L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

La chiesa parrocchiale di Presicce. Lettura del monumento tra ricerche d’archivio e nuove scoperte

 

di Andrea Erroi

“Il tempio parrocchiale di questa terra di Presicce che nel giorno 10 giugno 17881 , ricorrendo la domenica della S.S. Trinità,  fu benedetto con l’acqua santa; ora arricchito con nuove magnifiche opere ornamentali e con l’altare consacrato  principalmente con le reliquie dei martiri S. Andrea Apostolo, S. Vittore Papa e S. Pacifico Martire, con la presenza dell’Illustrissimo Reverendissimo Vescovo di Ugento Giuseppe Corrado Panzini, accompagnato dai dignitari della Cattedrale e del Reverendo  Capitolo di Salve, Acquarica e Presicce e anche dei Padri Carmelitani dello stesso paese, dal tramonto fino al sorgere del sole, cantando devotamente e con salmi all’eterna gloria di Dio e perenne onore del Patrono S. Andrea Apostolo e le acclamazioni continue della popolazione, con solenni e augurali riti religiosi, con ammirevole esempio di pietà: giorno 6 luglio, domenica, dell’anno 1794”.

Questa nota, conservata nell’archivio parrocchiale della chiesa matrice di Presicce ci ricorda che il 6 luglio ricorre la data di consacrazione dell’edificio.

documento del 6 luglio 1794, conservato nell’archivio parrocchiale di Presicce

 

La chiesa matrice, intitolata a Sant’Andrea Apostolo, fu costruita nel 1778, sul vecchio edificio cinquecentesco poiché, secondo l’Arditi, quest’ultimo non era più né degno né adatto alla popolazione ricrescente e che per questo motivo si volle nuova, tanto che in diciotto mesi fu completata, benedetta e inaugurata nel 1781. In realtà, da questa nota si apprende che i lavori di completamento (gli stucchi, i marmi, le tele) durarono diversi anni dopo la costruzione del tempio.

 

La chiesa, considerata una delle più belle della provincia, ha un importante prospetto, splendido esempio di architettura tardo-barocca, scandito da paraste di ordine corinzio. Il ricco fastigio caratterizza l’edificio sacro tanto da renderlo subito individuabile da vari punti della città.

L’imponente torre campanaria è ciò che resta della vecchia chiesa cinquecentesca: si sviluppa su tre registri e presenta decorazioni fitomorfe e mascheroni di scuola neretina.

La chiesa ha un impianto a croce latina e ha il pregio di essere molto luminosa. All’interno vi sono otto altari laterali arricchiti da decorazioni in stucco e da pregevoli dipinti su tela. I quadri presenti in Chiesa sono attribuite a celebri autori locali, come il Catalano (che è l’autore del grande quadro del presbiterio rappresentante il martirio di Sant’Andrea e datato al 1601), e ancora Oronzo Tiso, Diego Pesco, Saverio Lillo, Giuseppe Sampietro, ecc.

 

L’altare maggiore, in marmi policromi, come anche la balaustra, il fonte battesimale e le pile lustrali sono di scuola napoletana: recenti ricerche, svolte da Maura Sorrone, ne hanno individuato l’autore in Baldassarre Di Lucca. Tuttavia, gli elementi figurativi (angeli, cherubini e il bassorilievo del santo patrono) provengono con tutta probabilità dalla bottega con il quale il Di Lucca collaborava frequentemente: quella del celeberrimo scultore Giuseppe Sammartino, autore fra gli altri del Cristo Velato.

Importante il complesso di statue presenti nella chiesa, tanto in cartapesta, quanto lignee. Queste ultime, come pure i preziosi manufatti di argenteria, di importazione napoletana, oltre ad essere emblematici esempi di devozione, raccontano del vivace rapporto tra l’aristocrazia locale e la capitale del Regno.

La chiesa dei morti a Presicce

 

Adiacente al lato destro dell’edificio, esiste una cappella denominata “Chiesa dei Morti”; infatti, i numerosi sepolcri ipogei hanno svolto la loro funzione fino alla fine dell’Ottocento. Il piccolo ambiente voltato a crociera è costituito da due campate e sulla parete di fondo vi è un altare in stucco, coevo alla riedificazione settecentesca di tutta la chiesa. Sull’altare è collocato un prezioso ciborio del Seicento, di scuola francescana e in legno policromo, proveniente dal precedente edificio.

I recenti restauri, preceduti da un’indagine stratigrafica delle superfici murarie, hanno riportato alla luce sia gli antichi fornici che connettevano ciascuna cappella alla navata centrale dell’antica chiesa matrice, sia consistenti porzioni di affreschi e decorazioni pittoriche che la interessavano, la cui datazione varia tra il XV ed il XVI secolo.

I dipinti conservano ancora i vivaci colori, nonostante gli strati di calce, gli intonaci e, in alcuni casi, la muraglia, che li hanno celati per secoli. La scoperta dei dipinti consente di comprendere la successione cronologica dell’intero edificio: è possibile, infatti, distinguere tre chiese, sovrapposte e stratificate l’una alle altre.

Affreschi del XVI sec. nella chiesa parrocchiale

 

Su una delle eleganti serraglie rinascimentali che chiudono le volte, è emersa la probabile firma del capo mastro

<< + SALVATORE . CARILLI . M . +  1575 >> , che realizzò le volte e probabilmente l’imponente torre campanaria.

affresco della Madonna di Loreto (XVI sec.) nella chiesa parrocchiale di Presicce

 

Risale alla fine del Cinquecento il dipinto rinvenuto nell’abside della seconda campata: Madonna col Bambino, racchiusa in una mandorla, circondata da cherubini che sormonta una grande chiesa con campanile, mentre il Bambino benedicente stringe in mano un uccellino (Madonna di Loreto). Alla stessa epoca risalgono i dipinti del vano retrostante l’altare.  Sono emerse diverse figure di santi vescovi, di S. Vito, un’abside con lacerti pittorici. Questo ciclo pittorico si stratifica su di un ciclo più antico superstite e ben visibile in un altro piccolo ambiente adiacente, in parte demolito nel Settecento; si tratta di una cappella con volta costolonata, che anticamente si connetteva al resto dell’edificio mediante un grande arco a sesto acuto. Attualmente, l’ambiente conserva una buona porzione della decorazione pittorica che interessava le pareti nella loro interezza. Nel complesso pittorico sono raffigurati San Sebastiano, San Rocco e San Pietro, una bellissima Imago Pietatis dal paesaggio surreale, e nella sommità, racchiusa in un clipeo, l’immagine di Cristo Pantocratore. Tutte le scene sono raccordate da una partitura architettonica dipinta. Al di sotto di quest’edizione pittorica, è visibile una decorazione a bicromia di gusto ancora gotico, probabilmente databile al XV sec.

A seguito degli interventi di restauro, l’altare settecentesco presentava tre grandi cornici vuote e delle antiche tele non vi era più memoria, ma per esigenze di culto si è resa necessaria la collocazione di nuovi dipinti: la visione delle ossa inaridite del profeta Ezechiele, il Cristo pantocratore e il martirio di padre Pasquale D’Addosio, sacerdote presiccese martirizzato a Pechino nel 1900.

La chiesa di S. Giovanni Battista a Presicce

di Andrea Erroi

 

La chiesa di S. Giovanni Battista di Presicce, nota ai più come “Carmine”, è indissolubilmente legata ai padri carmelitani, presenti sino alla soppressione del 1809.

Nel 1559 Martino Alfarano lasciava eredi testamentari di tutti i suoi beni i carmelitani di Lecce, con l’obbligo di fondare in Presicce un convento del loro ordine e di intitolarlo a S. Giovanni Battista. La scelta del santo indicato dal benefattore potrebbe derivare dalle origini acquaricesi dell’Alfarano: S. Giovanni Battista, infatti è stato il protettore di Acquarica del Capo sino al ‘600 per poi essere sostituito da S. Carlo Borromeo.

Ampliato e rimaneggiato più volte nei secoli, il complesso originale doveva apparire assai diverso da quel che vediamo oggi. Dai documenti, dall’iscrizione del portale e dall’epigrafe settecentesca sulla controfacciata, si apprende che l’edificio fu riedificato nel 1695 per poi essere rimaneggiato nel 1790.

 

La chiesa si sviluppa con uno schema longitudinale ed è scandita da tre campate, una delle quali più stretta e più alta, che sovrasta l’area del coro. Nelle campate dell’aula liturgica si aprono quattro cappelle con altari in stucco, coeve agli stucchi settecenteschi.

La decorazione del 1790, voluta da fra’ Policarpo Torselli, padre priore del convento, probabilmente mosso dall’entusiasmo della recente riedificazione della parrocchiale (1781), ha interessato l’intero edificio: sia gli intradossi delle volte, sia le partiture architettoniche, sia le quattro cappelle laterali sono caratterizzate da una decorazione a stucco policromo, di gusto rococò che già guarda alle novità neoclassiche, caratterizzato dalle tinte pastello delle campiture sulle quali si stagliano gli stucchi bianchissimi.

 

Durante i restauri del 2015 si è appreso che l’edizione decorativa settecentesca si sovrappone su di un ciclo pittorico del ‘600 (del quale sono visibili alcune porzioni) che interessava l’intero edificio ecclesiastico. Della chiesa seicentesca rimane il superbo altare maggiore in pietra leccese. Con il recente restauro l’esuberante modellato e le dodici statue di angeli, santi e profeti che lo costituiscono hanno recuperato l’originale policromia barocca. Quando nel Settecento si rinnovarono le decorazioni dell’edificio, l’altare venne integrato agli stucchi con la realizzazione di un nuovo tabernacolo, con mensa e paliotto in stucco dipinto a finto marmo, secondo il gusto del tempo.

particolare con le pitture a monocromo

 

particolare dell’altare maggiore con angelo musicante

 

Per la complessità dell’edificio che, come accennato, è caratterizzato dalla successione di epoche e stili che si stratificano gli uni agli altri e le differenze materiche costitutive dei manufatti (sculture lapidee, litoidi, perni metallici originali, inserti lignei, ceramiche, dipinti murali, ecc.) le operazioni di restauro sono state precedute da uno studio stratigrafico e analisi di laboratorio, necessari a comprendere la storia degli apparati decorativi.

Alle indagini preliminari hanno seguito le operazioni di conservazione e restauro, condotte su tutte le superfici murarie interne che si presentavano ricoperte da svilenti tinteggiature contemporanee, da numerose scialbature di calce e ridipinture manutentive che nel tempo si erano sovrapposte sulle pareti, sugli stucchi e sull’altare maggiore.

Nel 1711 mons. Tommaso De Rossi, in visita nella chiesa, visita l’altare e lo definisce “bene ornatum et ex lapide liciensis confectum”. Esso si sviluppa nel presbiterio dividendo l’aula ecclesiastica dal coro. Come annota il presule, è realizzato in pietra leccese ed è caratterizzato da un complesso programma iconografico che mostra un modellato ricercato con putti, cherubini ed esuberanti decorazioni barocche, con uccelli e decorazioni fitomorfe. Quattro colonne tortili reggono la trabeazione, sulla quale appare una gloria di angeli musicanti e le sante carmelitane Teresa d’Avila e Maddalena de’ Pazzi. Nel registro inferiore e sulle paraste sono collocate le statue dei santi carmelitani Angelo martire e Alberto, mentre tra i profeti Elia ed Eliseo, al centro dell’altare, vi è la statua del Battista. Inoltre, l’altare accoglie in un’edicola, dalla cornice quadrilobata, un dipinto su tela raffigurante la Madonna del Carmine.

particolare dell’altare maggiore con statua di Santa Teresa

 

Sulle due porte che immettono nel coro, sormontati dai profeti vi sono due clipei, chiusi da un vetro, retti da angeli, un tempo adibiti ad accogliere reliquie: infatti, durante la citata visita pastorale del De Rossi, egli, non trovando documentazione certa circa l’autenticità delle reliquie, le fece rimuovere dai frati.

 

 

 

paliotto dell’altare maggiore

L’altare è un prezioso manufatto lapideo, testimonianza delle tecniche artistiche e della sensibilità cromatica del XVII sec. La ricca policromia, emersa dopo un lungo e delicato intervento di restauro, ci racconta che il barocco leccese, caratterizzato per la tenera pietra, quasi sempre accompagnava alla scultura il gusto per il colore.

I due grandi crocifissi di Presicce

di Andrea Erroi

 

Presicce città d’arte. Credo che questo più di altri epiteti identifichi a pieno il piccolo centro del basso Salento, che sorprende il visitatore per la bellezza del suo borgo, le sue chiese, la quantità e la qualità di opere d’arte in esse racchiuse.

La parrocchiale, una delle più belle chiese tardo barocche di terra d’Otranto, vanta diversi manufatti di importazione napoletana; il pregevole altare marmoreo, i manufatti di argenteria, la statuaria lignea, come la superba scultura dell’Assunta, sono solo alcuni esempi.

Nel XVIII sec. i contatti di Presicce con la capitale erano garantiti dalla nobiltà locale: ricche famiglie e personaggi eclettici che a Napoli avevano le loro residenze e dal clero, spesso imparentato con essa.

In questo vivace contesto culturale e di profonda devozione, si colloca l’arrivo a Presicce del grande crocifisso ligneo della chiesa del Carmine.

L’opera è attualmente posizionata lungo la navata della chiesa che sino al 1809 faceva parte del monastero dei Carmelitani; in origine, però, era sicuramente collocata su di un altare oggi scomparso e sostituito dagli altari tardo settecenteschi.

I dettagli emersi con il recente restauro permettono l’attribuzione (secondo il prof. Giovanni Petrucci) al celebre scultore Francesco Antonio Picano: la scultura, intagliata nel legno di tiglio, mostra infatti un elevato livello qualitativo, caratterizzato da una poderosa volumetria del corpo sapientemente modellato, nella plasticità dell’intricato panneggio e del cartiglio del titulus crucis.

 

Il Cristo è raffigurato con il capo ruotato sulla spalla destra, con gli occhi sbarrati ma ormai esanime, reca infatti la ferita del costato, i capelli sono modellati con ampie ciocche una delle quali scende sulla spalla.

Il restauro, si è svolto in tre fasi : quella cognitiva ( studio dell’opera e analisi stratigrafica), quella conservativa ( rimozione degli strati sovrapposti ed estranei all’opera, consolidamento della materia originale e disinfestazione dagli organismi xilofagi) e quella di integrazione (i fori dell’azione dei tarli, le crepe e le lacune interpretabili sono stati risarciti plasticamente e cromaticamente).

Il manufatto presentava numerose ridipinture, tre edizioni pittoriche sovrapposte celavano la policromia originale,completamente recuperata, caratterizzata da un incarnato molto chiaro sul quale si aprono le ferite, costituite da misurati rivoli di sangue.

 

Decisamente diversa rappresentazione del Cristo in croce è quella custodita in S.M. degli Angeli: anche in questo caso siamo di fronte ad un crocifisso in legno policromo realizzato per un ordine religioso, ma la spiritualità francescana dell’autore, fra’ Pasquale da San Cesario, lo caratterizza profondamente.

Nella raffigurazione decisamente cruenta del Crocifisso, l’espressione è affidata non tanto alla qualità dell’impianto scultoreo, quanto invece alla comunicatività accessoria di laceranti ferite, che si ripetono con insistente ossessività su ogni parte del corpo di Cristo.

La figura pende dolente dalla grande croce nera caratterizzandosi per un modellato asciutto e rigido dove l’idea della realtà è unicamente suggerita da particolari espedienti: le vene e i tendini in forte rilievo, il sangue che sgorga abbondantemente dal costato ( realizzato con cera rappresa su dei fili), le numerose piaghe che lacerano l’inerme corpo (intorno alle piaghe, a simulare la pelle lacera, vi è della pergamena, stuccata e dipinta) e la colonna vertebrale che sporge da una vistosa piaga del dorso, con un gusto quasi compiaciuto per il macabro ma che in realtà riassume la profonda religiosità francescana, contemplativa della Passione, caratteristica che si trova peraltro in tutte le coeve realizzazioni interne all’ordine dei francescani riformati ( opere di Umile da Pietralia, Angelo da Pietrafitta).

A sottolineare questi sentimenti di pietà e contrizione che l’opera doveva suscitare nel fedele vi sono i tre angeli dolenti che con il calice raccolgono il sangue del Salvatore.

Anche per il gruppo scultoreo di S. M. degli Angeli è stato necessario un intervento di restauro, che si è svolto in tre fasi : quella cognitiva con le analisi stratigrafiche, quella conservativa e quella di integrazione. I manufatti (croce, crocifisso, cartillio e tre angeli dolenti) presentavano diverse ridipinture e riverniciature annerite, che celavano quasi completamente la policromia originale, diverse problematiche conservative interessavano il supporto ligneo (legno di noce) e l’aderenza di strati preparatori e pellicola pittorica.

Il precario stato conservativo dell’opera è da ricondursi alle travagliate vicende che ha conosciuto il complesso francescano, dalla soppressione risorgimentale, all’alluvione del 1957 ed il successivo abbandono. Durante gli anni di oblio i tre angeli furono trafugati, per poi essere ritrovati nel 1998 dalla Guardia di Finanza, mentre il crocifisso fu trasportato nella parrocchiale.

Dopo i restauri dell’edificio il gruppo scultoreo è stato riassemblato e ricollocato sul suo altare, nella seconda campata della chiesa.

Scriveva p. Bonaventura da Lama nel 1724: << ..In mezzo alla prima nave, a man sinistra, quando si entra in chiesa, v’è un Crocefisso scolpito da un nostro laico fr. Pasquale da S.Cesario, col P.S. Francesco inginocchiato che piange teneramente la morte di Cristo.>>, della scultura di S. Francesco non vi è più traccia ma consola il fatto di aver ricostruito, se pur parzialmente, una porzione di storia del complesso.

Il restauro è un momento tanto delicato quanto straordinario nella vita di un’opera d’arte: momento caratterizzato da una serie di operazioni atte ad arginare il naturale degrado della materia costitutiva l’opera stessa, riparare i danni inferti da interventi precedenti o dall’uso stesso dei manufatti, il recupero estetico dei contenuti formali.

È inoltre un momento unico anche per lo studio dell’opera, infatti è durante l’intervento che emergono importanti informazioni riguardo la tecnica di esecuzione, la storia manutentiva e la datazione dei vari materiali adoperati.

Il restauro eseguito su questi due crocifissi, assai simili per dimensioni ed epoca, ma tanto differenti per la tecnica esecutiva e l’interpretazione della Crocifissione stessa, ha permesso di comprenderne meglio la storia, recuperando la loro antica bellezza che il tempo aveva svilito, garantendo la loro conservazione per le generazioni future.

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Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano

di Andrea Erroi

Nel presbiterio della parrocchiale di Presicce campeggia la grande tela nota con il titolo di ”Il Martirio di S. Andrea”, opera del celebre pittore gallipolino Gian Domenico Catalano. Il dipinto proviene dalla vecchia chiesa matrice, che cedette il posto all’attuale, sul finire del ‘700.

Nella parte inferiore sono visibili gli stemmi del vescovo di Ugento, mons. Pedro Guerrero, lo stemma dell’università di Presicce (il cervo che si abbevera alla fonte) e lo stemma dei feudatari dell’epoca, i baroni Cito-Moles.

In prossimità dello stemma dell’università, su di un sasso, il Catalano stilò la data e la firma << IO : DOM.CO CAT.NO GALLIP.NO ME PINGEBAT 1601>>.

L’opera pare sospesa tra il manierismo e un arcaismo compositivo dal sapore popolare, risentendo della pittura spagnola, mediata da Pedro Rubiales, ma anche delle stampe nordiche.

La scena del martirio, che mostra il santo issato sulla croce decussata, è immersa in un paesaggio affollato, dove oltre alle figure di militi e astanti in primo piano, compaiono numerose altre figure, raggruppate in varie azioni, che come in un corto metraggio inscenano i racconti della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1298) o degli Atti di Andrea (III sec.).

Si susseguono una serie di scene collegate con la vita del santo apostolo.

Sull’estremo margine di sinistra, lungo la marina, si colgono alcune figure che presumo rimandino alla “Chiamata dei discepoli”; si intravede una figura col braccio teso, presumibilmente Cristo, che indica in direzione delle due barche, su una delle quali sostano tre figure, una in piedi e due intente a raccogliere le reti, con evidente rimando alla ”pesca miracolosa”.

In alto tra squarci di nubi si intravedono degli angeli che reggono delle palme, simbolo di martirio, in atto di incoronare il discepolo.

Lungo il litorale è raffigurata una folla e degli uomini in acqua nei pressi di una nave sopraffatta dai flutti, che rimanda al miracolo dell’apostolo che risuscita gli annegati in un naufragio.

Sulla collina si scorge un edificio in fiamme ed illustra l’episodio del giovane di Tessalonica, Essuo, nobile e ricco, che all’insaputa dei suoi parenti, si recò da Andrea e si convertì al cristianesimo. I parenti, che lo cercavano, saputo che si trovava a Filippi con l’apostolo, andarono con doni pregandolo che si separasse da lui e rinnegasse la nuova fede, ma egli si rifiutò. Dopo aver radunata una folla, con fascine e fiaccole i parenti incominciarono a dare fuoco alla casa. Quando già le fiamme erano alte, il giovane prese un’ampolla d’acqua, e invocando il nome di Cristo sparse l’acqua dell’ampolla e subito l’incendio si spense. Potrebbe essere stato quest’episodio ad originare l’usanza del grande falò, che caratterizza la vigilia di S. Andrea a Presicce.

Stemma dei Cito – Moles

 

Nel margine destro è raffigurata la resurrezione del giovane di Nicodemia. Negli Atti di Andrea si legge : <<… si stava trasportando un morto su di una barella: il vecchio padre, sostenuto dalle braccia dei servi, solo a stento riusciva a seguire la sepoltura. Ed egli (Andrea) rivolto al morto, disse: – <<In nome di Gesù Cristo, alzati e stai dritto sui tuoi piedi>>. Subito risorse tra lo stupore del popolo.>>

Al centro, in un edificio dalla curiosa architettura, attraverso l’ espediente di un arco, vediamo dei commensali: si tratta di un vescovo, che conversando con una donna bellissima e dal pensiero acutissimo, comincia a dubitare della propria fede e mentre sta per cedere alle sue lusinghe, compare Andrea, nei panni del pellegrino; alla vista dell’apostolo la donna scompare, rivelando che si trattava del demonio.

Nell’altro edificio più grande, alla stessa altezza della crocifissione, sono raffigurate le scene della condanna da parte del proconsole Egea e la fustigazione.

In primo piano, sulla destra vi sono delle figure femminili con dei bambini; erroneamente diversi autori hanno ipotizzato si trattasse della famiglia dei principi Bartirotti, feudatari di Presicce (cosa al quanto improbabile, dato che il principe Bartirotti Piccolomini d’Aragona prenderà in sposa Maria Cito-Moles e si trasferirà a Presicce nel 1622). In realtà si tratta di due donne. E’ narrato l’episodio della donna di Corinto: una donna di nome Calliope, che rimase illecitamente incinta di un assassino. Quando giunse il momento del parto, sopraffatta dai dolori, non riusciva a partorire. Disse allora a sua sorella di invocare Diana, ma la donna, avvertita in sogno, andò dall’apostolo che intervenne prodigiosamente; per questo motivo S. Andrea è considerato anche protettore delle partorienti.

Stemma di Presicce e firma del Catalano

 

Immagini come questa erano un indispensabile ed efficace strumento di comprensione del lungo panegirico che eruditi predicatori tenevano dal pulpito in occasione della festa del santo.

Con molta probabilità, nella sua originaria collocazione, la pregevole tela era più accessibile alla vista dei fedeli, che potevano scorgerne i particolari, leggerne più facilmente i contenuti, che con la ricollocazione settecentesca si fatica ad individuare.

Stemma del vescovo Guerrero

Viaggio a Presicce, città degli ipogei

Piazza Villani

testi e foto di Gianluca Ciullo

I luoghi del cuore sono sempre cari ed appaiono agli occhi di chi li percorre belli e a volte unici, ma obiettivamente il piccolo borgo di Presicce è un prezioso scrigno di architettura gentile come il Basso Salento che lo ospita. Un concentrato di edilizia religiosa, nobile, gentilizia e “a corte” che è difficile riscontrare comunemente in un’estensione di territorio così modesta.

Nulla è casuale, la sua storia l’ha reso possibile.

Palazzo ducale Paternò è stato da sempre la residenza dei feudatari che si succedettero. Dell’antica  torre di difesa è rimasto solo un richiamo nella merlatura neoguelfa che il duca Pasquale Paternò fece apporre sull’ormai residenza gentilizia agli inizi del novecento. Era il 1630 quando la principessa Maria Cyto Moles lo modificò secondo l’attuale fisionomia, arricchendolo di un meraviglioso giardino pensile e della cappella dell’Annunziata.

il giardino pensile del palazzo

I Cyto non godevano di particolari privilegi, spesso oppressivi per la popolazione locale come accadeva nel resto del Mezzogiorno feudale. Liberi erano i mulini, i forni e i frantoi appartenenti ai privati. Ancora libera era l’elezione del sindaco senza il consenso del feudatario così come quella del parroco. Tale assenza di privilegi consentì di creare condizioni particolarmente favorevoli tra ceto popolare e borghese, dediti pertanto, non solo al lavoro dei campi ma anche e soprattutto all’artigianato ed all’arte.

Piazza Villani con la colonna su cui è posta la statua di S. Andrea

Questo consentì di attrarre l’interesse economico di molti nobili, baroni, e ricchi possidenti che immigrarono fornendo al paese giureconsulti, medici, notai e letterati. I Giuranna di origine veneta, i Pepe fiorentini, i Cara foggiani,

Una tela del Catalano a Presicce

ph Stefano Tanisi

Domenico Catalano da Gallipoli, Martirio di S. Andrea (1604), olio su tela, chiesa parrocchiale di Presicce

Gian Domenico Catalano nacque a Gallipoli ed operò tra il 1604 e il 1628. Tra le opere presenti nel Salento si ricordano, oltre il Martirio di s. Andrea nella parrocchiale di Presicce, il S. Carlo Borromeo in S. Maria degli Angeli a Lecce, il S. Francesco della chiesa di S. Nicola a Squinzano, del 1613, il Trittico della Assunta nella chiesa di S. Nicola della stessa città, datato 1614, la Madonna con s. Antonio e angeli nella chiesa dei minori di Minervino Murge (1628),  l’Assunta, nella chiesa dei teatini a Lecce.

Numerose le tele nella città natale, Gallipoli: nelle chiese del Carmine (Pietà), di S. Domenico (Annunciazione, Circoncisione, Assunta), di S. Francesco (Annunciazione, Assunzione, Circoncisione, S. Diego), di S. Chiara (Annunciazione, Natività, Crocefisso), di S. Maria degli Angeli (Madonna e angeli), la celebre Madonna coi ss. Giovanni e Andrea nella cattedrale.

Molte altre tele sono conservate in vari altri centri del Salento: Alezio, Galatina, Scorrano, Squinzano, Taviano.

Per la Bibliografia si riporta pari pari quella di Pina Belli d’Elia nella scheda dell’Autore, in:

http://www.treccani.it/enciclopedia/gian-domenico-catalano_(Dizionario-Biografico)/

sebbene molti altri studi e volumi siano stati successivamente pubblicati, tra cui Gian Domenico Catalano. Eccellente pittore della città di Gallipoli, di Lucio Galante, edito nel 2004 tra le edizioni Congedo di Galatina.

G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634, pp. 7, 83, 94; L. Franza, Colletta istor. e trad. anticate sulla città di Gallipoli, Gallipoli 1835, pp. 57, 67, 70 s., 74 s.; B. Ravenna, Mem. ist. della città di Gallipoli, Napoli 1836, p. 330 e passim; C.Villani, Scritt. ed artisti pugliesi antichi moderni e contemp.,Trani 1904, pp. 1234 s.; G. Gigli, Il tallone dItalia, Bergamo 1912, p. 36; C. Foscarini, G.D.C., in Fede, III (1925), pp. 99 ss.; P. Marti, Architetti, pittori e scultori fino a tutto il sec. XIX, in Il Salento, XXXI(1927), p. 34; M. D’Orsi, Mostra retrospettiva degli artisti salentini (catal.), Lecce 1939, p. 11 (rec. di E. Scarfoglio Ferrara, in Rinascenza salentina, VII[1939], pp. 2 ss.); V. Liaci, Un geniale pittore salentino, in Rinascenza salent., X (1942), 2-3, pp. 123-26; M. D’Elia, Mostra dellarte in Puglia…(catal.), Roma 1964, pp. 138-141; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Lecce 1964, p. 116; M. Paone, Curiosità storiche salentine, in Studi salentini, XXIV(1966), pp. 292 ss.; Id., Un dipinto inedito di G.D.C. in Lecce, ibid., pp. 391-394; M. S. Calò, La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari, Bari 1969, p. 170.

Viaggio a Presicce, città degli ipogei

Piazza Villani

testi e foto di Gianluca Ciullo

I luoghi del cuore sono sempre cari ed appaiono agli occhi di chi li percorre belli e a volte unici, ma obiettivamente il piccolo borgo di Presicce è un prezioso scrigno di architettura gentile come il Basso Salento che lo ospita. Un concentrato di edilizia religiosa, nobile, gentilizia e “a corte” che è difficile riscontrare comunemente in un’estensione di territorio così modesta.

Nulla è casuale, la sua storia l’ha reso possibile.

Palazzo ducale Paternò è stato da sempre la residenza dei feudatari che si succedettero. Dell’antica  torre di difesa è rimasto solo un richiamo nella merlatura neoguelfa che il duca Pasquale Paternò fece apporre sull’ormai residenza gentilizia agli inizi del novecento. Era il 1630 quando la principessa Maria Cyto Moles lo modificò secondo l’attuale fisionomia, arricchendolo di un meraviglioso giardino pensile e della cappella dell’Annunziata.

il giardino pensile del palazzo

I Cyto non godevano di particolari privilegi, spesso oppressivi per la popolazione locale come accadeva nel resto del Mezzogiorno feudale. Liberi erano i mulini, i forni e i frantoi appartenenti ai privati. Ancora libera era l’elezione del sindaco senza il consenso del feudatario così come quella del parroco. Tale assenza di privilegi consentì di creare condizioni particolarmente favorevoli tra ceto popolare e borghese, dediti pertanto, non solo al lavoro dei campi ma anche e soprattutto all’artigianato ed all’arte.

Piazza Villani con la colonna su cui è posta la statua di S. Andrea

Questo consentì di attrarre l’interesse economico di molti nobili, baroni, e ricchi possidenti che immigrarono fornendo al paese giureconsulti, medici, notai e letterati. I Giuranna di origine veneta, i Pepe fiorentini, i Cara foggiani,

Presicce, una vera e propria “città sotterranea”.

il centro storico di Presicce

La flotta dei 23 frantoi ipogei di Presicce

di Antonio Bruno

Presicce è un comune di 5.617 abitanti che è situato nel basso Salento, nel territorio delle Serre Salentine, dista 56 km dal capoluogo e 10 km dal mare Ionio. « Presicce, riposa tra due giocaie sub appennine che stanno l’una a levante l’altra a ponente, nel piano di una vallata così aprica che, guardati i pini caratteristici a grande ombrello, qualche punta dattilifera, le creste dei monti coronate di sempre verde ulivo, il tappeto sfioccato e variopinto dei grossi campi che lo circondano, vi dà a primo acchitto l’aria di un luogo orientale. »
(Giacomo Arditi, storico locale)

una stradina del centro storico di Presicce

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