Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (II parte)

enghien

di Alfredo Sanasi

 

…Il cosiddetto “Codice di Maria d’Enghien” riunisce tutte le norme a cui si richiamava il Concistorium Principis e che regolavano quattro materie politico-amministrative della città di Lecce: i dazi, le tasse su uomini e animali, l’ordine pubblico, la manutenzione delle mura e dei fossati.

Certo la contessa-regina non ebbe diretta parte nella compilazione di tale codice, che risale a vari anni dopo la sua morte, ma è fuor di dubbio che la figura di lei domina ovunque con precisi riferimenti; i bandi appartengono al suo governo o sono da lei ispirati: si legge infatti spesso in essi l’espressione “de voluntate et comandamento de la maiesta de Madama Regina Maria”.

Quegli anni di pace, che Raimondello e Maria dedicarono soprattutto al buon ordinamento politico-giudiziario e alle opere d’arte, quali degni antesignani dei principi più illuminati del Rinascimento italiano, dovevano finire allorché i due principi ruppero fede al re Ladislao e si riaccostarono al partito angioino, seguendo Luigi II d’Angiò.

Raimondello si rese conto che il re Ladislao avrebbe espresso la sua indignazione con un atto di guerra e perciò preparò un forte esercito per difendere il suo principato, ma proprio allora , all’inizio del 1406, egli morì a Lecce. Maria d’Enghien non si perse d’animo. Occultò per il momento la morte del marito e affrettò i preparativi di guerra, per fronteggiare risolutamente l’attacco di Ladislao d’Angiò Durazzo. Anticipando coraggiosamente l’eroismo di Giovanna d’Arco di alcuni decenni, infiammò arditamente gli animi dei suoi sudditi vestendo una pesante armatura e spronandoli alla difesa della patria. L’esercito napoletano cinse d’assedio Taranto, ma ben presto il re Ladislao si doveva rendere conto che Maria d’Enghien era pressocchè imprendibile, tanto era solida la difesa della città dai due mari, a cui avevano portato aiuto i Sanseverino, ora alleati di Maria contro il comune nemico, quel re Ladislao che pochi mesi prima aveva messo a morte e lasciati insepolti quattro signori Sanseverino. L’assedio si protrasse per tutto l’anno 1406 con varie vittoriose sortite dei Tarantini, a tal punto che il re, scornato dalle continue vittorie d’una donna, se ne tornò a Napoli, lasciando il comando delle truppe a don Antonio Acquaviva, duca d’Atri. Anche al duca la principessa inferse delle sconfitte e ottenne da Luigi II d’Angiò l’investitura del principato di Taranto per il figlio Giannantonio Orsini del Balzo; se questi fosse morto senza figli, il principato sarebbe passato al fratello Gabriele e, nel caso d’un decesso di quest’ultimo, alle sorelle Maria e Caterina. Poi la principessa si ritirò ad Oria ad attendere le mosse di Ladislao. Nel marzo dell’anno successivo 1407, Ladislao tornò con un esercito potentissimo di cavalieri, fanti e navi. Quando tale notizia giunse alla principessa Maria, ella lasciò Oria e alla testa di alcune centinaia di cavalieri passò attraverso le file degli assedianti e rientrò a Taranto, sostenendo fieramente l’assedio, che si annunciava lungo e difficile.

Gentile da Monterano, consigliere del re Ladislao, ad un certo punto suggerì di risolvere quell’assedio snervante e forse dall’impossibile riuscita, proponendo al suo re una inaspettata soluzione: sposare Maria d’Enghien! Il re approvò e Maria accettò l’offerta del re. L’indomita amazzone accolse Ladislao sulle porte di Taranto non vestita d’oro e d’argento tra i broccati, ma in completa armatura e le nozze si celebrarono il 23 aprile dello stesso anno 1407 nella cappella di San Leonardo del Castello Aragonese di Taranto, dove ogni anno si svolge ancora oggi una rievocazione in costume di quell’evento storico. Sicuramente varie molle spinsero Maria d’Enghien ad accettare l’offerta del re sino a ieri suo implacabile nemico: il fasto della corte napoletana, il desiderio di eguagliare o addirittura offuscare famose regine di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Margherita di Durazzo, un conscio o inconscio calcolo politico. Neppure i timori instillati in lei dai Sanseverino valsero a trattenerla, anzi ad uno di loro, che le aveva detto che il re , una volta avutala, l’avrebbe messa a morte, rispose sicura:”non me ne curo, perché se moro, moro regina”.

Il mese successivo la regina Maria partì da Taranto alla volta di Napoli, ma sola, perché Ladislao resto in Puglia per la sistemazione del nuovo grande possesso. E’ certo veramente che ella venne accolta dal popolo napoletano con grandi festeggiamenti e tra grida di gioia accompagnata sino alla mole di Castelnuovo, ma da quel momento cominciarono per lei le delusioni. La favorita del re, Maria Guindazzo, continuava a dimorare a Castel dell’Uovo e altre due amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, per ordine del re, si insediarono a Castelnuovo, allorché nel mese di giugno Ladislao rientrò finalmente a Napoli. Trascorsero sette anni di lotte e guerre condotte dal re con alterne vicende, prima nel tentativo di riprendersi il trono d’Ungheria, poi guerreggiando a Roma, in Toscana ed in Umbria fino al 1414, quando perì tragicamente, forse avvelenato dai Fiorentini. Quegli anni Maria trascorse in Castelnuovo quasi dimenticata e quindi non si prese neppure in considerazione, alla morte del re, una sua successione, anzi, secondo il Coniger, Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao, avrebbe allora fatto rinchiudere in carcere Maria e i suoi quattro figli.

Se non proprio prigioniera Maria d’Enghien fu comunque trattenuta a Napoli dalla regina Giovanna II e solo l’anno dopo, nel 1415, potè rientrare nel possesso della contea di Lecce, conservando il titolo di regina. Fu questo per Maria il periodo più attivo e fattivo nei confronti dei sudditi e dei suoi possedimenti, che ad uno ad uno riuscì a riconquistare o con le armi o con le trattative amichevoli, anche grazie agli interventi  di un grande cavaliere francese, Tristano Chiaramente, duca di Calabria e conte di Copertino, che ella volle quale sposo della figlia Caterina Orsini del Balzo. Per il regno di Giovanna II questo fu un periodo torbido e convulso di lotte, che raggiunse il suo culmine quando ella sposò Giacomo de la Marche, che tra gli altri dispiaceri arrecati alla regina aggiunse, non potendolo difendere, la vendita del principato di Taranto a Maria d’Enghien e a suo figlio Giannantonio. Giovanna II dovette, suo malgrado, riconfermare il Principato agli Orsini del Balzo. Maria d’Enghien iniziava una grande nuova ascesa, rafforzata ancor più dalle nozze nel 1417 del figlio Giannantonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V. Giannantonio eguagliò il valore e l’ardimento del padre Raimondello e nelle lotte tra Angioini e Aragonesi per la successione al regno di Napoli finì con l’appoggiare apertamente Alfonso d’Aragona.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina

per la prima parte si veda

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

 

Tutto in una notte. La guglia di Soleto e la carcara ti li tiàuli

 

di Marcello Gaballo

 

La bellissima guglia di Soleto è uno dei capolavori di Terra d’Otranto ed è ben nota a tutti i pugliesi per la sua storia e per la ricca decorazione che offre.

Chiunque arrivi nelle operosa cittadina è accolto dalla maestosità dell’opera quadrangolare e dal fine lavoro di ornato che sembra scatenarsi dal terzo ordine in poi, per quietarsi nel tiburio ottagonale, librandosi nel cielo del Salento attraverso le maioliche policrome del capolino conclusivo. Indescrivibile la sensazione provata quando lo si osservi al tramonto, quando la luce solare radente esalta ogni minimo ricamo lapideo esaltandone la bellezza e l’originalità.

Le singolari bifore, gli intagli e i numerosi arabeschi, le colonne tortili, i numerosissimi mascheroni zoomorfi e antropomorfi, i superbi grifoni, le cornici trilobate, la straordinaria e delicata balaustra  rendono merito all’orgoglio cittadino soletano e alla sua inclusione tra i monumenti nazionali. Spiace, ancora una volta, constatare quanto l’arte meridionale, e salentina in particolare, sia poco considerata e pubblicizzata.

Tralasciamo le vicende architettoniche della chiesa, che fu ultimata nel 1783 dal copertinese Adriano Preite. Questi addossò la semplice facciata alla guglia, tanto da annullare il quasi totale ed emblematico isolamento della torre[1] dopo circa 400 anni dalla sua costruzione.

Gli studi accreditati di M. Cazzato e L. Manni hanno dimostrato che il nucleo originario della nostra guglia fu edificato dal potente conte Raimondello Orsini del Balzo, proseguito e decorato da suo figlio Giovannantonio, conte di Soleto e principe di Taranto, morto nel 1463. Abbandonate dunque tutte le fantasie e improbabili attribuzioni, compresa quella a Matteo Tafuri, celebre alchimista e filosofo, esperto in esoterismo, ed occultismo e per questo ritenuto il mago di Soleto, che però era nato almeno un secolo dopo il documentato 1397, al quale risale la nostra torre.

La spettacolarità della guglia, ma soprattutto le centinaia di figure umane e bestiali scolpite nella tenera pietra leccese, hanno provocato da sempre la fantasia del popolo salentino, che ancora oggi ricorda come la terra di Soleto sia sempre stata “terra di màcari” e di magie. L’aveva realizzata in una sola notte il mago per antonomasia, Matteo Tafuri, con l’aiuto dei diavoli che, sorpresi ancora al lavoro mentre arrivavano le prime luci dell’alba, furono pietrificati ai quattro angoli della guglia.

Del tutto inedita la novità di tale leggenda, come ho potuto scoprire lo scorso anno, intervistando E. F., un anziano di Nardò. Con aria misteriosa e nel contempo colorita mi ha svelato di conoscere il luogo da cui i diavoli avrebbero prelevato le pietre e la calcina per innalzare in quella notte del 1397 lu campanaru ti lu tiàulu a Sulitu.

Il luogo – mi riferisce sempre il signore – è ancora denominato la carcara ti lu tiàulu e si trova nei pressi della località La Strea, sul litorale che congiunge S. Isidoro e Torre Squillace a Porto Cesareo.  La carcara sarebbe una delle fornaci di cottura sparse nel territorio nelle quali si ricavava la calce e il saggio dell’amico Fabrizio Suppressa  è molto esplicativo.

Ho potuto verificare, grazie alla consulenza preziosa di Salvatore e Antonio Muci da Porto Cesareo, che la leggenda tramandata trova degli elementi validi sul territorio. La carcara esisteva realmente nell’entroterra, poco prima dell’ingresso a Porto Cesareo, giungendo da S. Isidoro, a circa trecento metri dal litorale. Poco distante da questa vi era, almeno fino agli anni 70 del secolo scorso, la petra ti lu tiàulu, un enorme macigno collocato su massi e pietrame di diversa misura, simile ad una “grotta”, purtroppo frantumato in occasione delle costruzioni abusive di quegli anni. Dalle testimonianze raccolte si potrebbe ipotizzare l’esistenza in quel luogo di una tomba preistorica a camera singola ovvero un dolmen, sfuggito alle ricerche e ai censimenti salentini di tali costruzioni megalitiche. La celebre petra poteva dunque essere il lastrone orizzontale del dolmen e le altre petre piccinne i lastroni verticali.

Ma l’immaginario collettivo è andato ben oltre, addirittura tramandando che in quel luogo si potessero udire  li catene ti lu tiàulu, dei rumori strani, sibilanti e roboanti, forse collegabili al rumore del vento attraversante antri o forami evidentemente non localizzati.

A poche centinaia di metri da qui, questa volta sulla costa, ancora due toponimi sono ancora noti al popolo Cesarino: lu puestu ti li tiàulu e la punta ti lu tiàulu, entrambi nelle immediate vicinanze di torre Squillace.  Insomma una precisa localizzazione che ci fa interrogare su cosa realmente avesse inciso sulla fantasia popolare, tanto da perpetuarne la leggenda fino ai nostri giorni.

Effettivamente questi luoghi, che per comodità identifichiamo con la località la Strea (derivante da “la strega”?), hanno ospitato un villaggio protostorico, dell’Età del bronzo, e gli scavi del 1969 condotti dalla Sovrintendenza Archeologica di Taranto hanno rinvenuto diversi oggetti, un anello fenicio, iscrizioni graffite in dialetto laconico, statuette votive, ceramiche micenee e bronzi locali. A qualche miglio fu rinvenuta anche una statua egizia del VII/VI sec. a.C. denominata Cinocefalo, oggi conservata nel Museo Archeologico di Taranto. I ritrovamenti hanno altresì dimostrato la protezione di quel luogo con un muro alto circa 2,50 metri, con andamento istmico fatto da massi regolari sovrapposti a secco.

Forse proprio questi massi, probabili avanzi del Limitone dei Greci, e la calcara sarebbero stati il motivo di tanta meraviglia che ha fatto immaginare orde diaboliche intente a trasportare il materiale fino a Soleto, per erigere la sorprendente guglia in quella magica ed indimenticabile notte di oltre seicento anni fa.

 

Bibliografia essenziale

M. Cazzato, Note di archivio. Lavori settecenteschi alla guglia di Soleto, in “Voce del Sud”, 14 maggio 1983.

L. Manni, La guglia di Soleto. Storia e conservazione, Galatina 1994.

M. Montinari, Soleto una città della Greca Salentina, Fasano 1993.

S. Muci, Porto Cesareo nel periodo contemporaneo, Guagnano 2006.

Civitas Neritonensis. La storia di Nardó di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, (a c. di M. Gaballo), Galatina, 2001.

G. Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del limitone dei greci, in “Archeologia Medievale”, XXVII, 2000, 333-355.


[1] Come giustamente mi ha fatto notare l’amico Gino Di Mitri nelle incisioni del Desprez (Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile di Vivant Denon) la guglia è mostrata come addossata non alla chiesa, ma a un portico verosimilmente posto sul lato ovest.


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