Terra d’approdo

ph Anna Sterpone

di Wilma Vedruccio

La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.

E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì,  sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.

In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.

Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.

E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.

Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.

C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.

Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.

In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.

A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.

A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.

Seguono approdi improvvisi,  solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.

Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.

Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.

 

La Puglia e la “taranta” in un repertorio di simboli del 1603

di Armando Polito

Una delle espressioni più significative dell’erudizione rinascimentale fu il proliferare di repertori di simboli in forma di schede corredate o meno di immagini. Tra questi forse il più noto è, pur non essendo il più antico,  l’Iconologia di Cesare Ripa, la cui  prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

 

Le schede di questa prima edizione riguardavano solo le virtù e i vizi ed erano prive di immagini. Alle virtù ed ai vizi si aggiunsero alcune schede di carattere geografico con relative immagini a cominciare dall’edizione del 1603 (frontespizio in basso) uscita per i tipi di Lepido Facii a Roma.

 

Riporto di questo testo le pagg. 265-267 con mia trascrizione a fronte, espediente che mi è servito ad inserire qualche nota. Buona lettura!

 

 

Che fine hanno fatto a distanza di quattrocentodieci anni il grano, l’olivo e il mandorlo? E nella Taranta di oggi cos’è sopravvissuto di quella di ieri e come? E alla fine dei prossimi cinquant’anni cosa sarà diventata la Puglia, unicamente per nostra colpa? Temo che il suo nuovo stemma sarà la solitaria torre d’acciaio di una piattaforma petrolifera; ma in compenso, allora, non si dovrà scomodare tutta questa circollocuzione: basterà derrick1 e non si correrà il rischio di essere assaliti dalla nostalgia del ricordo del famoso ispettore dell’altrettanto popolare serie televisiva del tempo che fu …

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1 La voce nacque agli inizi del XVII secolo dal cognome di un impiccato, passando al significato di boia, poi di forca, nel XVIII secolo a quello di sollevamento, gru, da cui è derivato il significato moderno di torre di perforazione.

 

 

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Asparagi. Ecco le ricette salentine

di Massimo Vaglio

L’asparago (Asparagus officinalis), è una pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Liliacee, originaria delle zone steppose e sabbiose dell’Europa orientale, in particolare dell’Asia Minore. I suoi turioni, che sarebbero la pianta allo stadio medio-giovanile, costituiscono un prelibato, interessante ortaggio, per tale motivo, viene intensamente coltivato in tutti i paesi a clima temperato ove si adatta ovunque, sia nelle zone litoranee più calde, tanto in quelle collinari e interne più fredde, purché il terreno sia ben drenato, molto sciolto e permeabile. I ristagni idrici provocano infatti la marcescenza dei rizomi e delle radici carnose, comunemente appellate zampe.

Conosciuto sin dall’antichità, viene storicamente apprezzato anche per le sue proprietà nel trattamento dell’ artrite e  dei reumatismi, nonché per le sue proprietà diuretiche e depurative che non a caso gli hanno giovato l’appellativo di officinalis, costituisce anche una buona fonte di vitamina C, riboflavina e acido folico. Il caratteristico odore, che si diffonde durante la cottura è dato da un aminoacido in esso contenuto, l’asparagina.

La medicina popolare, consiglia per combattere le bronchiti croniche, una cura stagionale a base di brodino d’asparagi che acquisisce la duplice, intelligente funzione di gradito alimento e di salutare tisana. Ad avallare queste popolari intuizioni, il dott. Jean Valnet (1920-1995), eminente medico francese, che in seguito ad approfonditi studi, ci ha lasciato un ponderoso protocollo, ove ne consiglia l’uso nelle astenie fisiche ed intellettive; nelle convalescenze; nell’anemia; nell’insufficenza epatica e renale; nella gotta; nelle artriti; come regolatore della viscosità sanguigna; nelle dermatosi; nella tachicardia; nel diabete e nelle bronchiti croniche.

Insomma, ciò che si definisce un vero toccasana. Controindicandolo, però in caso di cistite e in alcuni casi di reumatismo acuto. Esistono molte varietà di asparago, ma le principali  sono: l’Asparago di Napoli, di Bassano, di Pescia, il Precoce d’Argentuil, il Colossale di Connover, il Bianco d’Olanda, il Verde Comune, etc.

Pur essendo in Puglia molto estesa e qualificata la coltivazione degli asparagi, specie nel foggiano, ove negli ultimi decenni centinaia di ettari sono stati investiti nella loro coltura, presso i pugliesi, l’apprezzamento per

Dalle orecchiette alle ‘ncannulate. Salento, terra di trafilatori

di Massimo Vaglio

In più occasioni, abbiamo illustrato i formati caserecci di pasta della tradizione salentina, dalle fatidiche orecchiette, da sempre  l’emblema della cucina di questa regione, alle ormai parimenti famose sagne “ncannulate” o agli arcaici maccheroncini cavati. Tutti  formati che ormai vengono apprezzati anche fuori regione anche grazie all’opera di promozione svolta dalle tante dinamiche aziende produttrici.

Per quanto riguarda la preparazione casalinga di questi formati, ricordiamo che le farine vengono quasi sempre ricavate da grani duri coltivati localmente e moliti artigianalmente dai tanti piccoli molini sparsi un po’ in tutto il Salento, Non si tratta quindi di semole, ma di farine, con un vario grado di raffinazione a cui, spesso, chi preferisce un prodotto più rustico vi aggiunge ad arte una percentuale variabile di cruschello ricavato dall’abburattamento della farina dopo la separazione della crusca vera e propria.

Quella della preparazione casalinga della pasta è una pratica semplice che necessita principalmente di una buona materia prima, pochi rudimentali attrezzi e di una sicura manualità.

Il Salento, è però anche terra di rinomati opifici per la produzione industriale di pasta secca trafilata, un’attività che non scaturisce come si potrebbe pensare dall’evoluzione della preparazione casalinga della pasta. Enorme è infatti il divario tecnologico tra le due produzioni, che se si volesse fare un parallelo è come se si mettessero a confronto una carriola con una potente auto di ultima generazione. Un divario tecnologico che parte dalla produzione della semola, per produrre la quale occorrono macchinari imponenti, sofisticati e precisissimi quali i molini di alta macinazione. Piuttosto, la produzione industriale rappresenta il frutto della lenta evoluzione di un’attività che, iniziata

Girolamo Cenatiempo nella chiesa del SS. Crocifisso di Taranto

 

di Nicola Fasano

Nella valorizzazione del patrimonio storico artistico di Taranto non si può trascurare l’importante contributo del pittore napoletano Girolamo Cenatiempo, artista allievo di Luca Giordano, che nel capoluogo ionico realizzò due tele di grande formato raffiguranti: il Martirio di San Bartolomeo e la Visione dei SS. Gregorio e Benedetto Abate. Tralasciando la prima opera, la cui firma mette fuori discussione dubbi attributivi, la seconda non autografa, in un primo momento era stata attribuita allo stesso Cenatiempo da parte dello storico francescano Padre Benigno Perrone (cfr. P.B.P.Perrone  in  I conventi della serafica Riforma di San Niccolò in Puglia, 1590-1835, Galatina 1981 p. 62) e uccessivamente ricondotta da Galante a Paolo De Matteis (cfr. L.Galante, Per la fortuna della pittura napoletana Puglia in  Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia III, Fasano 1989 p.240), grande interprete della pittura tardo-barocca a Taranto.

Sarebbe forse il caso, invece, di soffermarsi e concentrare l’attenzione, come propone questo breve scritto, anche sugli elementi che potrebbero confermare come giusta l’intuizione del francescano, che per primo ricostruisce le vicende dei due dipinti.

Entrambi provenienti dalla demolita chiesa francescana di Sant’Antonio di Padova, vennero donati al municipio insieme ad altre suppellettili (tra cui lo splendido crocifisso ligneo del XVI sec.), per poi essere trasferiti nella chiesa del SS. Crocifisso intorno al 1875, edificio che custodisce le due tele in cornici marmoree mistilinee esposte nei bracci del transetto. Il Cenatiempo (documentato tra il 1705 e il 1742) godette di buon prestigio presso i Domenicani e i Francescani, lavorando in Abruzzo, Lucania e nelle Puglie, prevalentemente in quella che anticamente era la Terradi Bari e la Capitanata.

A spostare l’attribuzione in favore del pittore napoletano concorrono una serie di fattori stilistici, quali i volti dei personaggi raffigurati, in particolare i puttini di marca schiettamente “cenatiempana”, che si possono confrontare con gli altri presenti nel Martirio di S. Bartolomeo e in quelli nella tela della Maddalena penitente in San Lorenzo a San Severo.

La grazia pacata e addolcita del De Matteis risulta invece più rigida e meno sciolta nei dipinti del nostro pittore, il quale nell’angelo che regge la tiara papale fa un chiaro rimando al suo maestro: Luca Giordano.

La tela raffigura sulla sinistra San Gregorio Magno in abito sacerdotale, colto nel tipico atteggiamento estatico della retorica barocca, mentre ammira la colomba dello Spirito Santo; sulla destra San Benedetto in abito nero da abate, con il libro delle regole e il pastorale, indica il cielo con l’indice della mano. In basso due angeli, di cui uno su un rocchio di colonna “pagana”, tributano l’omaggio alla chiesa terrena e trionfante, reggendo la tiara e la mitra; in alto si staglia la colomba dello Spirito Santo fra due schiere di cherubini disposti a ventaglio.

La composizione pecca nell’eccessiva specularità dei due Santi che rispondono a precisi dettami di carattere retorico e didascalico ed il risultato è la messa in scena attraverso la bloccata espressività di gesti e atteggiamenti sapientemente calibrati. A tal proposito si veda la tela di Cenatiempo conservata in Santa Maria degli Angeli ad Avigliano, raffigurante la Vergine col Bambino e i Santi Filippo Neri, Michele Arcangelo, Gregorio e Carlo Borromeo.

Il dipinto, oltre ad una evidente matrice giordanesca, richiama il timbro del De Matteis nel pulviscolo dorato della zona superiore, che risalta i volti rapiti dei due Santi e i preziosi tessuti che accendono la tavolozza. Questa contingenza stilistica con il più quotato Paolo ci permette di azzardare una datazione intorno al secondo decennio del Settecento, periodo in cui il De Matteis arricchiva le chiese di Taranto con le sue preziose opere e dal quale il minore Cenatiempo avrà preso spunto per alcune soluzioni cromatiche.

Non mancano inoltre rimandi ad un altro “giordanesco” quale Giovan Battista Lama, nelle due figure principali. Ad arricchire la composizione si schiude tra le figure un paesaggio boscoso con chiesa, che evidenzia l’attenzione del pittore nell’indagine del dato naturalistico, caratteristica riscontrabile nella tela sorella del SS. Crocifisso e in numerose altre opere del pittore.

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)

di  Francesca Talò

Calvario a Ortelle (ph Stefano Cortese)

Figli dell’atavica miseria e della devota ignoranza delle popolazioni del Sud (quasi in toto acculturate dalla Chiesa e solo su base orale e attraverso l’iconografia sacra), i calvari cittadini esprimevano il senso della vicinanza e della sentita compartecipazione spirituale alle sofferenze del Dio-uomo. Le missioni popolari, poi, e le prediche dei padri quaresimalisti, facevano il resto.

Nella varietà delle diverse culture di appartenenza, i calvari del Grande Salento si rinvengono realizzati nelle vesti di un’architettura eclettica, sia pure minore, povera, essenziale. Le forme planimetriche, che si trovano replicate su siti diversi (certamente per l’utilizzo delle medesime maestranze), sono tradotte nelle tipologie a edicola, a emiciclo o esedra, a portico, a recinto o a monoptero, mentre i registri stilistici di maggiore riferimento si ispirano alla scuola classica e neoclassica, quella neogotica, del liberty e non di rado sono presenti esempi feriti al razionalismo, ma sempre con esiti estranei o lontani da quel che si definisce opera d’arte.

La mancanza di materiali nobili e l’impiego generalizzato e non trattato della pietra locale, proveniente dalle cave vicine, hanno consegnato manufatti poco resistenti all’aggressione degli agenti atmosferici e all’azione corrosiva del tempo. Rimane, comunque, la convinzione di quanto grandi fossero la volontà e il sacrificio dei devoti, nel realizzare al meglio un’esperienza di fede e di accostamento al sacro. Tanto, lo si evince dalla cura e dalla preoccupazione dei committenti, i quali tentavano di impiegare il meglio delle maestranze in materia, come attestato soprattutto dalle prestazioni degli scalpellini, autori del decorativismo delle scarne strutture di base, sempre poi abbellite da multiformi colonne, paraste fregiate, intagli, girali e festoni carichi di foglie e fiori, terminanti con eleganti bandelle, cartigli con iscrizioni commemorative, cuspidi e pennacchi, nicchie, mensole ed altri elementi aggettanti, vasi replicanti forme classiche, acroteri ed altri elementi di chiaro prestito barocco. I risultati certamente evocavano una cultura dell’estetica, ma di stampo tipicamente popolare, così che quasi mai si arrivava all’idea di monumento, intesa nell’accezione propria del termine.

Infatti, a guardarli, è evidente che trattasi per lo più di architetture povere, a volte elementari, oggi strutturalmente malate e composte di ornamenti scultorei o pittorici in stato di forte degrado o malamente recuperati con logiche distorte di intervento. Sovente, la loro sopravvivenza è debitrice alla sola e devota generosità di privati, stante quella perniciosa assenza di una mirata politica di recupero da parte delle pubbliche amministrazioni, sempre miopi nei confronti della salvaguardia dei beni culturali minori.

Tuttavia, questi minuscoli tempi dello spirito, pur nella loro condizione minimale e lontani, com’erano, dai fasti degli ambienti liturgici, sempre hanno svolto il ruolo di fissare in concreto nell’immaginario dell’anima della pietà popolare – proprio attraverso la somma di semplici e artigianali elementi scultorei e figurativi – le scene più emblematiche della Passio Christi, così come narrata dai Vangeli. E, ancora, scorrendo le schede iconografiche di questa pubblicazione, non passa inosservata la persistenza di una produzione figurativa catechizzante (si tratti di affreschi, di tele, di bassorilievi, di statue lignee, in pietra, terracotta, di cartapesta o a impasto di cemento e gesso romano), che però sembra attingere la fisiognomica dei personaggi direttamente dai tanti volti rudi e sofferenti della terra di Puglia: i Cristi ripetono le sembianze contadine, le Madonne mutuano le espressioni di quel dolore ancestrale di tante madri del Sud, che hanno vissuto esperienze luttuose, mentrela Maddalena ola Veronica ricalcano forme e posture, tipiche delle popolane; e sempre ispirati al reale osservato appaiono anche i modelli figurativi dell’apostolo san Giovanni, i due ladroni o i restanti attori della Via Dolorosa.

Raro è il rinvenimento di firme di artisti certificati, come quelle di  Giuseppe Buttazzo (1821-1890) e Alessandro Bortone (1848-1939), attivi a Diso, Agesilao Flora (1863-1952) di Latiano o Ciro Fanigliulo (1881-1969) di Grottaglie, pittori e affreschisti rinomati, la cui presenza testimonia, in genere, l’intervento generoso di un qualche aristocratico nell’elenco dei committenti di questi sacri edifici.

Un altro dato merita di essere rimarcato: la notevole concentrazione di calvari superstiti in questa porzione geografica della Puglia. Il fenomeno, a parer nostro, si giustifica e si legittima sostanzialmente nella consolidata e secolare presenza degli ordini mendicanti, dei gesuiti e dei passionisti, protagonisti attivi della cultura religiosa popolare presso molte comunità; una presenza rivelatasi fortemente incisiva già a partire dal tempo della riforma cattolica e avvalorata anche dall’azione delle confraternite e dalla pedagogia pastorale delle diocesi e delle parrocchie.

La porzione temporale, entro cui si colloca il patrimonio dei calvari pugliesi, parrebbe circoscritta a circa mezzo secolo e si situa fondamentalmente tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi tre del Novecento. Sporadiche le realizzazioni che cadono fuori da simili riferimenti diacronici. Non è azzardato, tuttavia, pensare, come attestano alcuni esempi riportati dal Perretti, che alcuni dei calvari osservati sono rinati sui ruderi di altri più datati, abbattuti o scomparsi a causa della povertà dei materiali impiegati, per l’esiguità delle loro dimensioni, ma anche per il mutare dell’assetto urbano, che nel tempo, per l’ampliamento delle zone da demizzare, li ha miseramente sventrati o atterrati. Tanto, perché non ci sembra di cogliere alcuna documentata giustificazione storica, che limiti il loro fiorire al solo segmento epocale suddetto, tenuto pure conto del fervore dei suggestivi riti della Passione, attivi in ogni angolo del Salento e che animavano, fin dal sec. XVII, le tante pratiche di pietà, presso le laboriose e devote popolazioni di questa Terra.

Volendo concludere con una qualche riflessione da consegnare ai Lettori, vale la pena ricordare che i calvari salentini (sopravvissuti al guasto o ad azioni di demolizione vera e propria) parlano ancora del legame inscindibile tra sacro e profano, che connotava la civiltà contadina; pertanto, oggi, simili edifici sono da tutelarsi, perché tale è anche il dettato delle norme sui beni culturali, in quanto documenti materiali del patrimonio demo-etno-antropologico[1] di una comunità.

Inquadrati in un contesto più tecnico, essi valgano, ancora oggi, quali testimoni dei tanti saperi e delle competenze di perite maestranze e abili artigiani della civiltà preindustriale; per questo, recuperarli dal degrado in cui versano, vuol dire conservare i segni delle tecniche e delle strategie costruttive, a cui erano estranei alcuni materiali e l’uso massiccio della tecnologia, che ha sostituito la mano e la libera creatività dell’uomo. In questo momento, per molti di questi tempietti, appare urgente il risanamento dei danni statici, prima che le strutture vadano in collasso, come si evince dall’analisi in loco di alcuni di questi monumenti; interventi a regola d’arte possono, poi, risolvere o fermare la perniciosa decoesione dei materiali di fabbrica più usurati. E al fine di non incorrere in quel deprimente ibrido tra antico e moderno (come non è raro vedere), prima di operare e già in fase di progetto, vale la pena accertarsi dei materiali e delle tecniche costruttive poste in essere all’origine, per non sconvolgere – in situazione d’opera – l’autenticità dell’esistente e la validità storica[2] dell’edificio.

La conservazione è uno dei teoremi più categorici delle attuali scuole del restauro.

A tanto va ad aggiungersi la necessità di un programma attento di recupero degli affreschi e delle tele, che rappresentano le componenti più critiche degli antichi calvari salentini. Spesso per un fenomeno di sfarinatura o per scollamento di materiale di superficie, risultano illeggibili sia gli originari stilemi figurativi che la sintassi cromatica, quest’ultima snervata anche dagli attacchi delle muffe, stratificatesi nel tempo. Non mancano gli esempi di degrado anche per la ricca statuaria, che correda numerosi calvari; alcuni esemplari in cartapesta di certo valore artistico, provenienti dalle botteghe di Lecce, con firme anche prestigiose, denunciano distacchi e malformazione di parti non facilmente recuperabili.

Per tutto questo, anche, si leva, alta e autorevole, la voce dell’Autore – e noi lo ringraziamo –  perché, se è pur vero che questi monumenti popolari non ricadono sotto l’interesse delle soprintendenze, è per vero che è un dovere civile, per chi li detiene, provvedere alla loro sopravvivenza, non solo per consegnarli al futuro della collettività, quale prezioso retaggio della cultura dei padri, ma anche per esperire nuove strategie e logiche di valorizzazione e di fruizione collettiva di simili beni culturali minori; “minori”, però, solo per un soverchio e tecnico modo di dire.

 


[1] In sintesi, non nuoce ricordare una breve nota di antropologia culturale, che vuole significare come la presenza dei calvari nei centri urbani del Mezzogiorno d’Italia – sia un segno forte di richiesta di protezione al divino. In tal senso, essi venivano edificati quasi sempre con orientamento a nord, forse come barriera capace di fermare il buio, inteso – nell’immaginario collettivo – come tutto ciò che oscura e mette in crisi l’esistenza individuale, familiare e di una comunità intera. In origine, sorgevano più frequentemente ai limiti dell’abitato; tanto, a significare una apotropaica presenza liminale tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra la luce e il buio. Al di là del valore connotativo di luogo-memoria dei dolori di Cristo, esso appare un segno del sacro che rassicura, che offre protezione dai pericoli materiali e spirituali e tiene lontane quelle inquietanti presenze malefiche, che sempre erano avvertite come reali nella quotidianità umile e sofferente delle masse popolari.

[2] In uno dei più datati documenti internazionali normativi sul restauro, la Carta di Venezia (1964), si dice che “la conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte che la testimonianza storica”.

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”.

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina, Saggio di presentazione del volume di:  Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area Ionico-Salentina, Manduria 2011, pp. 7-15.

 

La prima parte in:

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

IL BISSO O LANA-PENNA

di Maria Grazia Presicce

Nell’era della globalizzazione arti e mestieri sono stati messi quasi in disparte dall’offerta massificata di manufatti provenienti dal mercato internazionale;  questo ha fatto sì che antiche arti manuali siano completamente scomparse sul territorio nazionale. E’ quanto è accaduto, in particolare,  nel Salento per l’antica e rinomata lavorazione del bisso detto volgarmente seta del mare. La lana-penna, infatti, proviene dal mare e si ricavava  da un mollusco presente nelle acque del mare della Puglia, la Pinna nobilis e la lavorazione della sua prestigiosa fibra pare fosse prerogativa delle donne salentine1.

http://media.photobucket.com/image/pinna%20nobilis/federico/Underwater/Shells.jpg

Purtroppo oggi le cozze penne sono divenute quasi introvabili, la loro pesca, bisogna dire per fortuna, è illegale e di conseguenza pure il semplice nesso lana-penna è caduto nel dimenticatoio. Eppure anticamente il nostro mare doveva pullulare di questi esemplari che, oltre che per la preparazione di squisiti piatti, venivano utilizzati per ricavarne e lavorarne il prezioso ciuffo, il già detto bisso o seta del mare.

http://www.chiaravigo.com/wordpress/il-bisso
http://www.tuttocitta.it/guida/carbonia/foto

Non so se questa specie di mollusco al pari delle cozze nere si possa coltivare. Se così fosse non guasterebbe che qualche volenteroso s’adoperasse a riprenderne la produzione: in un periodo di profonda crisi del lavoro il rilancio di un artigianato che ristabilisce il contatto con le peculiarità territoriali, senza prescindere dal loro utilizzo rispettoso dele esigenze naturali, dovrebbe essere riconsiderato  e chissà se la riproposta della lavorazione della  lana-penna non potrebbe divenire un’opportunità per il territorio salentino, magari abbinando la sua lavorazione alla tessitura delle altre fibre naturali presenti sul territorio.   Mi rendo, comunque, conto che non è cosa facile, data la competizione con i manufatti industriali che sono stati la causa principale della perdita dell’artigianalità in genere, oltre che dell’appiattimento del gusto artistico. Purtroppo l’invasione dei manufatti industriali, omogenei e senz’anima, ha contribuito a far anche sparire la manualità e la creatività. Dovrebbe essere compito della scuola individuare e coltivare qualsiasi talento, fornendo ai giovani le basi da cui partire per ridare valore alla manualità (che non sia sinonimo di avvilente, passiva esecutività) e, ancor prima, forse, attrezzarli per non cedere, loro per primi,  alle lusinghe di un mercato prono alle leggi di un bieco profitto e far capire che sporcarsi le mani in senso reale è infinitamente più nobile che sporcarsele in senso metaforico, per quanto in quest’ultimo caso spesso lo sporco stenta ad essere visibile e, perciò, perseguibile…

Contemporaneamente (altrimenti si mette in campo il solito, sterile gioco dello scaricabarile) dovrebbe intervenire il sistema politico,  promuovendo il prodotto artigianale su un vasto reticolo di relazioni culturali tra i vari paesi, favorendo   il commercio   dei manufatti e lo scambio reciproco  di esperienze degli artigiani, come oggi si dice, dell’area euro, ma solo di quelli veramente bravi…

Visitando alcune delle poche botteghe superstiti dei nostri paesi, mi ha colpito il clima di solitudine che vi aleggia, nel senso che l’unica presenza umana è quella del titolare. Ricordo che fino a pochi anni fa questi erano luoghi affollati di ragazzini e giovani che nella bottega (specialmente nel periodo di chiusura scolastica) trovavano un punto di ritrovo oltre che di insegnamento/apprendimento. Tutto questo ora è scomparso e la desolazione ed un innaturale silenzio la fanno da padroni. Le cause sono certamente molteplici e non ascrivibili tutte a questo o a quell’attore: da un lato l’avversione dei ragazzi all’approccio a qualsiasi tipo di attività artigianale e la progressiva, inesorabile scomparsa dell’antico e benefico rapporto tra maestro e apprendista. Questo rapporto nel tempo si è svalutato a causa del costo della mano d’opera e di tutti i cavilli legali a cui  il maestro è costretto ad assoggettarsi per non incorrere nell’illegalità. Le varie, a volte complesse, capziose, per non dire demenziali, procedure burocratiche contribuiscono a far desistere il maestro artigiano dal prendere in bottega apprendisti da avviare alla sua arte, ammesso che, per quanto s’è detto, ce ne fosse qualcuno disponibile. Si dovrebbe fare in modo di facilitare l’inserimento dei ragazzini in bottega, cosicchè stimolando la loro creatività e manualità, essi potrebbero essere avviati alla realizzazione di un metodo progettuale ed anche all’acquisizione di una propria capacità critica ed estetica che li approccerebbe all’innovazione del prodotto artigiano e quindi alla rivalutazione e al rilancio economico dello stesso. Rivalutare l’artigianato e l’arte sarebbe davvero un valore aggiunto per questa moderna società e la riscoperta della lavorazione del bisso potrebbe essere un esperimento da non sottovalutare. Ma, prima ancora di rivisitare il passato, bisognerebbe proteggere il presente, anche perché l’’interruzione nel ricambio generazionale anche in questo campo avrà esiti nefasti: passati, infatti, a miglior vita i maestri che non hanno fatto in tempo a trasmettere il loro sapere e saper fare, non ci sarà la cosiddetta “scuola”, così come quella genericamente intesa, senza virgolette, è da tempo morta e sepolta…

Deutsch: Das Bild zeigt die Schalen einer Edle...
Deutsch: Das Bild zeigt die Schalen einer Edlen Steckmuschel. (Photo credit: Wikipedia)

È una magra consolazione scoprire che delle problematiche relative alla rivalutazione dell’arte del bisso si era occupato il dott. Cosimo De Giorgi in due articoli apparsi su Il cittadino leccese. Nel primo del 2 marzo 1867 così scriveva (ho aggiunto, e questo vale anche per l’altro testo, solo le mie note di commento):

All’esposizione internazionale di Parigi sono stati, non è guari, inviati dalla nostra Commissione provinciale i prodotti tanto grezzi, che lavorati della Pinna rudes, e della P. nobilis: detti dagli antichi e dai naturalisti bisso: dai moderni tecnologi Lana-penna. Su questi prodotti, richiamo oggi l’attenzione dei miei concittadini, perché se non esclusivi in Italia sono almen propri, delle nostre Jonie costiere: ed è bene, che tutti ne conoscono l’origine, l’uso , ed il valore industriale. Qualche rapido cenno storico naturale sul mollusco generatore della Lana-penna. Il mondo vivente nell’Oceano, non è men ricco di preziose sostanze, utili alle scienze, alle arti, ed allo svolgimento dell’umano progresso, di quello che solca l’aere profumato della nostre valli litorane;o chè si muore, sente e respira sul breve guscio solido del nostro Pianeta. – L’occhio scrutatore si spinge baldo e ardimentoso a disvelare i misteri, che si nascondono fra i banchi contornati di corallo, fra gli eterni fiori di pietra delle isole madreporiche, fra gli scogli e le sabbie conchilifere, che formano il substrato delle acque. Il velo azzurro delle onde non è pel naturalista un diaframma impermeabile, ma una lente: ed egli se ne serve per scoprire la natura in esse guizzante, o lentamente moventesi o fissa; e stabilire le leggi e studiare in modi diversi coi quali in essa la vita si propaga e si svolge – ci passa davanti lo stuolo numeroso degli enormi cetacei, tanto ricchi di tradizioni storiche e di superstizioni, quanto utili all’uomo per prodotti primi e secondari: mondo popolato dai poeti; sconosciuto ai naturalisti fin quasi al secolo XVI. Uccelli, rettili, e batraci, son tutti regni della natura, che hanno nel liquido elemento i loro rappresentanti in parte oggi dispersi, in parte disseminati sulle terre argillose delle nostre marne e delle nostre crete subappenniniche: giganteschi esemplari e mirabili di una fauna estinta o ignota. E qui l’orbe organizzato dei mari ci si schiude in tutta la sua pienezza, e con speciali condizioni organiche necessarie alla vita  nelle onde, ci delinea nuovi ordini di viventi: i pesci, i crostacei, i molluschi; questi più numerosi degli altri due, sia nelle epoche paleontologiche, che nelle moderne: non pertanto utili tutti come alimento all’uomo, e pel tecnologo nei loro prodotti secondari. I raggiati, gli infusori, i protozoari, ultimo gradino della vita animale, popolano quei vasti bacini, siccome flora che ne smalta le immense, deserte e profonde vallate , ignare della burrasca, che talora infierisce negli strati superiori. Quanta vita, quanta ricchezza nell’oceano! Eppure dirò col ch. Lessona  che “ poco assai è quello che si conosce intorno agli animali marini, rimpetto a quello che  resta ignoto; che appena della vita del mare si sa un po’ più di quello che vegeta e striscia, o guizza presso le spiagge e a poca profondità”- oh si facesse almen conto di questo, aggiungerò io: che le arti e l’industria nazionale assumerebbero nuovo incremento, del pari che il progresso materiale della società. Volgiamo ora un colpo d’occhio al nostro mediterraneo: solleviamo la cerulea frangia dei nostri golfi ameni e ridenti dello Jonio, ed osserviamo alcuni molluschi. Voi li troverete analoghi a quelli delle coste tirrene della Calabria e della Sicilia, tranquillamente cullatisi nel breve giro dei seni marini, o nei limpidi laghi di acqua salsa, quasi a schermo della bufera: non li cercate nell’Oceano, perché in esso danno luogo ad altri confratelli, di specie diversa, ma che pur rivestono analoghe apparenze.  Una corrente di acqua  dolcemente calda e quieta, ecco il loro clima: un fondo ghiaioso, conchifero o di sabbie fini tranquille, e il loro suolo: lo stomaco e gli intestini discretamente sviluppati, ne insegnano che le alghe, i fuchi, i licheni e qualche infusorio sono il loro alimento: un piccolo crostaceo che si innicchia nel loro guscio, e colle sue otto zampe agguanta e lacera un lembo del mantello, mentre con due tentacoli aguzzi ferisce a morte, ecco il loro nemico. E l’uomo compie bene spesso l’opera della distruzione, sembra favorirne la moltiplicazione. Un corpo triangolare allungato grossetto, con organi e sistemi necessari alla vita animale; avviluppato in un mantello or bianco or rosso, epidermico chiuso al di sopra da un’appendice addominale, solcata nel mezzo, fornita di bisso alla base una conchiglia di variabile grandezza e colore a seconda degli individui, dell’età, e della specie diversa: eccovi in breve alcune apparenze microscopiche facilmente riconoscibili nei molluschi del genere Pinna. Il fulgido elmetto dei soldati romani dal quale veniva fuori un pennacchio (pinna) avrà forse dato origine a cosiffatta nomenclatura, per la rassomiglianza col ciuffo detto bisso, ch’ esce dalle valve del nostro mollusco: qui come altrove , ignota o dubbia la fisiologia di molti nomi scientifici e volgari! Nell’interno della conchiglia due robusti muscoletti servono per tener socchiuse le valve, a difesa del mollusco; e per i movimenti dell’animale in relazione col mondo esterno, d’uno interiore presso la bocca, l’altro posteriore presso l’ano: e due impronte la prima piccola e profonda, la seconda più larga e superficiale vi corrispondono nel guscio. Fissate col loro bisso in posizione verticale, le pinne aggruppate in branche, spingono l’apice della loro conchiglia, fra le alghe, fra gli scogli, fra le arene del fondo marino, mentre sollevano fluttuante nelle onde, la circonferenza delle due valve semiaperte. Se trovano uno scoglio, il loro guscio solido vi si aderisce e riman fermamente stabile, formando alla pinna una dimora permanente. Se poi non trovano che mobili arene le induriscono talmente colla secrezione e con le lacinie del bisso, da formarne un solido sostegno. Nel primo caso ogni loro mozione è impossibile; nel secondo possono spostarsi rompendo il bisso e rotolando sulla circonferenza. Nel nostro piccolo museo, osserverete due esemplari delle due varietà sunnotate; ed altri di consimili sono in via per la mostra di Parigi. Se dai caratteri del genere passiamo a quelli della specie, nuove indagini anatomiche ci si presentano corrispondenti a nuove circostanze di vita della Pinna. Di qui le 23 specie di pinne che vivono nei mari, seconda il Lamark3;  oltre 18 varietà che giaggiono allo stato fossile, incompletamente caratterizzate, dagli stati anteriori della creta calcarea, ai più recenti letti di essa, tra le varietà viventi nei nostri mari, due occupano il posto primo per le industrie: la P. Rudis e la P. nobilis: entrambe forniscono della lana penna  di eccellente qualità. I mitili a conchiglia chiusa dell’Oceanio, potrebbero forse far concorrenza alla nostra Pinna: ma come giustamente ha investigato il Poli4  essi ne differiscono per avere più grosso e consistente il loro bisso e meno intensamente colorato quantunque l’origine di esso,  pari che la composizione chimica, e la posizione in rapporto alla conchiglia, per nulla in entrambi differiscono. Questa notevole analogia di struttura e di abitudine in molluschi di specie diversa, mi ha guidato ad un’altra induzione molto più importante. E’ noto come i Naturalisti e i piscicultori d’oggidì, sappiano porre in tali condizioni certi molluschi, da ottenerne una moltiplicazione gradualmente crescente. Sulle spiagge dell’isola del Re la coltivazione delle Ostriche è talmente produttiva, che dal solo dipartimento della Charente Inferieure si esporta annualmente per tre milioni di Lire. Così pure il nostro De Filippi5  osservando non altro le perle, che secrezioni prodotte da certi speciali infusorii, che vivono parassiti fra le valve e il mantello della Meleagvina Margaritifera, delle Unio ecc. ecc. ha proposto metodi speciali per favorir l’industria delle perle. Ebbene nessuna varietà tipica esiste fra i due molluschi or notati, e la nostra Pinna: sotto lo stesso cielo nettunico, e sul medesimo suolo; vivono come in famiglia le Ostriche esculente, il prezioso mollusco
della perla, e la pinna dal nobile ciuffo. Io v’ho detto su, che i Mitili sono analoghi alle Pinne per vita e per prodotti industriali. Ora pongo il problema. Nell’Oceano sulle coste francesi si è ottenuta la moltiplicazione artificiale dei Mitili; non potremmo con tutta ragione tentare e sperare lo stesso delle Pinne su scala ben larga ed estesa? Non potremmo ancora favorire l’accrescimento graduale di quel prodotto primo detto Lana-Penna? Problema, che io propongo, ma non oso sciogliere, almen per ora: i Naturalisti del nostro paese, i marini delle nosre costiere me ne forniscano prima i dati statistico-pratici. Problema però, che sarà sempre collegato all’importanza industriale ed economica dei prodotti primi e secondari del nostro mollusco: ma su ciò un’altra volta.

L’illustre scienziato salentino fu di parola perché nel numero del 22 marzo dello stesso anno così scriveva:

Io non so se mai, nell’osservare qualche varietà di pinna vivente nella sua dimora e tomba calcarea, abbiate cercato a voi stessi, in qual modo essa pongasi in relazione col mondo esterno – Per me dalla sola osservazione del bisso, fui tratto prontamente a questa dimanda. Ma non mi venne del pari facile  la risposta. Apersi con diligenza le valve e attentamente osservai: ma altri concorse a sciogliere il mio problema. All’occhio mio era occulto un mondo ancor più grande di quello visibile; ma quattro lenti armonizzate fra loro, me lo hanno disvelato.  Il bisso o lana-penna, è una lunga ciocca di filamenti delicati, setacei,di un bel color fulvo-bruno, brillante il che si attacca verso il mezzo della massa addominale della pinna. Esso vien fuori qual mobile pennacchio, dalle sue valve di madreperla, tinte di rosso, di scarlatto, di amaranto, zigrinate come l’onice arabescate. Questo nome fu ancora impartito da Linneo  a molte piante fornite di filamenti del pari sottilissimi e setacei, come fra le alghe il Bissus flos aquae, il Bissus vellutinus, l’Asclepinde siriaca ec.ec. basti ciò, per evitare l’equivoco, che fino a un certo tempo, ha pur dominato nella storia filologica di questa sostanza. Il Blainville6 ritenea, che il bisso fosse una riunione di fibre muscolari seccate in parte, e in parte contrattili, finchè l’animale vive; e specialmente mobili alla radice nel punto, dove traversata la conchiglia e il mantello; va a trovare l’addome del mollusco. Una volta morto questo, secondo l’autore francese, la parte carnosa si dissecca, ed il resto si converte in lana. Il microscopio ha confutato in parte questa opinione dottrinale: tra le fibie muscolari o le produzioni cornee gran divario intercorre, e qui si rinvengono le une e le altre. L’osservazione micrografica e chimica mi confermò l’origine muscolare nelle fibre dell’apice del bisso: ma provò esser questo un prodotto di secrezione, come la tela filata dal ragno, come la seta filata dai filugelli, come la lana prodotta sulla superficie termica da un apposito apparato glandolare. Ma andò più oltre : essa mi fa assistere ancora alla riformazione del bisso.  Mi fè veder verso l’apice della conchiglia un musco letto conico, scavato come una doccia da un solco longitudinale; musco letto che ritorto su se medesimo serve del pari che al ragno ed ai mitili come filiera, per trarre fuori il bisso in fili più o meno grossi e consistenti. Osservate: una materia liquida, semifluida, tenace, viscosa vien segregata da certe ghiandule, che riposano ai lati della linguetta muscolare or notata; essa traversa la doccia, traversa la filiera, viene in contatto cogli agenti esterni, acqua ed aria, si dissecca, e assume la tenacità propria della lana-penna; o peldinacchera, come altri lo dicono. Una volta formatosi un gruppo di quei peli, il Mollusco si attacca a tutti i corpi estranei che incontra, e con esso si fissa e si rende stabile, dondolandosi mollemente nella conchiglia, spinta in alto dalla pressione delle onde: così si nutre e si moltiplica. Di qui grande esser dee la diligenza nel trar su le pinne di fondo dei mari, perché il bisso non resti adeso al fondo di essi, come si spesso accade specialmente per quello più sottile e più bello, ma meno tenace della P. nobilis. Esciamo ora da questo intricato labirinto di termini zoologici veniamo a respirare aure, se non più grate, almeno più piacevoli; illustriamo la parte economica ed industriale. Ebbero gli antichi scarse ed inesatte nozioni del bisso; i caratteri fisici più appariscenti fecero ritenere come identico il bisso proveniente da certi vegetali ( alghe e licheni) con quello dei molluschi; di qui, gran buio sulla vetustà dell’uso di questo prodotto. Certo è, che quello che quello delle Indie e della Giudea venia molto ricercato: i paludamenti sacerdotali, le porpore dei re splendeano di fulgidissimo bisso: il tempio come la reggia, allora come sempre, erano le sale del fasto, della ricchezza, della magnificenza! Di bisso, è fama, avvolgessero il corpo dei defunti i nostri vecchi latini per raccorne le ceneri fra le stipe divampanti dei roghi: ma questo bisso! Com’è evidente, era il tessuto delle fibre setacee alluminio-magnesiache dell’amianto.  Saltiamo a tempi più vicini a noi; e troveremo il ciuffo lanoso dei Mitili oceanici messo in uso per farne, tessuti, drappi; coltri ecc. d’un bel color fulvo-lionato. Tali, quelli del Decretot6  presentati ad un’altra accademia di Parigi. Man mano cresce l’industria, in regione, che la scienza addita nuovi molluschi forniti di lana-penna: grado, grado le arti meccaniche ne migliorano le specie. Il Ternaucz7 ha superato tutti: egli espose non ha guari all’Accademia delle scienze in Parigi, i tessuti di fibre lanose dei mitili, comparandole coi migliori drappi di lana merinos; ed il favore generale fu pei primi. Non è dunque ora, o lettore, che si introduce la lana-penna nelle arti, neppure è trovato della nostra provincia, gli è un prodotto primo ignoto a molti fra noi, e come tale ho creduto bene fosse fatto palese. Le proprietà d’un prodotto son veramente quelle, che ne esprimono il suo vero valore. Ebbene, nel bisso voi avete una serie di fibre omogenee di natura uniformi in grossezza, in consistenza in colore or fulvo-bruno, or rosso marrone, or bruno lionato. L’Eriometro ne addita che le sue fibre superano in finezza quelle della lana migliore. L’elasticità e l’uguaglianza del pelo, lo rendono adatto a qualunque genere di lavori, a tessuto, a drappo, a feltro. La lucentezza, e la morbidezza dei panni inviati all’Esposizione dalle Suore del nostro Orfanatrofio suburbano, del pari che la lunghezza e la leggerezza di essi, si raccomanda di se alla pubblica ammirazione. Resta a dire della calorificità, della diatermasia, delle proprietà elettriche, chimiche, organiche del bisso; argomento abbastanza delicato, che cercherò di svolgere in prosieguo, dietro studii molto accurati. Di fronte ai vantaggi suaccennati, vi ha due inconvenienti uno proprio alla lana-penna; l’altro a questa, ed alla lana comune. In momenti come questi di dissesti finanziari, è egli economico l’uso della lana-penna. Forse tu; o lettore, con riso Mefistofelico, arricciando i baffi giustamente ne dubiterai, specialmente se avrai veduto il modo col quale si pescano le Pinne, nei nostri mari: e quanti di questi non trascinano seco loro, che poco o punto bisso. Ma in ciò la colpa non è tutta del povero mollusco: l’è pur nostra. Dimmi un po’: perché tu compri le ostriche solo per mangiarti il corpo dell’animale chiuso nella conchiglia? Perché butti via le valve di questa: le non ti giovan forse a nulla? Eppure se ne studiassi la chimica composizione vedresti che son più utili all’agricoltore i gusci delle ostriche, di quello che non sia al tuo stomaco questo mollusco indigeribile ed insalubre.  Lo stesso dicasi delle Pinne, che fin qui abbiam pescato e adoperato solo per nutrimento: e le valve di argento, di rosa, di madreperla, ed il bel ciuffo rosso-morato si è tenuto pressoché inutile o di poco di valore. Non dovremmo piuttosto far l’inverso? Non dovremmo  anzi cercar di moltiplicar questi molluschi per l’utile estrazione della lana-penna? Perché nei soli Musei dee vedersi qualche drappo di bisso, a futile esempio, scevro d’incitamento al bel fare? Così sparirebbe il Problema Economico e delle nostre Pinne si farebbe quel che la Francia ha fatto dei mitili oceanici. Il secondo inconveniente è più grave, ma comune ancora alla lana comune. Si dice che all’una ed all’altra facciano guerra i bruchi tignuoli. Io non ho esperienze in proprio; ma cercherò di farle su di un po’ di bisso di Pinna che tengo meco. Cercherò previamente di nettarlo e lavarlo con diligenza: perché altrimenti allo stato grezzo com’è, è inattaccabile dalle grigio-argentee farfalline, e ciò pei soli marini di che è imbevuto.  Proverò  ancora se i mezzi preservativi applicati in Germania alla lana comune (essenza di trementina, fumigazioni ammoniacali, e di petrol
ie) giovino ancora a custodire il bisso. Questioni tutte di tecnologia, che richieggono tempo e lavoro; mentre invece quel barbogio di  Coo
8  mi concede  ozii molto brevi, e bene spesso interrotti. Una volta però, che potessi verificar l’inalterabilità della lana-penna alle tignuole, si comprende agevolmente, che la diverrebbe più preziosa della lana comune. Due parole di Epilogo, che ben potrebbero farla da proemio. Io non ho preteso, o lettor mio, con questi cenni messi su alla buona; farti l’elogio del bisso, per solo sfoggio di scienza; e molto meno svelare alla tua mente tutti i misteri reconditi di essa: avrei forse fatto bene, ma avrei tradito la mia missione e i tuoi interessi. Ho voluto soltanto farti sapere come giustamente abbia il nostro paese apprezzato la lana-penna, inviandone le fibre adese al mollusco, distaccate, tagliate, lavate, filate, tessute, alla mostra parigina: farti conoscere, che sia il bisso, donde provenga, le sue qualità, il suo valore industriale. Agli occhi della scienza o vuoi che si dica Fisica o Chimica  applicata o tecnologia, nulla va perduto: ai prodotti primi succedono i secondarii; e questi talora esprimono un valor maggiore di quelli, il carbone di tutte le specie, la sanza degli ulivi me ne porgono una prova luminosa. In tempi critici come questi per la finanza, di tutto conviene giovarsi: un proverbio americano ne insegna che. La vera ricchezza sta nella povertà dei prodotti primi: più ricco è quegli, che sa giovarsi di tutto a qualche uso. Ma a ciò fare v’ha d’uopo di istruzione e di lavoro: basi fondamentali di ogni progresso materiale e morale. Epperò io proseguirò lavorando ad istruirti o lettore, in argomenti come questi di pratico interesse; anco a dispetto di coloro, che saprebbero e potrebbero fare meglio di me. La sola scienza, sbrigliata dallo spirito e dai privilegi di casta, è quello, che meriti giustamente il titolo di repubblicana e di cosmopolita.  

English: I took this photo at the Smithsonian ...
English: I took this photo at the Smithsonian on a recent visit to Washington, D.C (Photo credit: Wikipedia)

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1 Sull’argomento vedi Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, L’arte della tessitura nel Salento, CRACE, Narni, 2010, pp. 68-72.

2 Michele Lessona (1823-1894), zoologo, medico e divulgatore scientifico.

3 Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829) biologo, zoologo e botanico, autore della prima teoria dell’evoluzione degli esseri viventi e della ereditarietà di alcune loro caratteristiche.

4 Giuseppe Saverio Poli (1746-1825), fisico, biologo e naturalista.

5 Filippi De Filippi (1814-1867), zoologo e medico.

6 Jean Baptiste Decretot, manifatturiere della lana a Louviers, fu membro dell’Assemblea Nazionale Costituente (1789-1791) e nell’Almanach impérial del 1812 compare tra gli assistenti e tra i membri aggiuntivi dell’Ufficio consultivo delle arti e delle manifatture.

7 Errore di stampa per Ternaux. I fratelli Ternaux furono anche loro famosi manufatturieri della lana a Parigi agli inizi del XIX secolo.

8  Appellativo affettuosamente ironico che il De Giorgi dedica ad Ippocrate di Coo (V-IV secolo a. C.), il padre della medicina; ma tutto è allo stesso tempo una dichiarazione di dedizione ed amore che lo scienziato salentino nutriva per la sua professione. Ippocrate visse circa 85 anni (da qui il “barbogio”), ma non sapremo mai se raggiunse quello che ai suoi tempi era veramente eccezionale e tale sarebbe rimasto per millenni seguendo lui stesso i consigli ed assumendo i rimedi che prescriveva ai suoi pazienti…

Otranto e l’albero di Pantaleone

da Wikipedia

Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (2)

Nel volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera riprodotto qui nella sua seconda parte.

« (…) il mondo basato sulle grandi visioni sintetiche e interculturali, come quelle raffigurate sul Mosaico, si è frantumato. / La programmazione informatica, da parte sua, più che mettere ordine in tale universo, rappresenta con i suoi archivi computerizzati solo una difesa disperata, mossa dalla consapevolezza che i frantumi sono diventati cocci, pezzi ormai inutili»

« (…) Nel Mosaico c’è l’incontro tra l’integrazione culturale di Alessandro il Grande, la romanizzazione dell’Impero Romano, l’arte e la cultura dell’Impero Arabo, la Rinascenza dell’Impero Bizantino e le culture dell’Europa Occidentale: nella Cappella degli 800 Martiri, invece, c’è il risultato dello scontro tra civiltà. L’incontro produce l’“opus insegne”; lo scontro rovina, distruzione, morte»

 
 
 
da Wikipedia

L’albero di Pantaleone

Maurizio Nocera

Altro libro che mi donò Don Grazio Gianfreda, sempre con dedica, fu la sua bella e agile “Guida di Otranto” (Edizioni del Grifo, Lecce 1993), nella quale riprende l’argomento della chiesa di San Pietro, confermando alcune affermazioni e precisando alcune datazioni.

Scrive: «la Chiesa bizantina di San Pietro risale al sec. IX. È tutta affrescata. Sulla cupola dell’altare è la “Annunciazione”; nella conca sottostante è

Libri/ Puglia bizantina

La più orientale fra le regioni d’Italia, bizantina per vocazione storico-
culturale, la Puglia riscopre le sue antiche radici e la tradizionale
appartenenza identitaria ed etnica nel cuore del Mediterraneo, sulle sponde del Bosforo, nella mitica capitale dell’altra parte del mondo, Costantinopoli, da cui le vennero date lingua, culti, costumi, merci, letteratura, arte,
tradizioni e feste. E come lucente specchio, essa riflette tuttora quel mondo
antico, paesi, cattedrali, chiese rupestri, affreschi, avori, smalti,
oreficerie, codici miniati, pergamene, reliquie di santi e stauroteche,
custodite gelosamente, come faville di un fuoco sacro – il fuoco greco –
alimentato perennemente dalla comune consapevolezza di conservare l’afflato di una civiltà e cultura insuperate, che incorona, con l’oro di Bisanzio, la
regione dall’uno all’altro promontorio, dal Gargano adriatico a Leuca ionica ed egea.

 

L’Autore
Nino Lavermicocca è nato a Bari il 16.10.1942. Laureatosi in Lettere classiche presso l’Università di Bari, ha frequentato la Scuola Speciale per Archeologi Medievali dell’Università di Pisa e  l’Ecole Pratique des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Ha anche trascorso 1 anno presso il Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies di Washington. Dal 1967 al 1980 ha svolto attività di ricerca e di didattica tenendo seminari, lezioni ed esercitazioni presso l’ Istituto di Storia dell’Arte e l‘Istituto di Letteratura Cristiana Antica dell’ Università di Bari collaborando  a scavi ed esplorazioni e partecipando con comunicazioni e relazioni a numerosi convegni nazionali ed internazionali.
Dall’1.10.1980 con la qualifica di Direttore Archeologo  presso la
Soprintendenza Archeologica della Puglia, è stato responsabile del settore
medievale della Regione e condotto scavi programmatici ed esplorazioni di
archeologia medievale. Promotore di Mostre allestite dalla Soprintendenza
Archeologica e dal Museo Archeologico di Bari, di attività didattiche,
Itinerari Turistico-Culturali e  numerosissime iniziative culturali,  ha al suo
attivo numerose pubblicazioni.
Attualmente svolge attività di studio e ricerca come libero professionista.

 

 

Nino Lavermicocca, “Puglia bizantina. Storia e cultura di una regione mediterranea (876-1071)”, Capone Editore 2012. Pagine 168 € 17,00,

ISBN: 978-88-8349-163-4

www.caponeditore.blogspot.com

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Il quadro, il fonte, la pietra. Nuovo contributo sul santuario di San Pietro in Bevagna

Quantcast

di Nicola Morrone

 

E’ nota l’importanza che per la comunità manduriana riveste il santuario di San Pietro in Bevagna, collocato in riva al mare, a 10 km. dalla città, e fulcro della vita religiosa della omonima frazione balneare, popolata soprattutto d’estate. In questa chiesa, non diversamente da quelle che possono vantare un’antichità così alta, ogni oggetto si riveste di un significato particolare, storico, artistico, o devozionale. E ogni opera, anche la piu’ umile, è testimonianza di un passato, spesso remotissimo, e al tempo stesso nostra  contemporanea, per il fatto di essere ancora presente in questo luogo carico di un indiscutibile fascino, e  pronta a suscitare  piu’ di un interrogativo.  sono tanti, nel santuario, gli oggetti che hanno un particolare significato per i fedeli  o i  visitatori, che vi si accostano con  devozione o semplice  curiosità.

Vi sono oggetti che possono vantare una secolare presenza  nel santuario di San Pietro in Bevagna, ed altri che invece vi  sono presenti solo da qualche decennio, o addirittura da pochi anni.

In questo luogo di culto così significativo per il popolo  manduriano, in cui tra l’altro sono rappresentati  i tre principali riferimenti religiosi della nostra comunità (San Pietro, San Gregorio , l’Immacolata) vi sono chiaramente anche i segni di devozioni più recenti, come quella per San Pio da  Pietrelcina (testimoniata da un quadro gia’ collocato nella cappella) e quella tutta particolare per l’Assunta, cui l’ ex parroco Don Enzo di Lauro consacrò in modo particolare il santuario. Solo per citare un altro esempio, nel santuario fecero la loro temporanea comparsa  anni orsono  anche le reliquie di Santa Faustina Kowalska, anch’ella già  rappresentata nella chiesa con la sua effigie.

Vi sono però tre oggetti cui la devozione popolare , da sempre, annette un’importanza maggiore rispetto a tutti gli altri. Essi sono, come è noto, il quadro raffigurante San Pietro, il fonte battesimale, la pietra d’altare, collocati tutti nel cuore del complesso luogo di culto, cioè il cosiddetto “sacello”, ovvero la piccola cripta alle spalle dell’altare maggiore.

Il primo degli oggetti “mitici” , probabilmente il più significativo per la devozione popolare, è il quadro di San Pietro Apostolo, racchiuso in una bella cornice lignea che possiede tra l’altro una complessa decorazione nella parte posteriore, visibile ai fedeli solo durante la processione per la festa del santo, che si svolge il 29 Giugno di ogni anno nella frazione balneare. A questo quadro, cui in passato erano stati applicati tre bellissimi ex voto in argento risalenti alla fine dell’800 ( poi opportunamente ricollocati nel sacello in una vetrina  perchè possano essere ammirati dai visitatori e dai devoti) sono legate come è noto numerose leggende, fedelmente riportate dagli storici locali nelle loro narrazioni e su cui , in questa sede, non vogliamo soffermarci.

Ci limitiamo a riportare quella (del tutto fantasiosa)che vuole che il quadro di San Pietro, nella sua versione originale, sia stato dipinto addirittura da San Luca Evangelista. Nella realtà, una rassegna delle vicende che hanno riguardato il quadro del santo, custodito a Bevagna, è possibile solo per le epoche recenti, visto che per i periodi più antichi  mancano del tutto i documenti. Sappiamo pero’ con  certezza che la storia di questo oggetto e’ stata segnata da continui trafugamenti e relative sostituzioni.

A partire dalla primitiva icona bizantina di San Pietro, non più ricostruibile , l’immagine ha attraversato i secoli, fino ad arrivare al 1914, quando è documentato il suo trafugamento ad opera di ignoti. Il rettore del santuario, allora, commissionò una nuova immagine del santo, che fosse  il più possibile simile a quella trafugata. Fu sollecitata allo scopo  la pittrice manduriana Olimpia Camerario, che realizzò nel corso dello stesso anno il nuovo quadro del santo. Anche questo, però, fu rubato, e sostituito per l’ennesima volta con un altro simulacro.

Nel 1972, su richiesta della Diocesi, dipinse il nuovo quadro il pittore Oscar Testa di Malta, mentre la versione attuale del quadro è una riproduzione fedele dell’immagine realizzata a suo tempo dalla Camerario.

Il secondo degli oggetti “mitici” che la tradizione popolare riconduce al passaggio di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna è la “vasca”, cioè il  fonte battesimale. Davvero un oggetto misterioso, questo  fonte battesimale! E’ ricavato da un blocco di basalto, è alto cm. 55, ha il diametro superiore di cm. 71 e quello inferiore di cm.31.

Da sempre collocato nel sacello “petrino” è, allo stato attuale, l’unica reliquia plastica di una chiesetta rurale di origine altomedievale che certamente, come tutte le cappelle campestri coeve, non doveva possedere alcun altro elemento decorativo scolpito, nemmeno rozzamente realizzato. Si tratta di un’opera che sarà sempre difficile ricondurre ad un preciso ambito culturale o datare con  certezza, per la totale mancanza di elementi figurativi che la caratterizza e per l’assenza, altresì,  di termini di confronto con manufatti similari datati con precisione .

Ai fini di una più compiuta contestualizzazione storica del fonte battesimale e di una conseguente  ipotesi di datazione , forse l’unico elemento che ci può aiutare, del resto  trascurato da tutti gli studiosi, è quello metrologico. Il diametro di base della vasca misura infatti cm.31, cioè un piede bizantino esatto. E il piede bizantino di cm. 31 (usato fino in eta’ normanna) è tra l’altro, come rilevato anni fa dallo studioso R. Jurlaro, la misura utilizzata per la costruzione della cappella medievale e del sacello.

Il fonte battesimale di pietra lavica fa dunque riferimento, in termini metrologici, alla cultura bizantina, e potrebbe quindi essere datato all’epoca della piu’ significativa  presenza dei Bizantini nell’Italia meridionale , cioe’ ai secc. IX-XI.

Siamo abbastanza convinti del fatto che la “vasca” battesimale, cui sono particolarmente devoti i pellegrini, faccia riferimento alla presenza dei monaci italo-greci (i cosiddetti “basiliani”) nel santuario, mentre escludiamo che il manufatto sia stato fatto arrivare in loco dai monaci benedettini d’Aversa che alla fine del sec. XI presero possesso della cappella  e del vastissimo feudo ad essa pertinente (la famosa”grancia” di San Pietro in Bevagna)in seguito alla donazione dei principi normanni.

Oltre al problema della datazione e della committenza, il fonte battesimale pone quello della sua provenienza. A questo proposito, ci pare naturalmente da scartare l’ipotesi che la vasca sia stata realizzata procurandosi la materia prima dai dintorni del santuario. Il manufatto, composto da pietra lavica (basalto) è stato  verosimilmente importato in tempi remoti.

Uno studio scientifico, pubblicato nel  2000  e condotto dal prof. Paul Arthur dell’Universita’ di Lecce (cattedra di Archeologia medievale) ha evidenziato che le rotte commerciali antiche e medievali relative ai manufatti in pietra lavica, coinvolgenti anche il Salento, avevano come punto di partenza le isole dell’Egeo (soprattutto la località denominata Melos) e, dall’altra parte del Mediterraneo, la Sicilia, e in particolare l’area etnea.

Sia i manufatti provenienti dall’Egeo che quelli provenienti dalla Sicilia (Etna) sono probabilmente transitati, con riferimento al Salento, attraverso porti quali Otranto, Brindisi, Gallipoli e Taranto.

Un elenco dei rinvenimenti di manufatti in pietra lavica (essenzialmente macine), su siti della Puglia Meridionale con presenze di età medievale indagati archeologicamente in modo sistematico, mostrano una prevalenza dei manufatti provenienti dall’Etna rispetto a quelli di origine egea. A questo punto, ferma restando la necessità di un’analisi petrografica della roccia vulcanica che costituisce il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna (che potrebbe essere effettuata con la collaborazione e il permesso dell’autorità diocesana), riteniamo che ci siano fondate ragioni per credere, in linea teorica,  che, esclusa naturalmente del tutto un’ improbabile origine locale, la pietra lavica di cui è costituito il fonte battesimale di San Pietro in Bevagna possa provenire dall’Etna o dall’Egeo. E gli artefici di questa importante committenza, destinata a rimanere per secoli nel santuario (attualmente protetta da un artistico cancello in ferro battuto del secolo XVIII con le iniziali S.P.) saranno stati con ogni probabilità i monaci italo-greci al tempo in cui gestivano la cappella, cioè, ripetiamo, nei secc. IX-XI.

Essi, ben più dei benedettini d’Aversa, potevano inserirsi, per la loro stessa provenienza, nella rete di relazioni e di commercio che coinvolse nel medioevo l’area mediterranea, e  che vide transitare sulle navi oggetti, uomini, idee.

I monaci italo-greci vollero con ogni probabilità realizzare una duratura “memoria” del mitico battesimo di San Pietro Apostolo, avvenuto, secondo la leggenda, nelle acque del fiume Chidro intorno al 44 D.C, e ordinarono che fosse realizzato questo suggestivo manufatto, la “vasca” di San Pietro, che ancora oggi i pellegrini contemplano  con devozione e stupore.

Il terzo degli oggetti “mitici” collocati nel sacello petrino è la cosiddetta “pietra” di San Pietro, che secondo la leggenda servì al santo per celebrare la prima messa  sul suolo italiano, appunto a Bevagna intorno al 44 d.C.

Anch’essa è un oggetto su cui nessuno si è mai interrogato troppo, avallando automaticamente  la predetta ipotesi del tutto leggendaria. La “pietra”, in realtà un blocco di calcare delle dimensioni di cm. 93x40x 40, era in origine collocata all’interno dell’altare che si trovava in fondo al sacello, la cui esistenza è documentata da vecchie fotografie. L’altare fu demolito negli anni ’80, nell’ambito di un intervento di restauro invero discutibile, in seguito al quale si decise di stonacare anche le pareti del sacello, che assunse quindi l’attuale configurazione. La “pietra”squadrata era stata quindi collocata nell’altare posticcio a mo’ di  presunto ricordo  del passaggio di san Pietro e della sua opera di evangelizzazione sui nostri lidi, ed è di fatto indatabile.

Ai fini di una ipotesi di datazione, anche in questo caso, come per il fonte battesimale, forse ci puo’ essere di aiuto solo l’elemento metrologico. La pietra è infatti alta 93 cm., cioè tre piedi bizantini esatti. Solo casualità? A noi pare invece che anche per questo oggetto su cui nei secoli si è concentrato l’interesse  popolare si possa ricondurre tutto all’iniziativa dei monaci italo-greci che a partire dal sec. IX occuparono l’area del santuario. Anche in questo caso, con ogni probabilità, i bizantini avranno voluto produrre una “memoria” del  mitico passaggio di San Pietro su questi lidi, e avranno ordinato la fabbricazione di questo oggetto (che non ci pare certo, come del resto il fonte battesimale, di età apostolica!). Un oggetto realizzato stavolta ricorrendo a materiale di provenienza assolutamente locale, come del resto di provenienza  locale sono i blocchi irregolari di tufo e di arenaria con cui e’ stato realizzato nel medioevo l’intero sacello “petrino”.

La tecnica costruttiva del sacello rimanda chiaramente ad una età remota, e ciò sia detto a scanso di equivoci, dal momento  che questa piccola cappella, su cui esiste una vasta bibliografia, è stata considerata in passato, anche da eminenti studiosi, addirittura alla stregua della cisterna della Torre di San Pietro, la quale invece risale al tardo ‘500, ed e’ stata realizzata con una tecnica del tutto differente.

Bovino podolico del Salento leccese: un formaggio ed una carne con caratteristiche qualitative specifiche

 

da www.noci.it

 

 

di Antonio Bruno

La razza podolica del Salento leccese produce poco ma con grande qualità. La questione non è allora se andrebbe specializzato verso la carne o il latte, va, invece, valorizzato tutto il suo potenziale. Grazie a uno studio della facoltà di Agraria di Bari che ha utilizzato una forma di allevamento più razionale ottenendo il risultato di mettere questa razza bovina in rilievo rispetto al quadro agro-zootecnico italiano.
I bovini del Salento leccese danno carni saporite, così come ho appreso grazie all’amico Gigi Di Mitri che mi ha scritto: “a Soleto, villaggio postneolitico …, c’è l’allevatore Arcudi che fa carni a km zero buone quanto quelle che impazzano sulle tavole dei ristoranti parigini: basta informarsi su quali sono le macellerie salentine che vendono i suoi manzi (blue belge, frisona italiana, raramente angus, derivata bruna italiana etc) e andare di corsa a comprarne i tagli.” Ma oggi nel Salento leccese c’è anche Domenica Longo, bella ed intraprendente imprenditrice del mondo della zootecnia salentina. Domenica, 27 anni, un diploma di Perito agrario nell’azienda di papà Luigi, la “Masseria Pascarito”, nell’agro di Maglie, con un’unica passione: la zootecnia. Dichiara alla giornalista Daniela Pastore:“Io avevo già da piccolissima le idee chiare: a 4 anni aiutavo papà a mungere e a fare il formaggio. E non c’è stato un solo giorno della mia vita che non abbia desiderato di fare l’allevatrice”. Amelia sempre in quell’intervista rilasciata a Daniela Pastore afferma: “Certo, non è un lavoro semplice (fare l’allevatore n.d.r.). Io mi alzo ogni mattina alle cinque e mezzo e le vacanze me le concedo con il contagocce. Non c’è un cartellino da timbrare per cui non esiste una barriera netta fra vita privata e lavoro: quante notti in bianco passate perché una pecora doveva partorire… Sacrifici che però sono ripagati dalla soddisfazione di vedere le cose migliorare, l’azienda crescere. Si prova orgoglio perché sai di averci messo del tuo”.

Una storia di uomini e donne collegata ai Bovini del Salento leccese e del resto, tranne il destino di macello, la storia dei bovini non ha aspetti drammatici ma spesso si trova al centro di ispirazioni primitive di arte figurative, così come nella « nostra » Romanelli dove trafitto da zagaglia, troneggia il Bovino su una parete rocciosa, forse come grafica invocazione di buon augurio per le sorti della caccia. Lo stile è povero, ma sufficientemente naturalistico. Il museo paleontologico di Maglie ne presenta i calchi.

L’Istat nel 5° Censimento generale dell’agricoltura 2000 per il Salento leccese aveva contato 8.080 capi bovini. Nella Soleto del nostro buon Gino Di Mitri sono stati censiti appena 102 capi bovini, spicca una Nardò con quasi 700 capi e Uggiano la Chiesa, Galatone, Copertino, Botrugno e Sternatia con circa 300 capi. Tutto dei cento Comuni del Salento leccese non ha grandi numeri come si può vedere dalla tabella che è riportata in bibliografia.
E la Podolica, quasi dimenticata, soppiantata da altre razze bovine? Qua e là, nelle masserie del Salento leccese, le corna della podolica dovrebbero ricominciare ad essere presenti.
Questo prodotto potrebbe avere delle potenzialità nella filiera della carne, la conferma viene dalla Regione Puglia che nel 2007 ha inserito la carne podolica nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali.

Ma cosa la caratterizza? Alla vista si presenta con un grasso giallo, legato alle erbe ricche di carotene di cui si nutrono gli animali. Al gusto ha una consistenza fibrosa, ed un sapore intenso e leggermente dolciastro che richiede, insomma, come abbiamo riferito dagli studi riportati nella mia precedente nota, una frollatura ed una cottura adeguata.

La razza podolica oggi è presente nella Murgia tarantina e brindisina e ha un pelo grigio un po’ più scuro di quella allevata nel foggiano. Le corna un po’ ricurve e non troppo lunghe che caratterizzano sia gli esemplari maschili che femminili. E’ un bovino longevo visto che la sua vita media è di circa 13-14 anni. Le vacche raggiungono un peso di 800-850 kg, ed i tori addirittura 900-950 kg.

Ma qual’è l’etimologia del nome “podolico”? Si potrebbe pensare a “podos” e che questo nome derivi dal fatto che questi bovini hanno “camminato”, sono venuti con le invasioni barbariche. Ma non è così.

L’attuale bovino podolico discende dal Bos primigenius, uno dei primi bovini di cui si abbia notizia e il cui addomesticamento inizia prima del 4000 a.C. Nel Medio Oriente attorno al 2500 a.C. esistevano già parecchie razze ben differenziate di bovini domestici.
Ma il nome deriva dai Bovini che, probabilmente, sono arrivati in Italia dalla Podolia, una regione dell’Ucraina dell’Ovest posta fra i fiumi Dniester e Bug. I Podolici sono arrivati nel Salento leccese con le invasioni barbariche ed il vecchio ceppo è rimasto puro in diversi casi: i tori spagnoli da combattimento, la razza Highland e le razze italiane a corna lunghe (Marchigiana, Maremmana, Romagnola e Podolica).
Nel Salento leccese, originariamente, la cultura delle masserie era di tipo cerealicolo, alla quale s’accompagnava la pastorizia. Il bestiame era alimentato quasi esclusivamente dai pascoli. Annessi alla masseria potevano trovarsi alcuni oliveti e talvolta anche qualche bosco.

Il bestiame che veniva allevato nelle masserie nei periodi in cui queste aziende furono fiorenti era costituito anche dai bovini che venivano impiegati nei lavori della terra e nel tiro dei veicoli. Talvolta, in qualche masseria vi era anche qualche allevamento di bufali, come si deduce dalla denominazione di Bufalaria data a qualche masseria della regione salentina. Una masseria così denominata, infatti, è a sud di Ugento, verso il mare. Quando i terreni della masseria erano umidi, paludosi, i bovini sostituivano quasi completamente gli ovini.

La razza podolica del Salento leccese è di grande qualità. La questione non è allora se andrebbe specializzata verso la carne o il latte, va, invece, valorizzato tutto il suo potenziale. Questa razza, moderna quanto antica, capace di produzioni ad altissimo livello qualitativo e commerciale grazie a uno studio della facoltà di Agraria di Bari che ha utilizzato una forma di allevamento più razionale, ha affiancato alla tradizione (arte e sapienza insieme) le tecniche d’allevamento più moderne e razionali ottenendo il risultato di mettere questa razza bovina in rilievo rispetto al quadro agro-zootecnico italiano.

Bibliografia
Gigi Di Mitri: Lettera pubblicata http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2010/06/nel-salento-leccese-cerano-solo-i.html#comments
Daniela Pastore: Domenica ed Amelia, la zootecnia salentina si tinge di rosa: Un’allevatrice di bovini ed un’allevatrice di ovini a confronto, fra progetti, innovazione e sogni. Terra Salentina Gennaio 2006
MARIO MOSCARDINO: ECONOMIA POLITICA E PALETNOLOGIA NEL SALENTO
Istat – 5° Censimento generale dell’agricoltura 2000: Aziende della Provincia di Lecce con allevamenti e aziende con bovini, bufalini, suini e relativo numero di capi per comune e zona altimetrica http://www.census.istat.it/censimenti/Agricoltura/tavole/075/V1_04_14_PROV_075.pdf
Enzo Panareo: Masserie Salentine Apulia Marzo 1976
L. SCODITTI, Le masserie del Salento e le loro vicende, dattiloscritto depositato nella Biblioteca Provinciale di Lecce
L. Rubino G.T., Giordano G., Sasanelli M., Petazzi F.: PROFILO PROTEICO DI BOVINI DI RAZZA PODOLICA

Una faraonica ed eccessiva SS16 Maglie-Otranto

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AmbienteSalute
Via vico de’ Fieschi, 2 – LECCE     
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L’ASSESSORE BARBANENTE DENUNCI ALLA MAGISTRATURA LE PRESSIONI SUBITE, E SOSPENDA L’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA, ANCHE SE GIA’ FIRMATA, IN REGIME DI AUTO-TUTELA!
L’ASSESSORE BARBANENTE ALL’ ASSETTO DEL TERRITORIO DELLA REGIONE PUGLIA HA EMESSO UNA DELICATA ASSURDA AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA “CON IL FIATO SUL COLLO” COME HA DICHIARATO SULLA STAMPA (Corriere del Mezzogiorno – sabato 04/08/2012)!

LE SI CHIEDE ORA DI DENUNCIARE QUANTO AVVENUTO ALLA MAGISTRATURA!
UN ATTO COSI’ IMPORTANTE DALLE CONSEGUENZE CATASTROFICHE SUL TERRITORIO E A FAVORE DI UN APPALTO COSI’ ECCESSIVO DI MILIONI E MILIONI DI EURO PUBBLICI, NON PUO’ ESSERE EMESSO IN UN CLIMA DI PRESSIONI! INAMMISSIBILE QUANTO AVVENUTO E RISCHIA DI AVVENIRE!

APPELLO AI CITTADINI PER COLMARE LE LACUNE GRAVISSIME TECNICO-AMMINISTRATIVE NEL CASO DEL PROGETTO DELLA NUOVA SS 16 MAGLIE-OTRANTO A TUTELA DEL NOSTRO AMATO SALENTO!

Venerdì, mentre diverse associazioni ambientaliste salentine, alla presenza

Li pupiddhi ti Leuca

LETTERATURA GASTRONOMICA

“LI PUPIDDHI” DI LEUCA

Pupiddhi agro-dolce – La scapece – Pupiddhi fritti

di Raffaele Pagano

Nonostante le lodi generose che taluni (uomini e donne) continuano a tributare al pesce surgelato, cioè ai vari prodotti marini della genepesca; benché non manchi la ingorda buona volontà di alcuni pescatori, premurosi di rituffare tale merce nelle acque profumate del mare; sebbene l’abilità dei gastronomi si adoperi in mille modi, nei ristoranti, per gabellare come fresco pesce che di fresco ha solo la parentela col ghiaccio, a me resta inalteratoil gusto dell’autentico pesce fresco, il quale ha un profumo e un sapore che nessun’arte o astuzia riusciranno mai a sostituire.
E notate ch’io non appartengo alla categoria di coloro “quorum Deus venter est”: tutt’altro! Faccio parte della schiera, anche se esigua, di quelli che mangiano per vivere, e che si accontentano anche di un modesto secondo piatto, però saporito, gustoso. Non per nulla ciò che compriamo è frutto del nostro lavoro, sudore della nostra fronte. Eccovi, allora, tre ricette per preparare “li pupiddhi”, termine dialettale del Salento che, se non vado errato, vorrebbe significare “piccoli pesci” (dal latino “pupillus”, diminutivo di “pupulus”).
Essi si pescano di preferenza nel mare Ionio, e particolarmente a Leuca, estremo lembo della penisola Salentina, dal cui Capo, nei giorni di sereno, si possono vedere, sfumati, i monti della Calabria, dell’Albania, l’isola di Corfù, e godere lo spettacolo (a circa 60 m. di altezza) dell’incontro e… dello scontro dell’Adriatico con lo Ionio. E’ per questo, credo, che “li pupiddhi” di Leuca sono i più ricercati: hanno rubato tutti gli aromi a due mari, fondendoli insieme.
Se avete la curiosità di sapere a che ordine di pesci appartengono, vi dirò che sono dell’ordine dei Clupeiformi, uno dei tanti ordini in cui si divide la sottoclasse dei Teleostei, cioè dei pesci con lo scheletro osseo, e che comprendono le forme più semplici e più primitive. Per intenderci meglio, pensate un po’, ma non tanto, alle acciughe o alici, alle sardine, alle “vope” (quelle piccole) che si vendono a Napoli.
“Li pupiddhi” sono pesci duri (differenti, quindi, dalle acciughe), quasi senza squame e lunghi, al massimo, quindici centimetri circa. Gli abitanti di Leuca li acquistano sulla riva, appena i pescatori tirano le reti. E’ bello vedere codesti pesciolini guizzare ancora nella rete e sentirne il profumo speciale, derivante dalle alghe di quel mare e che supera l’amore dei due mari fratelli. Però è più piacevole, per lo stomaco, vederli belli e pronti su una tovaglia profumata di bucato e preparati in questi tre modi.

Immagine tratta da: coquinaria.it

Pupiddhi agro-dolce. Si friggono in abbondante olio d’oliva (ottimo quello pugliese), dopo averli avvoltolati un po’ nella farina, e si cospargono con sale raffinato. Finita l’operazione della frittura, si mette dell’aceto bianco in una casseruola a parte, vi si aggiunge un po’ di zucchero e delle foglioline di menta. In tale preparato si immerge il pesce già fritto e ben scolato e si fa bollire. Indi si tira fuori e si adagia in un piatto, avendo cura di disporlo in bell’ordine; poi si versa sopra l’agro-dolce rimasto, il quale prenderà man mano la sembianza di gelatina. Naturalmente il pesce si serve freddo. Si tratta di una pietanza non molto comune, ma semplice e davvero squisita. Provatela!

Immagine tratta da: www.iltaccoditalia.info › news › società › agosto 2011

La scapece. Siamo sempre con “li pupiddhi. Dopo averli ben fritti e cosparsi di sale, si collocano a strati in un recipiente, preferibilmente di terracotta, come si fa con le acciughe da salare. Ogni strato si cosparge abbondantemente di mollica, mista a zafferano e imbevuta d’aceto bianco. Sull’ultimo strato si mette un po’ di midolla di pane e si adagia un coperchio piuttosto aderente con l’interno del recipiente, con sopra un piccolo peso. Così preparato, il pesce si conserva a lungo ed è ottimo come antipasto. Un tempo, quando nel meridione si facevano delle sfarzose feste religiose, alle quali, spesso, non faceva difetto l’elemento folkloristico, era facile vedere delle tinozze di legno piene di “scapece”, che i vari rivenditori presentavano ai passanti sulle bancherelle, tra luminarie e addobbi capricciosi, e al modulare allettante di cantilene dal sapore orientale.
Altri tempi, naturalmente!

Immagine tratta da: coquinaria.it

Pupiddhi fritti. Se sono freschi di giornata, non li sciupate in olio di semi o roba simile. Procuratevi dell’ottimo olio, possibilmente pugliese, e dopo averli infarinati, immergeteli in esso quando bolle trionfalmente in una capace padella. Quindi cospargeteli di sale raffinato e serviteli caldi, quasi croccanti. Mangiateli così, con pane fresco di grano, e innaffiateli con autentico vino di Puglia, con “mieru” cioè, (dal latino “merum”), che i legittimi figli di Orazio sapevano ben distinguere dal “vinum”. Dovete infatti ricordare, secondo un antico proverbio, che: “il pesce (e specialmente di questo tipo) nasce nell’acqua, muore nell’olio e si seppellisce nel vino”.
Dopo, schiaccerete senza dubbio il più saporito dei sonni e sentirete voglia di fare un viaggio fino a Leuca, dove potrete anche visitare il Santuario di S. Maria de Finibus Terrae e dove incontrerete molti settentrionali che da Milano, ogni anno nell’estate, invadono quello splendido lembo di terra e di mare. Lì potrete comodamente allogarvi nell’albergo “L’Approdo” e nelle pensioni “Minerva” e “Rizieri”. In quest’ultima, che prende il nome da un autentito figlio di Leuca (Rizieri Siciliano), potrete facilmente gustare i più deliziosi “pupiddhi”. Buon viaggio, dunque!

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1970, A CURA DI MARIO DELL’ARCO (Dell’Arco Editore in Roma).

A Parigi: La Puglia suona, l’Italia balla…

di Gianni Cudazzo

“LES POUILLES JOUENT, L’ITALIE DANSE”

Concerto della nuova scena musicale pugliese e italiana a Parigi

23 giugno 2012, Place d’Italie a Parigi

Nidi d’Arac

La Place d’Italie sarà in festa a Parigi, dal 22 al 27 giugno, in occasione della 12a edizione della Settimana Italiana del 13°: “Italia…maintenant ?”.

Cultura, letteratura, arte, cinema (da segnalare l’eccezionale presenza del

Da Parigi. Gianni Cudazzo chiacchiera con Alessandro Coppola

Quattro chiacchiere con Alessandro Coppola, fondatore di Nidi d’Arac e direttore artistico dell’evento “La Puglia suona, l’Italia balla” del 23 giugno 2012, a Place d’Italie a Parigi

 

Alessandro Coppola

“Italia… maintenant ?” è il tema della settimana italiana di quest’anno, esiste un Italia… “d’avant” ?

Purtroppo non può non venirmi in mente, visti anche i recentissimi fatti di cronaca… un’Italia che mi auguro di non rivivere più, ossia quella delle caste, delle mafie, della corruzione, delle stragi: un’Italia indegna della sua Storia, Cultura, e di quei Grandi italiani che hanno contribuito a “elevare” l’immagine del nostro Paese a simbolo di creatività e umanità nel mondo.

Venezia, Roma, Milano o Napoli sono le città italiane più conosciute all’estero, perchè una regione come la Puglia come simbolo di questo concerto?

Da qualche anno, noi pugliesi viviamo un momento importante per la nostra regione. Iniziamo finalmente a capire che bisogna valorizzare l’immagine del nostro territorio, adoperare al meglio le nostre risorse culturali come quelle naturali e la musica sta contribuendo molto alla diffusione di questo nuovo atteggiamento. Un esempio dunque per l’Italia intera che storicamente ha una delle più grandi tradizioni musicali del mondo ma che, da un po’ di tempo, non confida sufficientemente nell’arte dei suoi “nuovi” artisti.

 

Nel contesto politico e sociale così tormentato, pensi che la musica possa essere una sorta di “ambasciatrice” dell’Italia all’estero?

Potrebbe sembrare futile parlare di musica italiana davanti a questo scenario europeo, segnato da problemi più tangibili: la disoccupazione, il debito pubblico, le tasse… ma non dobbiamo dimenticare che la cultura e quindi anche la musica, hanno un ruolo fondamentale nel preservare la democrazia in momenti difficili come questo. Storicamente, basti pensare al ruolo che ha avuto Verdi in Europa durante il Risorgimento. Quindi: perchè non pensare ad

Il culto di Sant’Antonio da Padova in Capitanata

Orta Nova (FG) Statua di S. Antonio da Padova (ph. Savino Gaeta)

di Lucia Lopriore
“L’Autentico religioso appartiene concretamente al piano della storia. Non collegato solo a periodi intrisi di forte spiritualità e di magistero della chiesa, come il Medioevo o l’età della Controriforma, si manifesta comunque di più quando il “silenzio di Dio” nelle tragedie collettive esaspera la valenza negativa del quotidiano. Con il suo potenziale di annuncio e liberazione, l’autentico religioso continua a rimanere elemento coagulante delle comunità che avvertono vivo il senso del sacro. E questo è ancora coglibile nei centri minori dove la carica culturale tradizionale, incarnata nelle forme della religiosità popolare, resiste meglio alla speculazione razionale e all’imperativo  della tecnologia che irrompe con le sue liturgie.”

Così esordisce Filippo Fiorentino, storico scomparso di recente, parlando della devozione per la religiosità popolare in relazione ai culti presenti nel Gargano.

In particolare, secondo Fiorentino, in quest’area il fenomeno religioso continua ad alimentare processi di coesione sociale, senza essere però solo esperienza storica di rapporto culturale che funziona nella quotidianità o solo coinvolgimento che legittima la realtà sociale plasmandone, attraverso il Vangelo, gli stili di vita e le scelte. La fede ha incontrato sempre la vita, il sentire, l’operare, il produrre della gente.

Nelle turbolenze esistenziali, nella ricerca del benessere e del progresso tecnologico, le comunità “marginali” del Gargano hanno sperimentato sia liberazione che secolarizzazione attraverso la dimensione culturale, attraverso la figura di affidamento miracolistico del Santo protettore. Così il culto per Sant’ Elia patrono di Peschici, o per San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, o per San Valentino a Vico, o per altri santi patroni venerati in questa zona, rappresenta l’evento determinante per la popolazione del luogo.

Il Gargano è da sempre la terra delle tradizioni. Osservando più da vicino questo fenomeno strettamente connesso a contesti di religiosità popolare, emerge lo stimolo per analizzare attentamente tale fenomeno attraverso la devozione dei Santi patroni.

Da tempi immemorabili, in ogni centro urbano che si rispetti tutti dovevano contribuire ai festeggiamenti del Santo patrono. Artigiani, commercianti esercenti arti e professioni ogni anno erano invitati a versare laute somme per le spese dei festeggiamenti.

Alcune categorie, come ad esempio quella degli appaltatori, erano obbligate dai comuni a versare una quota sugli appalti (vendita di carne, farina, neve, sale,

9 – 10 giugno 2012. Lecce Cortili aperti

di Giovanna Falco

Sfogliando la brochure di Lecce Cortili aperti 2012, c’è una frase che la dice lunga su questa manifestazione: 18 anni di Cortili aperti.

Data la natura dell’evento – l’apertura al pubblico di alcuni tra gli androni e giardini più belli di Lecce vecchia – ci s’immagina di essere accolti da giovani in abiti da cerimonia pronti a festeggiare la maggiore età di quest’appuntamento. Logicamente non sarà così, forse dovremmo essere noi visitatori a portare un omaggio ai soci dell’Associazione Dimore Storiche Italiane – sezione Puglia, perché ancora una volta ci consentono di visitare i loro scrigni di pietra sparsi nel centro storico di questa bella città.

La manifestazione prende il via sabato 9, con l’inaugurazione di due mostre e la presentazione di un libro.

Domenica 10 ci si potrà immergere nel centro storico alla ricerca dei palazzi aperti per l’occasione dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 21.30. Ci si chiederà se ci sono new entry, se ha riaperto palazzo tal de tali, se quell’altro è

Morciano e Torre Vado in lotta per le “Sorgenti”

Le sorgenti di Torre Vado (ph Marco Cavalera)

di Francesco Greco

Si tratta di uno specchio d’acqua dolce nella marina di Torre Vado, molto amato dalla gente del paese, della frazione Barbarano del Capo e dai turisti. L’acqua freddissima  sgorga con forza dal fondale e pare abbia proprietà terapeutiche.
Due anni fa il Comune concesse l’autorizzazione a una società di Taurisano, la “A.&C. Costruzioni” per l’apertura di uno stabilimento balneare proprio sulle scogliere davanti alle “Sorgenti”, privatizzando, di fatto, l’intera area.
Immediate le proteste della popolazione e dei turisti e dopo numerose manifestazioni, sulla spinta dell’indignazione popolare, il sindaco Giuseppe Picci, avvocato 46enne, revocò l’autorizzazione.
Immediato il ricorso al Tar della società.
La sentenza emessa in questi giorni dà torto al Comune, che è stato

Terra d’approdo

ph Anna Sterpone

di Wilma Vedruccio

La si può trovare a Est, lasciando la litoranea che da S. Cataldo va verso Otranto, annidata su un costone di calcare. Non una torre ma un faro-torre, il faro di Missipezza che ammicca nella notte sul Canale d’Otranto per segnalare ai naviganti alcune secche antistanti su cui cresce, rigogliosa, la posidonia.

E’ la posidonia ad approdare per prima, ad ogni autunno che ritorna, portata dalle correnti del mare ad ammucchiarsi lì,  sulla spiaggetta-porticciolo, ai piedi del faro. Le foglie brune, sminuzzate dal mare, riposano lì, poi non le vedi più, se le riprende il mare.

In direzione Nord si seguono sentieri a strapiombo sul mare, su “scenari mozzafiato” come si usa dire. Bisogna fare attenzione a non lasciarsi distrarre dalla bellezza della costa perché il sentiero può rivelarsi interrotto all’improvviso, inghiottito da una frana provocata dalle piogge o dalle mareggiate.

Ripreso il cammino, un cammino in punta di piedi per non disturbare, si può godere degli odori di stagione: una fioritura di tamerice o di mirto, un mentastro o una santoreggia sollecitati dal proprio calpestio.

E intorno voli, evoluzioni in volo di piccioni di mare, da un nido all’altro, nelle pareti dei faraglioni, cesellate.

Se poi c’è mareggiata, provocata dalla tramontana o dal grecale, il cammino si fa più coinvolgente. Da scalette che fendono la tenera roccia, si può scendere giù al livello del mare e camminare sugli scogli dove approdano le onde.. Estremo e fantastico il percorso, tra un mare mutevole a seconda del vento del giorno, e una roccia color oro che si fa modellare.

C’è il Bastimento, poi il Castello delle Microfate e l’ampia spianata di Acquaduce: qui le acque dolci sotterranee approdano al mare, formando vasche, gallerie, anfratti, dove si può avvertire il gocciolare del tempo e il respiro del mare. Il luogo ideale per la pesca con la canna, per nuotare, per prendere il sole, per meditare.

Se si vuol proseguire si arriva alla punta del Matarico e al costone a sud della baia di Torre dell’Orso con le Due Sorelle.

In direzione Sud da Torre Sant’Andrea, il cammino si fa più intimo, lungo sentieri polverosi d’estate, fangosi poi, dove si possono notare le ossa della terra che affiorano quali carrarecce spontanee e remote.

A lato, cespugli di macchia odorosi in ogni stagione, fioriti all’improvviso anche fuori stagione.

A Est l’orizzonte è solcato da vele e pescherecci, da vecchie petroliere, carghi che rimandano a Conrad e ad avventure letterarie.

Seguono approdi improvvisi,  solitari, per varia umanità, e piccole oasi di sabbia sottile. Aldilà del Canale d’Otranto, a volte, capita di vedere il profilo dei monti d’Albania, che sposta più in là l’orizzonte.

Passo dopo passo si arriva a San Giorgio dove ha inizio una catena di dune che porta a Frassanito e poi oltre, verso Alimini. Radici antiche di ginepro trattengono la sabbia di queste dune maestose sopravvissute al logorio ed alla smania dei nostri tempi e alla furia delle mareggiate.

Una vegetazione spontanea, mediterranea, le ricopre e le infiora e il mare si fa mansueto per non spaventare.

Pezza Petrosa e il fascino di una vexata quaestio: “Della patria di Quinto Ennio"

Quinto Ennio

 Si è tenuta il 20 aprile scorso a Villa Castelli, in una sala consiliare affollata e particolarmente interessata, la presentazione del volume di Pietro Scialpi: “Il Parco Archeologico di Pezza Petrosa a Villa Castelli” (Edizioni Pugliesi, Martina Franca 2011).

La manifestazione, organizzata dall’Assessorato  alle Politiche Culturali – Ufficio Cultura e Turismo, in collaborazione con la Pro Loco di Villa Castelli, con l’Archeoclub di Bari e il Touring Club Italiano – Corpo Consolare della Puglia,  è stata preceduta  da una visita guidata a Visita al Parco Archeologico di Pezza Petrosa e al locale Museo Civico che accoglie numerosissimi reperti del sito archeologico.

Dopo i saluti del sindaco Francesco Nigro e dell’assessore Rocco Alò e alla presenza dell’Autore, il prof.  Rosario Quaranta, della Sezione tarantina  della Società di Storia Patria, ha tenuto una relazione che qui, in parte, si riporta.

  

“PEZZA PETROSA”: L’ANTICA CITTÀ SENZA NOME TRA GROTTAGLIE E VILLA CASTELLI

 

di Rosario Quaranta

 

La Rudia Tarentina, segnata nei pressi di Grottaglie, in una carta dell’Ortelio del 1601

“Lungo la strada che da Villa Castelli porta a Grottaglie in contrada “Pezza Petrosa” riposa, ancora chiusa nel mistero archeologico, una vasta e ricca zona di ruderi che, per alcuni studiosi sarebbero i resti di RUDIA TARANTINA, patria del poeta latino Quinto Ennio. La zona, disseminata di ruderi, tombe e di frammenti ceramici, con resti di mura ciclopiche e di una

Taranto, Il Miracolo e i lodevoli meriti di Edoardo Winspeare

di Rocco Boccadamo

C’era, un tempo, Taranto:  dei vigneti a tendone, dell’Arsenale, dei marinai e
dei mitili.

A distanza di diversi anni dall’uscita, ho recentemente avuto modo di rivedere il film  “Il miracolo”del regista salentino Edoardo Winspeare, opera a suo
tempo presentata anche alla Mostra di Venezia: è stato un piacere, ancora più
intenso della prima volta, tanto che, quasi, ora mi viene idealmente di
suggerire a tutti i pugliesi e agli italiani in genere di visionare la
pellicola.

Analogamente a quanto si verifica in altri contesti geografici, anche da
queste parti  si svolgono da tempo campagne promozionali volte a sollecitare e orientare i consumi di ogni giorno preferibilmente verso prodotti locali: ciò,
si sottolinea, per favorire lo sviluppo delle aziende della zona e per
assecondare, di conseguenza, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Personalmente, condivido la giustezza dell’obiettivo di fondo cui tali
iniziative sono ispirate.

Ebbene, col suo lavoro citato all’inizio, Winspeare – pur non essendo nato e
non vivendo a Taranto – ha svolto, a titolo meramente gratuito, un ruolo di
grande ed efficace testimonial, sia della Puglia, sia, in particolare, del
capoluogo ionico in cui, appunto, è ambientato “Il Miracolo”.

Taranto, fra i grandi centri, costituisce forse, dal punto di vista socio-
ambientale, la più controversa realtà – pressappoco alla pari con Brindisi –
della Regione. Il suo tessuto industriale, incentrato soprattutto su grandi
insediamenti, è andato via via trasformandosi, da autentico Eldorado quale lo
si configurava al momento della ideazione e della realizzazione, in una
gravissima spina nel fianco della città e dell’area circostante, un handicap
preoccupante e pesante; tra i fattori di rischio attribuitile, l’altissimo
indice di inquinamento chiaramente nocivo alla salute, elevati livelli di
talune patologie, specie di natura oncologica.

le Colonne Doriche di Taranto

Ne “Il Miracolo”, nonostante queste deleterie presenze che, del resto, trovano più volte spazio visivo nella sequenza delle scene, Winspeare riesce a
presentare la città in una luce, tanto bella quanto innocente, che le spetta a
buon diritto, in virtù delle sue remote origini e della sua storia: mare, anzi
– nella fattispecie – mari, dai colori intensi, tramonti mirabili e fantastici,
il vecchio borgo che pare infondere una spontanea naturale confidenza e,
insieme, riproporre vecchie e sane abitudini. Alla fine, si ha l’impressione
che le piacevoli inquadrature riescano a prevalere sulle pur diffuse situazioni
di degrado e di saccheggio urbanistico del territorio. Il porto turistico,
finanche le gru dei vecchi e ormai «in pensione» cantieri navali, l’isola di S.
Pietro sullo sfondo in Mar Grande, formano anch’essi immagini che contengono qualcosa di poetico.

Insomma, un ventaglio di bellezze riscoperte, un po’ quasi a volerle far
rivivere.

L’opera di E. Winspeare si può in sostanza configurare come un’autentica
attrazione e un piccolo gesto d’amore verso il capoluogo ionico e dunque, al di là del successo di botteghino e dei responsi della critica piovuti sul film, a
mio avviso gli amministratori della città dovrebbero essere molto grati al
giovane regista, non escludendo, ad esempio, di valutare l’opportunità di
conferirgli la cittadinanza onoraria.

Si pensi alla notevole eco ed agli spunti che le immagini di Taranto, a tutto
campo e a tutta durata nel corso della pellicola, hanno suscitato, suscitano e
susciteranno ai fini del turismo: d’altronde, qui non mancano le belle spiagge
e il mare pulito, soprattutto lungo la falce del litorale ionico che si
protende verso Porto Cesareo e gli altri lidi della penisola salentina.

Nello snodarsi della trama della pellicola, a parte le bellissime immagini
anzi ricordate, è anche dato di riscontrare una serie di semplici ma importanti
modelli e valori. Intanto, piace l’impianto del nucleo familiare, dal cognome
molto tarantino di “Solito”, intorno al quale ruota la vicenda: il padre, che –
sebbene combattuto da contraddizioni e difficoltà – non cessa di darsi da fare,
arrivando, addirittura, a volare alto e a riscattarsi attraverso un
comportamento positivo come si può definire – specie di questi tempi – la
rinuncia a grossi facili guadagni (intervista televisiva al figlio); la madre,
sempre equilibrata e paziente, ma non rinunciataria, come è di solito la gente
del meridione. Assai gradevole il fiorire, sulle loro labbra, di una bella
inflessione e di accenni dialettali: un modo di esprimersi apparentemente ormai desueto, ma, invece, tuttora così pregno di significato.

La figura del giovanissimo figlio, il vero protagonista del film, costituisce,
da sola, tutto un programma e non abbisogna di ulteriori commenti.  Accanto a questo ragazzino dalle incerte doti miracolose, risalta il ruolo del compagno
di classe, paffutello estroverso e simpatico: tale ultimo interprete offre,
anzi, un’immagine di alto rilievo morale, che si estrinseca materialmente con
la continua vicinanza e l’assistenza al nonno ammalato.

L’anziano personaggio versa, purtroppo, in seri problemi di salute, è
costretto ad affrontare un male che lo ha preso dentro e che probabilmente
risale agli anni di lavoro in ambienti non salutari. Egli non ritrae – e come
potrebbe – vantaggi concreti dalla vicinanza del nipote e dell’amico, ma, ad
ogni modo, ne ricava grande giovamento sul piano dello spirito, come dimostra il fatto che riprende ad uscire fra la sua gente della città vecchia, a
passeggiare per le sue strade. Alla fine, chiuderà gli occhi per sempre con
serenità, in un ambiente familiare e accanto a persone care.

Risulta molto indicativa la stessa dedica finale del regista: a mio padre e a
S. Cataldo (protettore di Taranto).

Se è permesso, un sincero “bravo” a  E. Winspeare e complimenti per quello
che, mediante il suo talento e la sua originalità artistica, si sforza di fare
a beneficio dell’immagine di questa terra.

Libri/ Ceramiche apule

Il libro affronta lo studio di un cospicuo e pregevole nucleo di reperti ceramici di produzione indigena apula tra il VII e il II sec. a.C., nell’ambito di una ricca collezione archeologica privata donata al Museo Diocesano di Trani, dove è esposta dal 1998.
Consta di un catalogo, corredato di immagini di riferimento per ogni pezzo, e di uno studio analitico che, attraverso la ricerca di confronti con pezzi editi da contesti di scavo, ne propone un inquadramento stilistico e cronologico altrimenti negato dall’irrimediabile perdita delle informazioni sulla provenienza.
Si cerca di fornire, dunque, strumenti accessibili che, anche nelle mani dei poco esperti, possano giovare alla pubblica fruizione di un patrimonio gelosamente raccolto da un appassionato e poi generosamente donato al Museo con

A difesa della nostra bella e unica Terra d'Otranto

 
Forum                                       
AmbienteSalute
Via vico de’ Fieschi, 2 – LECCE     
 
sito web:  

http://forumambiente.altervista.org/

 
________________________________________________________________________________________________
 
Manifestazione a difesa della nostra bella e unica Terra d’Otranto

 

NO al faraonico scempio SS 16:
Salviamo la bella Terra d’Otranto
dagli ‘Orchi’ dell’asfalto e del cemento

 
 
 

Appello alla partecipazione di tutti gli amanti della Puglia al Sit-in per salvare Otranto ed il suo entroterra dalla voracità di una nuova SS-16 progettata assolutamente “non a misura di Salento”!

“Sì al lavoro che salva e non devasta il Salento: quello della Rinaturalizzazione!”

Una “STRADA PARCO” in una “CANTIERIZZAZIONE VIRTUOSA” davvero, che valorizza il paesaggio!
NON UNA ENNESIMA PERICOLOSA INUTILE STRADA DELLA MORTE AD ALTA VELOCITÀ!

Un sit-in pacifista per riportare i Lumi della Ragione in una regione che li ha smarriti!

Domenica 25 marzo 2012 pomeriggio ore 17.30 Otranto, svolta per gli Alimini, lungo il tratto terminale della SS-16

L’ ecatombe annunciata di oltre 8000 alberi d’ulivo per il progetto della nuova Strada Statale 16 nel tratto Maglie-Otranto, seppure già impressionate come dato di inaccettabile devastazione, è solo uno dei molteplici gravi fattori

I Pappamusci di Francavilla Fontana e i riti della Settimana Santa

Si è inaugurata il 20 marzo a Roma, nella Sala S. Rita di Roma, una interessante mostra fotografica su “I Pappamusci”, uno dei più antichi e suggestivi riti legati alle celebrazioni della Settimana Santa, che si svolge a Francavilla Fontana, in Puglia. Alla cerimonia di inaugurazione sono intervenuti, tra gli altri, Vincenzo della Corte, Sindaco di Francavilla Fontana, Giordano Fantozzi, Presidente Nuova Coscienza, S.E. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, Ludovico Maria Todini in rappresentanza dell’Assemblea Capitolina.
A conclusione il baritono di Francavilla, Mario Micocci, ha cantato due  stazioni della Via Crucis.

La mostra resterà nella Capitale dal 21 al 24 marzo.

Attesissimo evento da parte dei Francavillesi e dei tanti turisti che giungono in città durante il periodo pasquale, il rito è poco noto ai pugliesi. Buona quindi l’occasione per richiamare l’attenzione sul pellegrinaggio dei “Pappamusci” e sulla Processione dei Misteri, tradizioni religiose che si

Puglia ribelle: movimenti antifascisti nella Puglia degli anni di piombo


Martedì 20 marzo alle 18, presso lo Spazio Sociale Zei, il Comitato Provinciale ANPI LECCE, in collaborazione con l’ARCI ZEI, propone una rievocazione cinematografica e un excursus storico sui movimenti antifascisti che animarono la Puglia dal 1969 fino ai primi anni Ottanta, uno dei periodi più critici e controversi della storia della nostra Repubblica.
L’occasione sarà offerta dalla proiezione del film-documentario Benny vive, inchiesta del regista barese Francesco Lopez sulla vicenda di Benedetto Petrone, giovanissimo operaio militante della FGCI assassinato da una squadra di neofascisti dell’Msi la sera del 28 novembre 1977, nei pressi della prefettura di Bari. La pellicola racconta la storia di un ragazzo qualsiasi della

Tolosa. Parte di Place du Salin sarà intitolata a Giulio Cesare Vanini

Toulouse, palazzo di Giustizia su Place du Salin
di Giacomo Grippa
Dopo aver intestato  a Giulio Cesare Vanini  un  circolo laico a  Lecce, ho ripetutamente interessato la  Provincia di Lecce, il Ministero dei Beni Culturali, l’Assessorato Regionale alla Cultura e il  Comune di Taurisano,  paese natio di Vanini, proponendo  la posa di un cippo a Tolosa, nella piazza dove il carmelitano filosofo fu giustiziato, a 34 anni, reo d’ “ateismo”, con una pena atroce: gli strapparono la lingua con una tenaglia, lo impiccarono e poi bruciarono.
Le indicate autorità sono rimaste silenti, anche se da ultimo la Provincia leccese ha patrocinato la ristampa delle opere di Vanini, a cura degli studiosi Raimondi e Carparelli, edite da Bompiani.

Resta intanto meritoria la quasi ventennale attenzione rivolta a Vanini dal Dipartimento di Filosofia dell’Università del Salento di cui ha

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