Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (4)

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Stemmi civili e religiosi sulle travi. Alle origini dell’araldica

 di Marcello Gaballo

 

Un altro aspetto per niente trascurabile che offre la lettura delle nostre travi è rappresentato dal repertorio di stemmi civici e religiosi che si intercalano nel brulichìo di figure ed ornamenti. Un vero e proprio stemmario assai originale e molto precoce, essendo ancora oggi ben poche le raccolte di insegne anteriori al 1351.

La presenza di testimonianze araldiche sui tetti delle chiese pugliesi non è invero esclusiva del nostro tempio, anzi forse una consuetudine per molte altre chiese, tra le quali certamente va ricordata quella di Otranto[1].

Il loro rinvenimento certifica che essi sono senz’altro i primi esemplari di stemmi gentilizi a Nardò, in un’epoca in cui l’araldica, pur comparsa in Europa nel secondo quarto del XII secolo e iniziata ad essere riprodotta solo agli inizi del secolo successivo, lentamente si radicava anche in Terra d’Otranto. La nobiltà locale, fortemente condizionata dalle corti palermitane e napoletane, subendo gli influssi svevi e angioini, si adeguava alle abitudini dei pari nobili giunti da ogni parte del regno e come quelli, prendendo parte attiva a battaglie, ma anche a giostre e tornei, adottava un proprio simbolo e lo apponeva sull’equipaggiamento militare[2]. Come nelle altre parti dell’Europa inizialmente si servì di immagini animali o vegetali o elementi decorativi di varia natura, che vennero poi gradualmente codificati in veri e propri stemmi, trasmissibili ereditariamente. L’intento di richiamare subito al possessore fece sì che, quale signum proprietatis, lo stemma fosse rappresentato sui propri oggetti, sulle facciate dei palazzi o sugli ingressi delle masserie. Ma anche sulle cappelle di patronato o su opere pubbliche realizzate con i propri fondi, in modo tale da trasmetterne imperitura memoria. È ciò che accadde anche per le nostre travi, per la cui realizzazione o rifacimento contribuirono con consistenti finanziamenti diverse nobili famiglie, come testimoniano le loro armi dipinte su di esse.

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particolare dei rilievi delle travi della cattedrale di Nardò disegnati da Primo Panciroli

Ma oltre a segnalare la committenza gli stemmi ci consentono anche di datare con maggior precisione le stesse travi, in ciò aiutati anche dall’iscrizione di cui si è detto, confermando dunque l’epoca in cui esse furono realizzate e fornendo un valido repertorio del mondo baronale della Nardò trecentesca.

Mancando fonti documentarie araldiche medievali è evidente la difficoltà di poter individuare tutte le famiglie cui gli stemmi spettavano e solo per alcuni si è pensato di riuscirci, considerato che molti di essi poterono essere variati dai discendenti sia nelle figure che nei colori. Un’ulteriore difficoltà deriva indubbiamente dalla poca comprensibilità del disegno originario, dipinto su un materiale facilmente degradabile come il legno, riprodotto dal Panciroli o dall’Armanini ben oltre cinque secoli dopo.

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particolare dei rilievi delle travi della cattedrale di Nardò disegnati da Primo Panciroli

Ecco, dunque, quanto ci offrono le nostre travi:

nella seconda fila della tavola II si scorgono due stemmi non identificati, di cui il primo può blasonarsi: d’argento all’aquila di nero, probabile emblema della casa sveva; il secondo: di verde al leone rampante d’argento, che può attribuirsi ad uno dei Gentile, i filosvevi conti di Nardò, il cui capostipite fu Simone. A lui Federico II aveva donato la città nel 1212, quale premio per aver recuperato molti territori pugliesi usurpati dall’imperatore Ottone. La presenza di questi stemmi potrebbe essersi voluta per ricordare chi ricostruì o ampliò l’abbazia dopo il terremoto del 1245.

Sulla quarta fila della tavola III si alternano una serie di cornici a losanga e plurilobate. Nelle prime è inserita una stella a otto raggi, nelle seconde una croce potenziata nera.

Lo sfondo (il campo) della prima losanga è blu e la stella è d’oro, nella seconda rosso con stella bianca; il motivo si ripete per buona parte della trave. Lo sfondo delle cornici polilobate è invece sempre color oro e la croce è nera. Nel primo caso potrebbe trattarsi dello stemma della famiglia Del Balzo: di rosso alla cometa di sedici raggi d’argento. Storicamente risulta che dei Del Balzo, in questo periodo, vivesse Francesco, duca di Andria e conte di Avellino, cognato del già menzionato principe di Taranto Roberto, per aver sposato sua sorella Margherita, da cui poi ebbe Giacomo.

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Amphivena, immagine tratta da un bestiario medievale

Nella fila 4 della tavola IV sono riprodotti dei frammenti di decorazioni e su uno di essi è raffigurato un toro, in merito al quale il Panciroli annota nella fila seguente: «fondo bianco. Il toro di colore rosso è lo stemma di Nardò». Quasi certamente corrisponde alla nostra arme civica, anzi ne è in assoluto la prima testimonianza, ribadendo che l’uso degli stemmi delle città europee ebbe inizio nel XIV secolo, lo stesso delle nostre travi[4].

Nella sesta fila della tavola VII sono raffigurati altri tre stemmi gentilizi non identificati, di cui il primo con sfondo azzurro e bande e sbarre d’argento; il secondo presenta la prima e quarta parte d’argento, la seconda d’argento scaglionato di azzurro, all’opposto della terza parte che è azzurra con gli scaglioni d’argento[5]. Il terzo stemma, anche questo non attribuito, è d’oro con un drago nero.

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immagine tratta da un bestiario medievale

Nella prima fila della tavola VIII si ripete per due volte un emblema: d’argento alla croce patente di nero, che è poi la croce teutonica. Potrebbe trattarsi dell’insegna dell’Ordine di Santa Maria, detto dei Cavalieri Teutonici, che furono presenti nell’abbazia di S. Maria de Balneo[6] della balia di Puglia, almeno sino al 1435. Non è difficile pensare che anche questo Ordine avesse contribuito alla ricostruzione della cattedrale.

Nella terza fila della stessa tavola sono ritratte una serie di stelle a nastri incrociati ed archeggiati che racchiudono al loro interno un giglio: uno d’argento su sfondo rosso, gli altri rosso su sfondo nero, argento su sfondo rosso e nero su sfondo oro. Semplici variazioni dell’unico emblema del rex francorum, degli Angioini, quali erano il principe Roberto[7] e suo padre Filippo, probabili committenti del coevo affresco della Madonna detta del Giglio, nella navata destra della cattedrale.

Un altro stemma compare nella quarta fila: d’azzurro al castello d’oro sulla pianura erbosa di verde (si ripete in tav. XI, V fila). Si tratta certamente dell’arme della nobile famiglia neritina Del Castello, baroni di Paretalto ed Acquarica, di cui si ha notizia in Terra d’Otranto sin dai tempi di Federico II e che nel periodo di nostro interesse possedevano anche i feudi di Acquarica del Capo, Bagnolo, Andrano e Taurisano. Il fratello di Goffredo Del Castello da Nardò figura tra i baroni nel 1239, mentre lo stesso Goffredo e Filippo compaiono tra i feudatari di Terra d’Otranto nel 1284. Matteo fu vescovo a Nardò nel 1387, destituito poi da Bonifacio IX nel 1401.

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Il leone, immagine tratta da un bestiario medievale

Nella quarta fila della tavola XI vi sono altri tre stemmi, sostenuti da altrettante coppie di animali e figure antropomorfe[8]. Anche questi appartengono ad altrettanti feudatari neritini. Il primo o il secondo potrebbe essere dei De Noha, antica e nobile famiglia di origine normanna, vissuta in Nardò sino al secolo scorso. Da alcune pergamene del monastero di santa Chiara si desume che Pietro De Noha nel 1239 è uno dei baroni di Nardò fedeli a Federico II, mentre Guglielmo e Rao lo sono nel 1269 e 1284. Nello stesso secolo, nel 1253, Pietro, vivente a Lecce, è barone del casale di Noha.

Conclude la quarta fila uno stemma: d’oro alla croce di rosso accantonata da quattro bisanti dello stesso. Non è improbabile che si tratti  di un’esemplificazione dell’insegna del principato di Taranto, che araldicamente si descrive: di rosso alla croce d’oro accantonata da quattro bisanti d’argento, caricati ognuno da una croce di verde.

Nella quinta fila vi è l’emblema della Chiesa, le chiavi di Pietro decussate: di rosso alle chiavi d’argento poste in croce di sant’Andrea, con gli ingegni in alto, rivolti verso i lati dello scudo, rappresentando la prima il potere che si estende al Regno dei Cieli, la seconda l’autorità spirituale del papato sulla terra[9]. Nello stemma papale, in verità, una chiave è d’oro e l’altra è d’argento e sono tenute insieme da un laccio passante tra le due impugnature delle chiavi, quale segno dell’unione indissolubile dei due poteri[10]. Accanto si ripete lo stemma dei baroni Del Castello.

Se fosse stato possibile esaminare tutte le figure delle travi probabilmente si sarebbero rintracciati molti altri blasoni, scoprendo così nella nostra cattedrale un vero e proprio museo di araldica inserito nella più importante testimonianza pittorica cittadina.

fine

 

Le precedenti parti si possono leggere in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/16/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-1/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/17/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-2/
https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/10/19/un-bestiario-medievale-sulle-antiche-travi-della-cattedrale-di-nardo-3/

[1] Anche sulle travi delle cattedrali di Bari e di Bitonto furono rinvenuti degli stemmi, la cui identificazione ha poi permesso di collocarle cronologicamente (cf Gelao, Tecta depicta, 12 e segg.; 21-22; Fantasia, Il Duomo di Bari, 78).

[2] L’ elmo d’ altronde, calato sul volto, li rendeva irriconoscibili. A partire dall’inizio del secolo XIII l’uso dello stemma si estese alle donne, agli ecclesiastici, agli abitanti delle città; quindi alla fine del XIII e inizi del XIV secolo l’uso si estese alle comunità civili e religiose, alle istituzioni in genere (Enciclopedia dell’Arte Medievale,  II, s.v. Araldica).

[3] Di essa fecero parte: Galtiero, che compare tra i feudatari del regno di Napoli al tempo del re Manfredi, insieme a Filippo Sabatino. Enrico, che nel 1239 figura tra i baroni di Terra d’Otranto. I suoi figli seguivano le opinioni del re Federico II in aperto contrasto col papa (così come facevano altri baroni neritini: il fratello di Goffredo Del Castello, Pietro De Noha, Filippo De Persona, Tommaso Gentile, Nicolò e Ruggero Maresgallo, Guerriero Montefuscoli). Guglielmo, di Enrico, nel 1273 è signore di Racale; ebbe una figlia, Caterina, che nel 1274 sposò Risone della Marra. Francesco nel 1328 fu tra i baroni di Terra d’Otranto che ricusarono di andare alla custodia della Calabria.

[4] La distinzione tra i due quadrupedi andava fatta: in araldica il bue si distingue dal toro per avere le corna basse e la coda pendente, mentre le corna del toro sono montanti e la coda si ripiega sul corpo.

Il decreto di riconoscimento dello stemma è dell’ 11 novembre 1952, data in cui è stato trascritto nei Registri della Consulta Araldica di Roma. Per la sua descrizione v. M. Gaballo, Araldica Civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra 1996, 82-83.

[5] Ivi, 124.

[6] Il monastero sorgeva dove oggi c’è la masseria Fiume, a meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulla Serra prospiciente, a circa 35 metri dal livello del mare.

[7] L’iscrizione prima riportata può anche far pensare che Roberto possa essere il re di Napoli, figlio di Carlo II. In tal caso la datazione delle travature dovrebbe ridursi al 1343, anno della sua morte. Ma contraria tale ipotesi l’ emblema angioino qui raffigurato, che certamente non è quello del re in questione, al quale infatti è attribuito il seguente: interzato in palo: nel I a fasce alterne rosse e oro; nel II d’azzurro seminato di gigli d’oro col lambello; nel III di rosso all’ aquila d’oro. Questo stemma è visibile in S. Maria del Fiore a Firenze, in cui sono pure visibili le chiavi pontificie di cui si dirà in tavola 11, V fila.

[8] Notevoli somiglianze si osservano con i disegni delle travature un tempo esistenti nella chiesa di S. Agostino a Palermo, alcuni dei quali riportati nel più volte citato saggio della Gelao, Tecta depicta…, tavv. 30-31, oltre che in Lanza, Saggio sui soffitti siciliani, 178,214.

[9] Le chiavi, nell’ araldica ecclesiastica, appaiono nel XIII secolo, affiancate (“in palo”) e con gli ingegni rivolti in alto. Dal XIV secolo figurano invece incrociate (“in decusse”), come nel nostro caso.

[10] Le chiavi pontificie venivano rappresentate sempre da sole, come nel nostro caso, talvolta col triregno sovrapposto oppure con l’ombrellone o gonfalone papale. Nei secoli successivi vennero disegnate fuori dallo scudo papale, al di sopra, come un vero e proprio “capo” araldico (cf. G. Bascapè-M. Del Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Roma 1999).

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (2)

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Le iscrizioni

 

Fra le decorazioni policrome delle incavallature si sono trovate, nel restauro di fine Ottocento, alcune iscrizioni a grandi lettere gotiche, dipinte sulle facce laterali delle travi formanti le capriate. Esse rappresentano un notevole reperto epigrafico che aiuta sulla datazione, mentre non si è trovata alcuna indicazione per poter risalire agli autori. Sulla prima trave, a caratteri neri, si leggeva:

 

….TERTA SOLO TE(m)PLUM FUIT HOC RE(stitutum).

 

Sulla seconda, pure a caratteri neri, rimaneva la parte inferiore di poche lettere:

 

(p)ASTORIS BARTHULOM(ei)….SE(dentis?).

 

Sulla terza, a caratteri rossi, si leggeva:

):DOMINC….SEPTIV(?): REGALE:TENE(n)TI:PRINCIPAT(tu)

ROBERTO:NOSTRO:DOMINANTE:TARENTI:A(nno)M… [1]

 

I dati cronologici dell’iscrizione rimandano quindi ad un’epoca compresa tra il 1332, anno in cui Roberto d’Angiò successe al padre Filippo I d’Angiò nel principato di Taranto[2], del quale faceva parte anche Nardò, e il 1351, anno della morte dell’abate benedettino Bartolomeo (1324-11 aprile 1351), menzionato nell’iscrizione come vivente e che ha consentito l’esecuzione dell’opera[3]. Se si tiene conto degli eventi accaduti nel regno ed in città si potrebbe limitare il periodo fra 1350 e 1351.

Purtroppo non possediamo una letteratura adeguata che aiuti ad identificare meglio l’abate ed illustrarne la personalità, nè ci è dato di conoscere se possa essere stato egli stesso culturalmente in grado di sviluppare il programma iconologico di cui tratteremo o perlomeno sia stato capace di influenzarne la scelta. Di lui Giovan Bernardino Tafuri scrive che dal 1326 fu confessore del principe di Taranto Filippo e l’anno dopo partecipò al parlamento napoletano contro Ludovico il Bavaro. Da Filippo ottenne nel 1330 di far abitare il casale di San Nicola d’Arneo e nel 1349, dalla regina Giovanna, quello di Lucugnano, pure nell’Arneo. Di sicuro Bartolomeo fu  predecessore dell’abate Azzolino De Nestore, il cui nome, accanto alla data 1353, esistette sulla facciata della Cattedrale sino al 1652, con l’iscrizione: Abbas Azzolinus De Nestore A. D. Mcccliii. Certo è che se intervenne in modo così importante nell’abbazia di cui era reggente, preoccupandosi perfino di animare con vivaci dipinti le lunghe e piatte travi del soffitto, fu spinto o dall’intensificarsi dei pellegrinaggi o per la grande disponibilità dei benefattori, come testimoniano le memorie araldiche di cui si dirà più avanti, di sicuro per una cospicua presenza di monaci o anche solo di fedeli. Di certo conformemente alla Regola benedettina, che incoraggiava l’arte, strumento di vita monastica, in chiese e conventi.

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Primo Panciroli e Pier Olinto Armanini

 

L’arte decorativa medievale dei soffitti dipinti è un aspetto poco noto e non esiste ampia bibliografia sull’argomento. Ancor più scarsa la documentazione se ci si limita alla Puglia, per la quale resta fondamentale lo studio di Clara Gelao[4], che per prima ha documentato l’esistenza di parte delle antiche travature della nostra Cattedrale, da tutti gli altri Autori date per distrutte.

La lettura delle figurazioni delle travi offre interessanti considerazioni e nuove prospettive di studio che ci sforzeremo di indicare in questo lavoro.

Le decorazioni furono in parte riprodotte da Primo Panciroli, nato a Roma il 2 giugno 1875 e morto ad Acireale il 13 settembre 1946[5]. Il giovane riproduttore giunse in Nardò nel 1896, in occasione dei restauri della Cattedrale. Egli si limitò a raccogliere sistematicamente quanto era rimasto sulle travi superstiti, senza entrare nel merito dei temi, della cronologia e dei maestri esecutori, salvandolo così dall’oblio. Le tavole furono rilegate nel 1904 dallo stesso Panciroli in un album, oggi conservato nella Biblioteca dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte di Roma[6]. Il volumetto, con 11 tavole acquerellate di cm. 40 x 50, è  titolato: Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò[7], ed era stato realizzato «per poter riprodurre quanto sarà possibile questa mirabile ornamentazione che ha delle caratteristiche veramente geniali»[8].

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Alcuni disegni furono pure eseguiti dall’architetto Pier Olinto Armanini, prematuramente scomparso all’età di ventisei anni il 10 maggio 1896, allievo dell’Accademia di Belle Arti di Milano, nonché discepolo di Camillo Boito ed amico del vescovo di Nardò Giuseppe Ricciardi. In occasione dei suoi studi romani sul Pantheon conobbe l’ispettore dell’Ufficio Centrale delle Belle Arti Giacomo Boni (1859-1925) e grazie a quest’altra conoscenza, ma anche per le sue indubbie capacità artistiche, ottenne il Pensionato Artistico Nazionale che durò dal 1892 al 1896. Il giovane architetto, anch’egli giunto nel gran fervore di intenti che animava la città di Nardò per il restauro della sua chiesa maggiore, quale saggio dei suoi studi realizzò nel 1894 una trentina di fregi ripresi  dalle nostre travi. I disegni furono pubblicati postumi nel volume La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello, che riguardo l’architetto riporta: «Innamorato delle svariate pitture decorative delle capriate, che, al dire del Maccari, forse in nessun altro monumento si presentano così copiose, svariate, ed in alcune travi-catene capricciose, l’Armanini si proponeva di tornare in Nardò per continuare nei rilievi; ma sventuratamente Nardò che tanto aveva amato ed ammirato l’aveva, e che di lui serberà imperitura memoria, più non lo rivide! Una infermità, che colpisce talora gl’ingegni più eletti non contenuti ne’ loro slanci da forza superiore, sventuratamente lo tolse agli studi. Quale vantaggio avrebbe arrecato all’arte il suo criterio esatto nell’esame dei monumenti!» [9].

Il tentativo fatto anche da questi lascia presupporre che già da allora più di qualcuno avesse intuito di trovarsi di fronte  ad un eccezionale documento di arte, di cultura e di fede, degno di essere trasmesso ai posteri.

Il Boni è stata senz’altro una figura importante per ciò che accadeva in Nardò in quegli anni. Tra gli architetti propugnatori dello stile neogotico che facevano capo a William Morris, era socio della “Society for the Protection of Ancient Building”. Per dieci anni svolse la sua attività nel Sud d’Italia e particolarmente in Puglia, dove tenace fu la sua opposizione a quanti pensavano di demolire la cattedrale di Nardò per scarso valore artistico: «se accadesse dovrei lacerare il diploma conferitomi per acclamazione dall’Istituto di Architettura di Londra, dovrei vendere al salumaio gli altri diplomi degli istituti congeneri degli Stati Uniti e dell’Accademia delle Scienze di New York». Infatti egli aveva individuato la chiesa normanna dell’XI secolo e tanta fu la sua soddisfazione d’essere riuscito a salvarla che ne curò personalmente il programma di recupero, preoccupandosi di studiare tutte le iscrizioni scolpite, dipinte e graffite, comprese le figure delle nostre travi.

Moltissimi elementi decorativi realizzati dal Panciroli servirono allo stesso Cesare Maccari (1840-1919) nell’affrescare il coro e alcune delle cappelle laterali dell’edificio, conformemente con quanto in quel periodo si studiava e dibatteva riguardo al Medioevo ed al passato più in generale[10].

 

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[1] C. Boito-G. Ricciardi-G. Moretti, La Cattedrale di Nardò-La cascina Pozzobello in Milano. Rilievi e studi eseguiti dall’ Architetto Pier Olinto Armanini durante gli anni del suo pensionato artistico in Roma, tipografia Umberto Allegretti, Milano 1898, 11. Le iscrizioni, rilevate dall’ architetto Giacomo Boni sulle travi della cattedrale, furono riportate nel Bollettino Ufficiale dell’Istruzione Pubblica, anno 1895, 2068.

[2] Roberto era anche signore di Puglia, avutala dalla regina Giovanna I, sua cognata per aver sposato il fratello Ludovico. Roberto nei documenti si firmava anche Romaniae Despotus, et Achajae, lasciategli da suo zio Giovanni di Sicilia, duca di Durazzo, Tarenti Princeps, Justiciarius, et Vicarius Principatus Tarenti…, oltre che Imperator Costantinopolitanus, dopo la morte della madre Caterina di Valois (Napoli, 1342), imperatrice di Costantinopoli, figlia di Carlo di Francia, conte di Valois, e Caterina di Courtenay, sua seconda moglie. Fratelli di Roberto, oltre il menzionato ed improle Ludovico, sposo di Giovanna I, furono Filippo II, che gli successe; Margherita, in prime nozze sposa di Edoardo re d’ Ecosse, ed in seconde di Francesco del Balzo, duca di Andria e conte di Avellino; Maria, nubile, e Giovanna, in prime nozze sposa di Leone I d’Armenia, della casa di Lezignen; in seconde di Leone II, zio e successore del regno di Armenia, col quale generò Leone III. Cf in merito anche S. Arcuti, I principi angioini di Taranto e la chiesa in Puglia, in Note di civiltà medievale. Numero speciale per l’ inaugurazione del nuovo edificio universitario “Oronzo Parlangeli”, Bari 1979, I, 209). Roberto, morto il 10 settembre 1364 e sepolto nella chiesa di san Giorgio il Grande in Napoli, sposò Maria di Bourbon, vedova di Guy de Lezignen.

[3] C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già chiesa abbaziale di S. Maria Assunta), in Insediamenti benedettini in Puglia, Congedo, Galatina 1980, 3 voll., 436.

[4] In particolare ci si riferisce al suo saggio Tecta depicta di chiese medievali pugliesi, “I quaderni dell’Amministrazione Prov. di Bari”, Bari s.d. (ma 1981), corredato di numerose illustrazioni e con ampia bibliografia.

[5] Nato da genitori emiliani studiò all’istituto San Michele sotto la guida di Alessandro Ceccarini, diplomandosi nel 1894. Collaborò col Maccari anche a Loreto e al palazzo di Giustizia a Roma e da lui fu avviato alla grande decorazione murale, inserendosi di diritto nella scuola romana dei decoratori. Tra le opere principali gli affreschi al Comando Militare di Trento, sala Dante (1901-05), nell’Albergo “Acqua della Salute” di Livorno (1901-05), nella cattedrale di Acireale (1907-11), nella chiesa del Rosario e cattedrale di Bagnara Calabra (1921-22, 1937-40), nella chiesa dei cristiani copti al Cairo (1924-32), nella chiesa di S. Giovanni Battista a Ragusa (1926). Decorò anche i soffitti del Ministero dell’Agricoltura a Roma (1913) e del palazzo comunale di Acireale (1942). Approfittiamo per ringraziare il personale della Biblioteca Zelantea di Acireale per le notizie fornite sull’artista.

[6] Ancora un doveroso grazie alla Direzione della stessa.

[7] Quasi in tutte sono riportate la firma e l’anno di esecuzione, tra il 1896 ed il 1904. Esse sono state pubblicate monocromaticamente nel citato saggio di B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’abbazia benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico-critico, in Insediamenti benedettini in Puglia, 228-240, e in Gelao, Tecta depicta, tavv. 19-26. Sempre qui sono riportate alcune foto di particolari sopravvissuti nelle travature (tavv. 8-18). Parzialmente i disegni del Panciroli sono apparsi nel volume curato da B. Vetere, Città e Monastero. I segni urbani di Nardò’ (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, figg. 29-35. Parte di una sola tavola è stata pubblicata nell’introduzione di M. Cazzato al volume di M. Marcucci, I mostri di Pietra guardiani della soglia. Civiltà della pietra leccese tra Medioevo, Barocco e Liberty, a cura di A. Costantini, Congedo, Galatina 1997, 6. Cazzato nel citato saggio accenna al divenire dell’imagerie medievale salentina, che raggiunge «livelli di saturazione visiva incredibili» nei secoli barocchi.

[8] Tafuri, Ripristino e restauro, 68. Un lavoro similare, ma limitato a poche tavole, fu realizzato per la Cattedrale di Bari da Pasquale Fantasia qualche anno prima. Cf C. Gelao, Tecta depicta, 11-12, tavv. 1-4; P. Fantasia, Il Duomo di Bari, in Annuario del R. Istituto Tecnico e Nautico di Bari, a. 1890, Bari 1892, tavv. XIX-XXII.

[9] «…l’Armanini, che aveva la prerogativa di non soffrire per la vista del vuoto, si inerpicò sulle travi catene e da vicino fece diversi rilievi di quelle pitture. Ma poi i rilievi furono completati e fatti con cura da uno dei discepoli del Maccari, Pietro Loli Piccolomini e raccolti in un album» A. Tafuri, Ripristino e restauro,  67-68). I disegni, come già spiegato, furono però eseguiti dal Panciroli e non dal Loli Piccolomini).

[10] In particolare furono soprattutto gli architetti francesi ed inglesi, poi anche italiani, che in quest’epoca si occupavano di studiare le arti applicate in ogni parte d’Europa, rivalutandole dal punto di vista estetico e storico-sociale. Negli anni in cui il Panciroli e l’Armanini lavorano a Nardò Camillo Boito, che era stato loro professore, pubblicava nel 1899, sulla sua rivista “Arte italiana decorativa e industriale”, una serie di pitture del soffitto dello Steri di Palermo realizzate da Giuseppe Alfano.

Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò

di Paolo Giuri

Ricostruendo le vicende del restauro ottocentesco della cattedrale di Nardò sono emersi, contestualmente alle discussioni tecniche e metodologiche, momenti di intima religiosità che aiutano a focalizzare ulteriormente l’attività pastorale di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1888-1908).

Nel 1892 lo stato di conservazione della cattedrale neretina indusse il vescovo ad escludere qualsiasi ipotesi di conservazione a favore di una nuova costruzione su progetto di Filippo e Gennaro Bacile di Castiglione.

L’ultimo rilevante intervento, curato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice (1725) durante il vescovato del fratello Antonio (1708-1736), era stato finalizzato al consolidamento della navata principale, alla realizzazione della facciata e all’adeguamento stilistico dell’edificio, avendo cura di preservare rispettosamente la memoria architettonica[1].

Di fatto, nel corso dei lavori preparatori alla demolizione, su insistenza di Ricciardi e dell’ing. Antonio Tafuri, furono eseguiti alcuni saggi conoscitivi ed inaspettatamente apparvero tracce più antiche.

Ricciardi, persona dotata di una singolare coscienza conservativa[2], non esitò a richiedere l’intervento del competente Ministero della Pubblica Istruzione, nonostante la forte opposizione di alcune rappresentanze cittadine e del progettista. Avvenne cosi l’incontro tra il lungimirante prelato e Giacomo Boni[3], Ispettore presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, incaricato di recarsi a Nardò per esaminare e relazionare sulle inattese scoperte.

navata centrale della cattedrale di Nardò (ph P. Giuri)

Boni osservò accuratamente l’edificio e giudicò la Cattedrale come «l’anello di congiunzione tra le due forme di architettura, la greca e la saracena, che hanno popolato di monumenti le provincie meridionali; essa è pure un prezioso monumento, nobile e severo nella linea, grandiosamente semplice, dei suoi pilastri e delle sue arcate»[4], la cui alterazione non si poteva tollerare.

Con il consenso ministeriale si procedette all’eliminazione delle superfetazioni e lungo la navata maggiore vennero alla luce alcuni dipinti murali trecenteschi, i pilastri e semicolonne con archi a sesto acuto (lato nord) e a tutto sesto (lato sud), l’arco trionfale, le antiche finestre e il tetto a capriate, sino ad allora occultato dal soffitto a cassettoni voluto dal vescovo Orazio Fortunato (1678-1707).

L’ispettore ministeriale fu tra i primi ad osservare attentamente le trentaquattro incavallature e a rilevare le decorazioni policrome e le iscrizioni a grandi lettere gotiche sul lato di alcune travi-catene; i riferimenti espliciti al Principe di Taranto Roberto d’Angiò e all’abate Bartolomeo consentirono a Boni di datare la realizzazione tra il 1332 (anno in cui Roberto assunse il principato) e il 1351 (anno di morte dell’abate), periodo storico confermato anche dai caratteri dell’iscrizione[5].

L’importanza dei rinvenimenti indusse il vescovo ad accantonare il progetto Bacile e ad assegnare all’ing. Antonio Tafuri il compito di redigerne un altro, attenendosi alle prescrizioni di Boni filtrate dall’istituzione ministeriale.

Come azione preliminare, al fine di garantire la staticità architettonica, furono sostituiti i pilastri in pietra leccese a sostegno degli archi a tutto sesto (lato sud della navata maggiore), «schiacciati e deviati» rispetto ai corrispondenti in carparo «solidi e ben conservati» (lato nord)[6]. Seguirono numerosi altri lavori per i quali rimando alla specifica letteratura, ad eccezione dell’intervento per le capriate della navata maggiore, il cui rifacimento fu necessario soprattutto per il pessimo stato di conservazione delle catene, «guaste e tarlate nei punti di appoggio alla muratura»[7].

L’interesse per questa fase di lavori prescinde dalle disamine tecnico-costruttive e si sofferma sulla singolare valenza religiosa e devozionale documentata da una inedita cronaca. Boni, per conto del Ministero, acquistò da Venezia 127 metri cubi di legno di larice (243 travi di cui 190 nuove acquistate dalla ditta Lazzaris e 53 provenienti dai restauri del Palazzo Ducale veneziano), mentre da Taranto pervennero le trentaquattro travi-catene (di metri 10.20) di pick-pine fornite dalla ditta Luigi Blasi e C.

Rimosse le travi policrome[8], il 13 agosto del 1895 si procedette alla messa in opera e il vescovo Ricciardi, come riferisce il documento citato, «accompagnato dal suo Capitolo e Clero, si faceva ad inaugurare la copertura del tetto della nave maggiore della Chiesa con la Benedizione della prima capriata»[9].

Iniziò, dunque, una speciale funzione religiosa solennemente allietata:

«Difatti dopo il canto del Laudate pueri Dominum, del Nisi Dominus custodierit civitatem, del Lauda Jerusalem Dominum, s’intonò l’Ave Maris Stella e si benedisse la capriata dedicandola alla Vergine Santa Maria titolare Assunta in Cielo. E quando l’abile manovra dei carpentieri tarantini sollevava tutta armata ed intera la capriata, si sciolse il Cantico del Magnificat alla Vergine al suono di tutte le campane della Città.

Colla copertura del tempio si fanno voti affinché si abbrevi il tempo che priva la Città della sua Cattedrale, e che si inauguri al più presto la solenne sua destinazione al Culto colla Consacrazione.

Le altre capriate saranno dedicate con questo motto; la seconda: Sancte Michael Arcangele defende nos in praelio; la terza: Sancte pater Gregori esto memor nostra; la quarta: Sancte Antoni ora pro nobis; la quinta: Sancte Sebastiane ora pro nobis; la sesta Sancte Joseph a Cupertino ora pro nobis; la settima: Sancte Joannes Elemosynari ora; l’ottava: Sancte Roche ora; la nona: Sancte Georgi ora; la decima Sancte Quintine ora; l’undecima: Sancte Leuci Martyr ora; la duodecima: Sancte Paule Apostoli; la tredicesima: Sancte Nicolae ora; la quattordicesima: Sancte Martine; santi questi protettori della Città e luoghi della Diocesi.

Le altre venti capriate si avranno il nome delle famiglie benefattrici della Cattedrale, con i nomi celesti del principale di famiglia: quindi la decima quinta capriata avrà il nome: O Emmanuel Salvator noster; la decima sesta Sancta Marianna ora pro nobis; la decima settima Sancte Aloysi ora pro nobis; la decima ottava: Sancte Raymonde ora pro nobis; la decima nona Sancte Ferdinande ora pro nobis; i quali titoli o nomi celestiali corrispondono alle rispettive famiglie di questa cospicua e nobilissima Città di Nardò, cioè alle benemerite famiglie De Pandi-Dellabate, Tafuri, Vaglio, Personè.

Quando si salì la prima capriata, incominciando dall’ingresso maggiore a man destra, si pose una deca di piombo legata con fettuccia celeste, con suggello dall’impronta dello stemma di Monsig. Ricciardi contenente l’effigie del Sacro Cuore di Gesù, della Vergine Santa Immacolata, di S. Giuseppe Patriarca e S. Michele, di S. Benedetto e del Sommo Pontefice regnante Leone XIII.

La Vergine Santa come assistette Monsig. Ricciardi nel salvare dall’ultima rovina già decretata questo suo tempio normanno, così lo compisca a Suo onore e gloria»[10].

Il documento non è datato o firmato, ma quasi certamente il redattore fu testimone dell’evento e «al suono di tutte le campane della Città» condivise con i fedeli neretini la contentezza per l’approssimarsi della fine dei lavori poiché sin dal 1892 la chiesa era stata interdetta al culto e le lungaggini dovute alla scelta delle metodologie appropriate e alle difficoltà economiche avevano accresciuto il desiderio della riapertura.

annullo postale centenario della dedicazione della cattefrale di Nardò (coll. priv.)

La dedica alla Vergine Assunta, titolare della chiesa cattedrale sin dalla fondazione, rinsaldava la devozione della cittadinanza e del clero diocesano due giorni prima della celebrazione ufficiale (15 agosto)[11]; l’intitolazione al patrono civico e ai due compatroni s. Michele e s. Antonio da Padova[12] rinnovava l’invocazione alla santa protezione suggellata dalla presenza simbolica degli altri patroni diocesani riuniti sotto lo stesso cielo ligneo[13].

Con gli eponimi santi sarebbero stati ricordati ed onorati anche i rappresentanti delle famiglie benefattrici che sostennero il completamento del restauro: i fratelli De Pandi-Dell’Abate commissionarono il pavimento e il restauro della cappella di s. Marina, la nobildonna Clementina Personè offrì il nuovo organo e la famiglia Vaglio la balaustra del presbiterio[14].

La deposizione della teca con le sante figure è il documento tangibile a ricordo dell’evento e per una inaspettata similitudine riporta all’antica tradizione di riporre l’effige di un santo, quella del protettore cittadino o al quale si è votati, sulla sommità di un edificio al termine della costruzione come segno di ringraziamento e richiesta di protezione[15].

L’invocazione finale schiude al lettore l’intima preghiera del cronista affinché la santa intercessione, guida e sostegno spirituale per il vescovo, possa sostenere il compimento dell’opera, la cui riconsacrazione (27 maggio del 1900) culminò con la celebrazione pittorica del Maccari nel catino absidale[16].

La cerimonia rientra, dunque, nel processo di evangelizzazione avviato dal vescovo al fine di infondere una pratica religiosa ed una partecipazione cristiana «fortemente sentiti e vissuti senza cedimenti a manifestazioni formali ed esteriori che immiseriscano e svuotino di significato e contenuto spirituale il sentimento religioso»[17].

Non di rado l’intransigenza religiosa coincise con una azione di restaurazione culturale e di recupero della coscienza identitaria, quale presupposto indispensabile per una migliore cultura conservativa. L’acceso confronto sui temi della tutela e della conservazione che il vescovo Ricciardi promosse in città con il conforto di Giacomo Boni fu la conseguenza positiva del nuovo clima intellettuale a sostegno del recupero dei beni culturali[18].


[1] G.B. Tafuri, Dell’origine sito ed antichità della Città di Nardò. Libri due brevemente descritti da Gio. Bernardino Tafuri in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli 1848, 501-508, E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, Galatina 1982, 67-84; cfr. M.V. Mastrangelo, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”, in «Spicilegia sallentina», 2 (2007), 69-76. Per la storia della cattedrale si veda pure B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’Abazia Benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico critico, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1980, I, 199-254; C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già Chiesa Abbaziale di S. Maria Assunta). Nardò, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1985, II, 2, 433-440.

[2] Per il profilo biografico si veda G. Falconieri, Discorso commemorativo di S.E.Rev.ma Mons. Giuseppe Ricciardi per la traslazione della salma nella Cattedrale di Nardò, in «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò», 1 (1955), 61-74; O.P. Confessore, Zelo pastorale e attività civile di Mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1889-1908), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVI (1972), 436-471; C. Rizzo, L’Episcopato di Mons. Giuseppe Ricciardi (1888-1908), in A. Cappello, B. Lacerenza, a cura di, La Cattedrale di Nardò e l’Arte Sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001, 57-64.

[3] Per il profilo biografico si veda E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, Milano 1932, 2 voll.;E. Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), fasc. 1-2, 3-34, 193-224.

[4] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 204

[5] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 219-220.

[6] A. Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, 19.

[7] Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 30.

[8] Il vescovo e Boni si preoccuparono sin dai primi momenti della loro conservazione e fu proposto di impiegarle per la copertura di una sala dell’episcopio e poi per la sacrestia. Ma, nonostante l’approvazione dei progetti dell’arch. Ettore Bernich da parte del Consiglio Superiore di Belle Arti, l’intervento non fu eseguito ed ignota rimane la sorte delle antiche travi la cui esistenza è documentata nel 1936 quando furono ispezionate dai funzionari della Soprintendenza (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 13). Fortunatamente l’arch. Pier Olinto Armanini e il pittore Primo Panciroli copiarono in parte le decorazioni policrome per riprodurle sulle nuove travature (cf C. Boito, G. Ricciardi, G. Moretti, In memoria di P. O. Armanini. La Cattedrale di Nardò. La Cascina Pozzobonello in Milano, Milano 1898; P. Panciroli, Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò, Roma 1904).

Per lo studio iconografico e iconologico delle decorazioni si veda C. Gelao, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi,  «I quaderni dell’Amministrazione provinciale», n. 9, Bari, s.d.; M. Gaballo, Per Visibilia ad Invisibilia. Un bestiario sulle antiche travi, in M. Gaballo – F. Danieli, Il mistero dei segni, Galatina 2007, 21-63. Tuttora nella cattedrale neretina sono visibili solo dodici travi antiche che coprono la volta del presbiterio, mentre una è depositata presso il vicino Seminario (cf M.V. Mastrangelo, La distrutta travatura della Basilica Cattedrale di Nardò. Note tecniche, in Gaballo – Danieli, Il mistero dei segni, cit., 65-72).

[9] A.S.C.N. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Nardò), B. 14, s.d.

[10] Ivi.

[11] Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 508

[12] Sant’Antonio di Padova fu il primo protettore della città poi detronizzato in un periodo non definito da s. Michele Arcangelo. L’origine di questo patronato fu chiarita da G.B. Tafuri: «essendo decaduta la città dal diritto viver cristiano, un giorno verso il mezzodì oscurata l’aria, con tuoni e fulmini diedesi a divedere il cielo irato, e da certe nubi distaccavansi alcuni globi di fuoco, i quali facevan mostra di cascare sopra della città. Atterriti i Neretini di si spaventevole veduta invocaron con fiducia l’aiuto dell’Arcangelo S. Michele. Incontanente si vide quel potentissimo principe Angelico frapporsi fra quelle fiamme, e trattenerle, e dopo poco spazio di tempo il cielo si fece sereno».

I Neretini a ricordo dell’evento fecero coniare una moneta e lo dichiararono protettore della città (Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 346-347). Nel IX secolo il patronato civico passò a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono traslate a Nardò nella seconda metà del VIII sec.. Il coinvolgimento devozionale per il santo Illuminatore subì un forte rinnovamento con il processo di evangelizzazione post-tridentina (mons. Cesare Bovio curò la conservazione della reliquia del braccio in un teca d’argento) e proseguì con i vescovati di Luigi De Franchis (dichiarazione della festa dedicata al Santo il 1 ottobre), Girolamo de Franchis (dedicazione di un altare della cattedrale), Orazio Fortunato (la costruzione del cappellone di San Gregorio sul lato sud della cattedrale e il reliquiario d’argento dorato a braccio) e mons. Antonio Sanfelice (nel 1717 donò alla città il prezioso busto reliquiario). L’intervento salvifico dalla distruzione del terremoto del 20 febbraio del 1743, palesato dal movimento della statua del santo posta sul Sedile della piazza, rappresentò il definitivo suggello del forte legame tra il santo armeno e la città (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 118-120; M. R. Tamblè. Il culto di San Gregorio Armeno a Nardò, in 20 febbraio 1743-1993. 250° Anniversario, 10-14; B. Vetere, Il patronato civico di S. Gregorio Armeno, in «Neretum», 1 (2002), 7-16).

[13] Alliste: San Quintino; Aradeo: San Nicola di Myra; Casarano: San Giovanni Elemosiniere; Copertino: San Sebastiano (solo dall’Ottocento San Giuseppe da Copertino); Felline: San Leucio Martire; Galatone: San Sebastiano; Matino: San Giorgio (dal Novecento, compatrona Madonna del Carmine); Melissano: Sant’Antonio di Padova; Nardò: San Gregorio Armeno (compatroni San Michele Arcangelo e Sant’Antonio di Padova); Neviano: San Michele Arcangelo (compatrona Madonna della Neve); Parabita: San Sebastiano (compatrono San Rocco e solo dal Novecento patrona Madonna della Coltura); Racale: San Sebastiano; Seclì: San Paolo Apostolo; Taviano: San Martino di Tours (ringrazio don Francesco Danieli per le notizie sui santi patroni). Per la cronistoria della Diocesi di Nardò, di Gallipoli e poi di Nardò-Gallipoli (dal 1986) si veda F. Danieli, Nardò-Gallipoli, in S. Palese – L.M. de Palma (a cura di),  Storia delle Chiese di Puglia, Bari 2008, 251-270.

[14] Cf Falconieri, Discorso commemorativo, cit., 68-69; Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 98-111.

[15] Il rito si concludeva profanamente con il “capocanale”, un banchetto di ringraziamento per tutti gli operai che avevano partecipato all’impresa (M. Congedo, Il Capocanale, in «Apulia», IV (dicembre 2005).

[16] Cf A. Cappello – B. Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001.

[17] Confessore, Zelo pastorale e attività, cit., 443.

[18] P. Giuri, Alcuni contributi alla storia del restauro del patrimonio storico-artistico nel Salento, in R. Poso(a cura di), Riconoscere un patrimonio. Storia e critica dell’attività di conservazione del patrimonio storico-artistico in Italia meridionale (1750-1950), Atti del Seminario di studi (Lecce, 17-19 novembre 2006), Galatina 2007, 169.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

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