Libri| Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920

S. Coppola, Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920. Cronaca politico-giudiziaria di una rivoluzione attraverso la voce dei protagonisti, Giorgiani editore, Castiglione 2020

 

Il clamoroso episodio di Nardò del 9 aprile 1920, di cui furono protagonisti braccianti agricoli in massima parte, artigiani e muratori, uomini e donne, guidati dai dirigenti socialisti di Nardò e di Galatina, finì al centro dell’attenzione della politica nazionale, non solo e non tanto per le modalità in cui si svolse lo sciopero generale, quanto per lo spirito di solidarietà che animò le diverse componenti sociali del mondo del lavoro e per le capacità organizzative dimostrate dai dirigenti delle Leghe dei contadini e dei muratori.

Nonostante vi fossero serie ragioni economiche per proclamare lo sciopero generale dei lavoratori agricoli, i dirigenti leghisti decisero di indirlo in segno di solidarietà con le vittime di Decima Persiceto, una località del bolognese dove, il 5 aprile, la feroce repressione aveva provocato l’uccisione di nove manifestanti.

Quell’eccidio – osserva Remigio Morelli nella Prefazione – «agì da detonatore della rivolta di Nardò» e «fu l’ultimo anello di una catena di eventi e il riflesso di una complessa trama di fattori scatenanti che già avevano creato uno stato generale di alterazione dello spirito pubblico e consolidato una forma di lotta estrema, estrema e incontrollabile nelle masse operaie e contadine […]. La “rivolta” di Nardò rappresenta il punto estremo del conflitto sociale nel ‘biennio rosso’ in terra salentina e una delle più drammatiche vicende dello scontro politico in Puglia tra la fine del primo conflitto mondiale e l’avvento del fascismo».

Legare lo sciopero generale alla solidarietà con le vittime della repressione di Decima Persiceto fece di esso un atto di contenuto squisitamente politico, anche se emersero, nel corso della giornata, le ragioni economiche immediate che portarono molti manifestanti a tentare di assaltare le case dei “signori”, rei – agli occhi dei contadini – di non avere rispettato gli accordi sindacali (l’ultimo siglato il 6 aprile) che prevedevano aumento del salario giornaliero e occupazione dei braccianti nelle terre che i signori lasciavano colpevolmente incolte.

Artefici dell’accordo del 6 aprile erano stati i dirigenti socialisti di Galatina Carlo Mauro e Fedele Liguori e i capi leghisti locali Giuseppe Giurgola, Gregorio Primitivo, Eugenio Crisavola, Luciano D’Ostuni, Antonio Palermo e Luigi Patera.

Salvatore Coppola nel sottotitolo qualifica come rivoluzionaria la giornata del 9 aprile, anche se, prima dell’arrivo nel pomeriggio di ingenti forze militari giunte da Lecce e Bari per reprimere il movimento, non si verificò alcun episodio di violenza rivoluzionaria. Ci furono, è vero, alcuni episodi di assalto ai palazzi dei signori i quali furono obbligati, anche questo è vero, a recarsi in piazza per sottoscrivere un nuovo concordato di lavoro, dopo che quello del 6 aprile era stato violato già il giorno successivo da molti di loro, ma i “signori” non subirono alcun atto di violenza, nonostante la presenza infuriata nella piazza di più di cinquemila manifestanti.

Bastarono gli appelli e i discorsi di Antonio Palermo e, soprattutto di Gregorio Primitivo, perché gli scioperanti li lasciassero rientrare nelle proprie cose incolumi e sotto scorta.

Il termine rivoluzione lo si trova in molti documenti prodotti dai diversi funzionari dello Stato che riferirono sulla vicenda (commissari e vicecommissari di polizia, comandanti dei carabinieri, prefetto). Rispetto ai numerosi episodi di scioperi e lotte sociali che si erano avuti nel Salento prima del 9 aprile, infatti, apparve un atto di violenza rivoluzionaria l’obbligo imposto a carabinieri, guardie di finanza e municipali di consegnare le armi nelle mani dei dirigenti leghisti affinché non venissero utilizzate per reprimere il movimento; atti rivoluzionari vennero considerati l’esposizione di una bandiera rossa, al posto del tricolore sabaudo, sul balcone del Municipio e, soprattutto, l’esposizione, all’interno di un ufficio municipale, del cartello Repubblica neritina al posto dei sovrani sabaudi. Per questo la repressione fu molto dura. Quegli episodi apparvero come una sfida all’autorità dello Stato che intervenne con il massiccio invio di carabinieri e soldati accompagnati da due pesanti e micidiali autoblindate.

Il movimento del 9 aprile ebbe un carattere diverso dai tanti episodi di lotta sociale che in quel “biennio rosso” videro i lavoratori agricoli scendere in lotta per rivendicare aumenti salariali e gestione paritetica delle politiche occupazionali.

Molti di quegli episodi ebbero il carattere ottocentesco delle rivolte spontanee, il più delle volte destinate alla sconfitta, vere e proprie jacquéries spesso senza un progetto e senza una guida. Ci riferiamo alle numerose manifestazioni popolari che, fin dalla primavera-estate del 1919, con il progressivo rientro dei reduci, scossero diversi paesi del Salento. La gente scendeva in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita, i braccianti agricoli occupavano le terre perché, nelle trincee, soprattutto dopo Caporetto, si era sparsa la voce e la speranza che al loro rientro nei paesi d’origine avrebbero ottenuto un pezzo di terra.

Quelle lotte furono, a volte, sostenute dalle associazioni combattentistiche, e sempre più spesso dalle Leghe contadine socialiste e, dopo la fondazione del Partito popolare, anche cattoliche. Contro Leghe rosse e Leghe bianche (come venivano indicate dalla pubblicistica dei giornali borghesi) si scatenò ben presto la violenza organizzata dai padroni delle terre.

Coppola sottolinea che contro quella che gli agrari e la stampa moderata e conservatrice bollavano come ondata di bolscevismo che si diffondeva nelle campagne salentine (con riferimento alle manifestazioni di lotta e a qualche parziale conquista sindacale da parte dei lavoratori agricoli), venne promossa, dagli stessi agrari, la formazione di gruppi armati per la tutela dei propri interessi. «Per i padroni delle terre» – scrive Coppola – «lasciarle incolte oppure apportarvi migliorie, rispettare gli accordi sottoscritti oppure non tenerne conto, retribuire i lavoratori in denaro oppure in natura, assumere uomini oppure, per corrispondere salari più bassi, donne e ragazzi, doveva costituire una prerogativa assoluta che nessun accordo e nessuna legge sul controllo del mercato del lavoro avrebbero dovuto limitare. Gli agrari salentini non rispettavano quasi mai gli accordi sottoscritti, ed anche l’attività delle commissioni paritetiche di avviamento al lavoro, istituite dai prefetti, veniva paralizzata da quella che molti funzionari governativi indicavano come la tenace e ostinata “resistenza dei proprietari”».

A tale proposito, l’episodio di Nardò (una delle pagine più significative dello scontro di classe che ha caratterizzato il biennio rosso salentino) costituisce – scrive sempre Coppola – «un classico esempio di microstoria che ci consente di cogliere le dinamiche della conflittualità sociale e politica che si è sviluppata in Italia nel periodo che va dalla fine della guerra all’avvento del fascismo». Il collegamento tra lotte agrarie e nascita del fascismo (voluto, sostenuto, finanziato e utilizzato dalla grossa proprietà terriera come strumento di reazione contro il movimento dei lavoratori), appare evidente dalla decisione dei proprietari terrieri di Nardò di costituire, il giorno successivo alla Repubblica neritina del 9 aprile 1920, il «fascio dell’ordine contro l’invadenza sovversiva».

Quando le organizzazioni sindacali crebbero per numero di aderenti e acquisirono una forza che avrebbe potuto intaccare i privilegi secolari delle classi abbienti, queste ultime ritennero legittimo ricorrere a forme di autotutela (anche armata), per stroncare le richieste di controllo del mercato del lavoro e di imponibile di manodopera. Sul punto, Coppola conclude la sua analisi sostenendo che «il terreno culturale e politico sul quale nacque e si innestò il fascismo fu l’odio di classe, di cui la violenza era l’espressione più manifesta, odio e violenza contro coloro che sembravano poter mettere in pericolo privilegi secolari, contro i socialisti e i comunisti bolscevichi che si facevano portavoce dei diritti dei lavoratori; contro i popolari, bolscevichi anche loro quando si schieravano a fianco dei lavoratori agricoli che lottavano per rivendicare i propri diritti, ed infine contro le associazioni degli ex combattenti quando le stesse si ostinavano a rivendicare autonome iniziative politiche a favore delle classi subalterne».

La fedele ricostruzione di Salvatore Coppola, che si basa, oltre che su documenti dell’Archivio centrale dello Stato, su una mole di fonti compulsate presso l’Archivio di Stato di Lecce (soprattutto quelle giudiziarie), consente di aprire nuovi scenari nel dibattito sulla storia del movimento di classe nel Salento. Il libro dà voce a tutti i protagonisti della vicenda, a partire da quella dello Stato che si espresse attraverso le relazioni dei suoi funzionari e dei giudici di Trani e Lecce cui spettò emettere la sentenza definitiva. Per passare poi alla voce della stampa, dei testimoni a carico e di quelli a discarico, degli imputati (più di duecento tra uomini e donne), degli avvocati difensori e, infine, dei dirigenti sindacali, soprattutto quella dei tre più importanti protagonisti a livello direttivo, ovvero Carlo Muro, Giuseppe Giurgola e Gregorio Primitivo (che, dal carcere, fece giungere ai pubblici ministeri un ricco, documentato e appassionato Memoriale, il cui valore storico trascende la contingenza della vicenda che lo vide protagonista).

La sentenza – annota Coppola nelle pagine finali del libro – «si rivelò un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della classe padronale», il cui «comportamento giudaico» e la cui «mala fede» erano stati le vere cause di una rivolta che provocò la morte di tre lavoratori (un agente di polizia, Achille Petrocelli, e due contadini, Pasquale Bonuso e Cosimo Damiano Perrone).

Dal libro di Coppola emerge come la giornata del 9 aprile abbia avuto un carattere di innovazione nella conduzione delle lotte sociali (di cui avrebbero fatto tesoro, trent’anni dopo, i braccianti che occuparono le terre incolte d’Arneo). L’avere avuto lo sciopero generale del 9 aprile (rispetto alle tradizionali jacquéries delle campagne pugliesi) una guida, un’organizzazione efficiente e una direzione da parte dei dirigenti delle Leghe, l’essere frutto di un progetto che, qualora non fosse stato represso, avrebbe potuto costituire un modello per analoghi movimenti di lotta sociale, rappresentano altrettanti fasi di una modernità che sarebbe stata alla base della coscienza di classe che, frustrata per più di vent’anni dalla dittatura fascista, sarebbe riemersa prepotente nelle lotte del secondo dopoguerra.

L’eco della rivolta dei contadini neretini del 9 aprile 1920 giunge in Francia

di Armando Polito

L’argomento è stato esaurientemente trattato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/22/la-repubblica-neritina/ e questo post vuol essere solo una piccolissima integrazione.

Quella che segue è la prima pagina (tratta, come le immagini successive, da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k573206d.r=nard%C3%B2.langEN) del n. 13172 dell’11 aprile 1920 del quotidiano parigino Le Matin.

In terza pagina, nel dettaglio ingrandito, corredato della mia traduzione, la notizia.

La Repubblica Neritina

Il 9 aprile 1920 i contadini di Nardò si sollevarono contro lo strapotere dei latifondisti

LA REPUBBLICA NERITINA

Al grido di “pane, lavoro e libertà” oltre cinquemila rivoltosi, capeggiati da Giuseppe Giurgola e Gregorio Primativo, occuparono il Palazzo di Città e tennero testa per un’intera giornata alle forze dell’ordine accorse in gran numero dal capoluogo

Nardò, piazza Salandra, l’antico palazzo municpale


di Emilio Rubino

Per attirarsi le benevolenze e i favori del popolino e per mantenerlo nell’alveo dell’ordine pubblico e del quieto vivere, i governanti di ogni epoca e di ogni luogo puntavano essenzialmente al raggiungimento di due obiettivi di estrema importanza. Come prima cosa, essi garantivano a ogni cittadino una razione giornaliera di pane per tacitare i languori di stomaco e, soprattutto, eventuali pericolose contestazioni; in secondo luogo, organizzavano di tanto in tanto delle feste, degli intrattenimenti pubblici, delle gare sportive, dei tornei popolari per infondere nel loro animo la necessaria contentezza, buon viatico per affrontare il duro lavoro quotidiano. Insomma applicavano alla lettera l’antico motto “Panem et circenses” dei nostri padri latini. Aveva ben ragione Lorenzo il Magnifico quando asseriva che pane e feste tengono il popolo quieto. Nel regno delle due Sicilie i Borbone attuarono un sistema ancora più mirato, la cosiddetta politica delle tre F: Feste, Farina e Forca. In presenza di questi necessari elementi, la vita pubblica di ogni comunità cittadina non poteva che scorrere tranquillamente.

Ci sono stati casi, purtroppo, in cui le sorti di una nazione sono state completamente sovvertite dalla rivolta popolare per la scarsa lungimiranza, l’incuria e l‘arroganza di certi regnanti. La storia, magistra vitae, ci ha tramandato alcuni esempi, il più eclatante dei quali è la Rivoluzione Francese. Scaturita dalle tante ingiustizie sociali, dalla corruzione dilagante e dalle continue vessazioni alle quali era sottoposta la gleba, esplose in modo cruento e sanguinoso allorquando i cittadini, da giorni in agitazione per la mancanza di pane, si sentirono ancor di più umiliati e vilipesi dalla regina Maria Antonietta che, ad un loro accorato appello, aveva risposto incautamente e con distacco: ”Non hanno pane?… allora che mangino brioches!”. Poi, sappiamo bene come sono andate a finire le cose.

Una situazione analoga, anche se di proporzioni molto ridotte, accadeva all’inizio del secolo scorso in diversi comuni del Salento e, in modo particolare, a Nardò. Grandi masse di contadini, muratori e braccianti vivevano in condizioni di estrema miseria e tra tante sofferenze. Sfruttati dai latifondisti, dovevano chinare la testa e accettare mestamente ogni tipo di maltrattamento e mortificazione. I governanti dell’epoca, purtroppo, stavano dalla parte dei “padroni”, tolleravano ogni loro sopruso, addirittura li proteggevano e nulla si poteva fare o dire contro di loro per non ritrovarsi senza il minimo necessario alla sopravvivenza. Mancava il lavoro, nonostante ci fossero a disposizione immensi campi incolti di proprietà dei “signori”, i quali preferivano non coltivarli piuttosto che sobbarcarsi al pagamento di un salario giornaliero di £ 7 a contadino. Questa era la paga pro-capite pattuita con il Prefetto di Lecce.

Era difficile, assai difficile campare con quei padroni, i quali, nonostante tutto, continuavano a retribuire i contadini alla vecchia maniera, dando loro un salario di una lira e mezza al giorno. La povera gente, per non inimicarsi il padrone strangolatore, era costretta, obtorto collo, ad accettare le imposizioni e a mantenere un silenzio omertoso.

veduta settecentesca di Nardò

Riportiamo un’eloquente testimonianza di un funzionario di Pubblica Sicurezza rilasciata nel 1922, esattamente due anni dopo la sanguinosa rivolta neritina: “La mentalità dei signori di Nardò è tuttora arretrata, come ai tempi del duca di Conversano, che, giungendo in città nel 1647, rimase attonito per l’eccessiva tolleranza con cui si trattavano i servi della gleba, nonostante questi vivessero in condizioni disumane, come un branco di bestie moleste e dannose”.

Lo stesso Tommaso Fiore annotava in un suo scritto: “I padroni della gleba sono avidi, gretti, bigotti sino all’assurdo, reazionari, nemici acerrimi della gente povera”. Noi aggiungiamo che i “signori”, ed anche i loro pupilli, abusano delle donne, soprattutto di quelle che avevano estremo bisogno di portare avanti la propria famiglia.

Con tanta rassegnazione nel cuore e nella speranza che la situazione potesse migliorare, i contadini e i braccianti, sconfitti e umiliati, continuavano a subire ogni genere di sopraffazione e a masticare l’amarezza delle loro sofferenze.

“Cusì ‘ole Diu!” – erano soliti dire, a giustificazione delle loro pene.

Poi giunse la Grande Guerra.

“Difendete la Patria e sarete ricompensati!” – fu promesso loro prima di partire per il fronte e combattere contro gli Austriaci in difesa degli interessi della “casta degli eletti”, ma non certamente di tutti gli Italiani.

Furono in molti a perire sul Piave o sui monti della Carnia e pochi, soltanto pochi, a riabbracciare la moglie, i figli, i genitori. In cambio non ottennero nulla. Non un pezzetto di terra da coltivare in proprio (nonostante le iniziali promesse), non una sussistenza che potesse lenire i tanti disagi, ma soltanto una misera medaglia di rame o una croce di bronzo e, tutt’al più, una modestissima pensione d’invalidità, a ricordo di una guerra che era stata prodiga soltanto di lutti.

Ritornarono le paghe basse, ritornò lo sfruttamento dei ricchi proprietari, ritornarono prepotentemente a riaffacciarsi la solita miseria e la solita fame. Tutto come prima, se non più di prima.

Era comprensibile, quindi, come a questi umili uomini covasse nel cuore un giustificato risentimento di odio e di riscatto nei confronti dei ricchi proprietari e accogliessero con favore coloro che si battevano per la loro causa e per la costruzione di una società più giusta e socialmente più avanzata. Pian piano si cominciò a parlare di Socialismo e si dette vita alle Leghe. Sorse, entro le vecchie mura di questa sonnacchiosa città, la “Lega di Resistenza dei Contadini”, il cui animatore fu il neritino Eugenio Crisavola, ottimo persuasore e agitatore, e, per tale motivo, inviso sia ai ricchi signori sia al clero locale che, di socialismo, non volevano nemmeno sentir parlare. Quest’uomo era considerato un sobillatore di coscienze, era il diavolo vestito di rosso, che metteva zizzanie nella mente del popolino.

Si badi attentamente che, in quegli anni, i signori, pur retribuendo il bracciantato con paghe misere, che a malapena consentivano l’acquisto del pane, si facevano pagare l’olio ed altre necessarie cibarie (di scarsa qualità, ovviamente) a prezzi esagerati; allo stesso modo, imponevano per le anguste case date in locazione (più che altro tuguri) affitti salatissimi, da veri strozzini.

Nardò, piazza Salandra con il Sedile e la guglia

Ben presto si manifestarono i primi malcontenti di piazza e le dure contestazioni allo strapotere della classe agiata. Le forze dell’ordine riuscirono facilmente ad avere il sopravvento sui dimostranti e a disperderli nelle campagne, anche perché erano poco organizzati.

Un delegato di Pubblica Sicurezza, disgustato dallo spropositato intervento delle forze dell’ordine, ebbe a scrivere al Prefetto di Lecce: “Non è giusto, né opportuno, né possibile usare la forza contro disoccupati che non chiedono altro che il lavoro… I signori pretenderebbero avvalersi della loro disoccupazione per farli lavorare nei loro terreni con pochi denari, ed esigono che l’Autorità, con la forza, li protegga”.

L’intransigenza dei padroni, nonostante tutto, continuava a persistere come prima e più di prima.

Nel frattempo, il 7 aprile 1920, accadeva nell’interno della Lega dei Contadini un avvenimento decisivo, che avrebbe stravolto da lì a poco l’intera vita della città. Si erano verificati gravi contrasti tra il Crisavola, che voleva trattare con i padroni, e Gregorio Primativo e Giuseppe Giurgola, entrambi favorevoli ad uno scontro frontale. A spuntarla furono i secondi. L’8 aprile si preparò lo sciopero generale, si studiò nei particolari il piano per isolare completamente la città e per far cadere il governo municipale. Alla rivolta aderì anche la Lega Muratori. Tra gli scioperanti nacque l’idea di proclamare, a battaglia vinta, “La Repubblica Neritina”, retta dai proletari rivoluzionari. Si diede vita ad un corpo di polizia denominandolo “Guardie Rosse”, al quale aderirono numerosi giovani, e fu nominata una Commissione Permanente di Agitazione, a presidente della quale fu chiamato il carismatico Giuseppe Giurgola.

Nella notte tra l’8 e il 9 aprile furono tagliati i fili del telefono e della luce, s’innalzarono barricate agli ingressi principali della città, fu bloccata la stazione ferroviaria, disarmati i carabinieri e il delegato di Pubblica Sicurezza, di modo che Nardò fu totalmente isolata.

Alle sette della mattina successiva, la città si sollevò dalle sue ataviche sofferenze e una folla di oltre cinquemila persone si riversò nella Piazza del Comune, mentre i ricchi proprietari si rinserrarono nei palazzi insieme alla servitù, rimasta loro fedele. Alcuni baldi giovani salirono sulla loggia del Municipio per ammainare il tricolore e issare la bandiera rossa. Un consistente manipolo di dimostranti sfondò il portone di palazzo Personè e dai magazzini furono trafugati grano, vino, olio, formaggi e salumi in abbondanza.

Verso le tre pomeridiane arrivarono in città settanta soldati e trenta carabinieri, armati di moschetti, pistole e bombe a mano. L’ordine impartito dal Prefetto di Lecce era stato perentorio: repressione!

Intanto la folla dei rivoltosi si era radunata nei pressi della “Porta ti lu pepe”. In prima linea alcune donne iniziarono a lanciare pietre e quant’altro capitasse nelle loro mani contro i militari, che si avvicinavano a ranghi serrati. Un soldato puntò contro la folla il fucile senza però sparare. Immediatamente il militare fu assalito da cinque dimostranti che lo disarmarono e lo pestarono duramente. La scintilla della sommossa era ormai scoccata. Di fronte al furore incontenibile dei rivoltosi, i militari indietreggiarono mentre la folla, scatenata e agguerrita, continuava a scagliare pietre ed oggetti di ogni dimensione. Ben presto i soldati, vistisi alle strette, lanciarono contro i manifestanti due bombe a mano. Fu una vera strage: persero la vita cinque uomini, un sesto morirà dopo alcune ore. I feriti furono ventisette, alcuni dei quali in condizioni gravi, mentre tra le forze dell’ordine si contò un solo morto.

La guerriglia terminò dopo tre ore, intorno alle sei di sera, quando i rivoltosi furono accerchiati e presi tra più fuochi. Intanto continuavano a giungere da tutta la provincia altre forze dell’ordine (un migliaio in tutto) che rincorsero i manifestanti, dividendoli e disperdendoli nelle vicine campagne. Alla fine i militari arrestarono ben duecento persone, grazie anche all’aiuto dei servi dei padroni, che in seguito si lasciarono andare ad ogni azione delittuosa nei confronti dei contadini che abitavano nei casolari di campagna.

Gregorio Primativo fu arrestato il 20 aprile. Mandati di cattura furono spiccati anche contro il Crisavola e altri personaggi di spicco, fra cui il noto avvocato galatinese Carlo Mauro, colpevole di aver partecipato alla costituzione della Lega di Resistenza dei Contadini.

Il mitico Giuseppe Giurgola si rifugiò nella Repubblica di San Marino, che gli dette asilo politico. In seguito, si trasferì esule in Francia, dove morì nell’agosto del 1938 in un incidente sul lavoro.

La repressione dei padroni si scatenò con ferocia inaudita sui contadini e muratori rivoltosi tra l’inspiegabile indifferenza delle forze dell’ordine.

La mattina del 10 aprile i ricchi proprietari organizzarono una contromanifestazione per le strade cittadine. I palazzi furono bardati col tricolore e ornati a festa. Una folla di 1500 persone sfilò per le vie più importanti di Nardò, con in testa gli agrari più ricchi (Zuccaro, Personè, Giannelli, Muci, Fonte, Vaglio, Colosso, Arachi, Saetta, ecc.).

Cinque giorni dopo, esattamente il 15 aprile, alcuni signori si riunirono nel Palazzo Comunale e fondarono il “Fascio d’Ordine”, i cui componenti si vantarono di aver represso la sommossa e affossato la Repubblica Neritina: un’istituzione vissuta solo ventiquattro ore, ma che poi rinacque più forte e più bella vent’anni dopo.

Quella dei rivoltosi sottoposti al giudizio del Tribunale Penale di Lecce è un’altra brutta pagina di storia, sulla quale ci soffermeremo in un prossimo articolo.


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