La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (3/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Passiamo ora alle immagini dei monumenti e degli stemmi contenute nei medaglioni sottostanti le coppie di nomi. Siccome tutti i monumenti si riferiscono a Lecce, l’unica concessione fatta a città diverse consiste nella riproduzione del loro stemma in riferimento al personaggio, a cui dette i natali,  indicato nel cartiglio. Da notare, però come i medaglioni, i cartigli e la stessa figura centrale siano legati tra loro da elementi decorativi di natura vegetale che conferiscono al tutto un senso di compattezza e di straordinaria unità nella diversità. Di stemmi e monumenti forniamo anche l’immagine recente per consentire al lettore un immediato riconoscimento-riscontro. Di solito in lavori del genere per la rappresentazioni di paesaggi era normale avvalersi a mo’ di modello di foto, possibilmente di fotografi famosi. E non si può fare a meno a tal proposito di pensare a Pietro Barbieri ed a Francesco Lazzaretti. Pietro Barbieri, di origini modenesi, insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato con il titolo di Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto per i tipi di Campanella a Lecce nel 18891. Le foto dei Barbieri, per i quali una sorta di gemellaggio, sia pure in formato risotto, con gli Alinari non sarebbe fuori luogo, vennero utilizzate a corredo di parecchi testi geografici, alcuni dei quali avremo occasione di citare più avanti.

Federico Lazzaretti  (1858-1937), invece, nato a Lecce, vi aprì nel 1884 insieme con il fratello Luigi la Premiata litografia, uno studio che si occupava anche di legatoria e fotografia. Nel 1905 insieme con Luigi Conte rilevò lo studio dei fratelli Barbieri.

Nonostante per certi soggetti l’inquadratura sia quasi obbligata, volta per volta riporteremo per ogni dettaglio paesaggistico contrassegnato da un numero sull’insieme la foto che potrebbe aver funto da modello ed una recente.

1 A sinistra lo stemma di Lecce2, a destra la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 63, p. 200

2 Piazza Duomo. In questo caso il modello potrebbe essere stato Federico Lazzaretti (1858-1937). La foto, sua,  che segue è  tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911, p. 25.

 3 A sinistra lo stemma di Brindisi3 (patria del De Leo), a destra l’Istituto Marcelline.

Qui come elemento di raffronto siamo in grado di proporre solo due cartoline del 1901 (data d’inoltro), comunque preziose a testimoniare il cambiamento del paesaggio in un secolo.

Questa seconda offre una prospettiva molto vicina a quella dell’arazzo.

4 A sinistra Porta Napoli, a destra stemma di Gallipoli4 (patria, per alcuni, del De Ribera)

L’inquadratura obbligata rende problematica l’individuazione del modello, che potrebbe coincidere con uno dei tre proposti di seguito.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 59, p. 196

Da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.

Foto Lazzaretti tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 29

5 Palazzo dei Celestini e Basilica di S. Croce

 

Foto Lazzaretti, tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 43

6 A sinistra la Torre di Belloluogo, a destra lo stemma di Taranto5 (patria di Paisiello e di Archita). Da notare come nello stemma Taras (il mitico fondatore della città) in groppa al delfino regge con la destra un tridente raffigurato in verticale, posizione diversa rispetto a quella dello stemma attuale e ispirata a quella delle monete antiche di datazione più recente (III secolo a. C.6; in quelle precedenti il tridente è assente).

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 75, p. 212

La comparazione che segue tra l’immagine originale del Barbieri (che nello Strafforello risulta tagliata) e quella dell’arazzo mostra la loro perfetta sovrapponibilità. Molto probabilmente proprio la foto del Barbieri funse da modello per l’esecuzione del dettaglio dell’arazzo. Se ciò risponde alla realtà dei fatti possiamo stabilire un elemento di datazione, per quanto approssimata, dell’arazzo, dicendo che esso è probabilmente successivo al 1889, anche se il Barbieri avrà sicuramente realizzato la foto qualche anno prima di tale data.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

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1 Il volume è raro (l’OPAC segnala una copia nelle seguenti biblioteche: Ugo Granafei  di Mesagne ( BR),  Nicola Bernardini di Lecce, Pietro Siciliani di Galatina (LE), Pietro Acclavio di Taranto, Apulia di Manduria (TA) e Reale di Torino. Una copia manoscritta (ms. N/14) è custodita nella Biblioteca arcivescovile A. De Leo a Brindisi, naturalmente senza le immagini (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209597&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU).

2 (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)

Sullo stemma vedi La Terra d’Otranto ieri e oggi (8/14): LECCE, in  http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

3 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Brindisi e il suo porto cornuto in http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/

4 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/b9/Gallipoli_%28Italia%29-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 25-27 (https://books.google.it/books?id=fM8sAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)

5 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/47/Simbolo_Taras.jpg)

6 (immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg)

Verso di un nummo d’argento. Taras nudo seduto sul dorso di un delfino regge con la sinistra (nell’arazzo con la destra) il tridente.

Sullo stemma vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/.

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (2/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Riprendiamo la descrizione del nostro manufatto. Al di fuori della cornice in cui è incastonata la personificazione della Terra d’Otranto ad intervalli regolari e simmetrici compaiono coppie di nomi in cartiglio ed immagini di monumenti e di stemmi cittadini in medaglioni. Cominciamo dalle coppie di nomi, di seguito presentati in dettaglio in rapporto alla loro posizione nell’arazzo. Ogni coppia, poi, sarà accompagnata dalla relativa scheda.

ENNIO/PALMIERI

Quinto Ennio (Rudie, 239 a. C.- Roma, 169 a. C.). Poeta e drammaturgo, delle sue opere ci rimangono solo i titoli ed alcuni frammenti.

Palmieri. Famiglia che vanta molti illustri esponenti: Alessandro e Bernardino (XII secolo, di Ostuni, giuresconsulti); Francesco Maria (XVII-XVIII secolo, di Lecce, architetto e scultore); Giuseppe (1720-1793, di Martignano, economista; Nicola (XVIII secolo, di Merine, numismatico); Oronzo (XVII secolo, di San Pietro in Lama, teologo e poeta); Pasquale (XVII secolo, di Lecce, poeta); Saverio (1764-1839, di Lecce, agronomo). Candidati ad essere accoppiati col poeta Ennio sembrerebbero Oronzo e Pasquale, la cui produzione, però, si riduce per il primo ad un Epigramma latino e per il secondo ad alcuni alcuni componimenti celebrativi inseriti, insieme con quelli di altri,  in due raccolte. Qui, perciò, molto probabilmente il citato è Giuseppe, l’economista, autore di diverse pubblicazioni. Fu nel tempo Amministratore Generale delle Dogane in Terra d’Otranto, Consigliere di Stato, Soprintendente Generale delle Dogane del Regno e, infine, Direttore del Consiglio delle Reali Finanze. A lui nel 1865 fu intitolato quello che era stato il primo liceo di Terra d’Otranto.

 

STRABONE/DE FERRARIS 

Strabone (I secolo a. C.- I secolo d. C.), geografo e storico greco. La presenza del suo nome è giustificata non solo dalla sua fama ma, forse soprattutto, dal fatto che la Terra d’Otranto o, meglio, i suoi antenati toponomastici (Iapigia in primis), hanno ampio spazio nella sua opera (Geographica), elemento sufficiente per giustificare il gemellaggio con il De Ferraris e il suo De situ Iapygiae.. 

Antonio De Ferraris (1444-1517), medico e letterato di Galatone (perciò più noto col nome di Galateo). La sua opera più nota è il De situ Iapygiae uscito a Basilea  per i tipi di Perna nel 1553.

 

LEO/MILIZIA

Leo. Nonostante l’assenza di DE (presente, invece, in DE FERRARIS), non può essere che Annibale De Leo (1739-1814) di S. Vito dei Normanni. Letterato, arcivescovo di Brindisi collaborò all’istituzione in questa città della biblioteca che oggi porta il suo nome.

Milizia. Problema già posto da PALMIERI e che si riproporrà con ZIMARA e VINCENTI. La scelta teoricamente andrebbe operata tra Domenico (1680-1760, medico), Lucio (XVI-XVII secolo, letterato) e Francesco (1725-1798, teorico dell’architettura,storico e critico d’arte), tutti di Oria. Se dovessimo applicare il criterio già usato (e quale, sennò?) il Vincenti dell’arazzo sarebbe indiscutibilmente Francesco.

 

ZIMARA/RIBERA

Zimara. Probabilmente si tratta di Marcantonio (XV/XVI secolo), medico e filosofo di Galatina,autore di una serie sterminata di pubblicazioni, e non di Teofilo (1515-1589) suo figlio, anche lui di Galatina, studioso di lettere e scienze, ma autore meno prolifico del padre.

Ribera. Giuseppe de Ribera,   alias lo Spagnoletto. Nell’arazzo l’accoppiamento con lo stemma di Gallipoli mostra (e come poteva essere altrimenti …) l’adesione al gruppo di coloro che sostennero l’origine gallipolina del pittore; il primo fu Bernardo De Dominici in Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, Tipografia Trani, Napoli, 1844 (la biografia del De Ribera occupa le pp. 111-146) seguito dai salentini  Ettore Vernole in Un canto gallipolino su Giuseppe Ribera, in Archivio storico pugliese, XIX (1966), n. 1-4, pp. 334-341 (corregge alcuni dettagli anagrafici del De Dominici ma propende, sia pure non con certezza assoluta, per l’origina gallipolina). Sul fronte opposto coloro (il primo fu Joachim von Sandrart, contemporaneo del De Ribera) che sostengono esser nato il nostro a Xativa, in Spagna. Forse è superfluo dire che gli scrittori salentini di memorie patrie (e tra questi il gallipolino Bartolomeo Ravenna in Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836) hanno tutti sposato concordemente la tesi delle origini gallipoline. Chissà, perciò, che rabbia avrebbero provato oggi nel vedere citata  in rete (anche nell’Enciclopedia Treccani) e anche su libri a stampa) come città natale del De Ribera non Gallipoli ma Xativa.

 

AMMIRATO/VINCENTI

Scipione Ammirato (1531-1601), di Lecce, storico, autore di numerosissime pubblicazioni.

Vincenti. Qui si porrebbe, in forma ancora più esasperata, lo stesso problema posto da PALMIERI e ZIMARA, per cui risulterebbe  abbastanza imbarazzante la scelta tra: Andrea (XVII-XVIII secolo, di un paese, non noto, della provincia di Lecce, pittore, discepolo di Luca Giordano; Antonio (XVIII secolo, di Ostuni, archivista e bravissimo restauratore di pergamene); Francesco (XVIII secolo, di Gemini, teologo della cattedrale di Ugento; Lelio (XVII secolo, di Tricase, medico e filosofo, autore di numerose pubblicazioni. Siccome queste ultime hanno un peso notevole anche nell’immaginario collettivo, molto probabilmente il Vincenti ricordato nell’arazzo è proprio Lelio.

 

PAESIELLO/ARCHITA  

Giovanni Paisiello (1741-1816), di Taranto, musicista. Sul PAESIELLO dell’arazzo, invece di PAISIELLO, vedi la serie in sei puntate in http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/; alle testimonianze lì esibite si aggiunge quest’altra, senz’altro più ufficiale e che renderebbe ancora più grave il fenomeno, anche se non nuovo per altri nomi, lì stigmatizzato.

Archita. (V-IV secolo a. C.), di Taranto, filosofo, matematico e politico, amico di Platone. Delle sue opere ci restano solo frammenti. Il suo accoppiamento col Paisiello molto probabilmente è dovuto, oltre alla comune città natale, anche al fatto che, come tutti i pitagorici, si occupò anche di acustica, enunciando regole per la composizione delle scale in dati intervalli.

 

Ogni cartiglio, come s’è visto, contiene due cognomi.  Ci saremmo aspettato che l’accoppiamento (soprattutto laddove le rispettive cronologie sono molto distanti) contenesse il riferimento ad un dettaglio che nello stesso tempo qualificasse i due personaggi e ne costituisse il comune denominatore. Di questo, quando è avvenuto, abbiamo dato puntuale giustificazione nelle schede.

L’assenza del nome accanto al cognome per gli autori più recenti può essere interpretata in due modi: 1) il nome è da considerarsi superfluo quando, come s’è documentato, la famiglia annovera più discendenti ma il riferimento va fatto giocoforza al più famoso; 2) quando la scelta diventa problematica, non è da escludere che il riferimento coinvolga l’intero casato e il suo prestigio considerato anche cronologicamente. Il sospetto, però, è che l’intenzione celebrativa era proprio quella ambigua derivante dalla fusione delle due ipotesi prospettate; insomma, il classico prendere due piccioni con una fava,anzi, con un solo nome, anzi con il solo cognome. Da notare, può darsi pure che sia un caso, come la serie onomastica si apre e si chiude col nome dei due personaggi più antichi (Ennio e Archita).

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

 

 

“Le Pentite” nell’istituto Buon Pastore a Lecce

 

di Maria Grazia Presicce

 

” ………allora mi stavi dicendo, che andavate ad ascoltare la S. messa e partecipavate a degli spettacoli all’Istituto del Buon Pastore dove si trovavano le pentite.”

Si, si. Ci divertivamo tanto! Che belle serate trascorrevamo!Organizzavano davvero bei spettacoli alle pentite“.

Sorride ricordando.

” Ma chi erano queste pentite, nonnina? ” domando curiosa.

Ma come chi erano? ” Mi fa. ” Le pentite erano le pentite“, e resta in silenzio rivolgendomi uno sguardo stupito.

Le sembra strano che non capisca. In effetti, per lei quel termine è indicativo di tutto. Mi accorgo che non vuole parlarne e provo ad aggirare l’ostacolo.

” Si, si, ho capito; ma io volevo sapere perché le chiamavate pentite“.

Perché…mhhmmhm. erano…. signorine ( muove la testa e fa una smorfia di disgusto con le labbra ) che si erano comportate male, nell’istituto venivano educate a comportarsi bene e dopo, se si ravvedevano su ciò che avevano commesse, potevano ritornare in famiglia.

Mi rendo conto che la nonnina è un po’ restia a parlare dell’argomento “comportamento delle pentite” si sente a disagio, la vedo in imbarazzo; infatti, già quello che mi ha detto le sembra troppo, lei è tanto religiosa e le duole parlare male di qualcuno.

Eh! Povere ragazze, che il Signore le perdoni.” Mormora, sperando così di mettere anima e coscienza in pace.

 

Mi affretto a proseguire facendo la finta tonta: ” Ora mi è chiaro; quindi le signorine che in famiglia erano maleducate e magari non seguivano i consigli dei genitori, venivano isolate in quel collegio”.

Ma che stai dicendo! No, non è così. Si trovavano là dentro perché si dovevano pentire di quello che avevano fatto“.

” Ma insomma, che cosa avevano combinato per meritare di essere relegate in quel posto?” sbuffo sempre più fintatonta, cercando di stuzzicare la mia nonnina pudica. So che lei, col suo riserbo mai mi direbbe che l’istituto accoglieva ragazze minorenni che erano state scoperte di avere relazioni sentimentali o con uomini sposati o con uomini che la famiglia non gradiva. La mia nonnina mai parlerebbe esplicitamente di queste problematiche.

Provo allora in altro modo ad avere spiegazioni sull’argomento.

” Non sto capendo … – continuo – ma, venivano affidate all’istituto ragazze di malaffare o altro tipo di ragazze ?”

Si , si , ora hai capito bene, proprio loro. Erano ragazze giovanissime, tutte minorenni“.

Si blocca pensierosa, poi : ” Però, non tutto l’istituto era occupato da ragazze disonorate. Loro occupavano solo la parte retrostante, nei locali anteriori invece venivano ospitate le orfanelle e le bambine o ragazze che avevano dei problemi in famiglia. Le suore si prendevano cura di loro“.

Mi rendo conto che la mia nonnina ha cambiato discorso, non le piace proprio parlare delle pentite, io invece che voglio tornare sull’argomento domando: ” ma le ragazze dei due istituti potevano frequentarsi?”

Ma che dici?” – Mi fa irritata. So di averla punta nel vivo e di aver provocato la sua ira, infatti, continua risentita, – ” secondo te, le pentite potevano incontrarsi con le altre persone?”

” E che ne so! Pensavo che siccome vivevano tutte là dentro potevano anche stare insieme qualche volta. ”

Ma no, ma no. Le pentite rimanevano sempre nei locali di dietro . I due istituti erano separati. Le suore le tenevano continuamente impegnate sotto la loro sorveglianza.”

” E che tipo di lavori svolgevano?” chiedo, vedendo che di questo è più propensa a parlarmi.

Noi, – mi fa – abitavamo allora in una casa al primo piano, proprio di fronte al giardino dell’istituto e dal balcone vedevamo queste ragazze che spesso lavoravano nell’orto. Zappavano, piantavano le verdure, tiravano l’acqua dal pozzo e innaffiavano; altre poi si dedicavano ai lavori interni dell’istituto, lavavano i panni, stiravano, cucinavano e questo sempre sotto il controllo delle suore che non le lasciavano un attimo sole.

Si sofferma, mi guarda con aria furbesca – ” Però, a volte accadeva anche che riuscivano a scappare”. 

” E come facevano a scappare se erano guardate a vista dalle suore?” chiedo.

” Eh!… Scappavano di notte, saltando il muro di cinta di fronte alla nostra casa”. Noi a volte ci accorgevamo, ma facevamo finta di nulla:   succedeva allora un parapiglia generale all’interno quando il fatto veniva scoperto. Tutto l’istituto veniva messo in subbuglio e rovistato da cima a fondo, dopo le suore diventavano ancora più severe”.

” Ma le suore erano le stesse che si occupavano anche delle orfanelle?”

Si si, erano le stesse. Solo che nella parte anteriore c’erano i laboratori dove le suore insegnavano alle ragazze a ricamare, a cucire, a fare il filet, lavorare all’uncinetto, a fare la  maglia e tutte erano occupate in questi lavori. Facevano dei lavori bellissimi che poi vendevano all’esterno”.

” Ci sei stata tante volte all’interno dell’istituto nonnina? ” –

domando vedendo che è più disposta a parlarmi delle orfanelle.

Si. Ci andavamo spesso. Ho anche conosciuto una ragazza che è cresciuta là dentro e che si è sposata ed ora ha una bella famiglia. . Aspetta……, ora ti faccio vedere una cosa.”

Così dicendo si alza e si dirige verso una cassapanca, ne toglie i vari portafoto che sono poggiati sul ripiano, piega perfettamente la tovaglietta di pizzo e apre stando attenta a fissarne l’apertura con un bastoncino di legno posto sul lato del baule.

Con movimenti lesti e sicuri cerca tra la biancheria e infine tira fuori un lenzuolo, lo spiega e m’invita ad ammirare: “guarda com’è bello ? Questa è la mia prima “portata ” . Mia madre l’ha comprata dalle suore, proprio dalle suore delle pentite. Vedi quanti punti differenti di ricamo ci sono? Questi, invece li ho ricamati io.” – mi dice compiaciuta indicandomi degli asciugamani di lino.

” Belli, sono veramente straordinari, – affermo sincera, – ed anche questi che hai fatto tu sono bellissimi”.

Osservo con meraviglia In effetti, sono lavorati proprio con maestria, sono veramente cose d’altri tempi! Sul lenzuolo ricamato in rilievo si legge ” Sempre Uniti “.

Lei vedendomi affascinata e stupita continua: ” eh! prima tutte le ragazze sapevano ricamare, io anche il filet so fare e continuo a farlo“. Così dicendo apre un sacchetto bianco appeso alla spalliera della sedia e mi fa vedere il lavoro di filet che sta portando a termine.

Prendo in mano con somma delicatezza la reticella che si srotola improvvisa tra le mie dita: “ dio, cosa ti ho combinato! ” esclamo dispiaciuta d’averle ingarbugliato il lavoro.

Non ti preoccupare, non è accaduto nulla, – mi rassicura tranquilla, poi lo riprende e rimettendolo a posto mi fa, quasi per scusarsi: ” sai, per non tenere le mani in mano(3

), mentre guardo la televisione lavoro un po’ ogni pomeriggio. EH! Purtroppo non posso lavorare molto, la vista non mi accompagna più tanto bene!”

La guardo con affetto mentre lei s’affretta a ripiegare e riporre le lenzuola e gli asciugamani. E’ veramente tenera la mia nonnina!

Ah! Dimenticavo di dirvi che ella ha 94 anni, vive da sola, e ogni tanto giusto per farsi una passeggiata va a comprare il pane in Piazza Sant’Oronzo: ” sapessi com’è buono il pane di quella panetteria! – mi dice, sorridendo soddisfatta.

 

Tessuti salentini

di Emilio Panarese

Spigolando nell’epistolario di mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto alla fine del ‘700, frammenti delle cui lettere abbiamo rinvenuto in una edizione di Nicola Vacca («Terra d’Otranto, fine ‘700-inizi ‘800, Bari 1966») e alcuni riferimenti nelle «Carte Capece-Lopez», che si conservano nella Biblioteca ‘Piccinno’ di Maglie (lettera spedita nel nov. del 1807 da Bartolomeo Ravenna al duca di Taurisano Antonio Lopez y Royo, marito di Francesca Capece), ci siamo fatta un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento: le felpe, le calze di ventinella di cotone sopraffino, lavorate a Galatina e a Taranto, le cravatte, i fazzoletti, i guanti, le coperte, i berrettini sfioccati, il pepariello, il barracano.
Si trattava di un artigianato nobilissimo, raffinatosi attraverso molti secoli, e che si distingueva soprattutto per la delicatezza e la rifinitura artistica dei prodotti.

pregiati tessuti salentini

Assai ricercate erano a Gallipoli le nostre pregiatissime, finissime e morbide mussoline, tessuti di cotone o di lana di oro e di argento, specialmente dai mercanti fiorentini, nel periodo dell’importante fiera del Canneto (2-8 luglio), in cui tutte le merci godevano di franchigia di dazi e di balzelli. Così a metà dell’800 cantavano i gallipolini: «Nini, nini, nini,/ mercatanti fiorentini,/ ci anu utandu pe lle fere/ anu ccattandu li musulini»/. In una lettera del 29 aprile 1797 Ferdinando IV scrive alla regina che da Gallipoli le porterà in dono ‘certe bellissime mussoline’.

“camisola” degli anni ’50 del secolo scorso. Manifattura neritina

Non meno celebri e richieste erano le cuperte azzate, cioè a rilievo, di Nardò (ma si lavoravano anche a Galatone e a Gallipoli), di tanto pregio, che se ne spedivano continuamente a Napoli, Genova, Roma, Milano, Livorno, in Inghilterra e in Russia. Per la confezione di ognuna occorreva più di un anno di lavoro. Venivano trattate con filo di bambagia il più delicato e il più sottile e tinte con dei succhi di radici e di erbe, dalle donne escogitate e da niuno nell’arte di tingere istruite.

Pure noti erano i mussolini di Lecce, detti turbanti, e il barracano di Muro Leccese (mantello grossolano tessuto con filo di pelo di capra).
Pregiata assai era inoltre nel ‘700 la ferrandina salentina (così chiamata dal luogo di origine in provincia di Matera), molto resistente all’uso, con cui si confezionavano soprattutto le camisciole, alias corpetti colle maniche, forse in origine importata nel Salento dai Domenicani. Era una pannina bianchissima (ma se ne faceva pure di altri colori) il cui ordito era di cotone fiore e la trama di lana gentile.

mutande femminili su pregiata coperta. Manifattura neritina anni ’30 del secolo scorso

Molto accorgimento e grande abilità richiedeva la preparazione della materia prima e della manifattura, nelle quali eccellevano sulle altre le donne di Nardò, Galatone, Galatina e Tricase.
Per la biancheria da tavola veniva invece usato il pepariello: un tozzo tessuto di cotone, detto pure a pipiriddu o a pipiceddu, cioè ad acini di pepe.

Anche i tessuti di bisso erano celebri e ricercati sin dall’antichità: a Taranto e in molti paesi della provincia di Lecce si confezionavano col fiocco della pinna nobilis. Coi filamenti del bisso (mollusco lamellibranco) lunghi fino a venti centimetri le gallipoline confezionavano con grande maestrìa dei tessuti detti “nebbie di lino” di estrema morbidezza e vaporosità, di bellissima vista e così pomposi di cui si servivano le più aristocratiche nobildonne del regno. Col bisso si preparavano anche calze finissime e guanti di lana pesce e berrettini sfioccati (che tanto piacevano a Ferdinando IV) superiori a quelli di castoro per leggerezza, morbidezza e durata. Se ne spedivano persino a Pietroburgo. Finissime erano pure le “cravatte”, di gran moda nel ‘700, cioè panni assai pregiati con cui le donne si coprivano le spalle.

copritavolo ad intaglio. Manifattura salentina degli anni ’70 del secolo scorso

E che dire infine degli ombrellini in pizzo bianco, a traforo e trasparenti, con motivi ornamentali o con ghirlande floreali di vario colore, o delle borsette in filigrana d’argento con cerniere finemente cesellate, degli eleganti ventagli di madreperla o di seta, indici di squisita eleganza, di buon gusto, di estrema raffinatezza? E che cosa dei ventagli di piume di struzzo con montatura di tartaruga o di osso e velo, strumenti di civetteria, d’istinti e di passioni, armi potenti nelle mani delle donne?
«Giove, re degli immortali,/ agli augelli ha dato le ali./ Alle donne – e non fu sbaglio -/ dié la lingua ed il ventaglio./»

In «Tempo d’oggi», II (15), 1975, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto

La scuola magliese dell’arte del ricamo

di Emilio Panarese

alto bordo, assai originale e ricco, detto “pupi e stelle”, arricchito a sua volta dai “bordini”, col particolare assai raro del “pupo guerriero” armato di spada

Oltre ad essere un importante centro di cultura e la città di maggiore commercio di tutta la regione del Capo, settant’anni fa Maglie era pure famosa per lo sviluppo dell’artigianato, ma soprattutto per i mobili d’arte, per gli apprezzati lavori di ferro battuto e per i pizzi e i merletti, rinomati in Italia e all’estero.
L’arte del ricamo, già verso la metà dell’800, era assai diffusa a Maglie tra le giovanette del popolo, ma la sua fortuna è legata alla fondazione della scuola d’arte applicata all’industria, quella scuola, una delle prime ad essere istituita nelle province meridionali, che, come sappiamo, fu voluta e creata da Egidio Lanoce. Le lezioni serali di disegno applicato ai merletti iniziarono nel maggio del 1905, quando fu istituita nella scuola, accanto alle sezioni maschili (ferro battuto, intaglio su legno, ebanisteria, scultura, plastica), che funzionavano già da venticinque anni, una sezione femminile, frequentata all’inizio, per un primo esperimento, che durò circa un mese, con ottimi risultati, solo da quattro alunne. Fu subito dopo la visita dell’ispettore E. Venezian, che approvò il progetto di trasformazione delle locande di via C. Vanini per i locali della scuola, che le lezioni serali di disegno applicato alla lavorazione delle trine e dei merletti si svolsero regolarmente.

 

particolare di tovaglia d’altare lavorata dalle alunne della “Regia scuola d’arte di disegno applicata al ricamo” (1906), diretta da Egidio Lanoce

Il primo anno, il 1906, la scuola fu frequentata da 28 giovanette (è di quell’anno la bellissima tovaglia dell’altare del SS. Sacramento della chiesa collegiata di S. Nicola); negli anni successivi, dal 1907 al 1914, da 40 alunne in media.
In seguito, un po’ per la scarsezza dei mezzi finanziari, un po’ per rendere possibile una maggiore partecipazione dei giovani dei corsi maschili, la sezione fu momentaneamente sacrificata. Ma venne ripristinata più tardi, quando venne trasferita nella sede più appropriata dell’Orfanotrofio Annesi-Capece, frequentato soprattutto da fanciulle della media borghesia, che lavoravano il traforo o “punto Maglie”, il “punto siciliano” o “a reticella”, il “traforo” e il “punto reale”, alternato, con tale mirabile precisione, con tale finezza di esecuzione, da lasciare ammirati.
Caratteristici sono i nomi dati ai diversi tipi di traforo (”a muliné”, “a panierino”, “a malota”, “a trifoglio”, “a quadrifoglio”, “ad s stella”, “ad ics”, “a margherita”, “a pupo stella”, “a puntina”) o ai legamenti del traforo (“gigliuccio”, “zippitelli”, “zippitelli a reta”, “zippitelli a maccarruni”, “a spaghetti”, “a sfilatino”, “a dentino”) e ai motivi ornamentali (di cui ricordiamo il “mustazzolu” a forma di rombo come il noto dolce, e i “punti sospesi” o “punti in aria”, detti comunemente “pirichilli”, che si ottengono con cinque o sei giri intorno all’ago e tirando il filo).

Un notevole sviluppo dell’arte del ricamo dette pure in quegli anni e nei successivi l’attiva e intelligente signora donna Carolina Starace De Viti-De Marco, che raccoglieva a Maglie, intorno a sé, oltre 150 ricamatrici, molte delle quali avevano frequentato i corsi serali di disegno. Neppure le mogli dei professionisti disdegnavano allora di dedicarsi, nelle ore libere, al ricamo, lavorando fino a tarda notte, per arrotondare lo stipendio del marito.

 

Dalle gentili mani delle ricamatrici magliesi uscirono lavori artistici del più fine gusto, che ebbero lusinghieri riconoscimenti in varie mostre e soprattutto in quelle di Roma e di New York, lavori pregevoli, riprodotti da antiche pergamene di varie biblioteche, come quelli che servirono per la figlia del celebre miliardario americano Morgan o come le estrose composizioni ornamentali, ideate da Egidio Lanoce, applicate ai lavori di trine, che pure furono fornite alla scuola di ricamo di Casamassella, diretta dalla stessa Starace, in cui lavoravano oltre cinquecento ricamatrici.
Oggi, purtroppo, questa nobile ed antichissima “arte dei merletti” (si pensi che a Lecce si insegnava alle fanciulle povere del Conservatorio di S. Leonardo sin dai tempi della dominazione spagnola, agli inizi del ‘600) è in piena crisi, non solo a Maglie in cui la esercitavano solo alcune ricamatrici anziane (Addolorata Lionetto, discepola della Starace, Rosina De Donno, Vincenza Sticchi, Maria Negro e poche altre), ma in tutto il Salento, come a Galatina, come a Nardò, che di questa nobile arte custodisce preziosi cimeli: arazzi e paliotti in broccato con ricami policromi in oro, di meravigliosa bellezza, di inestimabile valore.In «Tempo d’oggi», I(9), 1974

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