha soprattutto quando, a proposito della grande questione (la Guardia Nazionale) che stava a cuore a Romano, Castromediano scrive:

«Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere l’Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata la sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò salvatore e liberatore della patria».

Nonostante la solidarietà salentina espressa dal duchino di Cavallino al nobile Liborio Romano di Patù, tuttavia le posizioni politiche tra i due rimarranno sempre quelle che conosciamo: Castromediano, deputato di destra legato a Casa Savoia; Liborio Romano, deputato legato al suo popolo meridionale e strenuo oppositore di sinistra alla politica cavouriana. Se allora fossero state approvate le sue proposte di legge, sorrette da una lungimirante visione autonomista-federalista del nuovo Stato unitario italiano, tutte le discrepanze, soprattutto gli squilibri Nord-Sud, che vediamo oggi in questo nostro malridotto paese, già da tempo sarebbero state risolte.

 

ECCO IL TESTO DEL MANOSCRITTO

Nella trascrizione, ho aggiunto solo qualche segno di punteggiatura e le note.

 

LIBORIO ROMANO

di Sigismondo Castromediano

Romano Liborio di Patù. Così è detto oggi questo villaggio sito nell’estrema punta del Capo di Leuca dal tempo dell’invasione francese nei primordi del secolo presente, XIX, mentre dicevasi Pato altra volta, e sarebbe meglio restituirlo alla sua antica dizione.

Nacque Liborio nel 1798 [sic, vero è 1793] e morì nel [spazio lasciato vuoto dal Castromediano, ma 1867]. Fu figliuolo di Alessandro, che discepolo di Mario Pagano[4], poco mancò non fosse come questi condotto sul patibolo nel 1799, e da [Giulia Maglietta].

Giovinetto il Romano lo condussero a Lecce, dove studiò lettere insegnategli dal Barone Berardino [Francesco] Cicala[5], l’autore delle tragedie, e giurisprudenza nello stesso tempo verso la quale sentivasi potentemente inclinato. Recatosi poscia a Napoli si perfezionò in detta dottrina sotto il Gerardi [Francesco][6], il Giunti [G.][7], il Sarno [D.][8], il Parrillo [Felice][9], il quale ultimo non cessò d’amarlo durante tutta [la] sua vita.

Già Liborio, iniziato dal padre medesimo nella setta dei Carbonari, tuttoché avesse (…) appena di anni 21, ottenne per concorso dal Governo insurrezionale del 1820 d’essere eletto professore sostituto nella cattedra di diritto civile e commerciale nell’Università di Napoli. Lo stesso Governo si servì di lui del pari inviandolo suo Commissario in questa provincia collo scopo di raccogliere sotto la bandiera costituzionale da presso innalzata i militi di già sbandati.

Ma i tempi, atteso lo spergiuro di Re Ferdinando I, precipitarono a rovina, quel raggio di libertà venne spento, moltissimi furo i perseguitati, ed al Romano, toltagli la carica di Professore, vennegli imposto sotto la più severa sorveglianza di polizia di restarsene confinato nel proprio paese natale, mai rompesse la cerchia, mai più riandare alla capitale.

Così sen visse Liborio per due anni continui fra le paure e i sospetti, dietro i quali gli fu concesso di recarsi a Lecce, ma non vi esercitasse professione d’avvocato, né potesse uscire da quelle mura. Ivi però la circospezione non valse, che l’Intonti [N.][10], il selvaggio poliziesco ministro dei Borboni, un bel giorno ghermirlo insieme a Gaetano suo fratello e ad Eugenio Romano suo cugino, e insieme ad altri molti concittadini, sotto la scusa d’appartenere a una società segreta, chiamata degli Ellenisti, della quale rimase sempre dubbia l’esistenza nelle nostre contrade, e ligati [legati] e circuiti da gendarmi se li fece portare a Napoli. Qui giunto lo fece bendare negli occhi, e così introdurre nel carcere di S. Maria Apparente, nelle cui segrete lo tenne chiuso da prima per 150 giorni e fuori di queste il resto d’un anno. Dopo uscito di prigione gli fu fatto precetto di restarsene nella capitale sorvegliato dalla polizia, e non ritornare in patria.

Non si sconfortò egli, che giovane ardito era, e tant’oltre si spinse nella palestra giuridica, che tra gli avvocati di quel foro tolse palma d’incontrastata rinomanza, per cui gran numero di studenti corse ad addottrinarsi nel suo studio. Fu per costoro però che gli occorse un’altra sventura. Era il 1837, e fra quei discepoli vi aveva un Geremia Mazza[11], giovane onesto e di retti principi politici, ma che contava la disgrazia d’avere un fratello diverso affetto di lui e occulto cagnotto di polizia, il quale dopo i rovesci del 1848 giunse a sedere direttore della stessa, sotto il fierissimo Ferdinando II. Questo fratello, forse per alcuna confidenza imprudente o casuale di Geremia, adoprossi a sottoporre il Romano a nuove persecuzioni.

Ma l’anno ultimamente pronunziato giunse, e una nuova costituzione del Regno fu giurata dal Regno dianzi nominato. In seno a questi fu proposto Liborio per suo ministro costituzionale, che questi respinse la proposta, e nemmeno per soli quattro voti che gli mancarono poté occupare un posto di deputato al Parlamento d’allora. Perdute da questa terra anche leggerezze di libertà per gli effetti del 15 maggio di quello stesso anno, Liborio nel febbraio del 1850 per odio dell’infame Peccheneda [Gaetano][12] fu sospinto un’altra volta nel carcere di S. Maria Apparente, dove rimase a soffrire due anni continui insieme ad Antonio Scialoja[13], e Giuseppe Vacca[14], il primo Ministro del Regno d’Italia la seconda volta, mentre che scriviamo, e il secondo Senatore, e poscia senza alcuna forza di giudizio, esiliato insieme al suo amico Domenico Giannattasio[15].

Condizione dell’esilio era che il Romano, per cui gli fu richiesto obbligo formale, fu di andarsene in Francia, ma si tenesse lontano da Parigi e da ogni porto di quei mari. Così fu ch’egli prescelse Montpellier per sua residenza, ove stette un anno intiero, dopo il quale rotto il divieto tramutò stanza per un altro anno in quella capitale appunto che gli era stata vietata.

In questo fra tempo moriva sua madre, che prese occasione per chiedere amnistia, e l’ottenne nel 1855. Stavasene a Napoli, e tuttoché guardingo e dedito soltanto alla sua antica professione, la polizia borbonica non cessava di tenerlo d’occhio, e più severamente di prima, quando nel settembre del 1859, in quei giorni in cui le voci, che Napoleone III sarebbe disceso in Lombardia, voci che ridestando le speranze dei napoletani giunti all’estremo di loro oppressione, in quei giorni dico in cui molti liberali alla cieca vennero imprigionati, Liborio ond’evitare la stessa sorte, si diede a latitare insieme al proprio fratello Giuseppe, e coll’assenso del Conte d’Aprile[16], zio del Re, a rifugiarsi nella casina di Posillipo da prima, e dopo nella casa del Ministro plenipotenziario americano.

Ma l’ora fatale della caduta di Casa Borbone in Napoli era suonata dopo le sciagure e le miserie da essa versate a piene mani su queste stanche province. Ferdinando II era morto, ucciso dalla più schifosa delle malattie, gli succedeva un figlio, Francesco II, debole, inesperto, di poco senno, privo di amici, e per giunta d’antipatica e imbecille figura, il quale ereditando i peccati di tutti i suoi, e più atto a vestir la tunica di prete, che il manto dei governi, pronunziossi col proclamare, che avrebbe seguite le tracce del genitore. L’ora fatale suonava, e il Conte di Siracusa[17], fratello del morto Re e zio del nuovo, col consiglio del Romano spingeva il nipote a salvare la dinastia, e sulle vie legali ridonare quella costituzione ai suoi popoli, quella ad oggi tolta con violenza, e delegare suo ministro lo stesso Romano.

Il quale da prima invitato rifiutò, ma richiamato di nuovo ai 27 giugno del 1860, cioè dopo che l’attuazione della repressa costituzione del 1848 si prometteva con atto sovrano, e cioè per reprimere la minacciata sommossa dei napoletani, e attutire le conseguenze terribili d’una bastonata reazionaria, che il Brenier[18], ambasciatore francese ebbe a offrire, assunse l’incarico di reggere la prefettura di polizia, e proprio quando s’era proclamato lo stadio d’assedio.

L’ora in cui Liborio s’accingeva a sedere su d’una scrivania da tanti infami suoi predecessori lordata con ogni sorta di abusi e di violenze, di ferocie e di delitti, era malaugurata, e malagevole l’impresa che assumeva. Momento in cui la plebe da una parte, sospinta dalla propria furia, s’era impossessata di tutti i Commissariati di polizia della città, ne aveva cacciati via quei carnefici che vi avevano dominato colle vesti di funzionari e di cagnotti, cui ben dato s’era dall’universale il nome di feroci, e disarmando e ferendo questi, e in quelli manomettendo carte ed archivi; e dall’altra si formulavano liste di proscrizione della Camerilla [del Borbone], e i lazzari, e i camorristi, i briganti avidamente attendevano un segnale, onde dar mano al saccheggio ed alla strage. Provvidamente però Garibaldi volava in Sicilia sulle ali della vittoria, ed il Romano ridestava [la] sua tempra con tanto coraggio, che deve considerarsi il solo e vero salvatore di quell’ora e di quel momento.

Solo in mezzo al popolo il nuovo Prefetto attraversò le vie della Capitale agitata, e giunto al palazzo di Prefettura lo trova nudo affatto d’ogni occorrente, ma coadiuvato ed aiutato dai suoi amici, seppe allontanare l’ira del saccheggio, dileguando con un suo primo manifesto, e fino ad un certo punto le tristi apprensioni, e ridonando calma, e riconducendo agli usati uffici i napoletani sgominati e perplessi. Non avendo altra forza materiale, si rivolse e si circondò di camorristi della plebe, la sola della quale poteva disporre e da lui ben diretta, rese in quei momenti grandi servigi a lui e al paese.

Il momento precipitava, ed il Romano senza volerlo forse, costretto dalla fatalità, o dalla storica Provvidenza, si mise in carteggio cogli agenti piemontesi e lo stesso Garibaldi[19], e a cospirare contro il Borbone del quale era divenuto Ministro. Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere [l’]Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata [la] sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò Salvatore e liberatore della patria.

Oltre che alleggerì le garanzie richieste dall’esercizio della stampa periodica, fu in quell’ora che ricordossi di quanto sofferto aveva egli stesso, e l’immenso numero dei perseguitati politici nelle immani carceri borboniche, e v’abolì tosto le segrete, l’arbitrio ed il sopruso dei carcerieri, e le legnate, ordinandovi miglioramenti ed ordinamenti umani.

Su venuto il Ministro Spinelli [A.][20], quello che inconscio di sé e del turbine che lo avvolgeva, titubante e privo di ardimento, il 14 luglio, Liborio vi prese parte tenendovi il portafoglio dell’Interno e della stessa Polizia. I partiti politici che dividevano Napoli e coi quali ebbe ad incontrarsi il Romano si componevano di Borbonici puri conservatori ad ogni costa della spietata e vecchia tirannide, di repubblicani col Mazzini[21], o di moderati liberali, costituzionali ed annessionisti all’Italia con Vittorio Emanuele II[22]. V’era un quarto partito dei costituzionali dinastici borbonici e autonomisti, i quali poco condensati, e per niente intesi, e a cui forse senza decisione forte e convinzione perdurevole il Romano apparteneva, e v’era per aumentate la confusione. Quindi è che un biografo, certo non amico di costui, confessa che Liborio non dormiva sopra letto di rose, e a sostenersi facendogli duopo molte astuzie e molte pieghevolezze.

Tra tali difficilissime condizioni, egli incontrava pure una lega col Piemonte, proposta dalla Corte napoletana; la Sicilia invasa da Garibaldi, e la certezza d’essere invaso anche da questi il continente; e il volere degli Italiani, che in quel momento più potente d’ogni altro destino manifestavasi di volere essere nazione unita, libera ed indipendente; volere rappresentato in Napoli da un Comitato detto d’azione, questo colla Repubblica, quello col Re di Savoia.

Un altro minuto e la borbonica dinastia, e Francesco II[23] non sono più per essere, e il Romano non esitò d’avvertirla anche una volta, e suggerirle qualche buon consiglio, il quale se non servisse a salvarla, l’avrebbe fatta cadere con dignità inutilmente. Gli uomini della nazione sovvenendogli dell’esito del 15 maggio del 1848, e lusingati, credevano opportuno ripetere la strage, e non d’altre baionette seguiti, poiché l’esercito intiero sfasciatosi perché vinto già e nella disciplina demoralizzato, se non dalle baionette della Guardia reale, e con il Conte di Trapani[24] alla testa.

Un primo tentativo venne iniziato, ma ben presto represso. Due altri ne successero, capitanati l’uno dal Conte di Aquila[25], zio del Re, che ambiva rovesciare il nipote, ed occuparne il trono, [il] secondo da un de Sanclier [ma de Sauclières Hercule][26], prete e legittimista francese, [i] quali coll’esiliare il Conte, e coll’arresto del prete. Per la quale ultima avventura è da notare, come il Ministro di Francia recassi al Romano, onde impetrare la liberazione del Sanclier [ma de Saunclières E.], e perché detto Ministro dal Romano veniva avvertito essere stato già quegli consegnato al potere giudiziario, esclamò l’ambasciatore – «Dunque volete rinnovare così il 1793?» – Io devo salvare il paese dalle cospirazioni gli fu risposto, quali che fossero i cospiratori, e giustizia deve avere il suo corso.

Avendo fra tanto Garibaldi passato lo Stretto, audacissima ne divenne la rivoluzione napoletana, e fatta più certa d’un esito felice. Garibaldi avansavasi verso la Capitale incontrastato e con la sicurezza d’un vincitore, ed il Romano accortosi dell’istante della catastrofe, avendo scritto un memorandum da essere accettato dai Ministri suoi colleghi, i quali non vollero leggere nemmeno la legge al Re direttamente. Ivi era dipinta netta la situazione; nuda esposta tutta quanta la verità, e vi consigliava il Re ad allontanarsi per poco dalla sua sede, creare una reggenza, e risparmiare così gli errori d’una guerra civile.

Invece il Re appigliossi all’altro consiglio, di formare cioè un ministero di reazionari, il che però non riuscì; ma ogni autorità morale del potere essendo [e]sperita, e resa impotente, e i reazionari credendo poterla restaurare collo stato d’assedio, fecero che questo venisse ordinato dal Re nella Capitale. Invano il ministero si oppose, che il Re a Governatore di Napoli aveva nominato Cutrofiano [d’Aragon R. di][27], essere capace d’ogni violenza, e che nel 27 agosto proce[de]sse avanti con un’ordinanza racchiudente ferocissima legge stataria, ma che il Romano con fermezza ed energiche disposizioni volle radicalmente modificata.

All’arrivo imminente del Garibaldi il Re per nulla pensava, e fu duopo che il Ministero prendesse da sé qualche determinazione, il 29 agosto esortandolo a mettersi a capo delle sue truppe, ma nulla fecendosene il Ministero divenne dimissionario. A tale incontro Francesco II si decise finalmente d’abbandonare la capitale, e ricoverarsi in Gaeta, e prima di dipartirsi ebbe in mente di creare il Romano suo Luogotenente in Napoli, il che non avvenne poscia, prevedendosi il rifiuto che da questi avrebbe ricevuto.

Qui se avesse troncata [la] sua vita politica Liborio Romano sarebbe rimasto sul suo sepolcro tanta gloria per quanta sa compartirne la storia, ma sventuratamente non volle, né seppe, e credendo di poter continuare nella sua popolarità giustamente, ma stranamente, e per cause impossibili a rinnovarsi, in un momento acquistata, ostinassi a continuare. Il prestigio s’era ecclissato, ed accetta il portafoglio di Ministro dell’Interno e di Polizia datogli da Garibaldi. Quest’altro suo Ministero durò soli quattrodici giorni, nel quale si distinse per averlo diviso in Ministero di polizia e in Ministero dell’Interno. Dopo egli cadde, e non cadde per lacci e voleri di alcun suo nemico, com’egli lamenta, o qualche altro vorrebbe far credere, ma cadde perché finito il suo tempo, perché delle cose che gli giravano intorno non aveva concetto sicuro e determinato, perché criteri non aveva saldi, perché incerto e volubile non guardava meta da cogliere.

Dimesso il Romano ebbe offerta da Garibaldi la carica di Presidente della Corte suprema di Giustizia, ch’egli non accettò.

Dopo la solennità del plebiscito col quale l’Italia si arricchiva delle province meridionali il Conte di Persano [C. Pellion, conte di][28], a nome di Re Vittorio Emanuele II, che trovavasi ad Isola, gli presentava l’incarico di comporre il Consiglio di Luogotenenza, ed egli anche si ricusava. Avesse così sempre proseguito, ma entrata la seconda Luogotenenza in Napoli, dov’era giunto il Principe di Carignano[29], egli accettò l’incarico di comporre il nuovo Consiglio, e nel quale ebbe parte, assumendo a sé il portafoglio dell’Interno, e vi rimase fino al 12 di marzo, giorno nel quale aveva dato le sue dimissioni. E cadde non per forza altrui, ma perché finito aveva il suo tempo.

Durando [la] sua carica giunse pur l’altra ora delle elezioni politiche, e l’agitazione e l’ansia in queste province d’essere rappresentate al parlamento Italiano era grande e premurosa. Più grande fu l’ambizione di Liborio Romano a mostrare al mondo ch’egli fosse eminentemente popolare, e si fece eleggere in più Collegi, e Deputato venne proclamato in quello di Altamura, di Tricase, di Sala, di Campobasso, di Palata, di Atripalda, di Bitonto, ed in Napoli nel quartiere della Vicaria, oltre i ballottaggi degli altri collegi. Fatua luce di sua popolarità che più presto doveva annientarlo. Era compiuto il suo tempo.

Preceduto da non dubbia fama d’aprir guerra al Conte di Cavour[30], potentissimo Ministro che formato aveva l’Italia e d’aprir guerra con certe sue vedute di egemonia del proprio paese, di certe avversioni a quello ch’ei con altri appellava piemontesismo, e non so con quali altre chimere fuor di tempo e di luogo la sua elezione venne oppugnata, come quella avvenuta mentre sedeva egli Consigliere di Luogotenenza; però non tanto oppugnata da non essere finalmente accettato Deputato.

Però ad accedere nell’Aula della Camera il Re meno non poté tanto presto per quanto intendeva, imperò mentre che vi veniva, giunto a Genova, vi venne intrattenuto dalla gotta. Passata questa, Torino lo vide, ma egli senza che fosse andato a visitare l’avversario di sua mente, il Cavour sedé defilato tra i banchi del Centro sinistra nel Parlamento da prima, ottando [optando] nel patrio Collegio di Tricase.

L’ora di parlare in quel consesso egli affrettava, e non vi avesse parlato mai. Io Deputato di destra alla prima parola che profferse tremai per lui, poiché m’accorsi dei visi dei nostri colleghi disposti a manifestargli irrisione, che ogni opinione del nostro concittadino andava scemando. Pareva [il] suo dire la vacua declamazione degli avvocati, cui manca ragione nel difendere il proprio cliente, la voce trascinata e nasale d’un frate al quale non è giunta l’ora di scendere dal pulpito, e pur vi deve rimanere. Fu così che ei cadde per sempre. Fu così che ritirossi dalla pubblica carriera e ritornato a Napoli trascinò infermi i suoi giorni, finché divenuti perigliosi, i medici lo consigliarono a respirare a Patù [l’]aria nativa.

Qui dopo poco tempo che vi stette cessò di vivere in mezzo ai suoi il Romano, ma compianto da pochi e quasi ignorato. Però moriva lasciando sue faccende domestiche assai scompigliate e non ricco come i maligni avevano buccinato, e ricco divenuto nel potere. Fu questa la calunnia più atroce, della quale certi partiti si servirono brutalmente nella rivoluzione italiana per togliere fama ed abbattere gli onesti. Infamia della quale l’Italia a lavarsi può solo scontare coprendola di virtù moltissime.

Molti giornali si occuparono del Romano, lui vivente e nel potere; quelli che lo difendevano con accesissimo calore di parzialità, i contrari con ingiustificabile prevenzione ed odio senza fondamento. Il Romano può rassomigliarsi a colui che favorito dalla sorte, compie una grande impresa per caso, per forza, senza preconcetto divisamento, ma che ottiene gloria e popolarità imprevista, vuol continuare a sedere nel momentaneo suo grado. Ecco perché il Petruccelli [Della Gattina F.][31], questo agre e spudorato ingegno, ma talvolta fine e penetrativo tuttoché non suo avversario, scrisse di lui – «Liborio Romano arrivando alla Camera si assise al centro, poscia emigrò verso la sinistra. Io non so ciò ch’ei voglia, chi sia, ove tenda, se vezzeggi l’unità italiana o l’autonomia napoletana» – E un altro proponeva di scriversi sulla sua scranna di Deputato – «Qui riposa nel sonno parlamentare Liborio Romano, che fu sempre fermo nel non aver fermezza» -.

La presente biografia è stata rilevata con imparzialità da due elementi cozzanti, e ci sian tenuti nel giusto mezzo, onde la verità da una parte non ne venisse offesa, e l’amicizia personale verso un nostro concittadino, cui tutti i Napoletani debbono gratitudine eterna non rimanesse acciecata. Questi elementi sono. I 453 deputati del Presente, e i Deputati dell’Avvenire, opera diretta da Cletto Arrighi[32], volume III, Milano 1865, e delle Memorie politiche di Liborio Romano, pubblicate per cura di Giuseppe Romano suo fratello con note e documenti, Napoli, presso Giuseppe Marghieri[33], 1873.

Oltre le molte memorie forensi messe in istampa da Liborio, e i suoi atti governativi, olre le dette Memorie, vi son pure:

Des principes de l’economie politique puises dans l’economie animal, scritta in Francia nel tempo del suo esilio.

Lettera del 5 maggio 1861, diretta al Ministro d’Italia Conte di Cavour:

Sulle condizioni delle Province Napoletane.

Discorsi parlamentari.

Ferdinando Cito in Terra d’Otranto, senza data o nome di stampatore. Ma fu in Napoli in 1848.

 

[1] . F. ACCOGLI, Op. cit., Edizioni “Il Laboratorio, Parabita, 1996.

[2] Vd. «La Gazzetta del mezzogiorno», 28 giugno 2010, p. VIII.

[3] F. MOLFESE, Op. cit., pp. 402-403.

[4] Mario (Francesco) PAGANO (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799), giurista, filosofo, politico e drammaturgo italiano. Fu uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo italiano e un precursore del positivismo. Personaggio di spicco della Repubblica Napoletana (1799). Soppressa la Repubblica dal Borbone, fu impiccato in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799.

[5] Bernardino CICALA (Lecce, 1765-1815), poeta e tragediografo. Nel 1799, aderì alla Repubblica Napoletana. Al ritorno dei Borbone, cominciarono per lui due anni di carcere e di persecuzioni: fu costretto a fuggire fuori dal regno. Tornato in patria con l’arrivo dei Napoleonidi, si stabilì a Lecce, dove morì.

[6] Francesco GERARDI, giurista, nel 1867 tra i fondatori della Camera degli avvocati penali di Napoli.

[7] G. GIUNTI, su questo giurista, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[8] Domenico SARNO, su questo abate, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[9] Felice PARRILLO, giudice della Gran Corte civile di Napoli.

[10] Nicola INTONTI (Ariano Irpino, 9 dicembre 1775 – Napoli, 8 maggio 1839), ministro della polizia nel regno delle Due Sicilie.

[11] Geremia MAZZA, giornalista del «Galluppi», morto nel 1840.

[12] Gaetano PECCHENEDA, direttore del Ministero dell’Interno del Regno delle Due Sicilie nel 1849-51.

[13] Antonio SCIALOJA (San Giovanni a Teduccio, 1 agosto 1817 – Procida, 13 ottobre 1877), economista. Nel 1848 divenne Ministro dell’Agricoltura e del Commercio del regno delle Due Sicilie, nel governo liberale di Carlo Troja. Arrestato dopo la repressione del 1849, fu condannato all’esilio “perpetuo” e quindi costretto a rifugiarsi nel regno di Sardegna. Ritornò a Napoli nel 1860, dopo la spedizione dei Mille, per diventare Ministro delle Finanze nel governo provvisorio di Garibaldi. In seguito fu segretario generale al Ministero dell’Agricoltura nel primo governo Ricasoli del regno d’Italia, consigliere della Corte dei Conti e senatore dal 1862, Ministro delle Finanze nel secondo governo La Marmora e poi nel secondo governo Ricasoli, infine Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Lanza e nel secondo governo Minghetti. Si dimetterà dall’incarico per la mancata approvazione del suo progetto sull’Istruzione elementare obbligatoria. Nel 1876 ebbe l’incarico di razionalizzare le finanze dell’Egitto.

[14] Giuseppe VACCA (Napoli, 6 luglio 1810 – 6 agosto 1876), magistrato, tra l’altro Procuratore presso la Gran Corte criminale di Lecce dopo il novembre 1846 e prima del febbraio 1848, Procuratore generale presso la Suprema Corte di giustizia, poi Corte di Cassazione di Napoli, Segretario generale del Comitato d’azione meridionale (1860), Senatore del Regno d’Italia dal 1861; Ministro di Grazia, Giustizia e Culti (27 settembre 1864-10 agosto 1865).

[15] Domenico GIANNATTASIO, di Salerno, liberale e deputato nel regno delle Due Sicilie.

[16] Conte d’APRILE, in realtà è Luigi di Borbone, conte d’Aquila, uno dei falchi della dinastia borbonica, vicino al Romano forse per traccia massonica. Devo questa precisazione al prof. Giancarlo Vallone, che ringrazio.

[17] Conte di Siracusa, ossia Leopoldo di BORBONE (Palermo, 22 maggio 1813 – Pisa, 4 dicembre 1860), fu un principe membro della Real Casa di Borbone-Due Sicilie, terzo figlio maschio di re Francesco I delle Due Sicilie e della regina Maria Isabella di Borbone-Due Sicilie. Leopoldo, conte di Siracusa, era critico nei confronti dell’operato del re Ferdinando II, suo fratello, come risulta dalle sue lettere alla madre Isabella di Spagna.

[18] BRENIER, ambasciatore di Francia a Napoli durante la fase di transizione e, fin dall’inizio, filo unitario.

[19] Giuseppe GARIBALDI (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882).

[20] Antonio SPINELLI (Capua, 23 marzo 1795 – Napoli, 9 aprile 1884), sovrintendente generale degli archivi e ultimo primo ministro del Regno delle Due Sicilie.

[21] Giuseppe MAZZINI (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872).

[22] Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878).

[23] Francesco II di Borbone, battezzato Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo re delle Due Sicilie, salito al trono il 22 maggio 1859 e deposto il 13 febbraio 1861 con la nascita del Regno d’Italia.

[24] Conte di Trapani (Napoli, 13 agosto 1827 – Palermo, 24 settembre 1982).

[25] Conte d’Aquila, ossia Luigi di Borbone-Due Sicilie (Napoli, 19 luglio 1824 – Parigi, 5 marzo 1897).

[26] de Saunclières, ma Hercule DE SAUCLIÈRES, storico del Risorgimento.

[27] CUTROFIANO [d’Aragon R. di Raffaele Fitou d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano.

[28] Conte Carlo PELLION di Persano (Vercelli, 11 marzo 1806 – Torino, 28 luglio 1883), ammiraglio comandante della flotta italiana nella battaglia di Lissa.

[29] Eugenio di Savoia Principe di Carignano
(Parigi, 14 aprile 1816 – Torino nel 1888), Tenente di vascello, nel gennaio 1861 fu nominato luogotenente delle Provincie Meridionali, con sede a Napoli.
Responsabile di non poche atrocità nella repressione del brigantaggio.

[30] Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di CAVOUR, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – 6 giugno 1861).

[31] Ferdinando PETRUCCELLI DELLA GATTINA (Moliterno, 28 agosto 1815 – Parigi, 29 marzo 1890), giornalista, scrittore e politico. Scrittore liberale, spesso anticonformista, fu un esule del governo borbonico a seguito dei moti del 1848.

[32] Cletto ARRIGHI – Carlo Righetti, vero nome dell’autore divenuto famoso come Cletto Arrighi (Milano, 1828 – 3 novembre 1906) giornalista e scrittore, massimo esponente della scapigliatura.

[33] Giuseppe MARGHIERI, editore napoletano.

Giuseppe Libertini, uno dei più attivi personaggi del Risorgimento salentino

libertini

di Maurizio Nocera

 

Si è celebrato il 140° anno della morte di Giuseppe Libertini, noto personaggio del Risorgimento salentino, insieme a Sigismondo Castromediano, Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino, Antonietta de Pace ed altri illustri uomini di stampo liberale.

Giuseppe nacque a Lecce il 2 aprile 1823 da Luigi, ricco proprietario terriero, e da Francesca Perrone. Sin da studente si distinse per i suoi pensieri libertari che gli costarono gridate e punizioni a scuola. Ultimati gli studi inferiori, rimase per qualche tempo nella sua città natale ed ebbe modo di conoscere, frequentando il caffè Persico e la legatoria Bortone, alcuni noti esponenti liberali leccesi, come il medico Gennaro Simini, Gaetano Madaro, Pasquale Persico, Salvatore Stampacchia, Domenico Lazzaretti, Epaminonda Valentino, Carlo D’Arpe e Bonaventura Forleo. In questi luoghi, in verità non molto sicuri, i liberali leccesi discutevano della politica asfittica dei Borbone e dei fermenti liberali provenienti da varie nazioni europee, in particolar modo dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Si leggevano e si commentavano i proclami e le epistole di Giuseppe Mazzini, che, erano per buona parte condivise.

Nel 1844 il giovane liberale si trasferì a Napoli e frequentò, senza grande profitto, le lezioni di Economia all’Università. Data la sua intensa attività politica, uscì fuori corso e finì per abbandonare gli studi.  Dopo aver conosciuto il De Sanctis, lo Spaventa e il d’Ayala, Giuseppe compose un dramma a sfondo patriottico, ma le autorità non gli concessero la diffusione e la rappresentazione teatrale. Tornato a Lecce nel 1847, Giuseppe riprese i contatti con gli esponenti del liberalismo salentino.

A fine gennaio 1848, Re Ferdinando II concesse finalmente la tanto invocata Costituzione. In ogni parte del Meridione furono organizzate in pompa magna feste in onore del grandioso evento. A Lecce fu proprio Giuseppe a promuovere l’iniziativa il 21 febbraio in Piazza Sant’Oronzo, che per l’occasione era gremita da una marea festosa di salentini. Ma le promesse del Re, però, per buona parte furono osteggiate dai nobili e dai vari funzionari dell’amministrazione statale. La situazione cominciò a degenerare e i rapporti tra costituzionalisti liberali e i monarchici andarono sempre più inasprendosi. Ciò nonostante, furono indette le elezioni per la costituzione della Camera dei Deputati. Il clima era teso in tutto il Regno perché si temevano eventuali brogli elettorali. Infatti fu proprio Giuseppe uno dei firmatari della protesta presentata al ministero dell’Interno contro alcune irregolarità riscontrate nelle votazioni da parte di alcuni ufficiali della Guardia Nazionale.

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Il clima si fece rovente ed incerto. Il Re tentennava ed era mal disposto a concedere alcune riforme costituzionali ai deputati liberali. Per questo motivo Giuseppe, insieme a Bonaventura Mazzarella, Achille Dell’Antoglietta, Antonietta de Pace ed altri liberali, si recò nella capitale a seguire da vicino l’incerta evoluzione del momento.

All’alba del 15 maggio 1848, non avendo il Re concesso quanto richiesto dai deputati, scoppiò la scintilla della rivoluzione. Le vie intorno al Palazzo Reale furono sbarrate da barricate erette dai liberali, soprattutto in via Toledo e via S. Brigida. La sommossa durò alcune ore, ma i rivoltosi, inferiori per numero e per armamento, furono costretti ad abbandonare le postazioni e a darsi alla fuga. Le guardie svizzere, in modo particolare, si macchiarono di orrendi delitti nei confronti anche della gente inerme. Alla fine rimasero sul terreno i corpi senza vita di quasi mille persone. Giuseppe e i suoi compagni, che avevano combattuto con estremo coraggio sulle barricate, rimasero fortemente scossi da simili efferatezze e giurarono vendetta.

Rientrati a Lecce, i salentini non intesero perdere l’appena nata Costituzione e fondarono immediatamente il Circolo Patriottico provinciale, al fine di tutelare l’ordine pubblico e difendere le libertà conquistate. A presidente fu eletto Bonaventura Mazzarella, mentre a segretario Sigismondo Castromediano. Giuseppe fu tra i promotori, insieme ad altri influenti cittadini salentini

Il 12 giugno dal circolo partì un atto di Protesta (da alcuni storici l’atto è attribuito allo stesso Libertini e, forse anche, a Carlo D’Arpe e Pasquale Persico) in cui si dichiarava “illegittima, incompatibile, vergognosa la dominazione di Ferdinando II” e si affermava il diritto della nazione di affidare il governo a un comitato provvisorio.

Il 25 giugno 1848, insieme con Giuseppe Simini, Libertini prese parte, come delegato della città di Lecce, all’adunanza convocata dal Circolo costituzionale lucano per promuovere una sorta di federazione fra la Lucania e le province di Salerno, Foggia, Bari e Lecce.

Alla fine della seduta fu redatto un Memorandum (anche questo è attribuito al Libertini), in cui si invocava il mantenimento del regime costituzionale e s’insisteva su un’interpretazione progressiva e dinamica della costituzione. Dopo un infruttuoso peregrinare in alcune province della Calabria e della Lucania, Giuseppe tornò a Lecce, dove organizzò una dimostrazione popolare (15 agosto 1848) in favore della repubblica democratica. Il tentativo non determinò alcun effetto positivo, anzi fu l’inizio della fine. Le truppe borboniche entrarono a Lecce ed arrestarono alcuni noti esponenti liberali salentini, tra cui Sigismondo Castromediano e Epaminonda Valentino. Quest’ultimo morrà di crepacuore nelle fredde prigioni leccesi, dopo qualche mese di detenzione.

Giuseppe fuggì e venne ospitato da alcuni amici, che rischiarono di grosso.

Tornato a Napoli, visse in clandestinità, finché il 16 novembre 1849 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Potenza con l’accusa di “cospirazione per distruggere o cambiare il Governo e di eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale, in maggio, giugno e luglio 1848“.

Venne processato dalla Gran Corte speciale di Potenza e difeso efficacemente dall’avvocato Bodini, tanto che fu assolto. Il successivo e fortuito rinvenimento di documenti compromettenti portò tuttavia a un nuovo processo per cospirazione (febbraio – marzo 1854), che si concluse con la condanna a sei anni di reclusione, commutati in seguito nella pena del confino.

Relegato nell’isola di Ventotene, Giuseppe diede vita in maniera fortunosa e rocambolesca a un lungo carteggio con il vecchio amico Silvio Spaventa (allora detenuto, insieme con Carlo Poerio, nella vicina isola di Santo Stefano) al quale scriveva una volta la settimana sui fatti che accadevano a Napoli e nel Regno. A sua volta lo Spaventa gli forniva altre importanti notizie.

Ottenuta la grazia nel 1856 e fatto ritorno a Lecce, il Giuseppe non tardò a prendere contatto con il comitato napoletano, di ascendenza mazziniana, guidato da G. Fanelli e L. Dragone. Ebbe così modo di svolgere un ruolo importante nella spedizione di Carlo Pisacane a Sapri. Anzi, fu proprio il Libertini a farsi carico di garantire l’appoggio da parte delle province del Salento e della Basilicata, assicurando che “al momento dell’azione diecimila e forse più saranno in campo“. Però gli eventi si svolsero in altro modo e Giuseppe non poté mantener fede alla promessa. La polizia borbonica trovò addosso al Pisacane l’epistola del Libertini, nella quale il nostro esprimeva il pieno appoggio alla causa comune di liberare il Meridione dai Borbone.

Giuseppe fu costretto a fuggire e a rifugiarsi a Corfù (settembre 1857) sotto il falso nome di Enrico Barrè.

Prima di andar via, stipulò un compromesso con il fratello Vincenzo, il quale assunse l’impegno di inviargli 40 ducati al mese, impegno che non fu sempre onorato. Infatti, nei mesi di esilio greco, per poter sopravvivere Giuseppe si barcamenò tra mille difficoltà finanziarie.

Nel marzo 1858, si trasferì a Malta, e qui Nicola Fabrizi, dopo averlo spronato a scrivere un opuscolo sulla situazione politica nel Sud d’Italia, lo spinse ad andare a Londra per incontrare Giuseppe Mazzini. Giunto in Inghilterra nel luglio del 1858, incontrò l’eroe genovese, che lo nominò redattore del periodico Pensiero e azione. Nel primo numero (settembre 1858), Libertini pubblicò l’articolo “I nostri a Salerno”, in cui si scagliava contro i giudici che avevano condannato alla pena capitale i superstiti della spedizione di Sapri.

Molto efficace fu anche un blocco di articoli, pubblicati tra febbraio e marzo 1859, sull’imminente conflitto dei Franco-Piemontesi contro l’Austria.

Nell’agosto 1859, Giuseppe Libertini, insieme a Rosolino Pilo e Alberto Mario, fece finalmente ritorno in Italia, con l’obiettivo di suscitare un movimento rivoluzionario insurrezionale nel Mezzogiorno, ma senza ottenere alcun esito. Il nostro fu costretto a rientrare in Inghilterra in quanto la sua presenza in Italia era a forte rischio. Nell’isola rimase per poco tempo, dopo le buone notizie che giungevano dall’Italia sul felice progetto di Garibaldi. Nell’agosto 1860 si trasferì a Napoli, stavolta da uomo libero, poiché Re Francesco II gli aveva concesso l’amnistia, cancellandogli la condanna all’ergastolo, inflittagli dalla Corte speciale di Salerno per i fatti di Sapri.

Agendo di concerto con Garibaldi, Giuseppe organizzò e coordinò diversi gruppi d’azione insurrezionali in Puglia, Basilicata e Calabria, in appoggio alle truppe garibaldine. In seguito, costituì con G. Pisanelli (settembre 1860) il Comitato unitario nazionale, che s’interessò, dopo la fuga di Francesco II a Gaeta, di governare per poche ore Napoli sino all’arrivo di Garibaldi (7 settembre 1860). Il dittatore, per ricompensa, gli affidò la conduzione del Banco di Napoli. Il nostro, però, rifiutò senza troppo pensare, asserendo che il suo impegno era dettato esclusivamente dall’amor patrio.

Qualche mese dopo, fondò insieme a Ricciardi, Nicotera ed altri, l’Associazione Unitaria Italiana, i cui fondamenti programmatici erano l’Unità nazionale e Roma capitale, da conseguire mediante l’azione rivoluzionaria e non quella diplomatica. Anche questo intento fallì miseramente e, addirittura, Giuseppe fu arrestato, ma dopo pochi giorni fu rimesso in libertà.

Il 27 gennaio 1861 Libertini venne eletto deputato al Parlamento nazionale per il collegio di Massafra. Si schierò con la sinistra, ma non prese mai parte attiva ai lavori, anche perché limitato da una leggera balbuzie. Nei primi anni successivi, Giuseppe riversò il suo interesse all’azione extraparlamentare.

Fu uno dei più abili ed efficaci organizzatori dell’impresa garibaldina di Aspromonte (agosto 1862), che, però, non sortì l’effetto sperato. Accettò il ruolo di intermediario nei rapporti segreti intercorsi nel 1863-64 fra Mazzini e Vittorio Emanuele II, in vista di una possibile azione per la liberazione del Veneto, ma anche questo impegno non conseguì alcun effetto positivo. Per questo motivo, Giuseppe rassegnò le dimissioni da deputato e si ritirò a Lecce insieme alla moglie Eugenia Basso.

Da quel momento abbandonò poco per volta la politica, interessandosi di fatti prettamente provinciali.

Nel 1864 fondò la loggia massonica “Mario Pagano” e ne diventò il Gran Maestro Venerabile. Da questo momento in poi s’impegnò con ogni energia a diffondere l’importanza della massoneria in Terra d’Otranto e riuscì a creare una rete articolata di logge massoniche, tanto che nella pubblicistica locale si cominciò a parlare, sempre più convintamente, di “Terzo partito” repubblicano, dopo quello liberale moderato e quello dei neri, filoborbonico e clericale.

A partire dal 1868 Libertini e i suoi incontrarono la durissima opposizione del prefetto Antonio Winspeare, inviato in provincia proprio per combattere il suo potere o quanto meno sminuirlo. Ma invano.

All’inizio degli anni settanta Libertini, un po’ malandato e svuotato d’ogni entusiasmo, soprattutto per la morte del suo caro Mazzini, si chiuse in se stesso e in un silenzio che lo accompagnò sino alla morte, che lo colse all’età di soli 51 anni. Tutti i leccesi si strinsero attorno alla sua bara in un corteo di migliaia di persone, a testimonianza dell’amore e della stima a lui riservata. Attestazioni che arrivarono non solo da parte di amici, ma anche di coloro che gli furono i rivali politici più accesi.

Oggi il grande risorgimentista è ricordato a Lecce con un monumento, eretto nella piazza a lui intitolata, sita alle spalle del castello Carlo V. Anche altri paesi salentini gli hanno dedicato strade e piazze.

La radice massonica da lui costituita e, soprattutto, fatta crescere e sviluppare oggi conta sul territorio varie diramazioni.

 

Devo molte di queste notizie al libro di Mario De Marco (discendente del Libertini per parte di madre) intitolato Giuseppe Libertini. Patriota e Fondatore delle Logge Massoniche in Terra d’Otranto/ Testi e Documenti (Lecce, Edizioni del Grifo, 2009, pp. 704)

 

Pubblicato su “Il filo di Aracne”

Il Risorgimento a Ruffano e Torrepaduli

 

di Paolo Vincenti

Il Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla rivoluzione giacobina all’Unità (1799-1861), per la collana “Cultura e Storia” della Società di Storia Patria – Sez. di Lecce, è l’ultima fatica dello studioso Ermanno Inguscio (Edipan 2011).

Dedicato al “maggiore pilota Michele Cargnoni, comandante degli ‘Otto Angeli Azzurri’ dell’84° S.A.R. Aereo Aereonautica Militare Italiana”, il libro vanta una Prefazione del professor Mario Spedicato, Presidente della S.S.P.- Lecce nonché docente di Storia Moderna presso l’Università degli Studi del Salento, e una Postfazione dello studioso ruffanese Aldo de Bernart, decano degli storici salentini, maestro e donno del Nostro. Nell’anno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, quindi, un ulteriore tassello, nel grande mosaico della conoscenza storica del Risorgimento locale, che tanti studiosi hanno contribuito a comporre. In effetti, mai c’è stata messe più foriera di nuovi spunti e stimoli di dibattito e ricerca storica nell’ambito degli studi salentini, della copiosa produzione editoriale del 2011, grazie alla quale le vicende politico-amministrative che interessarono Terra D’Otranto durante gli anni dell’unificazione sono state a lungo lumeggiate.

Il volume che qui si presenta va appunto in questa direzione, vale a dire cerca di far luce su fatti e personaggi minori del periodo risorgimentale, nello specifico dei due paesi Ruffano e Torrepaduli, nella ormai consolidata e condivisa consapevolezza che la microstoria sia intrecciata indissolubilmente alla macrostoria, nel tessuto connettivo della nostra storia nazionale.

Dopo la Prefazione di Spedicato, nel libro compare una Premessa dell’autore e quindi il corpus della narrazione storica, suffragata da documenti d’archivio, nella compulsazione dei quali Inguscio è un esperto, come dimostrano i suoi numerosi precedenti lavori editoriali, tutti mirati alla conoscenza storica e all’approfondimento delle principali tematiche sociali, economiche, politiche e culturali che hanno interessato le nostre comunità d’appartenenza nei secoli andati.

Il libro di Ermanno Inguscio ci dimostra ancora una volta che il Risorgimento italiano non fu fatto solo dai grandi nomi che abbiamo imparato a conoscere sui libri di scuola , ma anche dal contributo di tanti e tanti uomini e donne i cui nomi sono meno noti, conosciuti solo a livello locale o, a volte, del tutto ignorati, ma che hanno partecipato fattivamente, spesso dando la propria vita, alla causa nazionale. Così anche nell’ambito degli studi storici di Terra D’Otranto, ai nomi tanto celebrati di Sigismondo Castromediano, Liborio Romano, Antonietta De Pace, Giuseppe Libertini, e via dicendo, dovremmo aggiungere quelli dei tanti sconosciuti eroi che, in ogni piccola o grande municipalità della nostra provincia di Lecce, si spesero per la giusta causa e sui quali nomi, libri come questo che abbiamo tra le mani, fanno luce, meritoriamente.

Patrioti come Giuseppe Marti, Antonio Leuzzi, Francesco Villani, Vito Santo, Vincenzo Marchetti, Samuele Gaetani, Raffaele Viva a Ruffano, e Delfino Caretta, Piacentino Occhiazzo, don Antonio De Giorgi a Torrepaduli, vengono messi in risalto in questa pubblicazione, e tornano a parlarci della storia della nostra comunità che anch’essi hanno contribuito ad edificare, con la loro idea forte di patria unita, di nazione. Questo libro potrebbe costituire il prequel, come si direbbe con un termine tratto dal linguaggio televisivo delle fiction, dell’altro libro di Inguscio, “La civica amministrazione di Ruffano. Profilo storico 1861-1999” (Congedo Editore, 1999), nel senso che approfondisce il periodo storico immediatamente precedente a quello trattato in quel libro. Ciò offre una visione d’insieme sulla storia ruffanese degli ultimi due secoli Ottocento e Novecento.

Nella sua Premessa, Inguscio spiega quali sono le fonti (tantissime) da lui consultate per la redazione di questo volume e quali anche le difficoltà incontrate nel percorso di studio a causa della mancata reperibilità di alcuni documenti fondamentali. Nella Prima Parte (“Il 1799 tra rivoluzione e restaurazione”), Inguscio si occupa dei riflessi della Repubblica Partenopea del 1799 in Terra D’Otranto, nello specifico con riferimento alle “Università” di Ruffano e Torrepaduli, e ci parla delle mortalità e natalità nel nuovo stato civile di Ruffano e Torrepaduli (che, all’epoca era aggregata a Supersano). Nella Seconda Parte ( “Decennio francese, Nonimestre, Società segrete”), si occupa delle riforme che avvennero in Terra d’Otranto dalla Rivoluzione Partenopea all’eversione della feudalità (1799-1806), sempre con specifico riferimento al nostro comune, quindi dell’istituzione delle Conclusioni Decurionali di Ruffano e della nascita delle società segrete.

Passa poi ad occuparsi dei demani, dei catasti e del contenzioso amministrativo nel comune di Torrepaduli in età murattiana (1806-1808), della carboneria torrese di Antonio De Giorgi, con la “vendita” di Torrepaduli nell’ex Convento dei Carmelitani , e delle vicende amministrative che interessarono Ruffano durante quegli anni davvero “caldi” per il nostro Paese. Si fanno i nomi di diversi settari ruffanesi, con il movimento carbonaro nell’ex Convento dei Cappuccini.

Nella Terza Parte (“ ll 1848. Fermenti e sommosse”), Inguscio si occupa del periodo che va dal 1830 al 1840, con il propagarsi delle idee mazziniane in Terra D’Otranto, focalizzando le figure di alcuni liberali ruffanesi fra i quali in primis il patriota Raffaele Viva.

Con l’Unificazione, e siamo nella Quinta Parte del libro, anche a Ruffano e Torrepaduli si tiene un Plebiscito per l’Unità, con ben 877 “si” all’Italia unita.

Una parte dello studio è riservata ai mercati e fiere, fra cui la Fiera di San Marco a Ruffano e l’altrettanto nota e antica Fiera di San Rocco a Torrepaduli. Nel biennio decisivo per l’Unità d’Italia (1859-1861), viene approfondito il fenomeno del legittimismo reazionario, in particolare con lo scontro, a Torrepaduli, fra le figure dell’arciprete Caracciolo e del Sindaco D’Urso. In effetti furono molte le manifestazioni filo borboniche nel nostro comune e disordini, in quegli anni agitati, se ne registrarono in tutto il Salento , con processi politici che interessarono anche il Circondario di Ruffano.

E con le Conclusioni, termina il libro, che riporta una serie di fotografie dei più importanti monumenti, palazzi e strade di Ruffano. Dopo la Postfazione di Aldo de Bernart, in “Appendice” vengono riportati: una tavola sinottica delle cose più notevoli in età preunitaria (fatti, luoghi e nomi) di cui si è parlato nel libro, e l’intero elenco degli 877 elettori del plebiscito del 21 ottobre 1860 a Ruffano e Torrepaduli.

Lascio che a chiudere questo pezzo siano le significative parole dell’autore stesso: “Nell’anno delle mille celebrazioni, giustamente programmate nella Penisola, in occasione del 150° dell’Unità D’Italia, nel pieno fiorire nel contesto globale della realtà dell’Europa Unita, è parso utile dotare il lettore di una minuscola tessera di riappropriazione storica d’identità, di due piccole comunità… che, con l’umile contributo dei propri antenati (patrioti, liberali, legittimisti e diffidenti), hanno contribuito al raggiungimento di un’unica patria, dove ciascuno sia protagonista della propria esistenza e della ricerca collettiva del bene.”

Lecce. Il monumento a Sigismondo Castromediano

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Occorre fare un passo indietro per conoscere la storia di questo manufatto e dell’uomo che l’ha ispirato. Si può seguire questo percorso leggendo il monumento che racchiude i momenti salienti della vita di questo grande personaggio, non solo patriota e poi deputato salentino della prima legislatura del Regno d’Italia, ma anche infaticabile custode della storia della nostra terra.

Il monumento, opera dello scultore Antonio Bortone (1844-1938), fu commissionato nel 1898 da Giuseppe Pellegrino, all’epoca Sindaco di Lecce, e, realizzato grazie ai contributi di Umberto I il Ministero l’Amministrazione Provinciale / il Capoluogo i comuni cittadini[1], fondi in parte raccolti grazie alla sottoscrizione aperta da Adele Savio, la nobildonna torinese cui Castromediano dedicò le Memorie[2].  Pellegrino insistette molto per farlo realizzare, tant’è vero che Bortone gli scrisse: «Se il monumento a Castromediano è veramente piaciuto ne sono essenzialmente contento per te mio buon amico che per vedere attuato quel tuo nobilissimo pensiero hai dovuto sopportare non poche amarezze e lottare molto»[3].

Bortone ha ritratto il Duca in piedi, appoggiato con la mano sinistra a una sedia, dov’è stata posata frettolosamente una coperta. Reca nella mano destra, porgendolo al visitatore, il manoscritto delle sue Memorie, l’opera in cui racconta i moti del 1848, la condanna, gli undici anni di carcere, l’esilio.

Potrebbe aver voluto rappresentare idealmente uno dei momenti più significativi della vita di Sigismondo Castromediano: l’incontro tra il duca e re Umberto I avvenuto il 23 agosto 1889 nelle sale del Museo Provinciale[4]. La coperta abbandonata denoterebbe l’accantonamento della vecchiaia e delle sofferenze subite, la postura altera di Castromediano, ritratto in tutto il suo vigore, è sinonimo dell’orgoglio di porgere al re, e quindi a tutta l’Italia, il suo contributo, e quello di tutta la Terra d’Otranto, alla Patria.

Ai piedi della statua, sul davanti, troneggia una rappresentazione della Libertà «nelle nobili fattezze di una matrona seduta», sul lato posteriore la Gloria è «simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg»[5].

Sul lato sinistro del monumento, sull’alto plinto in marmo si legge: Nei tormenti della pena / non mutò l’animo. Sotto sono elencate le carceri dove fu imprigionato: Procida, Montefusco, Montesarchio, Nisida, Ischia[6].

Sul lato destro, la scritta Ai compagni fedele / sdegnò privilegio / pari ne volle la sorte, è accompagnata dall’elenco dei loro nomi (qui riportati per esteso e correttamente): Nicola Schiavoni di Manduria, Michelangelo Verri di Lecce, Leone Tuzzo di Scilla, Maurizio Casaburi di Manduria, Carlo D’Arpe di Lecce, Nicola Donadio di Manduria, Francesco Erario di Manduria, Pasquale Persico di Lecce, Gennaro Simini di Lecce, Luigi Cosentini di Otranto, Giuseppe De Simone di Lecce, Dell’Antoglietta[7] di Lecce, Gaetano Madaro di Monteroni, Giovanni De Michele di Lecce, Salvatore Stampacchia di Lecce, Achille Bortone di Lecce.

ph Giovanna Falco

Scorrendo le pagine delle Memorie[8], si viene a sapere che queste persone (tranne il dottor Gennaro Simini, in precedenza espatriato), il 2 dicembre 1850 furono condannate a carcerazioni di varia entità (dai trent’anni di ferri inflitti a Castromediano e a Schiavoni all’anno di reclusione stabilito per Bortone), sentenza conseguente alla partecipazione, a vario titolo, ai moti del 1848, cui seguì l’arresto per cospirazione e insurrezione contro Ferdinando II. In questo elenco non sono citati il sacerdote di San Pietro Vernotico Nicola Valzani, il canonico Salvatore Filotico di Manduria (morto in carcere), Giuseppe Amati di Lecce. La frase che accompagna i nomi sul monumento, si riferisce al rifiuto di Castromediano alla proposta di grazia ottenuta nel 1854, per l’intercessione del Vescovo di Lecce Nicola Caputo, durante la sua detenzione a Montefusco.


[1] La targa è situata alla base del monumento, sotto l’aquila. Parteciparono con somme più o meno ingenti, anche il Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Pelloux e vari Comuni di Terra d’Otranto (Cfr. Ivi, pp. 54-55).

[2] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche – Memorie del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce 1895, 2 vol. (ed. anast., Bologna 1975).

[3] R. DOLCE PELLEGRINO, Il monumento a Sigismondo Castromediano nel carteggio Savio – Pellegrino  cit.,  p. 58.

[4] Il sovrano era venuto a Lecce per una breve visita con il figlio Vittorio Emanuele, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi e i ministri Benedetto Brin e Pietro Lacava. Cosimo De Giorgi era presente all’incontro. Racconta che: «Appena il Re lo vide con accento franco, affettuoso e sorridente, affrettando il passo innanzi a tutti corse ad abbracciarlo». I due, poi, si appartarono in una sala. Quando tornarono dagli altri, erano molto commossi. Castromediano non raccontò mai a nessuno quello che si erano detti, ma commentò l’evento sull’albo dei visitatori del museo. Sotto la firma del re e dei suoi accompagnatori, scrisse: «Con molta loro sodisfazione, tutto ammirando, commentando, spiegando, stettero in detto Museo dalle 5 e mezzo pom. sino alle 6. Onore che non dovrà giammai dimenticarsi» (C. DE GIORGI, Il Duca Castromediano e il Museo Provinciale di Lecce, in “Numero Unico”, Lecce 1896, pp.5-11: p. 5).

ph Giovanna Falco

[5] Cfr. Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti.

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/30/antonio-bortone-da-ruffano-1844-1938-il-mago-salentino-dello-scalpello/

[6] Le carceri dove Castromediano soggiornò più a lungo, oltre quelle leccesi (dove fu recluso dal 30 ottobre 1848 al 28 maggio 1851), furono Procida, Montefusco e Montesarchio (Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit.).

[7] Sul monumento manca l’iniziale del nome di Dell’Antoglietta, non si sa, dunque, se chi ha redatto l’elenco si riferisca ad Achille (condannato il 2 dicembre 1850 a quattro anni di prigione), o a Domenico che subì una condanna a dodici anni in un altro processo e incontrò Castromediano al momento dell’imbarco per l’esilio.

[8] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit., pp. 123-159.

Antonietta De Pace, patriota gallipolina

 

di Gino Schirosi

 

Gallipoli ha l’obbligo morale di celebrare con orgoglio, soprattutto oggi, la sua figlia più illustre: Antonietta De Pace. Una piccola donna, ma una grande eroina, una patriota mazziniana, fervente e intrepida rivoluzionaria, collaboratrice di Garibaldi e Pisacane, Poerio e Settembrini, Valentino, Libertini e Castromediano.

Singolare e indomita figura femminile che nella vicenda risorgimentale occupa un posto di primo piano, assieme con i grandi della patria, nell’universo storico e politico dell’800, un secolo difficile per le incomprensioni, le diffidenze e le ostilità. Notevole risulta la sua intensa attività politica contro le forze di polizia della potente dinastia borbonica.

La sua lotta è tesa solo ad affermare la propria ideologia, la propria fede politica in opposizione alle forme di governo retrive e repressive di ogni libertà. Propugna il senso di giustizia sociale, la propria avversione ad ogni tipo d’illegalità o sopraffazione a difesa di emarginati ed oppressi, dei più deboli della società. Il suo impegno civile, unicamente dedito a contribuire alla nascita dell’Unità nazionale e inteso a modificare il corso degli eventi, non conosce tentennamenti né compromessi, ma le cagiona, tra ostacoli e rischi, la detenzione nelle tristemente note galere borboniche, insieme con altri suoi compagni di lotta.

Una donna antesignana del femminismo moderno e protagonista del suo tempo nella periferia del regno, personaggio inflessibile e coraggioso, intrepido e indomito nell’affermare i suoi princìpi liberali e democratici, i suoi ideali romantici e risorgimentali di italianità. Partecipa in prima fila all’impresa garibaldina fino a festeggiare la liberazione di Napoli. Entra in città cavalcando insieme con Garibaldi attraverso via Medina in direzione della reggia.

Figura apparentemente leggendaria, ma vera e autentica, umana e poetica, modello di ben altro protagonismo che oggi è solo miraggio, ma che va additato ad esempio di forza morale e civica in un mondo, quello attuale, che ha snaturato ogni ideologia, ha smarrito o non conosce più i valori della storia patria e delle nostre radici.

Da tale testimonianza i nostri giovani dovrebbero dedurre una nobile lezione di vita, conoscere anzitutto i segreti che si celano nel sogno di questa gallipolina, una donna sulle barricate del nostro Risorgimento. Dalla sua città tuttora non è stata debitamente gratificata se non con l’intitolazione di una via. Forse non si è abbastanza compreso che, in qualche modo, anche

Lecce. Le offese al monumento a Sigismondo Castromediano. Bisogna porre rimedio!

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

 

Kia + Gigi 12/10/10 Gigi ti amo by la tua Kia.

Kia conosci la storia del marmo su cui hai immortalato la tua dichiarazione d’amore? Lo sai che Sigismondo Castromediano, quell’omone in bronzo che porge un libro, non è solo il nome del Museo visitato durante qualche gita scolastica? Lo sai che hai impresso la tua firma a fianco a un elenco di nomi di persone che nel 1848 hanno sacrificato la loro libertà per perseguire un ideale?

ph Giovanna Falco

E che dire dei tanti altri “geroglifici” che imbrattano il monumento a Sigismondo Castromediano, posto al centro della piazzetta omonima sita a metà strada tra Palazzo Carafa e Palazzo dei Celestini? Per non parlare della macabra ridipintura delle unghie della statua della Libertà!

 
 
 

 

le unghie “smaltate” dal solito buontempone con cattivo gusto (ph Giovanna Falco)

 

 

Cari amministratori, perché in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia non ponete rimedio a questi atti di tracotanza giovanile, ripulendo il monumento dedicato agli avvenimenti che in Terra d’Otranto ne hanno permessa l’attuazione? Giacché, potreste correggere gli strafalcioni compiuti da chi in seguito ha messo mano al monumento, trasferendo ai posteri un’errata memoria: per cui Maurizio Casaburi e Francesco Erario, operai di Manduria condannati a nove anni di ferri, passano ai posteri come M. Casapuri e F. Isario, e il leccese don Giovanni De Michele, condannato a tre anni di carcere, è eternato come O. De Michele.

Ci si chiede, inoltre, perché sulla base del monumento è riportata la data MDCCCXII: non si riferisce ad alcun episodio della vita di Castromediano, nato il 20 gennaio 1811 e morto il 20 agosto 1895!

Eppure, nell’accorato discorso inaugurale del monumento a Sigismondo Castromediano, il 4 giugno 1905, Giuseppe Pellegrino declamava: «Noi

Libri/ Uniti per forza

Uniti per forza, di Federico Pirro

di Rocco Biondi
Come recita il sottotitolo del frontespizio, il libro di Federico Pirro è un saggio antologico, ampiamente commentato, di brani di scrittori importanti che hanno parlato dei fatti che portarono alla cosiddetta unità d’Italia. Sono presenti oltre ad autori a noi contemporanei anche autori contemporanei ai fatti che si svolsero 150 anni fa. Se ne deduce che non tutti gli autori sono stati organici al potere e tromboni della storia scritta dalla parte dei vincitori e per osannarli. Anche se chi ha tentato di presentare e spiegare le ragioni dei vinti non ha avuto gli spazi, accademici e divulgativi, degli altri. Anzi sono stati boicottati o ignorati. Ora qualcosa sta cambiando e il libro di Pirro ne è testimonianza. Sono tanti i volumi di questo tipo, freschi di stampa, che stanno occupando significativi spazi negli scaffali delle librerie.
Per tutti cito solo alcuni autori “popolari” che danno, anche se con gradi diversi, voce ai vinti del cosiddetto risorgimento: Pino Aprile, Giordano Bruno Guerri, Antonio Caprarica, Gigi Di Fiore, Eugenio Bennato, Lino Patruno; ma sono tanti altri i libri, pubblicati da case editrici di ogni grandezza, che parlano dei “briganti” postunitari del Sud. I “briganti” di quell’epoca, lo ripeto ancora una volta, per noi assumono solo ed esclusivamente una connotazione positiva, sono infatti insorgenti e

La situazione di Galatina nell’Italia post-unitaria

di Tommaso Manzillo

Con la battaglia del Volturno e l’ingresso di Garibaldi a Napoli, il re Francesco II fu costretto alla fuga, ma i galatinesi non mostrarono mai grande entusiasmo per questo passaggio reale, perché le radici filo borboniche, nella nostra città, erano ancora molto profonde.

Ci volle l’intervento del decurione Nicola Bardoscia, affinché il sindaco, Antonio Dolce, indicesse la data degli scrutini il 21 ottobre 1860, presso il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, situato presso la Torre dell’orologio (costruita nel 1861 come simbolo dell’Italia Unita).

L’amministrazione galatinese aveva faticosamente soffocato le manifestazioni d’entusiasmo dovute alla notizia dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, mentre pochissimi avevano espresso il loro voto, nonostante gli interventi di Nicola Bardoscia, Fedele Albanese (che fu uno dei primi ad entrare, come giornalista, nella  “breccia di Porta Pia” del 20 settembre 1870, insieme a La Marmora) e Innocenzo Calofilippi.

particolare di palazzo nobiliare nel centro storico di Galatina

 

Per sconfiggere l’inerzia dei galatinesi, determinante rimane l’intervento del medico Nicola Vallone, per richiamare gli elettori alle urne, mentre bivaccavano in piazza San Pietro. Nicola, figlio più giovane di Donato e morto in giovane età, ebbe una brillante carriera di medico e scienziato, spesso lontano dalla sua città: a Napoli, per conseguire la laurea in medicina; a Vienna, entrò in contatto con gli ambienti accademici e culturali approfondendo gli studi professionali e la ricerca e la sperimentazione in una branca importante della scienza medica, ossia l’anatomia patologica; alla Sorbona di Parigi, dove seguì le lezioni di Claude Bernard, considerato tra i più grandi scienziati del tempo; a Berlino dove subì l’influenza delle idee democratiche del suo maestro e deputato parlamentare Rudolf Virchow, uno dei più autorevoli esponenti dell’anatomia patologica. Nicola Vallone rappresentò un modello di cultura politica e un prestigioso referente nelle relazioni sociali, proiettando la famiglia nella politica attiva, grazie anche al forte influsso che subiva dall’ambiente liberale galatinese, nel quale erano influenti le figure di  Pietro Cavoti, Berardino Papadia, Giustiniano Gorgoni e Rosario Siciliani.

Ritornando al 21 ottobre 1860, il voto si esprimeva con l’uso dei legumi, dato l’alto tasso di analfabetizzazione: le fave erano per i sì, mentre i fagioli per il no. Il responso fu di 1257 sì, più 1253 voti favorevoli espressi dai forestieri che stavano a Galatina per il mercato.

Dopo la proclamazione del regno d’Italia (17 marzo 1861), la carta fondamentale o Statuto cui fare riferimento era quello Albertino, varato e concesso al popolo in fretta e in furia nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, il quale rimase in vigore, seppur con opportune modifiche, fino al 1846, quando fu adottato un regime costituzionale provvisorio, in attesa

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