L’Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie

L‘Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie. Affresco e ceramiche: una proposta di datazione

 

di Riccardo Viganò.

L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia.

Veglie, Madonna della Favana, Ultima Cena, XVI secolo (ph. Pagano V.)

 

Quest’opera è una libera interpretazione del fortunato schema dell’Ultima Cena di Livio Agresti, ripresa successivamente anche dal Tintoretto nel 1574 nella basilica di San Marco e da Rubens nel 1632 . Lo stesso schema fu utilizzato nel 1648 per la realizzazione del frontespizio figurato del Missale romanum, da Cornelius Cort e da G. Merli.

L’opera vegliese è dipinta con una tecnica pittorica mista tra affresco e tempera, realizzata da un pittore tuttora sconosciuto, che secondo recenti studi è stato attribuito a  Diego Oronzo Bianco di Casalnuovo (1683-1767).

L’artista fu attivo nella prima metà del ‘700 e produsse opere in Brindisi nella cappella del SS. Sacramento datata 1715, in Manduria nella casa dei francescani e nel refettorio degli scolopi in Francavilla fontana.

L’attribuzione di questo dipinto è forse leggermente azzardata, poiché il fattore cronologico tra l’artista e il decoro delle ceramiche raffigurate, come vedremo, non combacia.

L’autore nel realizzare il suo cartone fu certamente attento alla realtà che lo circondava, cercando di rimanere fedele a modelli materiali correnti in quel periodo e presenti nella vita quotidiana. Egli non ha rappresentato le produzioni ceramiche di Casalnuovo (Manduria), sua patria, ma il materiale in uso nel convento dei francescani di Veglie.

La Mensa è coperta con una tovaglia bianca decorata con un motivo floreale a cinque petali. Su di essa vi sono vetri di buona qualità, dei quali uno a campana con gambo a colonnetta del tipo veneziano detto “façone de Venise”; ambedue sono forniti di relative alzatine smaltate in monocromia bianca utilizzate come sottocoppe. Sia sulla sinistra che a al centro della scena vi sono altre tre alzate, una a gambo corto contenente della ricotta, e due , ad uso di fruttiera, una con gambo colonnetta e con un piede ampio, l’altra ad alto gambo.

Disposizione delle alzate e dei calici (ph Pagano V.)

 

Calice con alzata e fruttiera ad alto gambo (ph. Pagano V.)

 

ricotta su alzata in monocromia bianca a gambo corto (ph. Pagano V.)

 

In tutta l’apparecchiatura di questa mensa, come in altre rappresentazioni coeve salentine, mancano le posate. Forchette e cucchiai sono assenti, i coltelli hanno manici di legno o di osso con lunghe lame puntute e rivolte tutte con la punta verso l’esterno a sinistra della tavola. Gli “stusciafacce” come i tovaglioli o asciugamani sono piegati in ottavo con frange alle estremità.

Al centro della mensa vi è una coppa in monocromia bianca che contiene la portata principale, cioè l’agnello, e tre saliere a cupola sempre smaltate. Sono anche collocati dei  pani di forme diverse, verdure e frutti presenti nel Salento nei tre mesi della stagione primaverile: carciofi, fave novelle nei baccelli verdi con foglie, ma anche fave secche, pere, mele, arance nelle fruttiere e limoni dimezzati al centro della mensa.

Portata centrale, saliere e frutti (ph Pagano V.)

 

In questa rappresentazione vi è una non comune quantità e qualità di stoviglie, del tutto inusuali nelle rappresentazioni pittoriche dell’Ultima Cena, e qui, come in altre rappresentazioni salentine, le ceramiche vengono ritratte dal vero.

Partiamo dalle due anforette a corpo globulare ritratte in primo piano sulla mensa , probabilmente contenti acqua. La prima anforetta è fornita di due anse, o biansata, col collo cilindrico e corpo globulare decorato con racemi e girali vegetali in verde ramina terminanti con foglioline in turchino e bacche rosso ferraccia.

Particolare con anforetta con decoro a girali vegetali, XVII secolo (ph. Pagano V.)

 

Del tutto simile per forma la seconda anforetta, con anse a volute, che presenta una decorazione a racemi e girali più accurata della precedente. Alternate e affiancate a questi contenitori per l’acqua, vi sono le brocche.

Questi due contenitori sono rappresentati trilobati e mono ansati, rivestiti di smalto bianco e decorati in bicromia azzurro/giallo, colori tipici delle produzioni “compendiarie” della prima metà del ‘600. Centralmente vi sono raffigurati un decoro floreale “alla margherita”. Differentemente dei precedenti esemplari contenenti acqua, questi sono colmi di vino.

Brocca trilobata con decoro compendiario alla margherita (ph. Pagano V.)

 

Le forme delle ceramiche qui rappresentate e soprattutto i decori “compendiari” erano largamente diffusi nella penisola salentina nella prima metà del ‘600. Tralasciando i centri produttori di ceramica di uso comune, territorialmente vicini a Veglie, come Salice Salentino che ebbe il suo exploit a partire del primo ‘700, l’unico centro produttore di maiolica di alto livello fu Nardò. Questo centro, a partire dal XVII, ebbe con la famiglia Bonsegna, il monopolio commerciale di ceramica smaltata di pregio in tutto il Salento centro meridionale, soppiantata successivamente dalla più imponente Laterza.

Recenti scavi archeologici svolti nel centro storico, datati al primo trentennio del ‘600, hanno restituito scarti di bottega sia in monocromia e policromia, in tutto e per tutto simile agli esemplari riprodotti in questa opera pittorica vegliese. Dunque, grazie alla nuova cronologia fornita da questi scavi di un ambito chiuso, l’attribuzione a Diego Oronzo Bianco (1683-1767) di questa opera pittorica, proprio per i motivi prettamente cronologici che abbiamo esposto, viene meno, dovendosi individuare un altro artista, che ad oggi resta sconosciuto.

La ceramica di S. Pietro “degli Imbrici” (in Lama) prima della Manifattura Paladini.

interno di una bottega ceramica in San Pietro in Lama

 

di Valentina Pagano e Riccardo Viganò

Il territorio di San Pietro in Lama è stato da sempre vocato alla lavorazione e produzione di manufatti ceramici in quanto ha saputo sfruttare la conformazione geomorfologica del territorio in cui insiste, un’area del Salento nota come Valle della Cupa. Qui la presenza di terreni fertili, unita alla facilità di reperimento di argilla e d’acqua, ha incoraggiato la frequentazione e lo sfruttamento del territorio da parte dell’uomo sin da tempi antichissimi.
La propensione alla produzione ceramica è insita nel DNA di questo centro produttivo. La sua importanza sul territorio salentino la possiamo dedurre in già “antiquo” dal nome con cui San Pietro in Lama era noto in passato, vale a dire “degli Imbrici”.
Nel 1580 il domenicano Egnazio Donati, su commissione di Papa Gregorio XIII, realizza le Tavole Geografiche d’Italia e nella sezione dedicata alla Sallentina Peninsula il paese viene denominato come “San Pietro dell’Imbrice”.

Osservando la carta si denotano errori legati alla corretta ubicazione del centro ; tuttavia è importante sottolineare che all’autore interessa evidenziare, a scapito dell’esattezza geografica, l’attività prevalente degli abitanti, vale a dire la produzione su vasta scala di laterizi. Un’ industria questa che caratterizzava ed interessava non solo il tessuto ma anche il disegno del centro abitato tanto che i camini delle fornaci sono ben evidenziati nella tela del XVII secolo, conservata sull’altare maggiore della chiesa della Madonna dell’Immacolata o della Croce, in cui si raffigura S. Irene che protegge dai fulmini il piccolo casale con la città di Lecce .
L’aspetto geomorfologico del territorio viene evidenziato da due cartografie, eseguite nel 1567 e nel 1595 dal cartografo veneziano Jacopo Gastaldi, dove il centro di San Pietro viene definito una prima volta di “Busi”, forse un richiamo all’attività di estrazione dell’argilla attraverso gallerie, e nella seconda stesura “Buli”, per la presenza di bolo.

La materia prima, l’argilla, veniva estratta nei terreni vicini all’abitato che si è sviluppato su sabbioni tufacei addossate ad argille giallastre e turchine. I banchi di argilla sono documentati in località S Anna e Cave dove, fino alla metà del ‘900, si potevano osservare gallerie sotterranee dalle quali si estraevano zolle di argilla giallastra che venivano, successivamente, lavorate nelle botteghe dei figuli.

Un’altra area di estrazione era sita in località Purtune Russu: qui vi erano cave di argilla azzurrina e bolo .
In assenza di dati provenienti da scavi archeologici, una fonte preziosa per la ricostruzione del passato recente del nostro centro sono le ricerche eseguite alla fine degli anni sessanta dello scorso secolo, dagli studiosi tedeschi Hampe e Winter, i quali si recano nei vari centri produttori presenti nel Salento, tra cui San Pietro in Lama, per studiare le tipologie di fornaci e i tempi di cottura del materiale ceramico prodotto nelle botteghe tradizionali ancora efficienti.

Da essi veniamo a conoscenza che nelle botteghe erano attive delle fornaci di tipo verticale, presenti anche a Cutrofiano, definite dagli stessi studiosi di tipo “salentino” . Oggi, tuttavia, di questa tipologia di fornace a San Pietro in Lama non sembra esserci più traccia. Solo negli atelier appartenenti ad antiche manifatture site nella periferia nord ovest del paese, in località Purtone Russu, sono ancora attive fornaci a combustione simili a quelle antiche, ma tipologicamente diverse dal primo esemplare in quanto costruite con una forma ed una tecnica che richiamano quelle di origine grottagliese, importate nel basso Salento da figuli proveniente da Grottaglie nella prima metà dell’800.
Le botteghe, in passato, erano concentrate nel cuore dell’attuale centro storico, con Nardò, quasi un unicum in Puglia. Ogni quartiere aveva nel suo interno uno o più atelier ceramici.

Il centro storico coincide con lo sviluppo urbanistico che il paese aveva già ben definito agli inizi del Seicento. In questo periodo si possono riconoscere i seguenti quartieri: isola di S. Antonio Abate, protettore dei ceramisti, il quartiere più antico; l’isola di S. Nicola, così chiamata per la presenza dell’omonima chiesa abbattuta sul finire dell’800 per favorire l’ampliamento di piazza del Popolo; l’isola delle Amendole; l’isola di S. Giovanni e l’isola di S. Stefano.
In generale, le botteghe erano prossime alla casa in cui il figulo abitava, di solito confinanti ed in simbiosi con laboratori di conciatori di pelli e saponari per via della grandissima facilità di reperire a poco prezzo la cenere. A causa dell’interdipendenza di botteghe di diverso utilizzo ed altamente inquinanti a volte accadevano disordini, legati alla carenza di igiene, che davano fastidio alla comunità e che portavano a delle soluzioni abbastanza drastiche.

Accadde, ad esempio, che nel 1753 a ridosso della festività patronale, per porre fine a questi continui “litigi, disturbi e pubbliche irrequietudini”, l’Universitas di Lecce decise di demolire alcune di queste botteghe inviando sul posto l’ingegnere ebreo Mosè per far eseguire quanto stabilito. Dai documenti sappiamo che le botteghe demolite erano di proprietà della famiglia Andriolo e di Vito Pascali, ed erano ubicate lungo la strada che collegava la piazza con la chiesa della Madonna della Croce, vicino alla piazza del mercato .
Ad un esponente della famiglia Pascali, il maestro Pietro, si deve la realizzazione di uno dei manufatti più noti della produzione di S. Pietro in Lama. Si tratta del boccale a sorpresa, il cosiddetto “bevi se puoi”, oggi esposto nella Pinacoteca Barocca “Antonio Cassiano” del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce. Il boccale, rispetto ad altri esemplari della stessa tipologia conosciuti, si distingue per una filastrocca che accompagna il gioco della passatella, scritta e firmata dallo stesso Pascali nel 1750.
Il testo dice:
Da qui sopra entra il vino Lo vedete e lo sentite
E se bevere volete bisogna fatigar
Cercate e provate quell’ingegno bello e caro
Ma se io non vi la imparo
Solo viento e ci escerà.
IO M. PIETRO PASCALI SAN PIETRO IN LAMA – 1750.”

il “bevi se puoi” di Pietro Pascali esposto nella Pinacoteca Barocca “Antonio Cassiano” del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce

 

Grazie a questo esemplare e ad antichi documenti riguardanti l’antico Monastero di S. Chiara di Nardò sappiamo che San Pietro in Lama non era specializzato solamente nella produzione di laterizi, come mattoni, tegole e coppi, appunto “imbrici”, ma anche di ceramica d’uso e da dispensa. Si producevano, infatti: “mortai”, “catini” e “limbe per fare la colata” etc., piatti e boccali smaltati e decorati come il nostro “bevi se puoi”. La produzione, nonostante il basso numero di botteghe presenti, e la diversificazione di fatture, riusciva a soddisfare non solo le esigenze della vicinissima città di Lecce, ma anche quella di altri importanti centri vicini, come la città di Nardò e Copertino .
È bene evidenziare che l’elenco dei ceramisti qui dato, per il periodo compreso tra il Seicento ed il secolo successivo, data l’alta mobilità di manodopera specializzata, potrebbe risultare incompleto perché non tutti i ceramisti esistenti ed operativi a S. Pietro in Lama sono registrati come tali nella documentazione ufficiale in nostro possesso.
La contestualizzazione delle botteghe dei secoli passati viene mantenuta anche nell’Ottocento.

Dallo studio dello Stato dei Patentati di questo centro produttivo, redatto durante il periodo napoleonico a cavallo degli anni 1811 – 1815, non solo la distribuzione delle botteghe rimane invariato, ma anzi da una lettura complessiva di questo elenco, si evince come a San Pietro in Lama ci fosse uno dei centri con più manodopera specializzata registrata, dopo i centri di Cutrofiano e Grottaglie in Terra d’Otranto.
La decadenza degli atelier ceramici, se di decadenza possiamo parlare, comincia quando Angelantonio Paladini imprenditore già Sindaco di Lecce nel 1866, fondò nel 1872 nella sua villa esistente nel territorio di San Pietro in Lama una manifattura ceramica che dava lavoro a più di 150 impiegati, (agli inizi reclutati dall’area napoletana) e nella quale si fabbricavano, tra l’altro, maioliche artistiche (firmate Manifattura Paladini- Lecce).

Fu un esperimento questo destinato ad avere breve durata, difatti si concluse solo nel 1896, quando la fabbrica chiuse i battenti a seguito della morte del fondatore .
A questa quasi feroce industrializzazione alla quale sopravvive si aggiunge la crisi del settore avvenuta con l’introduzione dei materiali plastici i quali a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, fecero decadere usi poveri e tradizioni pluristratificati da secoli, a favore di una più agiata “modernità”.

A tutt’oggi nonostante le crisi di settore, e la mancanza di vocazioni all’arte, questa tradizione fatta di argilla acqua e fuoco, viene portata avanti dagli oramai rari discendenti di queste famiglie che da secoli con Orgoglio si trasmettono da padre in figlio segreti alchemici di quest’arte millenaria.

Maestri della ceramica di Nardò tra fine ‘500 e inizi ‘700. I Bonsegna


I maestri della ceramica di Nardò (LE) tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘700

I Bonsegna e le produzioni compendiarie e tardo compendiarie

 

di Riccardo Viganò

Il ‘600 può essere considerato il secolo d’oro delle ceramiche smaltate prodotte dalle fornaci e dagli ateliers di Nardò. A partire dalla fine del ‘400, con produzioni “proto graffite”[1], e per il secolo seguente, i commerci di queste manifatture, successivamente specializzate nel decoro “alla porcellana”[2], ebbero una rinomata importanza tanto da essere regolamentate e presenti nel “corpus” dei regolamenti cittadini riportati dai “Capitoli della Bagliva” della città di Nardò[3]. L’importanza e la portata di queste produzioni è descritta minuziosamente nei documenti riguardanti alti prelati leccesi della fine del ‘500[4] dove essi prediligevano le produzioni compendiarie neretine, uscite dalle varie manifatture Manieri[5], Dello Castello (o di Castelli), Spata, a quelle di altri centri di Terra d’Otranto[6].

 

I Bonsegna il successo di un’immigrazione

Intorno al 1580, al seguito di quello che fu l’enorme movimento di manodopera specializzata in Terra d’Otranto[7], si inserì in questo tessuto produttivo il calabrese Jacopo Antonio Bonsegna, detto “lo scodellaro”. Originario della città di Bisignano, centro della provincia di Cosenza, sposa nella cattedrale di Nardò, Veronica “di Castelli” la quale porta in dote alcune botteghe, oltre alla casa. Queste, situate nel “pittagio dello Castello”, erano ubicate all’interno del centro abitato,“prope moenia fronte e vicino alla chiesa dell’Annunciata”; l’area che un decennio dopo sarà definita dai documenti “delli Piattari”[8]. L’evoluzione delle produzioni ceramiche dei Bonsegna sono soggette alle avventure finanziarie degli ateliers della famiglia Manieri, comunque a loro legati[9]. Difatti, Jacopo Antonio si vede costretto a vendere tra il 1592 e il 1600 alcune botteghe con fornaci al mastro costruttore proto barocco Giovanni Maria Tarantino[10].

I due ebbero per un breve periodo rapporti di padronanza/sudditanza nonostante il Bonsegna fosse associato nelle produzioni al mastro “pictor” laertino Santo Passarelli[11] che in quegli anni era attivo a Nardò.

Nel 1617 l’attività manifatturiera dei Bonsegna viene rilevata dal primogenito Donato Antonio che in un documento mutilo del 1658 viene classificato come “Piattaro”. Le abilità artistiche di questo Maestro erano tali da attirare alle proprie dipendenze vari cooperatori specializzati e maestri provenienti dai diversi centri di Terra d’Otranto e non solo, come dimostrano le collaborazioni avute con il “Mastro Paolo Nucci della Città di Ariano”[12].

Il forte carattere di Donato Antonio traspare in ogni documento che lo riguardi: conservò e trasmise le conoscenze tecniche ai figli, cercò di capitalizzare i risultati sia di fama che economici abbandonando il lavoro manuale a vantaggio dell’aspetto imprenditoriale finanziario tentando una scalata sociale che lo porterà a passare da Piattaro a rivoluzionario nel1647[13] e, infine, nel 1660 a rappresentante del popolo della città di Nardò[14].

Successivamente alla scomparsa di Donato Antonio (1662), le produzioni restarono nelle mani dei figli Giovanni Francesco (1643- 1693), Giacomo (1653 – 1705) e Donato Antonio[15] e dei nipoti Andrea (? – 1714) e Tommaso (? – 1704) di Giovanni Francesco. Essi, adattandosi alla crescente domanda di mercato e per una buona riuscita del loro commercio, probabilmente esibirono i forti legami sociali acquisiti nel tempo che dovevano essere decisivi come credenziali verso gli acquirenti più abbienti. Il prezzo di ogni singolo manufatto, forse, veniva adattato in base alla relazione tra venditore e compratore ed alla contrattazione economica del caso. Ad esempio, nell’eventualità di comande di corredi di stoviglie (le credenze nuziali, i corredi da spezieria, etc.), i ceramisti ricevevano comande su commissione soprattutto da privati cittadini, ambienti conventuali come il monastero di S. Chiara e il convento di Sant’Antonio della città di Nardò[16], nobiliari o magnatizi, la cui remunerazione doveva essere abbastanza sicura, seppur dilazionata nel tempo.

Difatti, venivano consentiti agli acquirenti prestiti rateizzabili nel tempo che venivano accordati non dal ceramista, ma da mercanti legati strettamente a loro da legami famigliari. Se una delle due parti veniva meno all’accordo verbale preso e/o registrato tramite atti notarili, ci si rivolgeva per crediti inferiori a due ducati alla corte giudiziaria del Mastro di Mercato, carica elettiva che veniva rinnovata annualmente durante la fiera dell’Incoronata nel mese di Agosto. Ad esempio, nella causa avvenuta il 3 agosto del 1707 tra il querelante Don Francesco Tocco e il “piattaro” Giacomo Bonsegna, il commerciante Domenico Rocca “Spontaneamente si offerse di pagare, carlini sette e grana sette per li quali ne consegnerà alla fin del mese presente tanti piatti, alias exequantur”[17]. Oppure due anni dopo dove il Mastro di Mercato decise che, il cugino materno di Andrea Bonsegna, Sabba Sicuro mercante, “Havesse da dare entro domenica, piatti otto, cioè mezzani quattro pittati con animali et alberi, e quattro piccoli a detto Tommaso Ruggiero”[18]

La frequente vendita a credito delle merci esponeva l’artigiano al rischio di fallimento e alla perdita di beni, come ad esempio le terre estrattive messe a pegno da Giacomo Bonsegna nel 1694 o come nella causa avvenuta nel 1705 dove Mastro Andrea Bonsegna nella lite contro Tommaso de Trane reclamava “carlini sei e grana quattro per tanti piatti con pittura di homini, fiori e alberi”[19].Ecco perché era fondamentale condividere con uno o più soci, ceramisti o meno,l’attività entro un preciso arco temporale e, parallelamente, poter indirizzare il proprio lavoro ed i propri investimenti anche in altri campi produttivi più o meno affini e proficui come la vendita del cotone e cenere[20].

Tommaso e Andrea furono ufficialmente gli ultimi interpreti della grande stagione del decoro “compendiario” o “tardo compendiario” fino ad allora prodotto a Nardò. Alla morte di quest’ultimo (1714), senza un erede maschio cui lasciare tale eredità ed economicamente al tracollo, questo ramo familiare di ceramisti si estingue lasciando alcune botteghe in mano al cognato Oronzo Papadia, che nel 1739 le vende, ormai dirute, ai figli dei loro ultimi associati di bottega, Domenico Rocca e il maestro Giovanni Battista Perrone[21].

 

[1] Viganò 2016, p.107.

[2] Queste manifatture erano ubicate tra via A Delle Masse, via colonna e via Pellettieri (Viganò 2016, p. 69).

[3] Le “disposizioni” disciplinano i rapporti tra gli abitanti di Nardò e la signoria degli Acquaviva in materia di esazioni fiscali, riscossioni di diritti e ammende esigibili nello stesso feudo (Salamac 1986, in Viganò 2016, p. 25, nt. 19).

[4] Viganò 2013, p. 58; 2016, p. 25.

[5] Detti anche maestri “M” o “M.L.” (Viganò 2013, p 75 scheda 9).

[6] Viganò 2013, p. 56.

[7] Manodopera specializzata proveniente da centri importanti come Ariano Irpino, Cutrofiano, Laterza, S. Pietro in Lama.

[8] Viganò 2013, p. 56.

[9] Viganò 2013, p. 27.

[10] Il maestro era legato per via matrimoniale alla famiglia Manieri da cui ebbe in dote alcune botteghe ceramiche.

[11] Il 26 febbraio del 1594 il Mastro Jacopo Antonio Bonsegna in qualità di Padrino partecipa, nella cattedrale di Nardò, al battesimo della figlia di “Mastro Santi Passarelli di Laterza e della moglie Anna Positano di Montescaglioso” (Viganò 2013, p.18).

[12] ASDN, Atti del Maestro di mercato anni 1600-1630 busta 2, anno 1640.

[13] Nel 1647 partecipò ai moti rivoluzionari neretini: il 28 luglio dello stesso anno, mentre era in fuga nel territorio di Seclì, fu fatto arrestare dal duca d’Amato per ‘essere stato lui che disse, che si portasse il stendardo a castello’.

[14] 14 Vacca a 1954, op cit., p. 84; Matteo, Viganò 2008, p.52; Viganò 2010, p10; 2013, op cit.,p 27.

[15] Due mesi prima della sua morte, il 27 marzo 1687, assieme la socio Mastro Cataldo Manzo, chiede 20 ducati in prestito alla mensa vescovile di Nardò.

[16] Che fossero fornitori dei vari conventi è riportato nei libri contabili del Monastero di Santa Chiara redatti tra il 1674 e il 1704 per bocali pitti fatti da Bonsegna, ducati 1 carlini 50. AMSCN Libro dè conti di procure del venerabile Monastero di S. Chiara di Nardò [1674-1704].

[17] ASDN, Atti del Maestro di mercato anni 1688-1708, busta, 4 F 69, anno 1707.

[18] ASDN, Atti del Maestro di mercato anni 1688-1708, busta, 4 F 71, anno 1709

[19]ASDN, Atti del Maestro di mercato anni 1688-1708 busta, 4 F 67, anno 1705.

[20] 20 AMSCN Libro dè conti di procure del venerabile Monastero di S. Chiara di Nardò [1674-1704]. anno 1694.

[21] 21 Nato a S. Pietro degli Imbrici il 10 agosto 1681, nell’isola dell’Amendole, G. B. Perrone due giorni dopo il matrimonio, nel gennaio del 1705, migrò a Nardò dove formò una vera e propria dinastia di ceramisti e capitani di industria che ben presto soppiantò in toto i Bonsegna per tutto il ‘700 e oltre.

Ceramiche, botteghe e vasai a Nardò

Vasaio al tornio, 1390 ca, miniatura da Translation et exposition de la Cité de Dieu di S. Agostino, Parigi, Bibliothèque Nationale. La ruota del tornio (una ruota da carro fissata orizzontalmente) è mossa dal vasaio tramite un bastone, a sinistra ci sono alcuni oggetti modellati e a destra pani di argilla da utilizzare.

 

Definizione, origine ed evoluzione nei secoli del mestiere di vasaio a Nardò

di Riccardo Viganò

È abbastanza noto l’importante ruolo che ebbe in Terra d’Otranto la città di Nardò, specialmente dal Cinquecento, nella produzione di maioliche. Una prima notizia circa l’esercizio dell’attività ceramica in Nardò è fornita da Benedetto Vetere che in una sua indagine sul patrimonio fondiario posseduto nel Medioevo dalla Chiesa neretina pubblica un documento del XIV secolo riguardante i beni del convento di S Chiara e che colloca come “prope lutificulos[1] la chiesa di san Giovanni Battista.

Tuttavia, non è sufficiente solo quest’attestazione per confermare la presenza dell’attività manifatturiera o, comunque, di produzioni fittili legate all’argilla con addetti specializzati nella loro fabbricazione e, pertanto, la ricerca di un’ulteriore documentazione è resa necessaria perché potrebbe far attestare Nardò tra i più antichi centri di produzione della provincia di Lecce.

La notizia più remota e documentata, nella quale la definizione di ‘vasaio’ è certa, è presente nei ‘ capitoli della Bagliva’ (1558) il cui contenuto è richiamato in un atto notarile redatto nel 1650 dal notaio galateo Sabatino De Magistris[2]. In questo documento i produttori o venditori di ceramica sono denominati ‘stazzonari’ o anche ‘Stazionari’’[3]; termine col significato di ‘cretaio’ o ‘figulo’ diffuso anche in Sicilia[4] e, capillarmente registrato, anche in documenti riguardanti altri centri produttivi come quelli del periodo 1564-1597 di Laterza e quelli del 1576 di Grottaglie.

Nello stesso lasso di tempo, con l’arrivo di manodopera specializzata immigrata dalla Calabria legata alla famiglia Bonsegna, accanto alla definizione ‘stazzonaro’, appare quella di ‘scodellaro[5].

Accanto a questi, nello stesso arco temporale e per la durata di una generazione, compaiono dei tecnonimi legati alla lavorazione della ceramica come quello di Mastro Antonello Vernai detto “Fornaci”[6].

Circa un sessantennio dopo, invece, in un frammento ormai scomparso della “Numerazione dei fuochi” del 1658 riguardante la città di Nardò, un membro di seconda generazione della famiglia Bonsegna sarà definito “piattaro[7]; titolo, anche questo, comune in altri centri del Salento come, ad esempio, a Lecce e Cutrofiano.

È ipotizzabile che l’evoluzione della terminologia con la quale sono indicati i produttori di ceramiche sia allo stesso tempo significativa delle produzioni alle quali essi erano dediti e, perciò, non sarebbe errato ipotizzare che un “piattaro” è tale perché specializzato nella fabbricazione di ceramica da mensa smaltata.

A differenza degli altri centri salentini specializzati nella produzione di ceramica d’uso, nella documentazione archivistica di Nardò non sono menzionate le categorie lavorative alle quali appartenevano figuli e, in genere, i lavoratori d’argilla ossia nomi quali: ‘caminaru’, ‘cotimaro’ (anche nelle varianti codemaru, cutumaru), ‘capasunaru’, ‘ficolo’lavorator di crete’, ‘pignaturu’, ‘orsolaru[8].

Nel secolo successivo anche qui, come in altri centri di Terra d’Otranto, il diffondersi del termine “faenzaro” sostituisce quello di “piattaro” che, di conseguenza, scompare definitivamente[9].

 

Note

[1] Vetere, Vicino ai figuli, in «Città e Monastero. I segni urbani di Nardò (Sec. XI-XV)», Congedo Ed., Galatina 1981, p. 104; L’area produttiva era posta in quella che ora è via Angelo delle Masse..

[2] Archivio di Stato Lecce, Protocolli notarili Galatone, 39/2 notaio De Magistris Sabatino, anno 1650, ff. 131-152; P. Salamac, La bagliva di Nardò, Adriatica Ed. Salentina, Lecce 1986, p. 87; Le “Disposizioni” disciplinano i rapporti tra gli abitanti di Nardò e la signoria degli Acquaviva in materia di esazioni fiscali, riscossioni di diritti e ammende esigibili nello stesso feudo.

[3] G. Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini (terre d’Otranto), II, Congedo Ed., Galatina 1976, p. 69: «”Stazzonaro”, sec. XVI a Grottaglie: Cretaio, Figulo. Derivazione dall’antico italico: “Stazzone” = Bottega, dal lat. statione». Viganò, Per uso della sua professione di lavorar faenze. Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo, Ed. Esperidi, Lecce 2013, p. 21: per Nardò, probabilmente, la parola è indicativa e relazionabile con membri delle principali famiglie legate alla produzione fittile come la Manieri e i Dello Castello o “de Castelli” le quali, negli stessi anni della redazione delle “Disposizioni”, risultavano attive in questo campo lavorativo oltre a possedere botteghe per lo svolgimento di tale attività.

[4] Pansini, Ceramiche Pugliesi dal XVIII al XX secolo, MIC Faenza 2001, p. 56.

[5] compare con evidente accezione in riferimento a Jacopo Antonio Bonsegna immigrato da Bisignano, centro della provincia di Cosenza..Viganò 2013, op. cit., p. 22 .

[6] ASL, protocolli notarili,Nardò,n 66/1,notaio Fontò Francesco anno 1775, c176.

[7] Vacca, La ceramica salentina,Tip. La Modernissima, Lecce 1954, p.84.

[8] Tutti questi termini sono desumibili dalla documentazione archivistica e, in particolare, dagli atti notarili rogati nei principali centri produttori di ceramica.

[9] Pansini, op. cit., p. 56: dalla lettura dei catasti del periodo, difatti, il Pansini rileva che «non si verifica mai la coesistenza delle due dizioni in un medesimo onciario». Tuttavia, anche se questa nuova definizione sembra specializzare l’opera dei ceramisti, non conferma l’esistenza di specifiche produzioni di ceramica smaltata.

Tratto da:

Libri| Alla mensa degli angeli. Storie di ceramiche, botteghe e vasai a Nardò

Alla mensa degli angeli: Storie di Ceramiche, Botteghe e vasai a Nardò   tra i secoli ‘500 e ‘800, di Riccardo Viganò, Edizioni Esperidi

Prefazione.

Da quando l’umanista oritano Quinto Mario Corrado, nella sua opera letteraria intitolata De copia latini sermonis, pubblicata postuma, a Venezia nel 1582, con fierezza campanilistica, dedicava alla Città di Nardò e alle ceramiche qui prodotte, il suo famoso elogio[1], molta acqua è passata sotto i ponti e da allora nulla rimane a Nardò della sua tradizione di produzione ceramica pregiata come la Maiolica, nei secoli  addirittura vantata, come anche nella popolazione che abita questo magnifico centro. Neanche il ricordo, niente, neanche una targa su un muro, in quella che una volta veniva chiamata la strada dei “Piattari”. D’altronde ora viene chiamata, come almeno da centosessantadue anni, via Pellettieri.

Nulla si è salvato. Le fornaci, le botteghe, le attrezzature; niente, a malapena gli stabili, ora riconvertiti da botteghe di “lavorar codime di creta”, in B.&.b, osterie, per altro ottime, libreria ed un cinema abbandonato e cadente. Solo una ricerca d’archivio ha fatto si che gli interpreti principali di questa storia escano dall’ombra come fantasmi di quei ceramisti e produttori di ceramiche che, attraverso i secoli, contribuirono a rendere quasi mitizzati gli oggetti da loro prodotti nella città di Nardò. Ombre di un non lontano passato, indispettiti dall’essere stati dimenticati in così breve tempo o, forse, solo desiderosi di essere scovati, ricordati, che tanto hanno fatto, nel loro piccolo, per non essere dimenticati.

L’importanza di questo centro produttivo, in confronto ad altri centri con tradizione e produzioni di livello popolare e a basso costo, è ancora una volta dimostrata da documenti di archivio che evidenziano l’alta qualità dagli oggetti della maiolica in stile “Compendiario” usciti da questi atelier. Difatti, alla fine del XVI secolo, alti prelati, e non solo, spendevano considerevoli somme (dire considerevoli è dire poco) per la realizzazione di “credenze personali” con la loro araldica personale non badando al prezzo. Uno di questi committenti spese ben cento ducati per essi e, se si pensa che una bottega ne valeva quaranta, questa spesa al giorno d’oggi si potrebbe paragonare all’acquisto di una macchina sportiva di lusso. Tali personaggi dimostrano la loro predilezione per questo centro produttivo che per altri centri più affermati della stessa regione, come Laterza.

Tale era l’importanza di queste produzioni, in quel periodo in terra d’Otranto che il nome di “Faenza-e” (maiolica) veniva eguagliato alla città di Nardò. I redattori dei documenti conservati negli archivi, dovendo specificare la diversa provenienza di alcuni manufatti, per indicare quelli prodotti agli atelier neretini usano semplicemente il termine “faenza” come se si desse per scontato che esso fosse sinonimo di un prodotto “made in Nardò”.
Comunque non si può, nel ricostruire la storia di un importante centro produttivo di ceramica di pregio in terra d’Otranto come Nardò, escludere dalla narrazione l’importanza del trasferimento di maestranze qualificate, avvenute in un arco temporale che copre i secoli XV e XVIII. Queste figure sicuramente si attestarono in questo centro, il quale doveva avere da tempo una lunga tradizione nelle produzioni ceramiche. Già nel 1995 l’Archeologo Giovanni Mastronuzzi ipotizzava l’esistenza di un atelier neretino attivo agli inizi del III secolo a.C. Inizialmente queste maestranze estranee al tessuto sociale neretino, si insediarono in questo centro, quasi sicuramente al seguito dei primi Acquaviva, feudatari di Nardò. Con il trascorrere del tempo si fusero con la popolazione locale diventandone un tassello importante, non solo economicamente ma anche socialmente. E quando esse abbandonarono la loro arte, per estinzione della famiglie o perché diventate classi agiate, la fama di questo centro che lentamente si stava estinguendo attirò come uno splendido Faro altre famiglie da altri centri con eguale tradizione. Riattizzandone con le loro fornaci alimentate da legna e nocciolo di olivo, fuoco e fama. Purtroppo saranno queste fiamme ad alimentare gli ultimi bagliori di gloria di queste produzioni, sicuramente sconfitte da quella che fu chiamata Prima Rivoluzione Industriale; l’impiego di una tecnologia avanzata, difatti, sancì, per alcune produzioni di un certo pregio, l’abbandono del tornio per l’adozione dello stampo e ciò permise la produzione in serie, il nuovo prodotto non fu più esclusivamente rivolto a una classe benestante ma divenne accessibile anche ad una fascia di mercato media. Il calo della qualità e il progressivo dislocamento dei centri fornitori di questa materia al di là della regione segnarono la decadenza della ceramica prodotta a Nardò e non solo. I famosi descrittori salentini dell’Ottocento, con l’intento di descrivere le realtà territoriali in modo “esplorativo”, a proposito di Nardò non esitarono difatti a scrivere che ”appena v’è qualche figulo che modella sul tornio delle stoviglie grossolane che ricava con l’argilla” ovvero ne testimoniarono palesemente la decadenza di un’arte antica che tanto lustro aveva dato al Salento.

 

[1] Proxima faventini hodie Neriti fiunt, quae urbs est antiqua salentinorum. Hic non dure haut parum Latinae putem, quibi faventinus aut neretinis, aut vasis coenatum esse dicat . Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1581.

Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò

faenze nardò

Si svolgerà a Cutrofiano, p.zza Municipio, sabato 17 agosto 2013, h. 20.00, nella colorata cornice della 41 edizione della Festa della Ceramica, la presentazione del volume “Per uso della sua professione di lavorar faenze. Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo” di Riccardo Viganò, con cui Edizioni Esperidi inaugura la collana “Biblioteca delle Esperidi” destinata soprattutto a studi sul Salento.

 

Intervengono: Oriele Rosario Rolli (sindaco di Cutrofiano), Tommaso Campa (ass. attività produttive), Nicola Masciullo (ass. cultura), Salvatore Matteo (Museo della ceramica di Cutrofiano), Claudio Martino (Edizioni Esperidi), Riccardo Viganò (Autore).

 

Si ringraziano i comuni di NARDÒ e GALATONE per il patrocinio morale sul volume. Si ringraziano per il patrocinio economico e morale: GRUPPO SPELEOLOGICO NERETINO e MUSEO della CERAMICA DI CUTROFIANO. Si ringraziano gli SPONSOR: CB-BOTTAZZO (Galatone), SIPRE (Cutrofiano), ITO (Galatone), LA MADRUGADA (Otranto).

 

IL LIBRO: “Per uso della sua professione di lavorar Faenze”: titolo preso in prestito dai manoscritti dove questa locuzione indica un’abitazione destinata ad ospitare la bottega di un ceramista. È proprio dai manoscritti che l’Autore inizia la sua ricerca, il cui scopo è quello di dare a Nardò il giusto peso e ruolo nella storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo. Il tutto senza avere la presunzione di realizzare uno studio esaustivo bensì con l’intenzione di aggiungere un importante tassello allo straordinario patrimonio storico della città neretina, rivelando un sorprendente ed inedito passato fatto di storie stratificate di intere famiglie di figuli la cui operosità di gente comune ha contribuito alla fortuna storiografica di questo luogo.

 

L’AUTORE: Riccardo Viganò, brianzolo di nascita (Giussano, 1969) ma salentino di radici lontane, vive a Galatone e opera come tecnico per la conservazione dei beni culturali. Dal 1998 è Ispettore Onorario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia ed è impegnato nella tutela e nella valorizzazione dei beni culturali del suo territorio occupandosi dello studio delle aree di produzione della ceramica post medievale e moderna. È autore di numerosi articoli apparsi su riviste, giornali locali e siti web. Ha pubblicato: Le ceramiche dal palazzo Marchesale di Galatone (2003), Ceramica post medievale da Galatone (2002), Le ceramiche post medievali della chiesa di S. Giorgio in Racale (2004), Primi dati sulla ceramica di Nardò (2008), Ceramisti di Nardò tra XVI e XVIII secolo (2009).

 

“Una poesia tra le carte d’archivio”, ovvero curiosando in casa altrui non mancano le sorprese, neppure quelle finali …

di Armando Polito

In http://culturasalentina.wordpress.com/2013/04/16/una-poesia-tra-le-carte-darchivio/ mi sono imbattuto nel post fresco fresco (16 aprile 2013) di Riccardo Viganò Una poesia tra le carte d’archivio, che di seguito riporto fedelmente e integralmente:

“Tra i protocolli notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce si trova, all’interno degli atti del notaio neretino Michele Bona che rogò a Nardò dalla prima metà del Settecento, una breve composizione poetica che, nostro malgrado, ci è giunta incompleta. Il testo è vergato da mano elegante ed è ignoto l’autore ma, molto probabilmente, fu il notaio stesso a scriverlo. Si riporta di seguito il componimento affinché qualcuno, ritenendolo interessante, proceda ad un approfondimento.

qual chì pel la via tenebrosa oscura s’affretta i passi alla stagion nevosa

se tigre incontra che lasci sdegnosa l’usato bosco, o scenda alla pianura.

Tanto il core gli incombra altra paura.

Che mentre ancora in sua magion riposa, dalla fiera terribil furiosa.

La rabbia lo spavento e la sicura tal io, che appresso il viver mio rammento veggo il peccato starsi ammè d’intorno col brutto ceffo, e recarmi spavento.

Questo miro la notte e questo il giorno.

Quest’è la mia pena e il mio tormento e sempre fuggo e sempre [ill]” 

Non ho lasciato cadere nel vuoto l’invito, ed eccomi qui.

Di seguito ho trascritto il componimento (e a fianco ho aggiunto la mia parafrasi) per renderne immediatamente fruibile la struttura metrica e mi son permesso pure di ipotizzare l’integrazione della parte mancante alla fine dell’ultimo verso. Il lettore noterà che anche  la punteggiatura ha subito delle modifiche, indispensabili perché il testo, pur coincidendo con la lettura fattane, avesse un senso.

testo

Si tratta di un sonetto (con rime ABBA, ABBA, CDC, DCD) che è in pratica una gigantesca similitudine, la cui prima parte (parola iniziale: Qual) occupa le quartine, la seconda (parola iniziale tal) le terzine. Se dovessi esprimere un giudizio sintetico direi che si tratta di un’abile esercitazione che potrei intitolare Collage di echi. Il ricalco in poesia è un fenomeno antico ed oggi gli strumenti informatici (dalla digitalizzazione al riconoscimento dei caratteri e ai motori di ricerca) danno un formidabile aiuto a chi non si limita solo al conteggio statistico delle ricorrenze. Sono, perciò, lontani, i tempi in cui per rinvenire echi petrarcheschi nel Leopardi bisognava sorbirsi la lettura di tutte le opere di entrambi, mentre oggi basta solo approfondire l’analisi dei brani segnalati dal pc. Insomma, di fronte a questo testo  trent’anni fa mi sarei limitato a dire che sentivo echi danteschi e petrarcheschi, in pratica solo quello riportato nelle prime due note e nell’ultima.

A proposito di ricalchi: essi vanno distinti dal vero e proprio plagio, in cui c’è la consapevolezza, colpevole, del copia-incolla. Per lo più il ricalco, quello innocente, è involontario e frutto, in fondo, della sedimentazione di cultura che ad un certo momento, senza che ce ne rendiamo conto, riemerge. A ben pensarci, in fondo, scrivere una poesia è come comporre un pezzo musicale: i componenti dell’una e dell’altro (le note e le parole) esistono già, bisogna inventarsi le combinazioni.  Da un punto di vista esclusivamente matematico direi che la poesia sembrerebbe favorita, visto che il numero delle note è fisso e quello delle parole in continuo aumento (e non tengo in considerazione i neologismi di politici e politologi che mi sembrano esclusi a priori dalla possibilità di esprimere afflati poetici …). Tuttavia la quantità a disposizione non sempre è sinonimo di qualità e il proverbio dice che il bisogno aguzza l’ingegno, per cui l’incontro (e non lo scontro) tra musica e poesia segna uno 0/0 o, più verosimilmente un 1 (seguito, senza virgola, da un numero infinito di zeri)/1 (seguito anch’esso, senza virgola, da un numero infinito di zeri).

Alcune combinazioni possono anche essere utilizzate, consapevolmente (allora si chiamano “citazioni”) o inconsapevolmente; nell’uno o nell’altro caso, però è indispensabile, perché si possa parlare di poesia e non di componimento in poesia, che ci sia come valore aggiunto qualcosa di diverso, spesso indefinito e misterioso, ma sempre originale.

Il titolo Collage di echi era già un’anticipazione del giudizio, che ora integro dicendo che, secondo me, siamo in presenza di una dignitosa esercitazione letteraria sul tema del peccato (genericamente inteso, senza ombra di coinvolgimento della donna quasi sempre presente nei modelli di riferimento), niente di più.

Qui la mia fatica, note comprese, poteva dirsi conclusa, quando, in un ultimo, poco speranzoso tentativo di aggiungere qualche altro probabile ricalco, dopo aver digitato nel motore di ricerca “veggo il peccato” (attenzione, le virgolette in molti casi fanno la differenza!) all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=qMY_GufWO2oC&pg=PA291&dq=%22veggo+il+peccato%22&hl=it&sa=X&ei=SuBuUYuAPZOy7Aam9YHwCw&sqi=2&ved=0CEsQ6AEwBA#v=onepage&q=%22veggo%20il%20peccato%22&f=false

mi son ritrovato alla pagina 291 del libro Memorie de’ religiosi per pietà, e dottrina insigni della congregazione della Madre di Dio raccolte da Carlantonio Erra milanese della medesima congregazione dedicate all’Eminentissimo Principe Flavio Chigi Diacono cardinale di S. Maria in Portico, tomo II, Per Giuseppe e Niccolò Grossi nel Palazzo de’ Massimi, Roma, 1760.  Ecco cosa in quella pagina è riportato:

p

L’autore del componimento è, dunque, Sebastiano Paoli (1684-1751), al quale l’autore del libro dedica le pagg. 282-291  e nel presentare il sonetto così si esprime: Avendo fatto il suo ultimo Quaresimale in Turino, tornato a Napoli fu assalito dalla idropisia; che essendosi aggravata nel Novembre del 1749 lo minacciò della vita. Sopravvisse nondimeno quasi due anni, impiegando più ore del giorno, e talvolta ancor della notte in qualche occupazione di studio. E perché anche in quello stato cotanto compassionevole si sentiva quanto infiacchito di membra, altrettanto vigoroso di mente, consagrando interamente a Dio gli ultimi suoi pensieri, cercò di dare un sollievo a’ suoi acerbi dolori, col parafrasare in verso alcuni passi della Sagra Scrittura: la qual parafrasi fu scritta da lui medesimo con mano moribonda e tremante. Ecco fra i molti, che andaron dispersi, un Sonetto, fatto da lui due o tre giorni prima della sua dipartenza dal Mondo, sovra il passo del Salmo 50 Peccatum meum contra me est semper.

La scrittura segnalata da Riccardo Viganò ha tutta l’aria di essere una trascrizione del testo originale fatta a memoria. Lo dimostrano le varianti: pel la via/per selva; s’affretta/affretta; tanto il core gli incombra altra paura/tanto il cuore l’ingombra atra paura; dalla fiera/della fiera; la rabbia, lo spavento non sicura/la rabbia lo spaventa e la figura; tal io che appresso il viver mio rammento/tal io che spesso il viver mio rammento; ammè/a me; e sempre fuggo e sempre io li ho attorno (io li attorno era la mia integrazione)/e sempre fuggo, e sempre a lui ritorno.

Il recupero del testo originale ridimensiona nelle note solo le osservazioni relative a incombra, a  ammè e a altra; resta immutato il mio giudizio complessivo sul componimento, con tutto il rispetto per Sebastiano Paoli, figura di spicco dell’erudizione del XVIII secolo, dai molteplici interessi, come testimoniano le sue pubblicazioni (alcune postume) delle quali riporto di seguito il repertorio in ordine cronologico;  ho evidenziato sottolineandole le due riguardanti Nardò e di queste e di alcune altre ho riprodotto i frontespizi, mentre mi chiedo se chi scrisse o inserì quel foglietto ebbe modo di possederne o leggerne qualcuna …; comunque, è molto probabile che il foglietto sia stato inserito dopo il 1760, anno in cui fu pubblicato il testo di Carlantonio Erra.

Disquisizione istorica della patria, e compendio della vita di Giacomo Ammannati Piccolomini, cardinale di S. Chiesa, detto il Papiense, vescovo di Lucca, e di Pavia, Frediani, Lucca, 1712

7

Della poesia de’ santi padri greci, e latini, ne’ primi secoli della Chiesa, Raillard, Napoli, 1714

Della vita e virtù della serva del Signore Elisabetta Albano, Roselli, Napoli, 1715

10

Difesa delle censure del sig. Lodovico-Antonio Muratori bibliotecario dell’alt. sereniss. di Modena, contro L’Eufrasio dialogo di due poeti vicentini, Nasi, Napoli, 1715

Della vita del venerabile Monsignore F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’predicatori. Eletto Vescovo di Nardò dal Santo Pontefice Pio Quinto, Roselli, Napoli, 1716; Stamperia Arcivescovile, Benevento, 1716

6

De ritu ecclesiae Neritinae exorcizandi Aquam in Epiphania dissertatio, Mosca, Napoli 1719

12

 

Distinta descrizione de’ funerali celebrati nella Real Cappella per la Difonta Augustissima Signora Imperadrice Eleonora Maddalena Teresa di Neuburgh Vedova dell’Imperador Leopoldo Primo, Ricciardi, Napoli, 1720

5

Ragionamento sopra il titolo di divo dato agli antichi imperadori, Cappurri, Lucca, 1722

De nummo aureo Valentis imperatoris dissertatio, Cappurri, Lucca, 1722

A sua eccellenza il signore Giovanni Priuli cavalier, e procurator di S. Marco, Maldura, Venezia, 1723

Funerali per l’illustrissima ed eccellentissima signora D. Giovanna Pignatelli d’Aragona, duchessa di Monteleone e di Terranova, Mosca, Napoli, 1723

Pro illustrissimo, ac reverendissimo domino Hieronymo Alexandro Vincentino archiepiscopo Thessalonicensi, ac in Neapolitano regno nuncio apostolico laudatio funebris habita Neapoli in aede D. Dominici Majoris die 9 Augusti 1723, Ricciardo, Napoli, 1723

Orazione in lode di S. Caterina da Bologna detta il di 9 marzo 1729, Stamperia bolognese di S. Tommaso d’Aquino, Bologna, 1729

Orazione in lode di S. Petronio vescovo e protettore di Bologna detta il di 19 aprile 1729, Stamperia bolognese di S. Tommaso d’Aquino, Bologna, 1729

Annotazioni critiche sopra il nono libro del tomo II della Storia civile di Napoli del sig. Pietro Giannone, s. n., s. l., 1730 (?)

Orazione in lode di S. Giovanni Nepomuceno detta in Roma nell’imperial chiesa di S. Maria dell’anima della nazione tedesca per ordine dell’eminentissimo cardinale Alvaro Cienfuegos, Stamperia del Komarek, Roma, 1733

Orazione in lode del glorioso S. Paterniano vescovo, e principale protettore della citta di Fano, Fanelli, Fano, 1735

Solenni esequie di Maria Clementina Sobieski regina dell’Inghilterra celebrate nella chiesa di S. Paterniano in Fano dall’ill.mo, e r.mo monsignor Giacomo Beni li 23 maggio 1735, Fanelli, Fano, 1736

Codice diplomatico del sacro militare ordine gerosolimitano oggi di Malta, Marescandoli, Lucca, 1737

8

Orazione in lode di santa Caterina da Genova detta nella Chiesa della Santissima Annunziata il 2 maggio 1738, Marescandoli, Lucca, 1738

Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Occhi, Venezia, 1740

3

 

Orazione in lode di S. Giovanni Nepomuceno detta nella chiesa parrocchiale, e collegiata di S. Paolo in Venezia e consagrata alla serenissima reale altezza di Federigo Cristiano principe reale di Pollonia, Occhi, Venezia, 1740

Orazioni sacre, Bettinelli, Venezia, 1740

Orazioni, Cappurri, Lucca, 1724; Marescandoli, Lucca, 1738; Bettinelli, Venezia, 1743

9

Orazione in lode di S. Filippo Neri recitata alli 13 marzo 1741 nella insigne chiesa de’ pp. dell’oratorio di Palermo, s. n., s. l. , 1743(?)

De patena argentea forocorneliensi, olim (vt fertur) S. Petri Chrysologi, dissertatio, s. n., Napoli, 1745

1

Discorso sopra la vesta inconsutile di Nostro Signore recitato nella chiesa di S. Mose, Bettinelli, Venezia, 1743 e 1746

Ne’ funerali dell’illustrissimo, e reverendissimo monsignore Michele Talenti prelato domestico della Santità di Nostro Signore Benedetto 14 Votante di segnatura, eletto governatore di Rieti celebrati in Lucca nella chiesa de’ SS. Simone e Giuda il giorno immediato alla sua morte 17 settembre 1746, Benedini, Lucca, 1746

Orazione in lode del beato Girolamo Miani fondatore de’ padri della Congregazione di Somasca, Bettinelli, Venezia, 1748

Prediche sacro-politiche, Bettinelli, Venezia, 1754

Prediche quaresimali, Bettinelli, Venezia, 1762

Opere predicabili, Dorigoni, Venezia, 1762

Commento e note alla tragedia Merope di Scipione Maffei, Stamperia Reale, Torino, 1765

 

11

Va ricordato che le sue schede vennero utilizzate da Giacomo Racioppi nella stesura di Iscrizioni grumentine inedite, in Archivio storico per le provincie napoletane, anno 9 (1886), pagg. 660-669 , che collaborò anche alla stesura del testo di Bartolomeo Beverini Syntagma de ponderibus, et mensuris antiquorum, Frediano, Lucca, 1711 e Mosca Napoli, 1719.

2

Il Paoli curò pure le allegorie del Bertoldo con Bertoldino e Cacasenno in ottava rima con argomenti, allegorie, annotazioni, e figure in rame, Storti, Venezia, 1739 (edizione condotta su quella di Lelio Dalla Volpe, Bologna, 1736, cui si riferisce il frontespizio, alla quale il Paoli non aveva collaborato).

13

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che avrei fatto meglio a ridurre il post a questa seconda parte. Non l’ho fatto per due buoni motivi: anzitutto perché non sarebbe stato corretto nei confronti del lettore e di me stesso spacciare come risultato ottenuto al primo colpo ciò che in realtà è emerso, è il caso di dire in tutti i sensi per fortuna, solo alla fine; poi per deformazione exprofessionale, direi quasi per ragioni umilmente didattiche, tese solo a far comprendere a chi non è addetto ai lavori come indagini di questo tipo, nonostante l’ausilio determinante oggi offerto dal pc, siano sempre legate nei loro esiti all’aleatorietà delle nostre ipotesi e interpretazioni. Il pc, comunque rimane un cretino velocissimo; noi, per quanto lentissimi, un po’ più intelligenti di lui, almeno si spera …

_______________

1 L’immagine della via tenebrosa e oscura, metafora del peccato, è di ascendenza antica: è già in Salomone (da Luigi Granata, Opere spirituali, Giunti, Venezia, 1644, pag. 542): …la via dei cattivi è oscura, e tenebrosa. Scontato ricordare, poi, la selva oscura dantesca e le sue presenze animali.

2 Francesco Petrarca (XIV secolo), Canzoniere, L, 1-6 : Nella stagion che ‘l ciel rapido inchina,/verso occidente, e che ‘l dì nostro vola/a gente che di là forse l’aspetta,/veggendosi in lontan paese sola,/la stanca vecchierella pellegrina/raddoppia i passi, e più e più s’affretta

3 Si tratta di un nesso molto comune, tanto che ricorre più volte in autori di ogni tempo; un solo esempio per tutti: Giovan Battista Marino (XVI secolo), Adone, XVI, 188, 3: … nata colà nela stagion nevosa; XX, 501, 5-6: Suda, e anela alla stagion nevosa,/quando adusta da Borea il verno coce …

4 Antonio Cutrona, La conquista del Mindanao, overo il Corralat, Dragondelli, Roma, 1674, pag. 52: atto III, scena VIII: … che, qual tigre sdegnosa,/sfogarà sovra lui l’ira de l’alma.

5 Torquato Tasso (XVI secolo), Le sette giornate del mondo creato (giornata V), : fugge del bosco usato il dolce albergo.

Pietro Metastasio (XVIII secolo), traduzione della satira 6 del libro II delle Satire di Orazio (ultimi due versi): Alla buca ritorno, al bosco usato, ai miei legumi, alla mia pace: addio.

6 Non è che i notai, anche se scrivevano di proprio pugno, fossero tutti indenni da veri e propri errori di ortografia: se, però, l’autore della poesia è lo stesso notaio (nel post originale si formula questa ipotesi ma non si accenna neppure ad un’avvenuta comparazione calligrafica ed ai suoi esiti), vista l’abile costruzione della stessa poesia, credo che incombra non sia un errore ortografico  ma un vezzo etimologico, ricalco dal francese encombrer, da cui è derivato ingombrare; anche se ammè, che s’incontra più avanti, risolleva qualche dubbio.

7 Non escluderei la lettura alta, voce che, però, avrebbe meno pregnanza di significato.

8 Dante Alighieri, Vita nuova, sonetto Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, vv. 5-7: Falli Natura quand’è amorosa,/Amor per sire e il cor per sua magione,/dentro la qual dormendo si riposa …

9 Non escluderei che il notaio, o chi per lui, si sia lasciato prendere la mano dal raddoppiamento sintattico (frutto della assimilazione della d in ad che è il padre del nostro a) presente nel dialettale a mme e pure, anche se solo a livello fonetico e non grafico, nell’italiano a me (provare a pronunziarlo per credere …).

10 Pietro Metastasio (XVIII secolo), La corona, scena I: Rammento che della Dea di Delo seguace io son; che la terribil fiera; aggiungo che fiera furiosa è un nesso molto frequente in opere religiose (per lo più panegirici) del XVIII secolo.

11 M. Panfilo di Renaldini, Lo innamoramento di Ruggeretto, Giovanni Antonio Della Casa, Venezia, 1555, pag. 70, XIII, 95: Sfocando il mio tormento, e la mia pena

Camillo Scrofa (XVI secolo), alias Fidentio Glottogrysio Indimagistro, Capitulo I, 36: il mio tormento et la mia pena amplifica.

Torquato Tasso (XVI secolo), Rime amorose, 114, 1-2: Dolce mia fiamma, dolce/mia pena, e mio tormento.

Carlo Goldoni, Dalmatina, atto II, scena XIV: Ecco a che mi condanna barbara cruda sorte:/è il mio tormento in vita, è la mia pena in morte. La commedia fu rappresentata per la prima volta a Venezia nell’autunno del 1758.

Euripilo Naricio (pseudonimo arcadico di Francesco Zacchiroli) Losanna, Martino, 1776: Il sogno, XII, 5: Ma qual fu la pena, il mio tormento.

12 Si direbbe un ribaltamento della situazione cantata dal Petrarca in Canzoniere, XXXV (celeberrimo sonetto il cui verso iniziale è Solo e pensoso i più deserti campi), dove il poeta cerca la solitudine per evitare la vergogna che gli altri si accorgano della sua pena d’amore che continua imperterrita a tormentarlo; qui, invece, le mura domestiche non bastano a far sentire al sicuro il nostro impegnato inutilmente in una fuga che non è fisica ma esclusivamente mentale.

Lo Tsunami che nel 1743 colpì il Salento

Nardò, la piazza principale con la guglia dell’Immacolata e il Sedile

di Riccardo Viganò

Il 20 febbraio 1743 un terremoto di magnitudo M=6.9 colpì una regione molto vasta, con effetti di danno massimi nella penisola salentina  e nelle isole Ionie al largo della Grecia occidentale. Il terremoto fu chiaramente avvertito anche a Napoli, in Calabria e nello stretto di Messina. L’intensità sismica massima  fu registrata nelle città di Nardò e di Francavilla Fontana, nel Salento, dove la maggior parte degli edifici fu rasa al suolo o danneggiata in modo permanente, e nella località di Amaxichi (isola di Lefkada). Anche le città di Taranto e Brindisi subirono danni rilevanti.

Nella sola Nardò il terremoto provocò più di trecentoquarantanove vittime, la maggior parte bambini, e molte altre vittime si registrarono nella penisola salentina;  circa cento nelle isole Ionie. Il sisma generò anche uno tsunami, riguardo al quale le informazioni contenute nelle fonti storiche sono abbastanza scarse, descrivendo unicamente alcuni effetti nel porto di Brindisi, dove il mare fu visto ritirarsi(1).

Sedile di Nardò, particolare del prospetto con la statua del protettore S. Gregorio Armeno e dei due comprotettori, S. Antonio da Padova e S. Michele Arcangelo. Secondo la leggenda la statua centrale si mosse verso ponente per sedare il sisma

Una cronaca di questo tragico evento, la si ritrova descritta, anche con un occhio agli eventi della fede, con forza e in maniera sintetica nelle copertine degli atti notarili riguardanti gli anni 1742-43 del notaio regio ed apostolico Oronzo Ippazio De Carlo di Nardò.

 

Copertina atti notarili dell’anno 1742 (2).

Nel giorno di mercoledì venti febbraio mille, settecento, quaranta, trè giorno piuttosto estivo del inverno, a circa l’ore 23 e mezza nell’occaso si suscitò un vento gagliardissimo che fece stupire ogni uno fè intimorire, poiché pareva che pe l’aria correvano centinara di carrozze unite, tale era lo strepito, s’offuscò l’aria e pareva che mandasse fuoco, l’acqua nei pozzi saltava e si concentrava: si asciugò il sole, e sopra le ore ventitré e mezza traballo, causa (sic) Nardò tornò a traballare, e finalmente muovendosi la terra a guisa dell’acqua che ferve nella pignata, operò che cascasse dalle fondamenta Nardò. Morirono  trecento quaranta nove cittadini, la maggior parte però furono bambini, rovinò ogli, grani, etc. immobili e suppellettili dall’ingiurie delle pietre e de tempi che susseguirono, restarono (sic) la statua della Beata Vergine Maria al vescovato al titolo dell’Assunta sudò. La statua di San Gregorio Armeno che steva sopra il publico sedile si vidde colla mano far segno al vento di ponente che fiatava, che si quietasse. Le altre statue di san Michele e San Antonio il dano ( sic) ad un millione, cento,settanta,cinque mila Ducati.

Fu inteso il tremuoto da tutto (sic) anzi dal mondo intero.

Nardò, cattedrale, statua lignea dell’Assunta (sec. XVIII) che, secondo la leggenda, trasudò in occasione del sisma del 1743

Copertina atti notarili dell’anno 1743 (4).

Nel giorno venti di  febbraro mille,settecento,quaranta,trè, giorno di mercoledì a ore ventitré e mezzo correndo la sesta indizione, e la domenica di sesta cresima, successe  un ferissimo tremuoto, che durò secondo la comune, sette minuti, e rovinò dalle fondamenta la Città di Nardò senza che fusse  rimasta abitazione alcuna che no fosse ruinata, o tesa di maniera che poi non si fusse, anche d’ordine civile il signor Duca di Conversano preside di Lecce, demolita: morirono duecento, venti, otto persone oltre centinara di figlioli, e quattrocento, di dette persone restarono in gran parte offese, e ferite: quali morti e feriti furono tutte, quasi, persone basse (sic) al Canonico D Tommaso  Abb. Piccione, il Diacono Giuseppe Nociglia e al p(ad)re. F(ra) Michele Salà Carmelitano.

La fedelissima città di Lecce mandò carità a detti infermi con il suo maestro di piazza settecento rotula di pane, quattro castrati. L’eccellentissimo marchese di Galatone ossia il principe di Belmonte con la sua solita petà giornalmente provvede al necessario ai poveri avendo dato ricovero alle religiose, dette a conservatorio a più e a più persone che erano fuggite in Galatone, dove dimora l’eccellentissmo Duca di Conversano preside, e da dove provvede giornalmente ai bisogni di detta Città. Vari furono gli eventi, che precederono  il detto tremuoto. Frà gli altri il Tutelare padre V. Gregorio  Armeno, la di cui statoa di lecciso esisteva sopra il pubblico sedile nella piazza nell’atto, che la terra vi scoteva, invocato dal popolo scivolò visibilmente verso il ponente, dà dove vi sorse il detto tremuoto, e con la mano, e la mano che prima steva in atto di benedire, ora si vede tutta aperta  ed in atto, che impedisce il travello. E continuò a star voltata verso di detto vento di ponente. Avendo perduto la mitra, che era tirata à tutto un pezzo con la statoa, ma no già lo pastorale. Cascarono poi le statoe di S Michele e S Antonio, che tenevano in mezzo detta statoa di esso San Gregorio.

L’immagine  di M. V. e Assunta in cielo, collocata nel mezzo del capo della cattedrale dà monsignor Antonio Sanfelice l’anno 1724 sudò, e continuò a sudare per più giorni;

   
 
Nardò, chiesa di San Domenico (1586). In seguito al sisma dell’edificio restarono integri solo la facciata e il perimetro

avea preceduto un giorno prima un ordine un’orridissima, e ventosissima giornata, e quando successe il tremuoto si ammantò l’aere  di fuoco e fiatò un vento così gagliardo, che in sentirsi spaventava le genti monsignor Dè Pennis di secoli passati, e suor Teresa Adamo  di Gesù, òro Vescovo, e cittadina, predissero tal Tremuoto, cò queste parole pro pater peccato tibi di my nelli principi al seculo ottavo dal tremuoto restava desolata la Città N. N. e molte terre lo di più. e altro accaduto un seculo in Nardò. (sic) memorie storiche neritine di me.

 Notaro Oronzo de Carlo

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1)    http://www2.ogs.trieste.it/gngts/gngts/convegniprecedenti/2007/riassunti/tema-1/1-sess-1/11-armi.pdf

2)    ASL sezione notarile, protocollo 66/17 notaio Oronzo Ipazio De Carlo copertina atti 1742.

3)     Per il culto di san Gregorio Armeno vedere:http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/02/20/un-busto-di-san-gregorio-armeno-tra-i-tesori-della-cattedrale-di-nardo/

4)    ASL sezione notarile, protocollo 66/17 notaio Oronzo Ipazio De Carlo copertina atti 1743.

Galatone. Tabelle. Genesi, morte e rinascita di un casale: la chiesa di Santa Lucia

ingresso attuale della chiesetta, ph Viganò R

 

di Riccardo Viganò

La chiesetta di santa Lucia, attualmente sconsacrata, è l’unica sopravissuta, in alzato,delle numerose chiese del casale medievale di Tabelle a Galatone (Lecce). Sicuramente di culto greco- bizantino, confermata dai nomi dei santi legati alla liturgia bizantina cui erano dedicati la maggior parte dei nove luoghi di culto presenti in questo feudo:  in particolare S. Nicola di Myra , S. Eleuterio, S. Costantino, S. Onofrio, S. Demetrio, oltre alle chiesette di Santa Maria e di S. Pietro. Di queste  rimangono solo poche evidenze archeologiche e poche notizie da fonti orali.

ingresso originario, ph Viganò R.

Risultato  di modifiche e ristrutturazioni operate tra i secoli XVI e XVIII, la chiesetta di Santa Lucia si presenta attualmente come un edificio di piccole

Piccole storie nascoste di ceramisti neretini: I Perrone

di Riccardo Viganò

Non è facile raccontare la storia di una famiglia mitica,  interprete e protagonista dell’ultima stagione delle produzione ceramiche neretine, della  quale nulla si conosceva  tranne qualche notizia estrapolata dal Catasto onciario e per di più mal riportata.

Giuseppe Domenico Perrone, al secolo Domenico, nasce a Nardò il 18 luglio del 1714 da Giovanni Battista Perrone e Rosa Rutigliano, entrambi provenienti dal  famoso centro di produzioni ceramiche di San Piero della Lama, conosciuto anche come San Pietro degli èmbrici. Essi arrivano  a Nardò intorno al 1711,  cavalcando l’onda migratoria che percorse la Puglia e non solo,  tra la seconda metà del XVII  e il primo ventennio del XVIII secolo, probabilmente richiamati  dall’opportunità di prendere il posto che le vecchie famiglie di ceramisti neretini avevano lasciato libero.

Poco si sa, ma la famiglia era certamente  molto numerosa  e per brevità non faremo l’elenco di tutti i componenti. Certamente i due coniugi dovevano essere molto giovani. Il primogenito della famiglia,  il nostro Domenico,  sposa, il 23 novembre 1728 la  neretina Cristina Marangella, come lui quattordicenne; due anni dopo, il 6 giugno 1731, nasce il primo dei suoi dieci figli, quasi in contemporanea con l’ultimo dei suoi fratelli, Francescantonio, che ritroveremo in seguito a lavorare con lui.

Che il clan familiare fosse teso ad affermarsi nel tessuto sociale neretino, lo si  coglie nello stesso anno della morte del patriarca Giovanni, avvenuta   il 22 Marzo 1741, quando Domenico prende le redini della famiglia, dimostrando di essere un personaggio dinamico e dotato di un vero e proprio spirito imprenditoriale. In quello stesso anno infatti tale Giovanni Lisi chiede, davanti al Mastro di mercato, o Magister nundinarum, dai

Le medagliette indice di antiche devozioni

ARCHEOLOGIA DELLA DEVOZIONE POPOLARE SALENTINA

di Riccardo Viganò

Il rapporto tra archeologia o ricerca storica e devozione popolare è un tema di grande complessità ed ampiezza; una storia che si può “leggere” attraverso il rinvenimento e soprattutto lo studio di alcuni reperti con connotati di senso religioso, come “li spiragghie” o medagliette devozionali, o anche  i santini, che rappresentano  una testimonianza della quotidianità del culto. Tali tracce si possono rinvenire, quasi con quotidiana frequenza, nelle nostre campagne, negli scavi edili o nelle vicinanze di complessi cimiteriali civili ed ecclesiastici, sia post-medioevali che moderni; tracce che forniscono l’opportunità di studiare in modo sistematico le devozioni, i pellegrinaggi o le credenze di una comunità.

Le medagliette devozionali ebbero una larga diffusione in Italia ed in Europa solo dopo il Concilio di Trento, che si chiuse nel 1563, e nel Salento arrivarono  un po’ più tardi. Erano prevalentemente  utilizzate come parti terminali dei rosari, ai quali erano appese grazie ad un applicagnolo e ad un filo metallico ritorto. In altri casi venivano appese direttamente al collo o comunque a contatto della persona, per il loro valore sacro e per le devozioni specifiche raffigurate. Molto spesso il legame personale con il santo  doveva essere così forte da determinare la sepoltura del defunto con l’immagine del santo maggiormente venerato in vita. Questo tipo di utilizzo è attestato fin dai tempi  più antichi ed è documentato dall’usura. Le medagliette rappresentano inoltre un importante indicatore cronologico per il periodo post medievale, in quanto alcune raffigurazioni di santi consentono una datazione del manufatto. E’ il caso di alcune medagliette raffiguranti S. Ignazio di Loyola, S. Francesco Saverio e S. Filippo Neri, canonizzati nel 1622, S. Rocco, San Sebastiano e S. Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610,  invocati contro la peste.

Il  ritrovamento di medaglie in bronzo o rame, soprattutto quella di S Ignazio di Loyola ( fondatore della compagnia di Gesù) , quasi tutte di conio romano, è inoltre indice di una qualche influenza sul culto locale da parte dei gesuiti nei secoli XVII e XVIII.

Altre medagliette rinvenute in territorio salentino palesano avvenuti pellegrinaggi, come è un ovale di Pio V raffigurante “l’ausculum pedem”, il bacio del piede, ricordo di un  pellegrinaggio a Roma;  oppure un piccolo ovale in argento, parte terminale di un rosario,  raffigurante un chiodo della crocifissione con la scritta “sacro chiodo”, che  rappresenterebbe un altro

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