Specialità salentine. La ricotta e la ricotta forte

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di Massimo Vaglio

Lo storico Girolamo Marciano (1571-1628) nel suo, Descrizioni, origini e successi della Provincia d’Otranto, annovera la ricotta forte: …detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia…. ne riporta con precisione il metodo di preparazione e gli utilizzi gastronomici, e le riconosce persino ampie proprietà terapeutiche: …giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermini, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cader i vermi, genera sangue e nutrisce molto. La menzioneranno nei loro testi anche V. Corrado (1738- 1836) e G.B. Gagliardo (1758-1826) che nel suo Catechismo Agrario (1793) da anche alcune dritte sull’uso della ricotta fresca e nel modo di ricavarne da questa “la manteca”, ossia il burro di ricotta..

La ricotta è un latticino che si ricava dal siero in seguito alla ricottura dello stesso, da cui il nome. Dalla ricotta, sottoponendola ad una sorta di fermentazione controllata, si ottiene la ricotta forte.

La ricotta può essere prodotta sia con siero proveniente dalla lavorazione dei formaggi ovi-caprini, che dei formaggi vaccini e a pasta filata, addizionando il 5-10 % di latte. Il siero, viene filtrato e riscaldato in caldaie di rame stagnato; la massa, sotto lenta agitazione, realizzata con il “ruotolo”, è portata a 70 °C circa. Si addiziona il latte, si sala, e con successivo riscaldamento si porta alla temperatura di 83-95 °C.

Così avviene l’affioramento dei fiocchi di ricotta che vengono prelevati con la schiumarola, e posti direttamente nelle fiscelle, se indirizzata al consumo fresco, la ricotta, va mantenuta in frigorifero e consumata entro 1-2 giorni.

La ricotta forte, nota pure come ricotta ‘scante, schianta o uschiante, ha consistenza morbida, cremosa e spalmabile, colorazione, generalmente dal bianco candido al giallo ambrato.

Sapore particolarissimo, molto piccante e sapido. Si ricava dalla ricotta che viene lasciata spurgare nelle fiscelle per qualche giorno, quindi trasferita nei tradizionali recipienti in terracotta smaltata dalla forma svasata, “limbi”, salata e diligentemente amalgamata, manualmente o con l’uso di spatole e lasciata riposare coperta con un telo.

L’operazione viene ripetuta con frequenza per 2-3 mesi. Durante queste fasi, il peso iniziale si riduce di circa un terzo. I particolarissimi, sapore e profumo, avvisano il casaro della perfetta maturazione. Viene adoperata come condimento, al posto del comune formaggio come farcitura di focacce e spalmata sul pane, in accoppiamento con sarde o alici, in quello che può essere considerato lo spuntino più tipico del Salento.

Fra le tante ricette che la vedono protagonista, abbiamo scelto la seguente perché, nonostante l’inserimento di un prodotto non proprio soft come la ricotta forte, rimane comunque un piatto sorprendentemente fresco e piacevolissimo.

 

Cocule, ovvero, polpette di patate

Lessate le patate rigorosamente di varietà pasta gialla. Sono particolarmente indicate le Sieglinde: pelatele e schiacciatele, aggiungete uova fresche intere in ragione di tre per ogni chilo di patate, abbondante pecorino piccante, pepe nero, prezzemolo o menta; impastate per bene e, facendo rotolare l’impasto fra le palme delle mani, formate delle polpette piuttosto grandi. Allineatele in un tegame dove avrete già rosolato della cipolla tritata e portato a cottura della passata fresca di pomodoro con qualche foglia di basilico. Con il dito, ricavate un incavo in ogni “cocula”, farcitele con un cucchiaino di ricotta forte e richiudetele.

Per dare al piatto un aspetto più invitante cospargetele ancora con un po’ di pecorino e passatele in forno per farle dorare in superficie. Queste polpette vengono normalmente servite come primo piatto, ma non infrequentemente anche come secondo.

Lu maccarrone (il maccherone): il suo etimo è duro, come il grano di cui dovrebbe esser fatto … (2/2)

di Armando Polito

"Curti e gruessi" in un'immagine tratta da http://www.kalimerami.it/joomla/hikashop-menu-for-categories-listing/product/214-pizzarieddhi
“Curti e gruessi” in un’immagine tratta da http://www.kalimerami.it/joomla/hikashop-menu-for-categories-listing/product/214-pizzarieddhi

Non pone dubbi di sorta (o quasi … 3) la seconda attestazione, contenuta nel testamento del soldato Ponzio Bastone redatto a Genova nel 1279 dal notaio  Ugolino Scarpa3 in cui tra i beni inventariati compare anche una bariscella plena de macaronis (cesta piena di maccheroni).

La terza attestazione è nel Boccaccio (XIV secolo), Decameron, terza novella dell’ottava giornata; : … niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli  … pur per veder fare il tomo a quei maccheroni …

Tralascio le numerose successive non mancando, però, di riportare quella, in latino, in cui il nostro è protagonista di un miracolo sulla falsariga, in un solo colpo, della moltiplicazione del pane e dei pesci e nella trasformazione dell’acqua (nel nostro caso dell’aria) in vino, il nostro maccherone è in una testimonianza che valse il titolo di beato conferito il 9 aprile 1537 da Papa Paolo III a Guglielmo Buccheri, detto Guglielmo Cuffitedda, anche noto come Guglielmo da Noto, Guglielmo eremita o Guglielmo di Scicli (1309-1404). Negli atti del processo di beatificazione4 (che, dunque, risalgono alla prima metà del XVI secolo) si legge: Super X Capitulo Testis XI asseruit, de pluribus miraculis ab eo factis se audivisse ex patre et matre, sed nullorum in particulari meminisse: ceteri fere omnes ex auditu narravere miraculum de pastillis in domo Guiccionii. Ex his Testis I hoc modo rem narrat publice auditam. Invitaverat Guillelmum aliquando compater suus Guiccionius ad prandium, eique apposuerat maccarones seu lagana cum pastillis: quorum aliqui de industria impleti furfure, positi fuerunt ante dictum Guillelmum. Hos cum ei praescindere vellet, quae eosdem paraverat Guiccionii uxor, coepit ille dicere commatri suae, quare hos ipsi praescinderet; et formans super lancem signum Crucis, accepit aliquos ex dictis pastillis plenis furfure, eosque aperiens reperit plenos recocto lacte: ac mox mulieri monstravit dicens – Huc aspice, commater, numquid delicati sunt? -. Postea volens bibere, requisivit eamdem an haberet vinum, respondit illa a pluribus diebus nullum habuisse domi. Institit nihilominus Guillelmus ut apponeret, designando digito vas vinarium, pridem vacuum. Surrexit ergo mulier cum cantharo, movensque spinulam vasis supremam, ut iusserat Guillelmus, mox ut eam extraxit, mirata est vinum copiosum effluere (Sul X capitolo il testimone XI affermò che di parecchi miracoli da lui fatti ne aveva sentito parlare dal padre e dalla madre, ma che in particolare non ne ricordava nessuno. Quasi tutti gli altri raccontarono per averne sentito parlare del miracolo delle focaccine in casa di Guiccionio. Tra questi il testimone I narra in questo modo il fatto che aveva sentito in pubblico. Un giorno Guglielmo era stato invitato a pranzo dal suo compare Guiccionio che gli aveva messo in tavola maccheroni o frittelle con focaccine: alcune appositamente ripiene di crusca erano state poste davanti al detto Guglielmo. Volendo la moglie di Guiccionio, che le aveva preparate, tagliargliele, cominciò egli a dire alla sua comare perché volesse tagliargliele; e facendo sul piatto il segno di croce prese alcune delle dette focaccine piene di crusca e aprendole le trovò piene di ricotta; e subito le mostrò alla donna dicendo: – Guarda qua, comare, non sono delicati? -. Poi volendo bere le chiese se avesse del vino e lei rispose che da molti giorni non ne aveva in casa. Nondimeno Guglielmo insistette  perché lo servisse, indicando il contenitore del vino da tempo vuoto. Si levò dunque la donna con la brocca e muovendo la spina superioredel contenitore, come aveva ordinato Guglielmo, non appena la estrasse vide meravigliata sgorgare il vino).

A questo punto non mi rimane che passare in rassegna le proposte etimologiche. Nel tempo se ne sono accumulate veramente tante. Eccole in ordine cronologico inverso, a partire da quella attualmente più accreditata, sia pure in forma dubitativa, alcune di loro legate da un sottile filo conduttore.

1) Dal greco μακαρία (leggi macarìa) che nel greco classico può significare felicità, beatitudine, sciocchezza, insulsaggine (torna in campo il salentino maccarrone sinonimo di sempliciotto …); Esichio di Alessandria (V secolo d. C.), però, nel suo lessico di μακαρία dà questa definizione: βρῶμα ἐκ ζωμοῦ καὶ ἀλφίτων=pasto di brodo e di farine. Il piatto veniva offerto in occasione dei funerali; ancora oggi in greco μακαριά significa funerale e il classico μακαρία è derivato da μάκαρ (leggi màcar)=beato, appellativo riservato ai morti. =beato, epiteto che si dava ai morti. L’aggancio tra tale piatto e il maccherone mi sembra piuttosto labile, ma, datolo per corretto, mi chiedo se il significato traslato della voce salentina si colleghi ai poveri di spirito destinati nel vangelo ad essere beati, che qualcuno interpreta estensivamente non come semplici, ingenui, puri ma come idioti, oppure alla semplicità del piatto, come è avvenuto nell’aggettivo maccheronico usato ironicamente dagli umanisti per definire il latino (quasi da cucina …) dei cuochi di convento.

2) Dal greco μακρόν (leggi macròn)=lungo, grande. Come faccio, ritornando sul significato metaforico di maccarrone a non pensare al proverbio, sempre salentino, tantu luengu tantu fessa? Qualcuno direbbe che è tutta invidia, ma non sa che, prima di incurvarmi a causa dell’età, mi venne rilevata, in occasione di una foto segnaletica …, una statura di due m. 2,20-0,53 …

3) Dal greco μάχαιρα (leggi màchaira)=coltellaccio; maccherone, perciò, alla lettera significherebbe tagliato col coltello.

4) Dalla radice μαγ– (leggi mag-) del verbo μἀσσω=impastare.

5) Da (am)maccare, con riferimento alla specie di pestatura che l’impasto originario subisce; per *maccare le proposte etimologiche sono tutte dubitative: da *macca (a sua volta derivato dal latino màcula=macchia; il pensiero va all’ecchimosi …) oppure dalla radice mag– di cui ho detto al punto precedente, oppure sarebbe voce onomatopeica.

Eppure ci sarebbe un personaggio, che sintetizzerebbe in modo forse solo apparentemente casuale, quanto fin qui detto. Era uno dei quattro fissi dell’atellana, cioé dell’antica farsa di origine osca diffusasi a Roma come rappresentazione non itinerante a partire dal II secolo a. C; essi  erano: Bucco (il fanfarone che parlava sempre a vanvera), Dossennus (il gobbo e furbo), Pappus (il vecchio rimbambito) e, dulcis in fundo, Maccus, che era stupido, ghiottone e le prendeva sempre. Chi può escludere che da una forma aggettivale di Maccus (*màccarus) non sia derivato maccherone?

E, dopo questo volo che probabilmente è solo di pura fantasia, è tempo di pensare al concreto. Mi attende un piatto fumante di curti e gruessi (confezionati da mia moglie; ogni tanto pure lei ne fa una buona …) cu lla ricotta scante6 (prodotta da mio cognato), che, inevitabilmente sarà accompagnato da un bicchiere (quasi certamente più di uno …) del nostro primitivo (purtroppo questo non è prodotto in famiglia e, perciò, il piatto non può essere definito, con locuzione oggi usata un po’ a vanvera, a costo zero …)  in grado di risvegliare istinti altrettanto primitivi, che, poi, sono i più sani …

Non fornisco documentazione fotografica delle delizie che mi attendono  per non suscitare nel lettore l’istinto non della sana ma dell’insana invidia;e, fra l’altro, per questo la foto di testa non è mia.

E così mi metto parzialmente al sicuro se ai suoi occhi avrò fatto fin qui la ficura ti maccarrone

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/16/lu-maccarrone-il-maccherone-il-suo-etimo-e-duro-come-il-grano-di-cui-dovrebbe-esser-fatto-12/

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3 Purtroppo in tutti i testi in cui questo documento è citato manca qualsiasi riferimento di natura archivistica e mi spiace, questa volta, di non poter colmare questa lacuna.

4 Acta sanctorum, tomo I (1-10 aprile). Palmè. Parigi e Roma, 1866, p. 375. Parte del brano riportato è pure nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange al lemma MACCARONES con la definizione di Genus edulii delicati (Tipo di companatico delicato), ma ho preferito riportarlo integralmente dall’originale, anche perché la voce del glossario non contiene nessuna indicazione utile a collocarla nel tempo.

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/04/la-ricotta-scante-ci-ti-usca-no-tti-scantare-la-ricotta-forte-se-ti-senti-bruciare-non-spaventarti/

La ricotta scante: ci ti usca, no tti scantare! (La ricotta forte: se ti senti bruciare, non spaventarti!)

di Armando Polito

Se la traduzione in italiano riuscisse a conservare quello che nell’originale sembra, ed in fondo è, con la ricorrente allitterazione, un gioco di parole, il titolo potrebbe essere un valido slogan pubblicitario per uno dei prodotti alimentari tipici del Salento. Chi ha rovinato le sue papille gustative (e non solo quelle …) consumando, magari per decenni, uno dei tanti formaggi spalmabili di produzione industriale, non si lasci prendere dalla voglia di assaggiare: resterà, molto probabilmente deluso se non disgustato, inconsapevole che con  le sue abitudini alimentari si è precluso la possibilità di godere di questo come di altri piacevoli sapori. Se, invece, nonostante tutto, la compromissione delle suddette papille non è stata totale e dovesse, perciò, apprezzare la nuova esperienza ed essere disposto a ripeterla ogni volta che se ne presenti l’occasione, non disdegnerà neppure di saperne di più su questo prodotto, a cominciare dal metodo di preparazione, dal nome particolare, dagli abbinamenti più obbligati.

Per la preparazione riporto (le note, però, sono una mia aggiunta) quanto si legge in Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 18551, pp. 151-152: Quivi le gregie sono fecondissime di agnelli e di latte, che fanno formaggi de’ migliori d’Italia, ricotte salate dette marzotiche2, cacicavalli, ed un’altra specie di ricotta, detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia, eccetto in questa provincia, saporosissima al gusto. Si fa questa ricotta mettendola fresca in certe mattre3 di legno fatte per questo artificio, e si lascia ivi inacidire aggiungendovi della fresca giornalmente. Inacidita, si tempra4 due o tre volte la settimana per due mesi continui, temprando e mischiando sempre alla massa quella che giornalmente si aggiunge, mettendovi, quando s’incomincia a temperare, tanto sale quanto si richiede alla confettura del pane per farlo saporito, e più o meno, secondo il gusto di chi la richiede5, e per ogni volta, che si tempra si lascia la pasta, e ben serrata: finita e perfezionata l’opera, risuda da essa ricotta una certa grassezza oleosa, la quale finita di risudare, si mette la massa della ricotta, e si conserva  in alcuni vasi di creta nuovi, coverti di foglie di vite, o di fichi, ed i vasi si mettono a terra alla rovescia, acché ne trascolino le reliquie di quella grassezza oleosa, atta a corromperla, e si conserva per molti mesi ed anni, acquistando in certo tempo un colore cretaceo argilloso, ed un sapore abbruciante gratissimo al gusto.Si mangia questa ricotta volentieri  col pane e le cipolle; se ne fanno diversi condimenti per il cibo alle mense, giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermini, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cader i vermi , genera sangue e nutrisce molto. Il medesimo fa la sua grassezza oleosa.

La procedura descritta fa comprendere che chiunque, partendo dal prodotto base genuino (la ricotta), può prepararsi in casa, magari utilizzando altri contenitori, la ricotta scante che, essendo a fermentazione naturale, non è, in pratica soggetta, com’è detto nel brano riportato,  a scadenza, anzi col passare degli anni diventa più scura e più piccante, quindi adattabile modularmente al gusto personale. Io, che sono un barbaro, la consumerei stagionata pure da cinquant’anni, ma non ho avuto la fortuna di simile eredità ed ormai è troppo tardi per trasmetterla alle mie figlie che, oltretutto, hanno delle papille gustative la cui delicatezza sta a quella delle mie come la concezione del potere (teorica e, quel che più conta, pratica) di Josè Mujica sta a quella di una delle tante alte cariche (per non parlare dei tanti incarichi distribuiti alla corte …) della nostra povera Italia …

Ma la sua sarà l’unica ricotta scante illegittima, cioè prodotta e conservata  trasgredendo (almeno in casa nostra siamo o no padroni di fare quello che vogliamo, soprattutto quando ciò che produciamo, e non si tratta certo nel nostro caso di droga, è destinato all’uso personale?) una delle tante idiote disposizioni europee (ancora più idiotamente lasciate passare dai nostri rappresentanti senza proferire una parola, anzi senza battere ciglio) che impongono la sterilizzazione con conseguente eliminazione dei fermenti e, aggiungo io, l’uso di chissà quali additivi.

Se ricotta s’è capito, rimane da spiegare scante. Deriva per aferesi da uscante (variante dell’uschiante presente nel brano di Marciano/Albanese), participio presente del verbo uscàre, che significa bruciare. Noi salentini avremo pure dei difetti, ma anche il pregio, unico, di continuare a parlare, in qualche modo, per lo più senza nemmeno rendercene conto, il greco e il latino. Uscare, infatti, deriva dal latino classico ustulare=bruciacchiare, forma iterativa da ustum, supino di ùrere=bruciare, per la trafila: *ustulare>*ustlàre>*usclàre6>*uscàre. Da ustum si è formato in latino ustio/ustionis (da cui l’italiano ustione) e ustor/ustoris (da cui l’italiano ustore; famosi gli specchi ustori che Archimede avrebbe utilizzato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi romane). Dal participio presente (combùrens/comburèntis) di combùrere (composto da cum=insieme+il già citato ùrere) è derivato l’italiano comburente e dal suo supino (combùstum) il latino tardo combustio/combustionis (da cui l’italiano combustione). Non manca neppure il toponimo: Ustica, isola la cui origine vulcanica è notoria.

In attesa che arrivino i pompieri possiamo, dunque, dire che  scante e usca del titolo sono due forme (participio presente la prima, terza persona singolare del presente indicativo la seconda) dello stesso verbo.

E scantare? Per il Rohlfs ha l’esatto corrispondente nell’italiano schiantare, che dai filologi viene dubitativamente collegato al latino explantàre=spiantare. Se già in ambito italiano  la proposta è ineccepibile sul piano fonetico ma discutibile su quello semantico (lo schianto è una conseguenza dell’eradicazione), non appare accettabile per scantare la corrispondenza proposta dal Rohlfs con l’ulteriore passaggio dal concetto di schianto a quello di spavento, anche perché come sinonimo di spiantare il salentino usa proprio schiantàre. Non si comprende come ad una i in più o in meno sia stato affidato il compito di differenziazione semantica, pur non mancando casi in cui questo succede, anche se non proprio con lo stesso termine: per esempio, chiamare è, come la voce italiana dal latino clamare, mentre scamare (=lamentarsi, gridare) è dal composto exclamare.

Credo, perciò, che molto più banalmente scantàre sia il contrario di ‘ncantare (incantare in italiano). E se ‘ncantare significa ammaliare col canto (la preposizione in indica immersione) scantare, invece, vuol dire uscire fuori dall’incantesimo (s– è ciò che rimane della preposizione ex con valore estrattivo), cioè recuperare il contatto con la realtà, il che, spesso, è tutt’altro che piacevole. Sotto questo punto di vista, dunque, il dialetto salentino appare più economico rispetto all’italiano perché mette in campo lo stesso verbo di base (cantare) per esprimere due concetti opposti, mentre l’italiano non conosce scantare ma spaventare, che è da un latino *expaventare formato sul tema (expavent-) del participio presente (expàvens/expavèntis) del classico expavère=temere. Se, poi, si vuol considerare disincantare come corrispondente italiano (non con pienezza semantica, fra l’altro) di scantare, il concetto della maggior economicità del dialetto persiste perché disincantare al verbo base premette la particella dis– e la preposizione in.  Va detto pure per completezza che lo spantare usato nel Brindisino e nel Tarantino non è variante di scantare (anche se il significato è lo stesso) ma è voce di origine spagnola (da espantar, come l’italiano spaventare, dal latino *expaventàre ma con aferesi di e– e sincope di –ve-), come ci dice espressamente un suo illustre utilizzatore7.

Credo pure  che a favore della mia proposta etimologica (la quale una volta tanto non rivendica un uso esclusivo della voce al dialetto salentino) vada quanto si legge in Ilario Peschieri, Dizionario parmigiano-italiano, Carmignani, Parma, 1841: “Ozèl scantà, o smalizià, Uccello accivettato. Quello che per aver veduta altra volta la civetta, o per aver dato altra volta nella pania, si tien cauto dappoi. E figuratamente si dice d’uomo, cui il proprio pericolo abbia renduto accorto”.

Tornando alla nostra ricotta scante, lascio al competente amico Massimo Vaglio il compito di illustrare i suoi vari impieghi nella nostra cucina. Io mi limito a dire che sostituisce ottimamente il formaggio nella preparazione delle recchie (orecchiette) o dei curti e gruessi (specie di cavatelli) col sugo di pomodoro, si amalgama ottimamente con i fagioli lessati (pasuli cu lla ricotta scante) ma il suo impiego senz’altro più immediato  e stimolante prevede che sia spalmata su una fetta arrostita di pane casereccio e che su questo letto giallastro siano adagiate due o più alici. E un generoso rosso generosamente gustato sarà un ottimo alibi per spegnere qualche palato delicato che dovesse uscare. Si tratta della rivisitazione moderna e qualcuno direbbe nobilitata dell’antica sarda allu ràsciu (sarda al raggio), che costituiva il pranzo del contadino di un tempo: un cartoccio di sarde salate, qualche fetta di pane e ricotta scante. Al momento opportuno bastava spalmare la ricotta sulla fetta e poi stendervi una sarda dopo averla sbattuta contro un raggio della ruota del traìnu (carro) per scuotere i grani di sale più grossi.

Sembrerà strano ma fu, stando a quanto fino ad ora mi è risultato, un autore napoletano e non un salentino a fare della ricotta scante quasi la protagonista di una sua opera letteraria. Francesco Cerlone (1722-dopo il 1778) fu autore di commedie, tragicommedie e melodrammi, alcuni dei quali musicati da famosi compositori pugliesi come il tarantino Giovanni Paisiello (1740-1816) e il barese Niccolò Piccinni (1728-1800).  Ecco i brani della commedia L’Armelindo, o sia trionfo del valore, in cui sulla scena compare il nostro prodotto, a ribadire, sia pure in funzione comica, un uso medicinale che ricorda quanto già letto nel Marciano/Albanese8:

Atto II scena X; personaggi: Zadir, Pulcinella, Ircano.

Atto II, scena XI; personaggi: Mossiù de Blo, Ircano, Zadir, Pulcinella.

 

Atto III, ultima scena; personaggi: Dorimaspe, Artalice, Celestina, Ircano, Pulcinella, Armelindo.

L’immagine fin qui ricorrente della ricotta scante e in particolare di quella invasettata ha finito per invasarmi9; non sono certo in grado di scrivere una commedia, ma qualche verso traballante sì e, per la serie me la canto e me la suono da solo, anche le note sono mie:

5

a Corrisponde all’italiano letterario (!) mentovare, che è dal francese mentevoir, a sua volta dalla locuzione latina mente habere=avere a mente.

b Da scuttare, corrispondente all’italiano sgottare.

c Alla lettera: integro, nel pieno delle facoltà fisiche e mentali.

d Da fitire, che è dal latino foetère=puzzare.

e Forma intensiva dell’italiano stèndere (che è dal latino extèndere): stindicchiare suppone un latino extendiculàre.

f Per capasa vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/.

g Corrisponde all’italiano letterario (!) roggia [dal latino rùbea(m)=rossa], ma usato con valore sostantivato: … e cui più roggia fiamma succia?” (Dante, Inferno, XIX, 33); Al campo dove roggio nel filare/qualche pamppano brilla … (Pascoli, Myricae, Arano, 1-2).

h Corrisponde all’italiano ampolle. Ampolla è dal latino ampùlla(m), diminutivo di àmphora=anfora, connesso con il greco ἀμφορέυς (leggi amforèus)=vaso a due manici, composto da ἀμφί (leggi amfì)=da entrambe le parti+φέρω (leggi fero)=portare, con evidente riferimento ai due manici.

ì Corrisponde all’italiano buscare (dallo spagnolo buscar, forse di origine celta) con aggiunta in testa della preposizione in, successiva aferesi e passaggio –n->-m-.

l Da ddifriddire, corrispondente all’italiano raffreddare, ma con cambio di coniugazione e sostituzione della particella ripetitiva ra- con la preposizione di.

m deverbale da ‘nghiuttire (corrispondente all’italiano inghiottire).

n gola (evidentissima similitudine).

o Il riferimento è al noto episodio biblico (Esodo, XVI, 16-18) in Dio somministrò una sostanza commestibile così chiamata agli Israeliti durante la loro peregrinazione nel deserto subito dopo l’uscita dall’Egitto

p corrisponde all’italiano erutto, con sostituzione di e– (dal latino ex=fuori) con de con lo stesso valore di moto da luogo.

q nessuno; la voce è dalla locuzione latina qui velles=chi tu voglia; esiste pure l’omofono ed omografo ceddhi, plurale di ceddhu=uccello, corrispondente all’italiano uccello, col quale condivide l’etimo: dal latino tardo aucellu(m), da un *avicellus, maschile di avicella, diminutivo di avis.

r andare; scire corrisponde all’italiano letterario (!) gire.

 

Come poeta sono un fallimento e il tentativo di emulare l’autore napoletano è andato totalmente a vuoto? Vuol dire che mi rifarò come pittore. Ecco con quale mia opera, peraltro già venduta, ma mi sono riservato il diritto di poterla all’occorrenza esibire,  qualora intendessi partecipare a qualche (sono piuttosto schizzinoso … devo scegliere) concorso internazionale: il titolo, tenendo anche presenti, fra l’altro, le proprietà afrodisiache (almeno così si dice …) della ricotta scante, è Spatolata erotica.

 

6

 

Ecco cosa ne ha scritto recentemente il grande critico Vladimir Maialowski: Lo spazialismo del Fontana assunto come concetto di riferimento nella lettura di “Spatolata erotica” del Polito sarebbe riduttivo e fuorviante, ove non si considerasse la sua originale e rivoluzionaria rivisitazione, che si sublima in un lacerante messaggio Dante corpo allusivamente plastico all’informe magma delle umane contraddizioni.

Non ci ho capito niente, ma mi sta bene lo stesso, anche se debbo nel mio piccolo rimproverare al grande Maialowski l’essersi lasciato sfuggire (può darsi, però, che sia un errore di stampa) quel Dante con l’iniziale maiuscola …  

Il solito invidioso si è già fatto avanti e, ringalluzzito dalla mia pertinentissima (o, sopprimendo una t e anagrammando, pernientissima?) osservazione ortografica e irrispettoso dell’autorevolezza di Maialowski, sta già dicendo: – Si capisce subito che è una foto! -? Il classico ficcanaso ha già aggiunto che magari non l’ho scattata nemmeno io? Qualcuno, poi, col pallino (ma anche con le palle …) del detective di razza afferma che l’ho tratta, insieme con quella di testa, da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=524289734379064&set=a.336146466526726.1073741828.100003941273343&type=1&theater e da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=524287641045940&set=a.336146466526726.1073741828.100003941273343&type=1&theater e qualcun altro, che conosce il mio grado di parentela con l’autore degli scatti (ma perché non si fa i c…ognati suoi?), rincara la dose aggiungendo  che andrei incriminato pure per pubblicità occulta?

Calma, ho già messo in moto (ho speso una cifra perché la sua batteria era esausta) il mio avvocato di fiducia, tal Costante Perdente, principe del Foro del muro di cinta di casa mia e mi ha rassicurato il fatto che, quando ha saputo che imputata era non solo la ricotta scante ma anche la sarda, mi ha detto testualmente: – Vuol dire che nel momento conclusivo del dibattito invece dell’arringa tirerò fuori una bellissima aringa -.

Ad ogni modo, sarò pure una frana su tutti i fronti (sono sì un pacifista, però franano, inesorabilmente e per fortuna, pure i guerrafondai …), ma uno sfizio  nessuno mi può togliere, quello che mi accingo a soddisfare: col suo profumo il pane abbrustolito mi avverte che lui è pronto, le alici sott’olio sono già saltate fuori dal vasetto, la ricotta scante mi occhieggia in tutta la sua corposa, cremosa, saporita sensualità e non aspetta altro che io arrivi …

 

P. S. Per una volta tanto trasgredisco al principio più volte sbandierato del pudore dei sentimenti. Questo post, iniziato a scrivere e terminato mentre stava già molto male, è dedicato a mia suocera, che è mancata qualche giorno fa; una donna che a 90 anni suonati era la mia fonte privilegiata di fatti e parole del passato (e questo può apparire scontato) ma anche la prima a capire (e ogni  mio controllo nel sospetto che ciò non fosse avvenuto ha dato sempre esito negativo, con mia puntuale vergogna) le mie uscite ironiche, che certe volte lì per lì non capisco nemmeno io, e a rimproverarmi affettuosamente per quelle meno brillanti o per qualche termine un po’ “forte”. L’ho lasciato, perciò, così com’è nato, doppi sensi compresi, ora pedante, ora irriverente, ora serioso, ora leggero, come la vita, convinto che forse sia questo il modo più corretto e rispettoso di ricordare le persone alle quali abbiamo voluto bene. Non ho fatto in tempo a leggerglielo ma, nonostante non sia un credente nel senso corrente del termine, mi piace immaginare i suoi occhi scorrere queste righe da un posto in cui, forse, per leggere non servono gli occhiali, a qualsiasi età, né lo stesso scritto, e sorridermi con la complicità di sempre.

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1 Il testo è dell’umanista Girolamo Marciano (1571-1628) di Leverano e fino a quella data era rimasto manoscritto. L’oprera fu pubblicata, come si legge nel frontespizio, con le aggiunte del medico e filosofo Domenico Tommaso  Albanese di Oria (morto nel 1685), tratta da una copia manoscritta posseduta da Michele Tafuri (XIX secolo). È difficile distinguere la parte originale da quella interpolata e, di conseguenza, la paternità dei brani.; quello citato, comunque, rimane la più antica attestazione letteraria a me nota di questo tipo di ricotta, anche se è legittimo supporre che essa sia sta inventata (o più probabilmente scoperta per caso) molti secoli prima.

2 Forma aggettivale sostantivata da marzo+il suffisso –otico (di origine, tanto per cambiare, greca) presente in italiano in poche voci (per esempio: cervellotico) con funzione dispregiativa; in marzòtica, invece, il suffisso ha la funzione di connotazione cronologica approssimata, dal momento che la specialità si produce nel periodo febbraio-aprile.

3 Sulla mattra: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/02/la-mattra-e-il-suo-albero-genealogico/.

4 Temprare in dialetto salentino è scanare, dal latino explanàre=spianare;  da notare, invece,  l’esito -pla->-chia- in ‘nchianare=salire, dal latino *inplanare. Analogamente per –cla-: scamare=gridare, da exclamare.

5 Il sale, che notoriamente fa male, non è un componente indispensabile e la sua assenza non incide minimamente sulla conservabilità del prodotto, tanto meno sul suo sapore, di per sé già oltremodo deciso.

6 Sulla tendenza del latino parlato al passaggio -tl>-cl- dopo una sincope vedi L’appendix Probi (III secolo d. C.) laddove si ammonisce: vètulus, non veclus; vìtulus, non viclus. La tendenza è confermata pure, tra gli altri, dal meridionale minchia (che è dal latino mèntula=pene>*mentla>*mencla>minchia; da secchia (che è dal latino sìtula>>*sitla>*sicla>secchia; nel latino medioevale è attestato siclus), etc. etc.

7 Torquato Tasso, Intrighi d’amore, atto IV, scena XIII: Pe’ ‘stinto naturale nuie aute Cavalieri Neapolitani solimo sempre favorì chilli, che se danno ala devozione nostra; como fazzo io a lo presente, che sendole sottopuosto lo Segnore Cammillo alla nostra protezione, è necessario, ca la favorisca ‘ntorno alo suo negozio, quale è, ca io travestito, come già vao, e co chesta barba posticcia, parlanno ala Spagnuola, fazza spantare Magagna, pe’ sapè da isso , ‘n che luoco si trova ‘na cierta Ersilia …

Il salentino spantare, perciò, appare adattamento, dopo importazione, del napoletano spantà. La terra del Vesuvio utilizza spantecà col significato di soffrire per amore; lì per lì la voce potrebbe sembrare forma iterativa di spantare, ma secondo me è più probabile una sua maggiore fisicità, nel senso che la voce potrebbe derivare dal latino ex (con valore intensivo) e *panticare (usato nel Tarantino col significato di aspettare ansiosamente), denominale da pantex/pànticis=intestino; da, panticare, poi il neretino pànticu=spavento, preoccupazione.

8 Cito da Francesco Cerlone, Commedie, Masi, Napoli, 1828, tomo XV, pp. 108-109, 138-141, 159 (per la lettura integrale: https://books.google.it/books?id=Q784AQAAMAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)

9 Invasettata … invasarmi: al gioco di parole non corrisponde identità etimologica perché invasettare deriva da in+vasetto, diminutivo di vaso; di invasare, invece, in italiano ce ne sono due: il primo (col significato di turbare profondamente, dominare totalmente, al limite impazzire) deriva da invaso, participio passato di invadere, dal latino in=dentro+vàdere=andare) ed io ho avuto l’ardire di usarlo in tal senso; il secondo invasare (col significato di mettere in un vaso, montare la struttura per varare una nave, riempire d’acqua un bacino o un serbatoio) deriva da in+vaso (quindi è parente di invasettare). Qualcuno, però, dopo aver letto la poesia, sosterrà che è meglio considerare invasettata e invasarmi come aventi lo stesso etimo; in tal caso si parlerebbe di figura etimologica; ma quello stesso qualcuno dirà che l’importante è, dopo avermi gettato nel vaso, tirare la catena o premere il pulsante dello scarico o, nei bagni più sofisticati, dare l’adeguato comando vocale: addio, stronzo!

 

La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

I formaggi della pecora Moscia Leccese

 

gregge di Franco Cazzella (ph G. De Filippi)

 

di Franco Cazzella

Nel periodo dei Romani, a colazione si predilige la “melca”, cagliata leggera e fresca al palato, ricavata acidificando il latte con aceto e aromatizzata con salvia, cipolla e porro.
Diffusissimo il consumo di formaggi freschi crudi o impastati con erbe spontanee o con miele; quest’ultimo entra nella preparazione di crocchette dolci e torte rustiche diventando una sorta di lievito.
A chi accusa i primi sintomi di vecchiaia Plinio consiglia di cogliere fiori di pesco, malva, fragola, primula e vulneraria, di porli in una scodella e di condirli con due cucchiai di latte cagliato: un dessert che, mangiato tutti i giorni in primavera, rallenta l’invecchiamento del corpo e della mente.

Lo storico Girolamo Marciano (1571 – 1628) nel suo Descrizioni, origini e successi della Provincia d’Otranto, elenca già i formaggi che oggi sono prodotti come quei tempi: la marzotica, la ricotta forte  …detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia...

Ne riporta con precisione il metodo di preparazione e gli utilizzi gastronomici e le riconosce persino proprietà terapeutiche: …giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermi, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cadere i vermi, genera sangue e nutrisce molto.

La menzioneranno nei loro testi anche V. Corrado (1738 – 1836) e G.B. Gagliardo (1758 – 1826) che nel suo Catechismo Agrario (1793), dà anche alcune dritte sull’uso della ricotta fresca e sul modo di ricavarne da questa “la manteca”, ossia il burro di ricotta.
Per Carlo Salerni, fondatore insieme a G. Palmieri dell’Accademia degli Speculatori (Lecce, 1775 – 1783), fautore dello sviluppo economico e culturale di Terra d’Otranto:

…Ottimi sono i nostri latticini e quandocchè fussero ben apparecchiati, aver dovriano i formaggi al pari de’ più ricercati di Europa, eccellenti…

E’ assai pregiato il cacio del Capo detto di Maglie, e quello delle parti di Taranto chiamato cacio-ricotta è assai acconcio per condire i cibi. L’ottima qualità delle nostre ricotte salate, è soprattutto di quelle che, per essere fatte nel mese di marzo, diconsi marzotiche, son saporose e grasse a segno che non ci par di potersi desiderare cosa di meglio.
Nel dialetto salentino è proprio il verbo cuvernare, governare, avere cura, favorire la stagionatura, stropicciandolo col palmo della mano intrisa di aceto e sale e, di quando in quando, soffregandolo (friculare o stricare), con

Ecco i prodotti ottenuti con il latte della pecora moscia leccese

di Franco Cazzella

La tipicità del cacio ricotta vanta un’origine più che centenaria.
Il periodo più adatto è quello che va da giugno a settembre quando le pecore, brucano le stoppie, restuccia, restucciu, contenente sali di potassio e, in ogni caso, prima che rimangano gravide.

Il Gorgoni afferma che è una varietà di cacio “ che si fa nell’estate allorchè le pecore, per essere gravide fanno poco latte. E’ un cacio tenero e molto gustoso, perchè fatto dal cagliato senza che sia separata la ricotta.”

Il latte depurato si versa nell’apposito recipiente adatto alla cottura sul fuoco; un tempo assolveva a questa funzione una caldaia cilindrica, caccavo (nelle varianti di càccavu, càccalu, càccamu), di rame stagnata internamente, mettendola sulla furneddhra, fornello alimentato dal fuoco.

L’accortezza richiesta è di mescolare spesso il latte per circa un’ora e mezza; tuttora si usa un bastone in legno “ruotolo” di fico o di ulivo, con la base simile ad una testa rotondeggiante.
Tolto dal fuoco il latte che abbia raggiunto i novanta gradi, si lascia raffreddare un po’ ad almeno 35 – 37 gradi e si aggiunge il presame cioè il caglio (quagghiu, quaju, quagliu, cagliu), elemento importantissimo senza il quale non si può ottenere il formaggio e che serve a condensare il latte, nonchè ad accelerare la separazione della materia caciosa dal siero. Nel dialetto cagliare il latte si dice quagghiare, quagliare; il cagliato, quagghiatu, quagliatu e casieddhru.
Il quaglio o caglio, scientificamente abomaso è un ventricolo che si trova nello stomaco degli agnelli lattanti; la mucosa possiede un enzima, la renina, dalla miracolosa proprietà coagulante. Molte massaie usano preparare il caglio da sè: puliscono il ventricolo, una sorta di sacchettino contenente pallottoline di latte coagulato, riempiendolo di latte di pecora fresco e di sale, lo legano e lo pongono in un piatto coprendolo con abbondante sale per che si dissecchi. Si usa la quantità desiderata.
Un tempo chi non aveva a disposizione il caglio animale ricorreva a sostanze ugualmente capaci di provocare l’effetto coagulante come il cardo selvatico, il fiore del cartamo e anche con il lattice di un ramo di fico o il picciolo del frutto, dotati di un umore viscoso simile al latte.


Dopo aver sciolto in acqua tiepida un pezzetto di caglio ed averlo colato, lo si aggiunge al latte contenuto nella caldaia, rimestando opportunamente col

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