Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (III ed ultima parte)

di Davide Elia

Lo sbarco in Salento

Almeno inizialmente, quindi, la flottiglia russo-turca dovette cambiare il piano di sbarco: anziché alla costa di Brindisi, si avvicinò a quella di Lecce, città ormai ritornata saldamente all’obbedienza ai Borbone. Emanuele Buccarelli, reazionario leccese autore di una cronaca di quegli anni, riferisce di una delegazione composta da “due ufficiali moscoviti”, scesi a terra per portare alla città un proclama di re Ferdinando (naturalmente redatto da Micheroux). Essi si intrattennero fino a sera in casa del sindaco e furono informati che dopo soli sei giorni di occupazione Brindisi era stata frettolosamente evacuata dal contingente francese, probabilmente richiamato in Italia settentrionale per essere impiegato in altri scenari bellici. I due russi tornarono per imbarcarsi “al porto di San Cataldo nel quale v’erano quattro grossissime navi di guerra moscovite e turche e queste stavano sette miglie dentro il mare”. Il 18 aprile la spedizione alleata entrò nel porto di Brindisi.

Tuttavia, non tutte le notizie di quel giorno risultarono gradite a Micheroux: l’imbarcazione tripolina, che già poco dopo la partenza da Corfù si era distaccata dal resto della squadra, l’aveva preceduta a Brindisi di un giorno. Trovatala abbandonata dai francesi, aveva saccheggiato la fortezza cittadina e vi aveva issato la bandiera ottomana, confermando le preoccupazioni iniziali per la possibile condotta di quell’equipaggio e per le conseguenze sul morale delle popolazioni pugliesi.

Ad ogni modo, vennero sbarcati 40 russi, 20 napoletani e 10 turchi, che presero possesso del forte. Ben magra guarnigione rispetto alle mirabolanti promesse dei comandanti russo e turco e delle rispettive diplomazie!

Addirittura Sorokin si affrettò tornare subito indietro a Corfù con il pretesto di voler organizzare l’invio di nuovi e più consistenti rinforzi. Micheroux acconsentì a seguirlo solo a patto che anche i tripolini lasciassero la città insieme a loro, per scongiurare l’eventualità di ulteriori spoliazioni.

Non sapevano, Micheroux e Sorokin, che da Corfù era nel frattempo partita un’altra squadra di sei imbarcazioni che condizioni di tempo avverso avevano però costretto a ripararsi a Otranto.

Probabilmente fu da queste navi che sbarcarono i 150 turchi che il 22 aprile giunsero a Lecce. Narra Buccarelli: “Il corpo tutto della nostra città cioè il Sig. Sindaco e tutti li signori deputati per riceverli l’uscirono avanti colle carrozze infino alla Terra di Caballino, d’unita con più soldati a cavallo, portando anche con loro una scelta e sontuosa banda composta di trombe, grancascia, tamburri, fischietti, piattini ed acciarini, quale era cosa bellissima a sentirla. Furono onorevolmente e con amore grande ricevuti da tutto il popolo leccese, che loro ne rimasero confusi. Li fecero poi entrare dalla porta di Rugge e camminare per una buona porzione della città per essere quelli da tutto il popolo veduti e passando dalla Piazza della città nostra si fece fare un lunghissimo sparo di mortari e nell’entrare che fecero nel castello dove s’era situata la di loro residenza, anche si fece lo stesso”. In sostanza, i turchi nemici della fede e secolare minaccia delle popolazioni salentine venivano ora accolti in città tra i festeggiamenti come salvatori della causa del re e della religione cristiana!

Si fece poi un bando perché nessuno dei negozianti locali vendesse sostanze alcoliche ai turchi, i cui comandanti temevano che la propria truppa trasgredisse la relativa prescrizione dell’islam. Timori fondati, peraltro: già il giorno seguente, mentre i due ufficiali turchi più alti in grado facevano insieme al sindaco il giro della città in carrozza gettando monete di rame al popolino, una parte della truppa si disperdeva nelle taverne ad ubriacarsi. I colpevoli, che pare fossero una ventina, vennero condotti al castello e lì incatenati e “bacchettati sotto i piedi” per punizione. L’indomani la stessa delegazione, ancora tra carrozze, fanfare e distribuzione di monetine, venne ricevuta dai canonici del seminario. “Le battuglie di turchi continuamente si vedono camminare per la città, l’istessi sono uomini umani e aggarbati con tutta la gente, innamorati e amantissimi assai dei fiori, che sempre ne vanno pieni”, riferisce il Buccarelli, ancora grato agli occupanti che stavano garantendo l’ordine realista.

Divisa di fante ottomano dei primi dell’800.

 

Da Corfù, dopo essersi abboccato con i due comandanti russo e turco e averne ricevuto le solite strabilianti promesse di rinforzi per il futuro prossimo, Micheroux tornò a Brindisi praticamente con la stessa squadra navale della prima volta, arricchita di un solo ulteriore vascello russo. La flotta, giunta a Brindisi il 31 aprile, si ricongiunse con quella che inizialmente si era riparata a Otranto. Il capitano del presidio lasciato precedentemente in città aveva spedito 30 dei suoi uomini a Lecce “per rallegrare colla loro vista quegli abitanti”.

A Brindisi Micheroux ricevette la visita di Tommaso Luperto, il preside (oggi diremmo prefetto) della provincia di Terra d’Otranto, nominato l’8 marzo precedente da Boccheciampe e De Cesari. Luperto aveva fama di persecutore di giacobini tanto implacabile quanto ottuso. Il preside richiedeva truppe russe da destinare a Lecce, ma Micheroux, che non nutriva né stima né fiducia in questo individuo, si limitò a raccomandargli moderazione nella sua opera di repressione. A Lecce giunsero invece alcune ulteriori decine di turchi, sbarcati in precedenza a Taranto. Giunsero poi anche ambasciatori russi per conferire con Luperto, seguiti, l’indomani, 3 maggio, da 35 soldati di truppa. Fu questo il primo contingente russo a fare ingresso a Lecce: incontro a loro uscì “tutto il corpo dei nostri soldati […] con una bella e soave banda composta di grancassa, tamburri, fischietti, piattini, acciarini e trombe, che facevano una grata melodia; così accompagnati entrarono e camminarono una buona parte della nostra città con un infinito concorso di popolo leccese”. Il 13 maggio giunsero in città alcuni alti ufficiali russi che, ricevuti dal Luperto, furono poi alloggiati nel seminario, dove erano già acquartierati i loro soldati. Il 16 fu la volta di una delegazione di ufficiali turchi, al solito ricevuti con fanfare e grande partecipazione di popolo.

Al di là delle apparenze, è lecito immaginare che fu diverso lo stato d’animo con cui i due contingenti vennero accolti: i russi erano mediamente più disciplinati e risultavano sicuramente più rassicuranti agli occhi delle popolazioni nostrane, se non altro per l’affinità esistente dal punto di vista religioso. Così Micheroux descrisse i soldati moscoviti: “Stature gigantesche, bel disegno di membra, spalle vastissime, fisonomie virili non senza dolcezza. Questi bellissimi uomini sono estremamente sobri, ubbidienti, disciplinati, imperterriti nel combattere, senza la menoma alterazione di animo nel maggior calore dell’azione. Gli ho veduti servire i cannoni; gli ho veduti imbarcarsi per andare all’assalto con quell’istessa pace e serenità di volto che loro è propria. Sembra che possa farsi di loro ciò che si voglia, e basta vederli per accertarsi che non può darsi caso in cui sapessero retrocedere. La loro ubbidienza verso chi li comanda è senza esame. […]. In quanto alla robustezza è tale che sgomenta. […] Dicesi che i soldati russi, lontani dagli occhi dei loro ufficiali, si permettono non già di rubare, ma di chiedere ai cittadini ciò di cui si sentono voglia e bisogno. Ma non ho potuto aver di ciò la pruova, e d’altronde fui assicurato che essendo accusati ai capi, vengon severamente puniti. Il vero si è che in tutte le isole del Levante sono adorati, e che hanno il doppio merito di aver liberati gli abitanti dalla tirannia dei francesi, e di esser loro uno scudo contro la licenza degli albanesi e dei turchi loro alleati”.

 

 

Il 23 maggio, invece, Buccarelli scriveva di continue intemperanze da parte turca: molti soldati circolavano in preda all’ubriachezza, attentando all’onore delle donne in città e all’incolumità degli abitanti delle masserie circostanti. Cinque prostitute locali vennero arrestate per essersi intrattenute con militi turchi ed aver trasmesso loro il “morbo gallico”, ossia la sifilide. La coesistenza dei due contingenti alleati non era sempre pacifica: “Per esser queste due Nazioni moscovita e turca anticoniste tra loro, in ogni poco tempo sortisce qualche piccola briga tanto nella piazza quanto nelle pubbliche strade di questa città”.

Uniformi dell’esercito russo intorno al 1790.

 

Il 26 maggio giunsero in città di altri 40 turchi provenienti da Otranto. Il 30 maggio i soldati russi scortarono la tradizionale processione del Corpus Domini.

Più a nord, l’armata del cardinale Ruffo faceva grandi progressi e, dopo aver risalito la Calabria, dilagava in Lucania. De Cesari raggiunse il cardinale a Matera il 7 maggio e da lì concertarono l’assalto ad Altamura, roccaforte della causa repubblicana. Sulla città sconfitta si scatenò la violenza sanfedista: Altamura venisse barbaramente saccheggiata senza che il cardinale facesse molto per porre un freno alle sue truppe. La coppia reale, da Palermo, si rallegrò e complimentò con Ruffo per l’efferata impresa compiuta. La morsa intorno alla capitale andava stringendosi di giorno in giorno. Il 1° giugno 90 turchi partirono da Lecce alla volta di San Vito degli Schiavi (oggi dei Normanni); in città ne restarono altri 80 circa. Il 3 partirono tutti i russi, diretti a ingrossare le file di un contingente di 450 uomini complessivi da radunare a Manfredonia (al loro seguito era anche Micheroux). Il 16 fu la volta di oltre 100 veterani leccesi, diretti a prendere parte alla presa di Napoli. Non sapevano che questa era già stata riconquistata dai sanfedisti il 13 giugno, poiché la notizia giunse a Lecce solo il 26.

Tela raffigurante l’abbattimento dell’albero della libertà a Napoli in occasione della caduta della Repubblica Napoletana. Si notino le bandiere tricolori blu-rosso-gialle, vessillo della repubblica.

 

Terminò così quel periodo di presenza russa a Lecce (che però, come vedremo, non fu l’ultimo), mentre un contingente di turchi restò a dare man forte a Luperto nella sua caccia senza quartiere ai giacobini. In alcuni frangenti i soldati turchi, anziché garantire l’ordine pubblico, sembrarono fare causa comune con la folla inferocita che, all’occasione, cercava di fare giustizia sommaria di alcuni giacobini arrestati, a stento trattenuta dall’intervento delle milizie locali.

In quell’estate del 1799 continuarono a transitare da Lecce alti ufficiali e diplomatici ottomani: sbarcavano a Otranto e, diretti a Napoli, facevano tappa in città risiedendo nel castello che già ospitava le truppe dei loro connazionali. In occasione dei festeggiamenti per Sant’Oronzo, all’interno del castello vennero allestite delle luminarie sulle quali campeggiavano lo stendardo borbonico e quello ottomano. Il giorno dopo, sempre all’interno del castello, i soldati turchi si cimentarono in una sorta di gioco della cuccagna.

La partenza dei turchi ebbe infine luogo il 16 ottobre: le truppe lasciarono Lecce alla volta di Brindisi, dove si imbarcarono per l’Oriente. Sorprende come il giudizio dell’opinione pubblica nei loro confronti fosse radicalmente mutato rispetto all’epoca del loro arrivo: salutati sulle prime come salvatori dell’ordine sociale e della dinastia, ora nel diario di Buccarelli venivano definiti “bestie”, “inzolenti, senza disciplina, senza cervello e senza raggione”, violentatori di “moltissime oneste donne”, ladri di frutta e di “fronde di tabacco secche per fumare”, sia in città sia nelle campagne circostanti. Oltre a queste ruberie extra, il loro mantenimento ordinario aveva rappresentato già di per sé un notevole carico per la popolazione locale, pare intorno ai 50 ducati al giorno. Buccarelli conclude però che, pur avendo cagionato così terribili disagi, quelle truppe avevano garantito al Salento protezione da “moltissimi mali e guai” ulteriori.

Curiosamente, pare che due “turchi” riuscissero a disertare e a sottrarsi al rimpatrio, poiché in realtà si trattava di due salentini che erano stati rapiti in tenera età e convertiti a forza all’islam. Sfruttarono la ghiotta occasione di essere stati destinati al servizio proprio in Terra d’Otranto per tornare a casa e riacquistare finalmente la libertà. Pare che uno dei due, in particolare, fosse originario di Monteroni e venisse infine battezzato nella Cattedrale di Lecce il 7 giugno 1800.

I mesi invernali a cavallo tra il 1799 e il 1800 furono contraddistinti dalla feroce repressione verso gli esponenti di parte repubblicana e da una situazione di generale miseria: “Li furti si sentono spesso finanche vicino alle porte della città. Il denaro è scarsissimo e la fadica manca”.

 

Ancora truppe russe in città

Il 19 marzo 1800 sbarcarono a Otranto altri 2000 soldati russi. Ancora una volta, i venti non avevano consentito loro lo sbarco a Brindisi. Il 23 marzo fecero il loro ingresso a Lecce, alloggiati tra il castello e diversi monasteri della città. Il quartier generale venne posto presso il convento dei Teresiani Scalzi, edificio che fa ancora bella mostra di sé lungo via Libertini. Il comandante del contingente fu ospite del preside Luperto, mentre Micheroux, che da Napoli era tornato a Brindisi, venne anch’egli a Lecce e fu ospitato dal marchese Palmieri.

Da parte di molti cittadini illustri fu richiesto alle truppe russe di “esibirsi” in esercitazioni militari fuori le mura e questo avvenne il 28 nello “spazio di Santa Maria di Ogni Bene” (quindi nei pressi del convento degli Agostiniani). Per tre ore e mezzo seicento soldati eseguirono le manovre sotto gli sguardi curiosi ed entusiasti di nobili e popolo.

In quegli stessi giorni apparve evidente che tra le truppe russe serpeggiava un’epidemia: da Otranto giunsero una novantina di infermi che, sommati a quanti già si trovavano a Lecce, fecero ascendere a 128 il numero dei soldati moscoviti ricoverati nell’ospedale cittadino. Si cominciarono a contare anche i morti, che furono quattro tra il 29 marzo e il 17 aprile. I funerali venivano officiati nella Chiesa Greca, seguendo un suggestivo rituale descritto nei dettagli da Buccarelli: “La processione era questa. Prima un soldato Moscovita andava avanti, e portava la croce, dopo veniva un chierico che portava l’incenziero in mano; di poi seguivano pontificalmente vestiti il parroco greco ed il loro cappellano, con un altro di loro soldato veterano, il quale portando un libro in mano andava cantando ad alta voce col di loro cappellano, ed il prete greco. Dopo di questi veniva il defonto in una cassa condotta da quattro soldati della sua Nazione, e dopo di questi venivano ad accompagnarlo da circa venti soldati a due a due portando tutti l’armi al funerale, col tamburro e clarinetta tutti scordati. Arrivato in chiesa il cadavere si fecero dalli due sacerdoti greci d’unita col sopraddetto soldato veterano li funerali, e pria di inchiodare la sopra detta cassa del defunto tutti quelli soldati li baggiarono la bocca del defonto; di poi dal cappellano loro li fu sparsa una branca di ferro al defonto, fu inchiodata la cassa, e fu sepolto; in questo atto tutti quanti i soldati fecero la di loro scarica dell’armi e se ne andietero”. Per tutti e quattro i militi morti la sepoltura venne effettuata nella Chiesa Greca di Lecce.

Scena di funerale russo del XIX secolo.

 

Gli sbarchi di russi a Otranto non si fermavano: il 31 marzo giunse a Lecce un altro contingente. A Buccarelli la truppa parve “onorata”, temprata da ferrea disciplina: “l’officiali di essa sono troppo riggidi, e crudeli; anzi barbari ed inumani inclinati troppo alla ferocità; che a ogni frivolissima mancanza di un povero soldato li fanno consegnare 300, ed 800 lignate a spalle ignute, e senza pietà, e carità […]”.

Al tempo stesso le truppe, riunite e riorganizzate, riprendevano velocemente la marcia verso altre mete: il 3 aprile la quasi totalità dei russi lasciò Lecce, chi disse che fossero diretti a Napoli, chi a Palermo. Non si mossero però i 40 infermi ancora ricoverati presso l’ospedale e per assisterli restarono anche un ufficiale, un chirurgo e alcuni uomini di truppa. Una volta ristabilitisi, il 21 luglio quasi tutti ripartirono per Napoli; restarono ancora a Lecce un ufficiale affetto da idropisia e un soldato non ancora guarito, e inoltre il chirurgo e un altro militare addetti alle loro cure. L’ufficiale sarebbe infine morto l’8 agosto.

Furono questi gli ultimi russi ad abbandonare, in un modo o nell’altro, la città. Una presenza che non lasciò ricordi profondi per la sua breve durata e che, in ogni caso, per le popolazioni risultò molto più sopportabile di quella ottomana. Sicuramente suscitarono ammirazione e curiosità l’aspetto di quei militi venuti dal freddo, la loro rigida disciplina e i loro peculiari cerimoniali religiosi.

 

Le occupazioni militari non si fermano…

In quel periodo di guerre e rivoluzioni, non fu quella l’ultima presenza di truppe straniere in Salento. Presto sarebbero tornati i francesi. Potremmo anche concludere qui, dicendo che questa è un’altra storia, ma sarà bene riassumerne anche solo sommariamente gli aspetti principali, per coglierne analogie e differenze con la precedente occupazione russo-turca.

Già alla fine dell’aprile 1801, in seguito alla pace di Firenze tra il re di Napoli e Bonaparte che prevedeva lo stanziamento di truppe francesi a Pescara e in Terra d’Otranto per un anno a spese dei Borboni e l’amnistia per i “rei di Stato” del 1799, sbarcarono a Taranto le prime truppe francesi. L’occupazione francese di Lecce e della sua provincia si protrasse fino a giugno 1802: “L’estorsioni, sevizie, ed oppressioni fatte […] a questa nostra città sono state grandissime e moltissime”, scrive Buccarelli. Ritornarono nuovamente nel luglio 1803, seguiti nel dicembre da “truppa gesarpina e polacca”. “Gesarpina”, ossia cisalpina, designava una milizia proveniente dall’omonima repubblica dell’Italia settentrionale: Buccarelli, con un certo disprezzo, la dice composta da “veneziani, genovesi, romani, siciliani, napoletani, leccesi e di molte altre nazioni, quali nel tempo delle rivoluzioni si son ribellati, quali poi scappati dalla galera, quali dalle carceri, chi per omicidi, chi per furti, ed altri delitti commessi si sono poi rifuggiati per sfuggire il castigo dei loro rispettivi Sovrani sotto la bandiera francese”. Numerosi (svariate centinaia) al seguito dei francesi furono anche i polacchi, che ai cittadini leccesi in quel momento sicuramente ricordarono nell’aspetto gli occupanti russi di pochi anni prima.

Uniformi della Repubblica Cisalpina.

 

Quella seconda occupazione si concluse nell’autunno del 1804, in seguito a un nuovo accordo tra Bonaparte e Ferdinando IV. Presto i francesi sarebbero tornati ancora, questa volta più stabilmente, spodestando il Borbone e governando il Regno di Napoli per dieci anni.

Tornando al presente, e guardando alla nostra regione oggi così pacifica e accogliente, non possiamo non leggere con un certo sollievo e distacco quei fatti, ormai sepolti sotto la polvere dei secoli. Eventi che dipingono un Salento sotto il flagello di divisioni violente, di occupazioni straniere, di saccheggi, di governanti dispotici e di oppressione e miseria. Un quadro desolante che non ci appartiene più, ma che continua ad essere lo scenario quotidiano per le popolazioni inermi travolte dai tanti conflitti che ancora oggi scoppiano in angolo del mondo. Nulla ha imparato l’umanità dalle tragedie del passato e in particolare da quel “Secolo dei Lumi” di cui abbiamo parlato, il secolo in cui Voltaire condannava la guerra come un mostro voluto da “tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi e ministri, il suo scopo principale è “fare tutto il male possibile”.

 

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

Bibliografia essenziale

E. Buccarelli, “Cronache leccesi ossia libro di memorie (1711-1807)” (a cura di N. Vacca), Lecce, 1933

A. Dumas, “I Borboni di Napoli”, Napoli, 1862

B. Maresca, “Il cavaliere Antonio Micheroux nella reazione napoletana del 1799”, Napoli, 1895

P. Palumbo, “Risorgimento Salentino”, Lecce, 1911

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (II parte)

di Davide Elia

 

Il Salento e la Repubblica

Quali erano stati in Terra d’Otranto gli effetti di tutti quei rivolgimenti? La notizia della proclamazione della repubblica a Napoli giunse a Lecce con la posta dell’8 febbraio. Il giorno dopo fu eretto l’albero della libertà in piazza Sant’Oronzo. In numerosi centri del Salento si ebbero analoghi festeggiamenti e manifestazioni di carattere anti-borbonico.

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

L’infatuazione repubblicana ebbe però vita breve: già l’indomani si erano spase voci di presunti prodigi compiuti da svariate immagini sacre in tutta la provincia, ricondotti dalla credulità popolare ad un moto di disgusto da parte del divino nei confronti del nuovo regime ateo e giacobino. Tra questi, il clamoroso segno dato dalla statua di Sant’Oronzo che, si disse, dall’alto della sua colonna aveva deciso voltarsi sdegnosamente per distogliere lo sguardo dall’albero della libertà. Questo bastò a provocare una sollevazione popolare che abbatté l’albero e ripristinò a Lecce l’obbedienza alla monarchia. Violento fu l’accanimento su coloro che in città erano stati i protagonisti dell’effimera proclamazione della repubblica.

 

Una sceneggiata ben riuscita

In quegli stessi giorni stava iniziando la singolare, per certi versi inverosimile impresa di un gruppo di avventurieri corsi. Una vicenda così grottesca da essere ripresa innumerevoli volte da storici e narratori; pertanto qui ci limiteremo a riassumerne soltanto i contorni principali. Erano sette poco di buono che avevano abbandonato la Corsica, ormai possedimento della Francia rivoluzionaria, per sfuggire alla giustizia e si erano dapprima stabiliti a Napoli, dove avevano abbracciato la causa legittimista. Tra di loro, spiccarono i nomi di Giovan Battista De Cesari, domestico, Francesco Boccheciampe, soldato disertore, e Raimondo Corbara, vagabondo. I sette si erano poi portati in Puglia per scortare fino all’Adriatico due principesse francesi di sangue reale che cercavano un imbarco per Palermo per fuggire dalla rivoluzione. Proprio in Puglia essi decisero di trattenersi in cerca di fortuna. Mentre erano di passaggio a Monteiasi, nacque per la prima volta tra il popolo la diceria che si trattasse di un gruppo di aristocratici. Poco dopo, il 14 febbraio, in una Brindisi in rivolta contro l’effimero governo repubblicano, Corbara venne scambiato per il principe ereditario (il futuro re Francesco I), a causa di una lontana somiglianza. Constatato l’entusiasmo che la presenza del presunto principe aveva suscitato in città e i vantaggi che avrebbe potuto portare alla causa legittimista mettendo a frutto la credulità delle masse, questa sceneggiata fu subito salutata con favore e sostenuta con convinzione dalla fazione realista. L’equivoco fu ulteriormente alimentato stabilendo che Boccheciampe e De Cesari si sarebbero a loro volta fatti passare rispettivamente per il fratello del Re e per il Duca di Sassonia. I corsi si spartirono anche compiti operativi per l’immediato: De Cesari e Boccheciampe, presentandosi con il titolo di “Incaricati di Sua Maestà”, avrebbero agito per il ristabilimento dell’ordine nella provincia, mentre Corbara, per evitare di restare troppo a lungo a Brindisi con il rischio di essere smascherato, si sarebbe recato a Corfù, dove era presente una squadra navale russa, per richiederne l’intervento contro la repubblica.

Imbarcatosi da Otranto il 19 febbraio, il Corbara non raggiunse mai l’altra sponda dell’Adriatico, poiché la sua imbarcazione fu catturata dai pirati barbareschi. Condotto in prigionia, fu infine liberato in Sicilia per intercessione degli inglesi e non prese più parte alle vicende di Terra d’Otranto.

Intanto, Boccheciampe e De Cesari capitanavano la controrivoluzione nel brindisino, reclutando milizie volontarie e intervenendo nei vari centri in cui scoppiavano sommosse popolari avverse alla repubblica. In quei giorni in Puglia non era ancora giunto un solo soldato francese.

 

Russi e Turchi alla presa di Corfù

Dicevamo che Corbara avrebbe voluto raggiungere Corfù per abboccarsi con i russi. In quel momento, l’antica fortezza veneziana dell’isola, ora in mano francese, era infatti assediata dalle forze coalizzate di Russia e Impero Ottomano, le cui squadre navali erano comandate, rispettivamente, dagli ammiragli Ushakov e Kadir bey. Il sultano era in guerra con la Francia poiché questa aveva attaccato l’Egitto, suo possedimento nominale. Per lo zar, invece, il casus belli era stato l’espulsione da Malta dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, di cui era formalmente il Gran Maestro, operata da Napoleone di passaggio sulla via dell’Egitto. Il Regno di Napoli aveva sottoscritto un’alleanza con la Russia già nel novembre precedente, e con l’Impero Ottomano a gennaio.

Pianta delle fortificazioni veneziane di Corfù nel 1780..

 

Il 15 febbraio da Palermo era partito per Corfù anche Antonio Micheroux, plenipotenziario di Ferdinando IV, di origini fiamminghe. Era stato incaricato dal sovrano di ottenere l’invio di un contingente russo per sedare possibili rivolte a Messina, la città siciliana maggiormente sospettata di covare malcontento verso la dinastia. Maria Carolina fantasticava l’invio di “almeno 3 mila russi a Messina, e poi gli altri faranno il loro sbarco sia in Puglia o in Calabria”; tuttavia da questi dovevano essere “esclusi i cosacchi, turchi, greci, albanesi non arregimentati”, ritenuti inaffidabili perché pericolosamente indisciplinati. Alle istruzioni che aveva fornito a Micheroux, però, il re aggiungeva che, definito l’accordo per il contingente da destinare a Messina, si sarebbe potuto chiedere ai russi ed anche ai turchi di inviare ulteriori truppe sul continente per combattere i francesi, e in quel caso sarebbe stato sufficiente “un grosso corpo di truppa di qualunque nazione, sia regolata, sia irregolata”. Sarebbe a dire che Ferdinando non badava a scrupoli pur di ottenere la riconquista del regno, incurante di far patire alle popolazioni l’invasione di soldatesche straniere, anche irregolari e pronte al saccheggio, e per di più appartenenti al nemico secolare, il Turco. Ricordiamo che ancora per tutto il secolo XVIII il meridione d’Italia era stato ancora funestato da incursioni piratesche provenienti da basi situate in territori nominalmente soggetti al sultano di Costantinopoli.

Giunto a Corfù, Micheroux dovette mestamente constatare la poca consistenza delle forze alleate che fronteggiavano i 3000 francesi asserragliati sull’isola. Sulle navi erano infatti presenti soltanto 1800 russi e, da parte ottomana, 3000 albanesi. Questi erano sudditi del noto Ali Pascià, governatore di Giannina che sarebbe passato alla storia per la sua ribellione al sultano nel 1820, ma che già in quel 1799 non faceva mistero di preferire una condotta autonoma e addirittura non mancava di manifestare simpatia per i francesi e per le idee di cui erano portatori.

L’ammiraglio russo Ushakov.

 

L’emissario borbonico prese atto delle accuse reciproche degli alleati: i turchi rimproveravano a Ushakov, cui spettava il comando congiunto, una certa inazione; l’ammiraglio russo, di contro, si lagnava per il mancato arrivo di consistenti truppe albanesi di rinforzo, promesse con la consueta leggerezza dagli ottomani. Dopo innumerevoli rinvii, reticenze e reciproci sospetti tra gli alleati, l’assalto a Corfù venne dato il 1° marzo. Un efficace cannoneggiamento dalle navi consentì poi lo sbarco delle truppe, che in breve ottennero la capitolazione della guarnigione francese: mentre i russi combatterono lealmente e risparmiarono i nemici che si arrendevano, le milizie ottomane compirono una carneficina (“mozzano il capo indistintamente ai morti, ai feriti e ai vivi”).

L’atteso sblocco delle operazioni che sarebbe dovuto seguire alla presa di Corfù non fu né immediato, né consistente come sperato. Micheroux si adoperava perché le due flotte si presentassero davanti alle coste pugliesi per infondere coraggio nelle città di fede realista (e in tal senso giungevano a Corfù richieste da comuni pugliesi come Trani, Brindisi, Lecce e Otranto), prima di proseguire alla volta di Messina. Nulla però era ancora deciso allorché Micheroux, il 10 marzo, ripartì per Palermo, dove arrivò il 19 successivo. In Sicilia l’inviato ebbe modo di comprendere che la corte borbonica non era affatto interessata allo sbarco in Salento di truppe turco-russe, che avrebbero dovuto essere unicamente impiegate per la riconquista di Napoli; nessuna rilevanza veniva data alle province pugliesi, per le quali sarebbe bastata un’azione dimostrativa della flotta di fronte alla costa.

A Micheroux, tornato nuovamente a Corfù il 9 aprile, Ushakov fece tuttavia sapere che un trasporto di truppe via mare fino a Napoli sarebbe stato troppo dispendioso e la via più ragionevole da seguire sarebbe stata piuttosto quella di uno sbarco sulle coste pugliesi e una prosecuzione della marcia via terra.

Il 13 aprile partì una squadra navale composta da 5 legni: una corvetta e due fregate russe, una corvetta e un brik tripolino, quest’ultimo praticamente un’imbarcazione pirata e, come tale, “regalo” che Micheroux trovò alquanto indigesto. A bordo, sotto il comando del commodoro Aleksandr Sorokin, erano trasportati 250 soldati russi, un numero non inferiore di marinai e 10 cannoni.

Durante la navigazione, la squadra incrociò un’imbarcazione di emissari otrantini, i quali portarono la notizia della caduta di Brindisi ad opera di una spedizione francese partita da Ancona. Boccheciampe, che aveva guidato la difesa della città, era stato preso prigioniero e da quel momento di lui si persero per sempre le tracce.

(continua)

per la I parte vedi:

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Liborio Romano e Sigismondo Castromediano

LIBORIO ROMANO NEI RICORDI DI SIGISMONDO CASTROMEDIANO

(in appendice segue la trascrizione del testo manoscritto del Castromediano)

di Maurizio Nocera

Sulla provenienza del manoscritto

Il 30 settembre 1980, lo storico gallipolino Domenico (Mimì) De Rossi (Gallipoli, 17 agosto 1911 – estate 1981) faceva richiesta alla presidenza della Società di Storia Patria per la Puglia (Bari) della

«costituzione in Gallipoli di una sezione della Società, facendo presente che Gallipoli, antica città marinara, ha un prezioso patrimonio storico-culturale mai finora messo in luce tranne saltuari studi a carattere vario [… Lo scrivente], già iscritto all’albo dei giornalisti, [afferma di avere] cinquant’anni di attività pubblicistica, avendo pubblicato 33 monografie riguardanti il Salento, particolarmente in campo storico-economico».

Questo documento, firmato dallo storico locale e da altri sei giovani studiosi della città, era indirizzato al giudice Donato Palazzo, in quel momento Procuratore della Repubblica per il Tribunale dei Minori di Lecce e Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia che, una volta costituita la sezione gallipolina, divenne il primo Commissario.

Durante gli anni 1978-79, ancor prima di formulare la richiesta ufficiale della costituzione della sezione, il presidente della Società, prof. Francesco Maria De Robertis, interpellato dal De Rossi e da chi qui scrive, ci aveva indicato di coordinarci appunto col giudice Palazzo affinché elaborassimo un progetto di eventi che permettesse sul piano pratico la costituzione della sezione. Così, per circa due anni, Domenico De Rossi e chi qui scrive, ogni settimana (preferibilmente il lunedì mattina) ci recavamo a Lecce, presso il Tribunale dei Minori (sito allora sulla strada per la stazione ferroviaria) per conferire col giudice. Le riunioni duravano non più di mezz’ora. In esse, il presidente Palazzo ci indicava quelli che potevano essere i campi di ricerca, che dovevano avere poi come sbocco un convegno. Alla fine furono selezionati tre campi di lavoro: “Brigantaggio”, che fu affidato a Domenico De Rossi; “Risorgimento salentino” a chi qui scrive; “L’attacco navale e la presa di Gallipoli da parte dei Veneziani nel 1484”. Altra indicazione che ci diede il giudice fu quella di concentrare tutto il materiale a nostra disposizione nei settori di ricerca specifica, per cui le carte sul brigantaggio a De Rossi, quelle sul Risorgimento salentino a me e quelle sulla presa di Gallipoli allo stesso giudice.

A quel tempo, io frequentavo già alcuni grandi storici della Questione meridionale, fra cui Tommaso Fiore (Altamura, 7 marzo 1884 – Bari, 4 giugno 1973) e suo figlio Vittore (Gallipoli, 20 gennaio 1920 – Capurso, 21 febbraio 1999), entrambi autori autorevoli di libri e saggi sul Meridione e sull’annosa questione; il lucano Tommaso Pedio (Potenza, 17 novembre 1917 – Potenza, 30 gennaio 2000), autore del volume Brigantaggio e questione meridionale (Edizioni Levante, Bari 1979); Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003), giornalista de «l’Unità» e presidente del Sindacato Nazionale Scrittori d’Italia, autore del libro Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia (Editori Riuniti, 1969), e soprattutto frequentavo, perché mi è fu pure maestro di storia e di vita, lo storico Franco Molfese (Roma, 1916-2001), vicedirettore della Biblioteca della Camera dei Deputati e autore del famoso libro Storia del brigantaggio dopo l’Unita’ (Feltrinelli, Milano 1964). Soprattutto per Molfese e per De Jaco scrivevo a macchina i loro manoscritti che poi, in bella copia, una volta consegnati, finivano sui banchi della composizione tipografica.

A quel tempo non c’era ancora la fotocopiatrice e, se c’era, bisognava fare chilometri e chilometri di strada per andare a trovarne una, per cui le carte antiche o te le trascrivevi manualmente oppure le prendevi in consegna per lavorarci sopra e successivamente le ridavi al legittimo proprietario. Quindi, sulla base delle indicazioni del giudice Palazzo, io cominciai a convogliare le mie carte (e i libri) sul brigantaggio verso Mimì De Rossi il quale, a sua volta, convogliò quelle sue riguardanti il Risorgimento a me, mentre insieme convogliammo le nostre carte (e i libri) sulla presa di Gallipoli allo stesso Palazzo.

In quegli anni Mimì De Rossi usava andava in giro per paesi e paeselli del Salento a vendere o a donare i suoi libri freschi di stampa (in cambio ovviamente di altri libri o altre carte antiche) presso studi di notai, avvocati, commercialisti, antiche famiglie di nobili in rovina. Spesso ero io che lo accompagnarlo con la mia macchina. Nacque tra di noi una profonda confidenzialità. Non poche carte del suo archivio personale, soprattutto quelle riguardanti il Risorgimento salentino (Bonaventura Mazzarella, Antonietta De Pace, Beniamino Marciano, Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni Carissimo, Oronzio De Donno, Giuseppe Libertini ed altri ancora), Mimì le consegnò a me affinché elaborassi il progetto del convegno come stabilito dal giudice Palazzo. Ad esse si aggiunsero anche le carte che Aldo Barba, padre di mio cognato Emanuele Mario, eredi del grande medico cerusico, letterato e risorgimentalista gallipolino Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), mi consegnò per questa stessa ricerca.

Sfortunatamente, quando la sezione gallipolina della Società di Storia Patria per la Puglia sembrava ormai cosa fatta, Mimì De Rossi venne a mancare nell’estate 1981 e, sia la ricerca sul brigantaggio, sia quella da me condotta sul Risorgimento salentino, s’interruppero. Continuò invece la ricerca del giudice Palazzo, che ebbe il suo epilogo nel Convegno nazionale, organizzato dalla locale sezione della Società di Storia Patria per la Puglia e dal Comune di Gallipoli (sindaco Mario Foscarini) tenutosi, in occasione del quinto centenario dell’evento storico, nella sala poligonale del Castello angioino il 22-23 settembre 1984 col titolo La presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto.

Subito dopo questo importante evento, anche il giudice Palazzo, divenuto nel frattempo commissario della sezione della Società di Oria, lasciò Gallipoli e la nostra sezione si diede un suo organigramma. La vita del sodalizio continuò ad andare avanti con qualche presentazione di libri e qualche altra ricerca (ricordo, ad es., quella sulla “Fontana greca o ellenistica”), ma non si parlò più di convegni sul Brigantaggio o sul Risorgimento salentino. Accadde così che le carte d’archivio sul brigantaggio, che io avevo dato a Mimì De Rossi, rimasero presso i suoi eredi, mentre le sue presso di me. Per la verità, data la mia stretta vicinanza con la famiglia De Rossi (soprattutto con la moglie Clara e i figli Pina e Fernando), tentai di intavolare il discorso delle “carte”, ma i suoi eredi mi consigliarano di tenerle io e di continuare la ricerca. Poi il tempo è passato e queste carte erano rimaste nel dimenticatoio di una biblioteca come la mia, che oggi si compone di alcune decine di migliaia di volumi e documenti vari.

Così oggi, scartabellando tra queste vecchie carte d’archivio e venendo a conoscenza del 150° anniversario (2017) della morte di Liborio Romano, è riemerso il manoscritto del Castromediano, che mi sono preso la briga di trascriverlo. Sono personalmente contrario a che le carte d’archivio restino sepolte per secoli fino al loro inevitabile deterioramento, quando poi la loro conoscenza può invece aggiungere qualcosa in più alla crescita della coscienza civile, morale e culturale di una comunità umana.

Francamente, una volta trascritto il documento, ho pensato che in esso non ci fossero delle grandi novità sulla vita e l’opera di Liborio Romano. Di lui si sa quasi tutto. Tuttavia l’ho prima mostrato a Giovanni Spano, presidente dell’Associazione culturale “Don Liborio Romano”, quindi l’ho inviato al prof. Giancarlo Vallone, secondo me uno tra i più qualificati storici italiani, per di più grande conoscitore del Romano, il quale mi ha risposto dicendo che «una certa sua valenza, questo documento ce l’ha. Infine ho inviato copia del manoscritto anche al prof. Fabio D’Astore».

 

Ed ora qualche riflessione su Liborio Romano

«Tutti coloro che finora hanno trattato Liborio Romano, lo hanno presentato come un personaggio squallido, camorrista voltagabbana, nel peggiore dei casi, ambiguo, controverso nel migliore dei casi».

Questa affermazione è dell’on. Ernesto Abaterusso, sindaco di Patù nel 1996, che l’ha scritta nella presentazione al libro di Francesco Accogli, Il personaggio Liborio Romano. Precisazioni bio-anagrafiche. Contributo all’epistolario[1].

Questo incipit mi è necessario per dire che di questo straordinario personaggio salentino di Patù sappiamo ormai tutto o quasi tutto. Su se stesso ha scritto in primo luogo direttamente lui, poi suo fratello Giuseppe, ancora qualche altro suo parente. Immenso l’elenco di scrittori o sedicenti tali borbonici, neoborbonici, conservatori, reazionari, antipopolari che, secondo di come gira il tempo o la situazione politica, si sono dichiarati di centro, di destra, qualora anche di sinistra, ma di una sinistra tanto strana da sconfinare (o meglio confinare) con il limite del conservatorismo reazionario Otto/Novecentesco. Alcuni di questi scrittori o sedicenti tali hanno scritto di Liborio Romano, del brigantaggio ed anche della camorra napoletana unicamente per fare cassa e per vanagloriarsi. Sono rari gli storici veri che hanno saputo affrontare il personaggio con serietà e con una messe di studi dai quali è emerso un giudizio sereno molto vicino alla realtà storica. Oltre ai citati Molfese, i due Fiore, Pedio, De Jaco e qualche altro, mi riferisco al prof. Giancarlo Vallone, il quale ha dedicato più di un libro (fondamentali i volumi Dalla setta al Governo: Liborio Romano, Napoli, Jovene 2005, e la sua curatela al volume dello stesso Romano, Scritti politici minori, «Studi Salentini» Editore, Lecce 2005). Vallone ha apportato un contributo di conoscenza ineludibile per chi voglia sapere di e su Liborio Romano.

Si è detto e scritto che Liborio Romano fu Ministro di polizia e che in quanto tale fece accordi con la camorra per il passaggio dei poteri da Casa Borbone a Garibaldi prima e, successivamente, a Casa Savoia. Questa storia degli accordi tra Stato e settori malavitosi va letta attentamente. Oggi abbiamo un libro in più per conoscerne tali intrecci. Mi riferisco soprattutto alle pagine emergenti dall’importante Processo conoscitivo a Liborio Romano, statista o trasformista?, tenutosi a Patù il 17 luglio 2011, patrocinato dall’Associazione Culturale “don Liborio Romano” (presidente Giovanni Spano), dal Comune di Patù (sindaco Francesco De Nuccio), dalla Società di Storia Patria per Puglia di Lecce, e col tribunale giudicante composto dal Dr. Franco Losavio (già consigliere Corte d’Appello di Lecce e Taranto), prof. Mario Spedicato (presidente Società Storia Patria Lecce), prof. Vittorio Zacchino (storico); l’Accusa rappresentata dal prof. Mario De Marco (storico e pubblicista) e dal prof. Luigi Montonato (storico e politologo); la Difesa fu tenuta invece dal dr. prof. Salvatore Coppola (avvocato e storico) e dal prof. Fabio D’Astore (docente Università del Salento).

Dalla lettura del processo, pubblicato poi come libro (“…giudicate sui fatti”. Liborio Romano e l’Unità d’Italia, Edizioni Panico, Galatina, 2012), si evince chiaramente che

«Liborio Romano [fu] una delle figure più incombenti della storiografia risorgimentale, patriota, giurista, politico, personaggio ambivalente» (Zacchino, p. 14); che

«La salvezza di Napoli e il trapasso incruento del Regno delle Due Sicilie dai Borbone ai Savoia, comunque li si voglia considerare, furono operazioni coraggiose, temerarie, chiaramente funzionali all’Unificazione e alla nascita della nazione italiana» (Zacchino, p. 15); che

«Romano […] autorevole protagonista del Risorgimento, e soprattutto tenace propugnatore dell’autonomia del Mezzogiorno, nel più vasto ambito unitario, e perciò co-artefice dell’unificazione nazionale» (Zacchino, p. 16);

«a Liborio Romano, il più discusso personaggio dell’Ottocento Meridionale, è dovuto il titolo di padre della patria unificata, di strenuo difensore delle autonomie del Mezzogiorno, di protagonista del Risorgimento» (Zacchino, p. 33).

L’accusa, affidata nel processo a De Marco e a Montonato, non è affatto tenera nei confronti del Nostro anzi, leggendo i testi, ho avuto la sensazione che si sia esagerato un po’ in quanto a supposti tradimenti politici e a rapporti con la malavita. Mi si dirà: è questa la funzione dell’accusa. Molto convincente invece mi è apparsa la difesa, affidata a Coppola e a D’Astore, i quali hanno difeso a spada tratta il loro assistito. Alla fine del dibattimento, il verbale del processo, a firma del segretario prof. Walter Cassiano, fa giustizia di quanto detto, scritto e letto a premessa del Dispositivo della sentenza per il procedimento penale storico a carico di: Romano Liborio (Patù 1793).

Concordo solo parzialmente con la sentenza, che assolve l’avvocato Liborio Romano dall’imputazione di tradimento, mentre lo condanna a mesi sei per avere egli coinvolto alcuni capi camorristi nell’organizzazione della Guardia Nazionale napoletana. Ricordo a me stesso e a chi mi legge che il Romano, prima di diventare Ministro di polizia era stato avvocato e, come si sa, nel foro di Napoli, la sua stella forense brillava, anche nella difesa per questo tipo di persone associate nel delinquere. L’Italia, si è sempre detto, è la patria del diritto, per cui don Liborio sapeva il fatto suo. D’altronde è egli stesso che ha scritto che, per quanto riguarda la questione camorra, si trattò solo di una misura necessaria e molto limitata nel tempo (appena un paio di giorni) mirante a cercare di contenere le manifestazioni di piazza e salvaguardare l’ordine pubblico. Non dimentichiamo che l’obiettivo di quel momento storico era la più grande rivoluzione politica dell’800: l’unità della patria Italia, per la quale, sin dal tempo di Virgilio, cioè 2000 anni fa, i differenti popoli della penisola anelavano. Non per nulla, nella storia dell’umanità e delle rivoluzioni politiche, c’è stato un tale Machiavelli, che disse e scrisse «il fine giustifica i mezzi».

Su Liborio Romano si sono dette e scritte tante altre cose, moltissime false e comunque distorcenti. Nessuno, però, almeno finora, ha voluto approfondire il suo operato relativo appunto all’ordine pubblico. Le manifestazioni di piazza a Napoli sono state sempre qualcosa di straordinaria importanza. Nessuno può dimenticare cosa accadde in città nel 1799 con l’istaurazione della Repubblica Partenopea. Ci furono migliaia di morti prima e dopo quel fatidico gennaio. In quella vicenda la Puglia e il Salento perdettero il fior fiore della loro più alta intellighenzia giuridico-letteraria. Ancora nel 1821 e nel 1848 ci furono altre insurrezioni, e tutte rivolte sempre a un unico obiettivo: la democratizzazione del regno delle Due Sicilie come fase transitoria verso l’Unità d’Italia.

Anche nel 1859 e nel 1860 Napoli era divenuta una polveriera, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Ma, come si sa, non accadde nulla di tanto drammatico. Quindi ci si chiede: perché, in quell’eccezionale momento, la rivoluzione politica, che pure ci fu, non comportò l’insurrezione e la guerra civile? Semplicemente perché lì, nella capitale del regno delle Due Sicilie, si trovava ad operare un uomo, un avvocato, un politico, un ministro degli Interni e di polizia di nome Liborio Romano. Nella storia delle rivoluzioni politico-sociali, non è mai accaduto che un rivolgimento di tale portata (la caduta di un regno, quello dei Borbone, con la sostituzione di un altro, quello dei Savoia) si sia compiuto senza spargimento di sangue e, per di più, con il raggiungimento dell’obiettivo primario dell’intero Risorgimento: l’unità della nazione Italia. Persino lo stesso re napoletano – Francesco II di Borbone – e la sua famiglia ebbero salva la vita riparando nella fortezza di Gaeta. Quando mai?, se pensiamo a quanto accadde a Parigi nel 1789, oppure quanto accadde nella stessa Napoli nel 1799. Un esempio per tutti: la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 non finì forse con la strage dell’intera famiglia dello zar Nicola II?

Quindi, se nella Napoli del 1860, ci fu un passaggio di “consegne” senza spargimento di sangue tra il potere borbonico e quello di Garibaldi prima, successivamente a quello di Casa Savoia, il merito sarà stato pure di qualcuno. Per me, fu merito dello statista Liborio Romano il quale, compiuto questo suo alto dovere di rispetto del popolo napoletano e meridionale tutto, non fu poi tanto riconosciuto né dai suoi avversari politici interni (i soliti opportunisti di sempre) allo stesso ex Regno di Napoli, né (ma questo era scontato) dai “vincitori” savoiardi cavouriani.

La questione del mancato spargimento di sangue a Napoli è stato sempre il motivo di fondo di Giovanni Spano, il quale, in una dichiarazione alla stampa di qualche anno fa, dichiarò:

«il mio obiettivo è stato sempre quello di fare luce su una figura [Liborio Romano] ritenuta controversa, ma che ha avuto la giusta chiave per portare all’Unità d’Italia senza spargimento di sangue. In questi anni ho approfondito molto sull’aspetto caratteriale di Romano, scoprendo che era molto amato dal popolo prima di diventare statista. Il nostro avvocato preferiva difendere gratuitamente i poveri e i napoletani lo chiamavano fraternamente “Don Libò”»[2].

La marginalizzazione del Romano all’interno del primo parlamento italiano (fortemente piemontesizzato) e, soprattutto, la continua e persistente contrarietà alla sua proposta di legge per la costituzione della Guardia nazionale su base unitaria (con l’inserimento di personale militare del Nord e del Sud) furono alla base di quello squilibrio Nord-Sud che noi oggi scontiamo ancora. Qualsiasi proposta in tal senso da lui fatta nel primo governo unitario sia successivamente in parlamento, gli veniva immediatamente respinta dai cavouriani e dai reazionari di ogni risma e specie. D’altronde è quello che abbiamo visto anche alla fine della seconda guerra mondiale quando, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e l’inizio della Resistenza (8 settembre 1943), a combattere la dittatura mussoliniana fondamentalmente furono i partigiani delle Brigate garibaldine.

E cosa accadde poi di quei partigiani, molti dei quali avevano dato la vita per la libertà e la democrazia? In un primo momento, il primo governo antifascista li inserì nelle varie componenti delle Forze armate, ma, appena giunto il 18 aprile 1948 e la “vittoria” (oggi sappiamo con evidenti brogli elettorali) di una sola parte politica, tutti i partigiani, e i patrioti, e le staffette, e chi aveva concretamente collaborato alla caduta della dittatura fascista e alla liberazione dell’Italia dall’occupante nazista, spesso immolandosi la propria vita, furono messi alla porta, cacciati senza neanche un foglio di via. Tutti, e non esagero quando dico tutti. Sapete chi fu a occupare quei posti rimasti vacanti dalla cacciata dei partigiani? Ebbene, furono richiamati gli ex repubblichini di Salò più qualche vecchio arnese dell’ufficialità militarista distintasi sotto il regime. Per questo non è peregrino pensare che la marginalizzazione del Romano fu anche alla base di quel tremendo fenomeno passato alla storia italiana col termine di brigantaggio.

Su tale storia c’è una pagina illuminante dello storico Franco Molfese, che scrive:

«Quando Farini assunse la luogotenenza a Napoli, la dittatura garibaldina era già scossa dalle crescenti “reazioni” e le “reazioni”, e la loro repressione, generavano automaticamente il brigantaggio./ Tuttavia, le “reazioni” dell’autunno 1860 appaiono poca cosa di fronte alla grande “reazione” dell’estate del 1861, che fu la vera matrice del grande brigantaggio, durato fino al 1864, e del brigantaggio in genere, durato fino al 1870. Ora, quando si scatenò la rivolta contadina dell’estate del 1861, i moderati governavano in maniera esclusiva da otto mesi. Come fu possibile che il largo favore borghese e popolare, che nel 1860 aveva salutato l’avanzata garibaldina nelle provincie meridionali e aveva reso possibile l’improvviso crollo della monarchia borbonica, appena un anno più tardi si fosse tramutato in un malcontento che raggiungeva tutti gli strati della società meridionale? La responsabilità di ciò […] è da addebitarsi fondamentalmente alla politica dei moderati (“piemontesi” e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani), che mirarono soltanto a reprimere, a centralizzare, ad addossare carichi alla stremata economia meridionale, e a monopolizzare il potere, respingendo in tal modo all’opposizione anche quella grande maggioranza della media e della piccola borghesia urbana e rurale che seguiva Liborio Romano e che era liberale, in fondo moderata, unitaria ma “autonomista”, non “annessionista”. Il clero venne vessato e spaventato, senza che il suo potere economico venisse sradicato. Ai contadini venne promessa solennemente la ripresa delle operazioni demaniali, e poi non se ne fece nulla. I moderati [piemontesi liberali conservatori più transfughi dell’ex regno delle Due Sicilie] optarono fin dall’inizio per la repressione con la forza dell'”anarchia” nel Mezzogiorno, e al momento critico non ebbero forze militari sufficienti per sventare o, quantomeno, per domare rapidamente la sollevazione contadina a direzione reazionaria. È difficile, perciò, negare che il brigantaggio fu sostanzialmente il risultato negativo di tutta l’azione di governo dei moderati./ Però, un’altra linea per fronteggiare il malcontento contadino esisteva ed era quella espressa, sia pure confusamente, dalle correnti democratico-autonomiste. Quella “linea” si era anche precisata per tempo in un programma realistico (attuabile), quello di Liborio Romano. […] Se i moderati avessero apprezzato ed attuato il programma Romano […] quasi certamente l’esplosione della “reazione” del 1861 sarebbe stata sventata, il brigantaggio già sviluppatosi (ancora poca cosa nell’inverno 1860-61) sarebbe stato spento con molto meno sangue e con minori sforzi e tutto il processo dell’unificazione ne sarebbe risultato meno travagliato»[3].

Sappiamo come sono andate le cose e le conseguenze di quella che molti definiscono l’annessione del Meridione al Nord, oggi la scontiamo ancora. Non è forse vero che, a 160 anni e passa dall’Unità d’Italia, gli squilibri tra Nord e Sud rimangono ancora tutti aperti? E non è forse vero che il Meridione sta pagando il prezzo più alto dell’attuale crisi economico-finanziaria? Certo che sì. Ed è certo pure che indietro non si può andare, che non si può ridividere l’Italia, che non si può dimenticare la storia fatta. Ecco allora che la visione dell’Italia unita che aveva in mente 150 anni fa Liborio Romano ha ancora oggi una sua validità e ad essa occorre necessariamente ritornare, se vogliamo uscire dalla gabbia infernale dello squilibrio Nord-Sud. Oggi, quando noi pensiamo alla patria Italia, all’unità dell’intera penisola, i nostri riferimenti vanno a Garibaldi, a Mazzini, per alcuni momenti possono andare anche a Cavour (che continuiamo a considerare l’opportunista di quel fausto momento) ma, accanto a questi nomi, dobbiamo avere il coraggio di aggiungere il salentino di Patù, Liborio Romano. Anzi, forzando un po’ la storia, si potrebbe scrivere che l’Unità d’Italia (1861) la si deve soprattutto a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Liborio Romano.

 

Infine due parole sul manoscritto di Sigismondo Castromediano

Dalla lettura del testo non ci sono grandi novità, e tuttavia, come dice il prof. Giancarlo Vallone, una sua qualche valenza ce l’ha soprattutto quando, a proposito della grande questione (la Guardia Nazionale) che stava a cuore a Romano, Castromediano scrive:

«Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere l’Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata la sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò salvatore e liberatore della patria».

Nonostante la solidarietà salentina espressa dal duchino di Cavallino al nobile Liborio Romano di Patù, tuttavia le posizioni politiche tra i due rimarranno sempre quelle che conosciamo: Castromediano, deputato di destra legato a Casa Savoia; Liborio Romano, deputato legato al suo popolo meridionale e strenuo oppositore di sinistra alla politica cavouriana. Se allora fossero state approvate le sue proposte di legge, sorrette da una lungimirante visione autonomista-federalista del nuovo Stato unitario italiano, tutte le discrepanze, soprattutto gli squilibri Nord-Sud, che vediamo oggi in questo nostro malridotto paese, già da tempo sarebbero state risolte.

 

ECCO IL TESTO DEL MANOSCRITTO

Nella trascrizione, ho aggiunto solo qualche segno di punteggiatura e le note.

 

LIBORIO ROMANO

di Sigismondo Castromediano

Romano Liborio di Patù. Così è detto oggi questo villaggio sito nell’estrema punta del Capo di Leuca dal tempo dell’invasione francese nei primordi del secolo presente, XIX, mentre dicevasi Pato altra volta, e sarebbe meglio restituirlo alla sua antica dizione.

Nacque Liborio nel 1798 [sic, vero è 1793] e morì nel [spazio lasciato vuoto dal Castromediano, ma 1867]. Fu figliuolo di Alessandro, che discepolo di Mario Pagano[4], poco mancò non fosse come questi condotto sul patibolo nel 1799, e da [Giulia Maglietta].

Giovinetto il Romano lo condussero a Lecce, dove studiò lettere insegnategli dal Barone Berardino [Francesco] Cicala[5], l’autore delle tragedie, e giurisprudenza nello stesso tempo verso la quale sentivasi potentemente inclinato. Recatosi poscia a Napoli si perfezionò in detta dottrina sotto il Gerardi [Francesco][6], il Giunti [G.][7], il Sarno [D.][8], il Parrillo [Felice][9], il quale ultimo non cessò d’amarlo durante tutta [la] sua vita.

Già Liborio, iniziato dal padre medesimo nella setta dei Carbonari, tuttoché avesse (…) appena di anni 21, ottenne per concorso dal Governo insurrezionale del 1820 d’essere eletto professore sostituto nella cattedra di diritto civile e commerciale nell’Università di Napoli. Lo stesso Governo si servì di lui del pari inviandolo suo Commissario in questa provincia collo scopo di raccogliere sotto la bandiera costituzionale da presso innalzata i militi di già sbandati.

Ma i tempi, atteso lo spergiuro di Re Ferdinando I, precipitarono a rovina, quel raggio di libertà venne spento, moltissimi furo i perseguitati, ed al Romano, toltagli la carica di Professore, vennegli imposto sotto la più severa sorveglianza di polizia di restarsene confinato nel proprio paese natale, mai rompesse la cerchia, mai più riandare alla capitale.

Così sen visse Liborio per due anni continui fra le paure e i sospetti, dietro i quali gli fu concesso di recarsi a Lecce, ma non vi esercitasse professione d’avvocato, né potesse uscire da quelle mura. Ivi però la circospezione non valse, che l’Intonti [N.][10], il selvaggio poliziesco ministro dei Borboni, un bel giorno ghermirlo insieme a Gaetano suo fratello e ad Eugenio Romano suo cugino, e insieme ad altri molti concittadini, sotto la scusa d’appartenere a una società segreta, chiamata degli Ellenisti, della quale rimase sempre dubbia l’esistenza nelle nostre contrade, e ligati [legati] e circuiti da gendarmi se li fece portare a Napoli. Qui giunto lo fece bendare negli occhi, e così introdurre nel carcere di S. Maria Apparente, nelle cui segrete lo tenne chiuso da prima per 150 giorni e fuori di queste il resto d’un anno. Dopo uscito di prigione gli fu fatto precetto di restarsene nella capitale sorvegliato dalla polizia, e non ritornare in patria.

Non si sconfortò egli, che giovane ardito era, e tant’oltre si spinse nella palestra giuridica, che tra gli avvocati di quel foro tolse palma d’incontrastata rinomanza, per cui gran numero di studenti corse ad addottrinarsi nel suo studio. Fu per costoro però che gli occorse un’altra sventura. Era il 1837, e fra quei discepoli vi aveva un Geremia Mazza[11], giovane onesto e di retti principi politici, ma che contava la disgrazia d’avere un fratello diverso affetto di lui e occulto cagnotto di polizia, il quale dopo i rovesci del 1848 giunse a sedere direttore della stessa, sotto il fierissimo Ferdinando II. Questo fratello, forse per alcuna confidenza imprudente o casuale di Geremia, adoprossi a sottoporre il Romano a nuove persecuzioni.

Ma l’anno ultimamente pronunziato giunse, e una nuova costituzione del Regno fu giurata dal Regno dianzi nominato. In seno a questi fu proposto Liborio per suo ministro costituzionale, che questi respinse la proposta, e nemmeno per soli quattro voti che gli mancarono poté occupare un posto di deputato al Parlamento d’allora. Perdute da questa terra anche leggerezze di libertà per gli effetti del 15 maggio di quello stesso anno, Liborio nel febbraio del 1850 per odio dell’infame Peccheneda [Gaetano][12] fu sospinto un’altra volta nel carcere di S. Maria Apparente, dove rimase a soffrire due anni continui insieme ad Antonio Scialoja[13], e Giuseppe Vacca[14], il primo Ministro del Regno d’Italia la seconda volta, mentre che scriviamo, e il secondo Senatore, e poscia senza alcuna forza di giudizio, esiliato insieme al suo amico Domenico Giannattasio[15].

Condizione dell’esilio era che il Romano, per cui gli fu richiesto obbligo formale, fu di andarsene in Francia, ma si tenesse lontano da Parigi e da ogni porto di quei mari. Così fu ch’egli prescelse Montpellier per sua residenza, ove stette un anno intiero, dopo il quale rotto il divieto tramutò stanza per un altro anno in quella capitale appunto che gli era stata vietata.

In questo fra tempo moriva sua madre, che prese occasione per chiedere amnistia, e l’ottenne nel 1855. Stavasene a Napoli, e tuttoché guardingo e dedito soltanto alla sua antica professione, la polizia borbonica non cessava di tenerlo d’occhio, e più severamente di prima, quando nel settembre del 1859, in quei giorni in cui le voci, che Napoleone III sarebbe disceso in Lombardia, voci che ridestando le speranze dei napoletani giunti all’estremo di loro oppressione, in quei giorni dico in cui molti liberali alla cieca vennero imprigionati, Liborio ond’evitare la stessa sorte, si diede a latitare insieme al proprio fratello Giuseppe, e coll’assenso del Conte d’Aprile[16], zio del Re, a rifugiarsi nella casina di Posillipo da prima, e dopo nella casa del Ministro plenipotenziario americano.

Ma l’ora fatale della caduta di Casa Borbone in Napoli era suonata dopo le sciagure e le miserie da essa versate a piene mani su queste stanche province. Ferdinando II era morto, ucciso dalla più schifosa delle malattie, gli succedeva un figlio, Francesco II, debole, inesperto, di poco senno, privo di amici, e per giunta d’antipatica e imbecille figura, il quale ereditando i peccati di tutti i suoi, e più atto a vestir la tunica di prete, che il manto dei governi, pronunziossi col proclamare, che avrebbe seguite le tracce del genitore. L’ora fatale suonava, e il Conte di Siracusa[17], fratello del morto Re e zio del nuovo, col consiglio del Romano spingeva il nipote a salvare la dinastia, e sulle vie legali ridonare quella costituzione ai suoi popoli, quella ad oggi tolta con violenza, e delegare suo ministro lo stesso Romano.

Il quale da prima invitato rifiutò, ma richiamato di nuovo ai 27 giugno del 1860, cioè dopo che l’attuazione della repressa costituzione del 1848 si prometteva con atto sovrano, e cioè per reprimere la minacciata sommossa dei napoletani, e attutire le conseguenze terribili d’una bastonata reazionaria, che il Brenier[18], ambasciatore francese ebbe a offrire, assunse l’incarico di reggere la prefettura di polizia, e proprio quando s’era proclamato lo stadio d’assedio.

L’ora in cui Liborio s’accingeva a sedere su d’una scrivania da tanti infami suoi predecessori lordata con ogni sorta di abusi e di violenze, di ferocie e di delitti, era malaugurata, e malagevole l’impresa che assumeva. Momento in cui la plebe da una parte, sospinta dalla propria furia, s’era impossessata di tutti i Commissariati di polizia della città, ne aveva cacciati via quei carnefici che vi avevano dominato colle vesti di funzionari e di cagnotti, cui ben dato s’era dall’universale il nome di feroci, e disarmando e ferendo questi, e in quelli manomettendo carte ed archivi; e dall’altra si formulavano liste di proscrizione della Camerilla [del Borbone], e i lazzari, e i camorristi, i briganti avidamente attendevano un segnale, onde dar mano al saccheggio ed alla strage. Provvidamente però Garibaldi volava in Sicilia sulle ali della vittoria, ed il Romano ridestava [la] sua tempra con tanto coraggio, che deve considerarsi il solo e vero salvatore di quell’ora e di quel momento.

Solo in mezzo al popolo il nuovo Prefetto attraversò le vie della Capitale agitata, e giunto al palazzo di Prefettura lo trova nudo affatto d’ogni occorrente, ma coadiuvato ed aiutato dai suoi amici, seppe allontanare l’ira del saccheggio, dileguando con un suo primo manifesto, e fino ad un certo punto le tristi apprensioni, e ridonando calma, e riconducendo agli usati uffici i napoletani sgominati e perplessi. Non avendo altra forza materiale, si rivolse e si circondò di camorristi della plebe, la sola della quale poteva disporre e da lui ben diretta, rese in quei momenti grandi servigi a lui e al paese.

Il momento precipitava, ed il Romano senza volerlo forse, costretto dalla fatalità, o dalla storica Provvidenza, si mise in carteggio cogli agenti piemontesi e lo stesso Garibaldi[19], e a cospirare contro il Borbone del quale era divenuto Ministro. Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere [l’]Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata [la] sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò Salvatore e liberatore della patria.

Oltre che alleggerì le garanzie richieste dall’esercizio della stampa periodica, fu in quell’ora che ricordossi di quanto sofferto aveva egli stesso, e l’immenso numero dei perseguitati politici nelle immani carceri borboniche, e v’abolì tosto le segrete, l’arbitrio ed il sopruso dei carcerieri, e le legnate, ordinandovi miglioramenti ed ordinamenti umani.

Su venuto il Ministro Spinelli [A.][20], quello che inconscio di sé e del turbine che lo avvolgeva, titubante e privo di ardimento, il 14 luglio, Liborio vi prese parte tenendovi il portafoglio dell’Interno e della stessa Polizia. I partiti politici che dividevano Napoli e coi quali ebbe ad incontrarsi il Romano si componevano di Borbonici puri conservatori ad ogni costa della spietata e vecchia tirannide, di repubblicani col Mazzini[21], o di moderati liberali, costituzionali ed annessionisti all’Italia con Vittorio Emanuele II[22]. V’era un quarto partito dei costituzionali dinastici borbonici e autonomisti, i quali poco condensati, e per niente intesi, e a cui forse senza decisione forte e convinzione perdurevole il Romano apparteneva, e v’era per aumentate la confusione. Quindi è che un biografo, certo non amico di costui, confessa che Liborio non dormiva sopra letto di rose, e a sostenersi facendogli duopo molte astuzie e molte pieghevolezze.

Tra tali difficilissime condizioni, egli incontrava pure una lega col Piemonte, proposta dalla Corte napoletana; la Sicilia invasa da Garibaldi, e la certezza d’essere invaso anche da questi il continente; e il volere degli Italiani, che in quel momento più potente d’ogni altro destino manifestavasi di volere essere nazione unita, libera ed indipendente; volere rappresentato in Napoli da un Comitato detto d’azione, questo colla Repubblica, quello col Re di Savoia.

Un altro minuto e la borbonica dinastia, e Francesco II[23] non sono più per essere, e il Romano non esitò d’avvertirla anche una volta, e suggerirle qualche buon consiglio, il quale se non servisse a salvarla, l’avrebbe fatta cadere con dignità inutilmente. Gli uomini della nazione sovvenendogli dell’esito del 15 maggio del 1848, e lusingati, credevano opportuno ripetere la strage, e non d’altre baionette seguiti, poiché l’esercito intiero sfasciatosi perché vinto già e nella disciplina demoralizzato, se non dalle baionette della Guardia reale, e con il Conte di Trapani[24] alla testa.

Un primo tentativo venne iniziato, ma ben presto represso. Due altri ne successero, capitanati l’uno dal Conte di Aquila[25], zio del Re, che ambiva rovesciare il nipote, ed occuparne il trono, [il] secondo da un de Sanclier [ma de Sauclières Hercule][26], prete e legittimista francese, [i] quali coll’esiliare il Conte, e coll’arresto del prete. Per la quale ultima avventura è da notare, come il Ministro di Francia recassi al Romano, onde impetrare la liberazione del Sanclier [ma de Saunclières E.], e perché detto Ministro dal Romano veniva avvertito essere stato già quegli consegnato al potere giudiziario, esclamò l’ambasciatore – «Dunque volete rinnovare così il 1793?» – Io devo salvare il paese dalle cospirazioni gli fu risposto, quali che fossero i cospiratori, e giustizia deve avere il suo corso.

Avendo fra tanto Garibaldi passato lo Stretto, audacissima ne divenne la rivoluzione napoletana, e fatta più certa d’un esito felice. Garibaldi avansavasi verso la Capitale incontrastato e con la sicurezza d’un vincitore, ed il Romano accortosi dell’istante della catastrofe, avendo scritto un memorandum da essere accettato dai Ministri suoi colleghi, i quali non vollero leggere nemmeno la legge al Re direttamente. Ivi era dipinta netta la situazione; nuda esposta tutta quanta la verità, e vi consigliava il Re ad allontanarsi per poco dalla sua sede, creare una reggenza, e risparmiare così gli errori d’una guerra civile.

Invece il Re appigliossi all’altro consiglio, di formare cioè un ministero di reazionari, il che però non riuscì; ma ogni autorità morale del potere essendo [e]sperita, e resa impotente, e i reazionari credendo poterla restaurare collo stato d’assedio, fecero che questo venisse ordinato dal Re nella Capitale. Invano il ministero si oppose, che il Re a Governatore di Napoli aveva nominato Cutrofiano [d’Aragon R. di][27], essere capace d’ogni violenza, e che nel 27 agosto proce[de]sse avanti con un’ordinanza racchiudente ferocissima legge stataria, ma che il Romano con fermezza ed energiche disposizioni volle radicalmente modificata.

All’arrivo imminente del Garibaldi il Re per nulla pensava, e fu duopo che il Ministero prendesse da sé qualche determinazione, il 29 agosto esortandolo a mettersi a capo delle sue truppe, ma nulla fecendosene il Ministero divenne dimissionario. A tale incontro Francesco II si decise finalmente d’abbandonare la capitale, e ricoverarsi in Gaeta, e prima di dipartirsi ebbe in mente di creare il Romano suo Luogotenente in Napoli, il che non avvenne poscia, prevedendosi il rifiuto che da questi avrebbe ricevuto.

Qui se avesse troncata [la] sua vita politica Liborio Romano sarebbe rimasto sul suo sepolcro tanta gloria per quanta sa compartirne la storia, ma sventuratamente non volle, né seppe, e credendo di poter continuare nella sua popolarità giustamente, ma stranamente, e per cause impossibili a rinnovarsi, in un momento acquistata, ostinassi a continuare. Il prestigio s’era ecclissato, ed accetta il portafoglio di Ministro dell’Interno e di Polizia datogli da Garibaldi. Quest’altro suo Ministero durò soli quattrodici giorni, nel quale si distinse per averlo diviso in Ministero di polizia e in Ministero dell’Interno. Dopo egli cadde, e non cadde per lacci e voleri di alcun suo nemico, com’egli lamenta, o qualche altro vorrebbe far credere, ma cadde perché finito il suo tempo, perché delle cose che gli giravano intorno non aveva concetto sicuro e determinato, perché criteri non aveva saldi, perché incerto e volubile non guardava meta da cogliere.

Dimesso il Romano ebbe offerta da Garibaldi la carica di Presidente della Corte suprema di Giustizia, ch’egli non accettò.

Dopo la solennità del plebiscito col quale l’Italia si arricchiva delle province meridionali il Conte di Persano [C. Pellion, conte di][28], a nome di Re Vittorio Emanuele II, che trovavasi ad Isola, gli presentava l’incarico di comporre il Consiglio di Luogotenenza, ed egli anche si ricusava. Avesse così sempre proseguito, ma entrata la seconda Luogotenenza in Napoli, dov’era giunto il Principe di Carignano[29], egli accettò l’incarico di comporre il nuovo Consiglio, e nel quale ebbe parte, assumendo a sé il portafoglio dell’Interno, e vi rimase fino al 12 di marzo, giorno nel quale aveva dato le sue dimissioni. E cadde non per forza altrui, ma perché finito aveva il suo tempo.

Durando [la] sua carica giunse pur l’altra ora delle elezioni politiche, e l’agitazione e l’ansia in queste province d’essere rappresentate al parlamento Italiano era grande e premurosa. Più grande fu l’ambizione di Liborio Romano a mostrare al mondo ch’egli fosse eminentemente popolare, e si fece eleggere in più Collegi, e Deputato venne proclamato in quello di Altamura, di Tricase, di Sala, di Campobasso, di Palata, di Atripalda, di Bitonto, ed in Napoli nel quartiere della Vicaria, oltre i ballottaggi degli altri collegi. Fatua luce di sua popolarità che più presto doveva annientarlo. Era compiuto il suo tempo.

Preceduto da non dubbia fama d’aprir guerra al Conte di Cavour[30], potentissimo Ministro che formato aveva l’Italia e d’aprir guerra con certe sue vedute di egemonia del proprio paese, di certe avversioni a quello ch’ei con altri appellava piemontesismo, e non so con quali altre chimere fuor di tempo e di luogo la sua elezione venne oppugnata, come quella avvenuta mentre sedeva egli Consigliere di Luogotenenza; però non tanto oppugnata da non essere finalmente accettato Deputato.

Però ad accedere nell’Aula della Camera il Re meno non poté tanto presto per quanto intendeva, imperò mentre che vi veniva, giunto a Genova, vi venne intrattenuto dalla gotta. Passata questa, Torino lo vide, ma egli senza che fosse andato a visitare l’avversario di sua mente, il Cavour sedé defilato tra i banchi del Centro sinistra nel Parlamento da prima, ottando [optando] nel patrio Collegio di Tricase.

L’ora di parlare in quel consesso egli affrettava, e non vi avesse parlato mai. Io Deputato di destra alla prima parola che profferse tremai per lui, poiché m’accorsi dei visi dei nostri colleghi disposti a manifestargli irrisione, che ogni opinione del nostro concittadino andava scemando. Pareva [il] suo dire la vacua declamazione degli avvocati, cui manca ragione nel difendere il proprio cliente, la voce trascinata e nasale d’un frate al quale non è giunta l’ora di scendere dal pulpito, e pur vi deve rimanere. Fu così che ei cadde per sempre. Fu così che ritirossi dalla pubblica carriera e ritornato a Napoli trascinò infermi i suoi giorni, finché divenuti perigliosi, i medici lo consigliarono a respirare a Patù [l’]aria nativa.

Qui dopo poco tempo che vi stette cessò di vivere in mezzo ai suoi il Romano, ma compianto da pochi e quasi ignorato. Però moriva lasciando sue faccende domestiche assai scompigliate e non ricco come i maligni avevano buccinato, e ricco divenuto nel potere. Fu questa la calunnia più atroce, della quale certi partiti si servirono brutalmente nella rivoluzione italiana per togliere fama ed abbattere gli onesti. Infamia della quale l’Italia a lavarsi può solo scontare coprendola di virtù moltissime.

Molti giornali si occuparono del Romano, lui vivente e nel potere; quelli che lo difendevano con accesissimo calore di parzialità, i contrari con ingiustificabile prevenzione ed odio senza fondamento. Il Romano può rassomigliarsi a colui che favorito dalla sorte, compie una grande impresa per caso, per forza, senza preconcetto divisamento, ma che ottiene gloria e popolarità imprevista, vuol continuare a sedere nel momentaneo suo grado. Ecco perché il Petruccelli [Della Gattina F.][31], questo agre e spudorato ingegno, ma talvolta fine e penetrativo tuttoché non suo avversario, scrisse di lui – «Liborio Romano arrivando alla Camera si assise al centro, poscia emigrò verso la sinistra. Io non so ciò ch’ei voglia, chi sia, ove tenda, se vezzeggi l’unità italiana o l’autonomia napoletana» – E un altro proponeva di scriversi sulla sua scranna di Deputato – «Qui riposa nel sonno parlamentare Liborio Romano, che fu sempre fermo nel non aver fermezza» -.

La presente biografia è stata rilevata con imparzialità da due elementi cozzanti, e ci sian tenuti nel giusto mezzo, onde la verità da una parte non ne venisse offesa, e l’amicizia personale verso un nostro concittadino, cui tutti i Napoletani debbono gratitudine eterna non rimanesse acciecata. Questi elementi sono. I 453 deputati del Presente, e i Deputati dell’Avvenire, opera diretta da Cletto Arrighi[32], volume III, Milano 1865, e delle Memorie politiche di Liborio Romano, pubblicate per cura di Giuseppe Romano suo fratello con note e documenti, Napoli, presso Giuseppe Marghieri[33], 1873.

Oltre le molte memorie forensi messe in istampa da Liborio, e i suoi atti governativi, olre le dette Memorie, vi son pure:

Des principes de l’economie politique puises dans l’economie animal, scritta in Francia nel tempo del suo esilio.

Lettera del 5 maggio 1861, diretta al Ministro d’Italia Conte di Cavour:

Sulle condizioni delle Province Napoletane.

Discorsi parlamentari.

Ferdinando Cito in Terra d’Otranto, senza data o nome di stampatore. Ma fu in Napoli in 1848.

 

[1] . F. ACCOGLI, Op. cit., Edizioni “Il Laboratorio, Parabita, 1996.

[2] Vd. «La Gazzetta del mezzogiorno», 28 giugno 2010, p. VIII.

[3] F. MOLFESE, Op. cit., pp. 402-403.

[4] Mario (Francesco) PAGANO (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799), giurista, filosofo, politico e drammaturgo italiano. Fu uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo italiano e un precursore del positivismo. Personaggio di spicco della Repubblica Napoletana (1799). Soppressa la Repubblica dal Borbone, fu impiccato in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799.

[5] Bernardino CICALA (Lecce, 1765-1815), poeta e tragediografo. Nel 1799, aderì alla Repubblica Napoletana. Al ritorno dei Borbone, cominciarono per lui due anni di carcere e di persecuzioni: fu costretto a fuggire fuori dal regno. Tornato in patria con l’arrivo dei Napoleonidi, si stabilì a Lecce, dove morì.

[6] Francesco GERARDI, giurista, nel 1867 tra i fondatori della Camera degli avvocati penali di Napoli.

[7] G. GIUNTI, su questo giurista, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[8] Domenico SARNO, su questo abate, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[9] Felice PARRILLO, giudice della Gran Corte civile di Napoli.

[10] Nicola INTONTI (Ariano Irpino, 9 dicembre 1775 – Napoli, 8 maggio 1839), ministro della polizia nel regno delle Due Sicilie.

[11] Geremia MAZZA, giornalista del «Galluppi», morto nel 1840.

[12] Gaetano PECCHENEDA, direttore del Ministero dell’Interno del Regno delle Due Sicilie nel 1849-51.

[13] Antonio SCIALOJA (San Giovanni a Teduccio, 1 agosto 1817 – Procida, 13 ottobre 1877), economista. Nel 1848 divenne Ministro dell’Agricoltura e del Commercio del regno delle Due Sicilie, nel governo liberale di Carlo Troja. Arrestato dopo la repressione del 1849, fu condannato all’esilio “perpetuo” e quindi costretto a rifugiarsi nel regno di Sardegna. Ritornò a Napoli nel 1860, dopo la spedizione dei Mille, per diventare Ministro delle Finanze nel governo provvisorio di Garibaldi. In seguito fu segretario generale al Ministero dell’Agricoltura nel primo governo Ricasoli del regno d’Italia, consigliere della Corte dei Conti e senatore dal 1862, Ministro delle Finanze nel secondo governo La Marmora e poi nel secondo governo Ricasoli, infine Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Lanza e nel secondo governo Minghetti. Si dimetterà dall’incarico per la mancata approvazione del suo progetto sull’Istruzione elementare obbligatoria. Nel 1876 ebbe l’incarico di razionalizzare le finanze dell’Egitto.

[14] Giuseppe VACCA (Napoli, 6 luglio 1810 – 6 agosto 1876), magistrato, tra l’altro Procuratore presso la Gran Corte criminale di Lecce dopo il novembre 1846 e prima del febbraio 1848, Procuratore generale presso la Suprema Corte di giustizia, poi Corte di Cassazione di Napoli, Segretario generale del Comitato d’azione meridionale (1860), Senatore del Regno d’Italia dal 1861; Ministro di Grazia, Giustizia e Culti (27 settembre 1864-10 agosto 1865).

[15] Domenico GIANNATTASIO, di Salerno, liberale e deputato nel regno delle Due Sicilie.

[16] Conte d’APRILE, in realtà è Luigi di Borbone, conte d’Aquila, uno dei falchi della dinastia borbonica, vicino al Romano forse per traccia massonica. Devo questa precisazione al prof. Giancarlo Vallone, che ringrazio.

[17] Conte di Siracusa, ossia Leopoldo di BORBONE (Palermo, 22 maggio 1813 – Pisa, 4 dicembre 1860), fu un principe membro della Real Casa di Borbone-Due Sicilie, terzo figlio maschio di re Francesco I delle Due Sicilie e della regina Maria Isabella di Borbone-Due Sicilie. Leopoldo, conte di Siracusa, era critico nei confronti dell’operato del re Ferdinando II, suo fratello, come risulta dalle sue lettere alla madre Isabella di Spagna.

[18] BRENIER, ambasciatore di Francia a Napoli durante la fase di transizione e, fin dall’inizio, filo unitario.

[19] Giuseppe GARIBALDI (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882).

[20] Antonio SPINELLI (Capua, 23 marzo 1795 – Napoli, 9 aprile 1884), sovrintendente generale degli archivi e ultimo primo ministro del Regno delle Due Sicilie.

[21] Giuseppe MAZZINI (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872).

[22] Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878).

[23] Francesco II di Borbone, battezzato Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo re delle Due Sicilie, salito al trono il 22 maggio 1859 e deposto il 13 febbraio 1861 con la nascita del Regno d’Italia.

[24] Conte di Trapani (Napoli, 13 agosto 1827 – Palermo, 24 settembre 1982).

[25] Conte d’Aquila, ossia Luigi di Borbone-Due Sicilie (Napoli, 19 luglio 1824 – Parigi, 5 marzo 1897).

[26] de Saunclières, ma Hercule DE SAUCLIÈRES, storico del Risorgimento.

[27] CUTROFIANO [d’Aragon R. di Raffaele Fitou d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano.

[28] Conte Carlo PELLION di Persano (Vercelli, 11 marzo 1806 – Torino, 28 luglio 1883), ammiraglio comandante della flotta italiana nella battaglia di Lissa.

[29] Eugenio di Savoia Principe di Carignano
(Parigi, 14 aprile 1816 – Torino nel 1888), Tenente di vascello, nel gennaio 1861 fu nominato luogotenente delle Provincie Meridionali, con sede a Napoli.
Responsabile di non poche atrocità nella repressione del brigantaggio.

[30] Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di CAVOUR, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – 6 giugno 1861).

[31] Ferdinando PETRUCCELLI DELLA GATTINA (Moliterno, 28 agosto 1815 – Parigi, 29 marzo 1890), giornalista, scrittore e politico. Scrittore liberale, spesso anticonformista, fu un esule del governo borbonico a seguito dei moti del 1848.

[32] Cletto ARRIGHI – Carlo Righetti, vero nome dell’autore divenuto famoso come Cletto Arrighi (Milano, 1828 – 3 novembre 1906) giornalista e scrittore, massimo esponente della scapigliatura.

[33] Giuseppe MARGHIERI, editore napoletano.

Libri/ Coppola rossa… Quando in Terra d’Otranto si piantarono gli Alberi della Libertà

L’ESPERIENZA DEGLI ALBERI DELLA LIBERTA’ IN UN LIBRO  DEL TUGLIESE GERARDO FEDELE

 

di Paolo Vincenti

In questi giorni di grandi discussioni, anche sulle colonne dei  giornali locali, sull’Unità d’Italia, su briganti e secessionismo, Borboni e Sabaudi, e via dicendo,  risulta particolarmente significativo questo piccolo libro, dal lunghissimo titolo,  pubblicato in Salento non molto tempo fa. Parliamo di Coppola rossa, bandiere a tre colori, ‘nnocche e ‘nzagarelle. Quando in Terra d’Otranto si piantarono gli Alberi della Libertà , di Gerardo Fedele (Tip. 5Emme, Tuglie, 2009), pubblicato con il patrocinio del Comune di Tuglie e della Società di Storia Patria per la Puglia, sez. di Maglie- Otranto-Tuglie.

da http://www.goilombardia.it

 

Il libro fa luce su un periodo storico molto importante per il Regno di Napoli, vale a dire quello della Repubblica Partenopea del 1799, un’esperienza esaltante quanto effimera, che coinvolse molta parte del ceto intellettuale napoletano e meridionale dell’epoca. Ma, come una meteora, brillò per pochissimo tempo nel cielo per poi spegnersi inesorabilmente.

Come sappiamo, la Repubblica Partenopea fu instaurata nel gennaio del 1799 in seguito all’invasione delle truppe francesi, al comando del Generale Championnet , che rovesciarono la monarchia borbonica e cercarono di far trionfare la democrazia in un regno, quello di Napoli, ancora legato ad antichi retaggi feudali. Purtroppo questa esperienza fallì miseramente dopo pochi giorni ed i Borboni, ritornati in patria, iniziarono una durissima repressione nei confronti di quanti avevano parteggiato per i Francesi.

Fior di intellettuali furono condannati, dopo processi sommari, perfino alla forca ed altri furono costretti a scappare e prendere la via dell’esilio. C’è da

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