Tessuti salentini

di Emilio Panarese

Spigolando nell’epistolario di mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto alla fine del ‘700, frammenti delle cui lettere abbiamo rinvenuto in una edizione di Nicola Vacca («Terra d’Otranto, fine ‘700-inizi ‘800, Bari 1966») e alcuni riferimenti nelle «Carte Capece-Lopez», che si conservano nella Biblioteca ‘Piccinno’ di Maglie (lettera spedita nel nov. del 1807 da Bartolomeo Ravenna al duca di Taurisano Antonio Lopez y Royo, marito di Francesca Capece), ci siamo fatta un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento: le felpe, le calze di ventinella di cotone sopraffino, lavorate a Galatina e a Taranto, le cravatte, i fazzoletti, i guanti, le coperte, i berrettini sfioccati, il pepariello, il barracano.
Si trattava di un artigianato nobilissimo, raffinatosi attraverso molti secoli, e che si distingueva soprattutto per la delicatezza e la rifinitura artistica dei prodotti.

pregiati tessuti salentini

Assai ricercate erano a Gallipoli le nostre pregiatissime, finissime e morbide mussoline, tessuti di cotone o di lana di oro e di argento, specialmente dai mercanti fiorentini, nel periodo dell’importante fiera del Canneto (2-8 luglio), in cui tutte le merci godevano di franchigia di dazi e di balzelli. Così a metà dell’800 cantavano i gallipolini: «Nini, nini, nini,/ mercatanti fiorentini,/ ci anu utandu pe lle fere/ anu ccattandu li musulini»/. In una lettera del 29 aprile 1797 Ferdinando IV scrive alla regina che da Gallipoli le porterà in dono ‘certe bellissime mussoline’.

“camisola” degli anni ’50 del secolo scorso. Manifattura neritina

Non meno celebri e richieste erano le cuperte azzate, cioè a rilievo, di Nardò (ma si lavoravano anche a Galatone e a Gallipoli), di tanto pregio, che se ne spedivano continuamente a Napoli, Genova, Roma, Milano, Livorno, in Inghilterra e in Russia. Per la confezione di ognuna occorreva più di un anno di lavoro. Venivano trattate con filo di bambagia il più delicato e il più sottile e tinte con dei succhi di radici e di erbe, dalle donne escogitate e da niuno nell’arte di tingere istruite.

Pure noti erano i mussolini di Lecce, detti turbanti, e il barracano di Muro Leccese (mantello grossolano tessuto con filo di pelo di capra).
Pregiata assai era inoltre nel ‘700 la ferrandina salentina (così chiamata dal luogo di origine in provincia di Matera), molto resistente all’uso, con cui si confezionavano soprattutto le camisciole, alias corpetti colle maniche, forse in origine importata nel Salento dai Domenicani. Era una pannina bianchissima (ma se ne faceva pure di altri colori) il cui ordito era di cotone fiore e la trama di lana gentile.

mutande femminili su pregiata coperta. Manifattura neritina anni ’30 del secolo scorso

Molto accorgimento e grande abilità richiedeva la preparazione della materia prima e della manifattura, nelle quali eccellevano sulle altre le donne di Nardò, Galatone, Galatina e Tricase.
Per la biancheria da tavola veniva invece usato il pepariello: un tozzo tessuto di cotone, detto pure a pipiriddu o a pipiceddu, cioè ad acini di pepe.

Anche i tessuti di bisso erano celebri e ricercati sin dall’antichità: a Taranto e in molti paesi della provincia di Lecce si confezionavano col fiocco della pinna nobilis. Coi filamenti del bisso (mollusco lamellibranco) lunghi fino a venti centimetri le gallipoline confezionavano con grande maestrìa dei tessuti detti “nebbie di lino” di estrema morbidezza e vaporosità, di bellissima vista e così pomposi di cui si servivano le più aristocratiche nobildonne del regno. Col bisso si preparavano anche calze finissime e guanti di lana pesce e berrettini sfioccati (che tanto piacevano a Ferdinando IV) superiori a quelli di castoro per leggerezza, morbidezza e durata. Se ne spedivano persino a Pietroburgo. Finissime erano pure le “cravatte”, di gran moda nel ‘700, cioè panni assai pregiati con cui le donne si coprivano le spalle.

copritavolo ad intaglio. Manifattura salentina degli anni ’70 del secolo scorso

E che dire infine degli ombrellini in pizzo bianco, a traforo e trasparenti, con motivi ornamentali o con ghirlande floreali di vario colore, o delle borsette in filigrana d’argento con cerniere finemente cesellate, degli eleganti ventagli di madreperla o di seta, indici di squisita eleganza, di buon gusto, di estrema raffinatezza? E che cosa dei ventagli di piume di struzzo con montatura di tartaruga o di osso e velo, strumenti di civetteria, d’istinti e di passioni, armi potenti nelle mani delle donne?
«Giove, re degli immortali,/ agli augelli ha dato le ali./ Alle donne – e non fu sbaglio -/ dié la lingua ed il ventaglio./»

In «Tempo d’oggi», II (15), 1975, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto

La scuola magliese dell’arte del ricamo

di Emilio Panarese

alto bordo, assai originale e ricco, detto “pupi e stelle”, arricchito a sua volta dai “bordini”, col particolare assai raro del “pupo guerriero” armato di spada

Oltre ad essere un importante centro di cultura e la città di maggiore commercio di tutta la regione del Capo, settant’anni fa Maglie era pure famosa per lo sviluppo dell’artigianato, ma soprattutto per i mobili d’arte, per gli apprezzati lavori di ferro battuto e per i pizzi e i merletti, rinomati in Italia e all’estero.
L’arte del ricamo, già verso la metà dell’800, era assai diffusa a Maglie tra le giovanette del popolo, ma la sua fortuna è legata alla fondazione della scuola d’arte applicata all’industria, quella scuola, una delle prime ad essere istituita nelle province meridionali, che, come sappiamo, fu voluta e creata da Egidio Lanoce. Le lezioni serali di disegno applicato ai merletti iniziarono nel maggio del 1905, quando fu istituita nella scuola, accanto alle sezioni maschili (ferro battuto, intaglio su legno, ebanisteria, scultura, plastica), che funzionavano già da venticinque anni, una sezione femminile, frequentata all’inizio, per un primo esperimento, che durò circa un mese, con ottimi risultati, solo da quattro alunne. Fu subito dopo la visita dell’ispettore E. Venezian, che approvò il progetto di trasformazione delle locande di via C. Vanini per i locali della scuola, che le lezioni serali di disegno applicato alla lavorazione delle trine e dei merletti si svolsero regolarmente.

 

particolare di tovaglia d’altare lavorata dalle alunne della “Regia scuola d’arte di disegno applicata al ricamo” (1906), diretta da Egidio Lanoce

Il primo anno, il 1906, la scuola fu frequentata da 28 giovanette (è di quell’anno la bellissima tovaglia dell’altare del SS. Sacramento della chiesa collegiata di S. Nicola); negli anni successivi, dal 1907 al 1914, da 40 alunne in media.
In seguito, un po’ per la scarsezza dei mezzi finanziari, un po’ per rendere possibile una maggiore partecipazione dei giovani dei corsi maschili, la sezione fu momentaneamente sacrificata. Ma venne ripristinata più tardi, quando venne trasferita nella sede più appropriata dell’Orfanotrofio Annesi-Capece, frequentato soprattutto da fanciulle della media borghesia, che lavoravano il traforo o “punto Maglie”, il “punto siciliano” o “a reticella”, il “traforo” e il “punto reale”, alternato, con tale mirabile precisione, con tale finezza di esecuzione, da lasciare ammirati.
Caratteristici sono i nomi dati ai diversi tipi di traforo (”a muliné”, “a panierino”, “a malota”, “a trifoglio”, “a quadrifoglio”, “ad s stella”, “ad ics”, “a margherita”, “a pupo stella”, “a puntina”) o ai legamenti del traforo (“gigliuccio”, “zippitelli”, “zippitelli a reta”, “zippitelli a maccarruni”, “a spaghetti”, “a sfilatino”, “a dentino”) e ai motivi ornamentali (di cui ricordiamo il “mustazzolu” a forma di rombo come il noto dolce, e i “punti sospesi” o “punti in aria”, detti comunemente “pirichilli”, che si ottengono con cinque o sei giri intorno all’ago e tirando il filo).

Un notevole sviluppo dell’arte del ricamo dette pure in quegli anni e nei successivi l’attiva e intelligente signora donna Carolina Starace De Viti-De Marco, che raccoglieva a Maglie, intorno a sé, oltre 150 ricamatrici, molte delle quali avevano frequentato i corsi serali di disegno. Neppure le mogli dei professionisti disdegnavano allora di dedicarsi, nelle ore libere, al ricamo, lavorando fino a tarda notte, per arrotondare lo stipendio del marito.

 

Dalle gentili mani delle ricamatrici magliesi uscirono lavori artistici del più fine gusto, che ebbero lusinghieri riconoscimenti in varie mostre e soprattutto in quelle di Roma e di New York, lavori pregevoli, riprodotti da antiche pergamene di varie biblioteche, come quelli che servirono per la figlia del celebre miliardario americano Morgan o come le estrose composizioni ornamentali, ideate da Egidio Lanoce, applicate ai lavori di trine, che pure furono fornite alla scuola di ricamo di Casamassella, diretta dalla stessa Starace, in cui lavoravano oltre cinquecento ricamatrici.
Oggi, purtroppo, questa nobile ed antichissima “arte dei merletti” (si pensi che a Lecce si insegnava alle fanciulle povere del Conservatorio di S. Leonardo sin dai tempi della dominazione spagnola, agli inizi del ‘600) è in piena crisi, non solo a Maglie in cui la esercitavano solo alcune ricamatrici anziane (Addolorata Lionetto, discepola della Starace, Rosina De Donno, Vincenza Sticchi, Maria Negro e poche altre), ma in tutto il Salento, come a Galatina, come a Nardò, che di questa nobile arte custodisce preziosi cimeli: arazzi e paliotti in broccato con ricami policromi in oro, di meravigliosa bellezza, di inestimabile valore.In «Tempo d’oggi», I(9), 1974

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