A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

di Salvatore Coppola

A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].

 

Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].

 

In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:

 

[…] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].

 

Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].

Note

[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.

[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.

[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.

[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Le “pozzelle” della Grecìa salentina

di Antonio Bruno

Il contadino salentino ha instaurato, sin dall’antichità, un rapporto sostenibile con l’ambiente naturale, realizzando una serie di manufatti rurali in grado sia di alleviargli il lavoro che di produrre profonde trasformazioni sociali e produttive ed elaborato sistemi ingegnosi ed ecocompatibili non solo di raccolta, conservazione e utilizzazione dell’acqua piovana, ma altresì di delimitazione delle proprietà agricole (muretti a secco) e di allestimento di un’ampia gamma tipologica di manufatti, tra cui trulli, masserie, frantoi e case a corte, come quelle ammirate a Martano.

Le “pozzelle” di Martignano e Castrignano dei Greci (riprodotte, rispettivamente, nelle foto) sono serbatoi ipogei scavati nelle depressioni di origine carsica (su cui le precipitazioni meteoriche ristagnavano), realizzati per soddisfare le esigenze vitali e affrontare i lunghi periodi siccitosi (da luglio a settembre, proprio quando le coltivazioni richiedono maggiori volumi d’acqua).

Tali manufatti, in larga parte scomparsi sia per l’ampliamento degli insediamenti urbani e della viabilità, sia per l’aggressione prodotta dalla vegetazione spontanea e dalle radici degli alberi , sono ricordati spesso dalla toponomastica di vie, piazzette, contrade e rioni, dalla memoria popolare locale e, ancora oggi, presenti nella maggior parte dei centri abitati della Grecìa Salentina, attualmente costituita da dieci comuni (Calimera, Martano, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Melpignano, Corigliano d’Otranto, Soleto, Sternatia, Martignano e Zollino), mentre, nel periodo della massima estensione (secoli XIV e XV), occupava una superficie tre volte superiore e raggiungeva il litorale gallipolino.

La Grecìa è l’unica isola ellenofona della provincia di Lecce (la più orientale d’Italia) – ricca di toponimi, tradizioni, elementi linguistici, gastronomici, architettonici e religiosi greci –, che, protesa nel Mediterraneo, tra lo Ionio e l’Adriatico, verso la Penisola Balcanica, ha costituito un ponte non solo per scambi commerciali e culturali, ma altresì per viandanti (greci, slavi, albanesi), militari, pellegrini e religiosi, i quali, integrandosi nel corso dei secoli con i gruppi umani locali, hanno influito ora sulla lingua, ora sulle vicende abitative, edilizia domestica, usi e costumi, ora sull’organizzazione socioeconomia e trasformazione dell’ambiente con la bonifica dei terreni, la diffusione di nuove colture grazie allo sfruttamento dell’acqua, soprattutto di quella piovana depositata naturalmente negli avvallamenti del terreno.

Tralasciando in questa sede la secolare querelle, ancora in piedi tra filologi e glottologi, sull’origine del dialetto greco-salentino, si può ragionevolmente ritenere che elementi bizantini si siano inseriti in una preesistente matrice magnogreca, attingendo dall’adstrato salentino (volgare romanzo parlato dal proletariato e, pertanto, diverso dal latino usato dagli ecclesiastici e dall’aristocrazia terriera e commerciale), anche se altri studiosi ipotizzano un’immigrazione dalle colonie grecofone calabresi e siciliane attraverso il porto di Gallipoli. Il griko ha subito un processo di evoluzione del tutto
indipendente lasciando, nel corso dei secoli – malgrado la soppressione del rito religioso greco, l’introduzione di quello latino, la scolarizzazione di massa, i matrimoni misti, la diffusione della lingua italiana, ecc. –, ampie tracce nel costume locale e sopravvivendo ancora presso gli anziani (prevalentemente in ambito domestico) e soprattutto nei nomi di vie e contrade, poesie, canti popolari (d’amore, di lavoro e di dolore), racconti, leggende, indovinelli, proverbi e nenie (Biumbò, biumbò, pame na fèrome lio nerò a to frea tu Ja Marcu cino pu lene ka è pleo kalò = Biumbò, biumbò, andiamo a prendere un poco d’acqua presso il pozzo di San Marco quello che dicono sia il migliore).

Le “pozzelle”, profonde mediamente da 3 a 6 m (a seconda della posizione dell’interstrato argilloso che impediva la dispersione del prezioso liquido nella circolazione sotterranea) e dalla tipica forma a campana, generalmente presentavano le pareti “incamiciate” con materiale semipermeabile, costituito in tempi più recenti da tufi e in quelli più antichi da pietre informi disposte a secco in cerchi concentrici – per evitare l’eventuale smottamento delle rocce friabili e consentire la compenetrazione dell’acqua che, in questo modo, si arricchiva di minerali – fino all’imboccatura (vukkali in griko, coincidente con il piano di campagna), protetta abitualmente da un blocco calcareo (dalla forma circolare o quadrangolare) forato al centro (vera) per rendere possibile l’emungimento e inciso a volte con croci a testimonianza della fervente religiosità di cui era permeata la vita quotidiana della società contadina. Ricadenti in genere nei pressi delle vie di comunicazione, potevano essere sia private e contrassegnate perciò dalle iniziali delle famiglie che non solo ne vantavano il possesso, ma curavano anche la manutenzione e la pulitura della
pareti interne, asportando il terriccio che altrimenti avrebbe ostacolato l’infiltrazione per osmosi dell’acqua – il cui livello risultava sempre costante in tutti i manufatti per il principio dei vasi comunicanti –, sia di proprietà demaniale. In tal caso erano utilizzati persino dagli abitanti dei paesi vicini, garantivano il prelievo anche ai più poveri, rappresentavano un luogo d’incontro (pame na piàkume nerò a’ to frea = andiamo a prendere acqua dal pozzo) e offrivano spesso, a numerosi cittadini, nelle calde giornate estive, l’unica possibilità di dissetarsi e rinfrescarsi (pame sta Scilò na piame nerò frisco = andiamo all’Ascilò per un sorso d’acqua fresca).

Lo stesso metodo di raccolta delle acque piovane era usato a Sternatia, dove, fra i vari invasi pubblici, ne viene menzionato uno per le sue dimensioni, detto volgarmente la Matria (la madre di tutti), che denomina la via in cui era ubicata e da cui è nato il proverbio «Chi beve l’acqua della Matria non se ne va da Sternatia» («Tis pinni to nnerò à tti mmatria e ssiete pleo apu Sternatia»).

Una grande cisterna nell’ex convento dei Domenicani del 1709 (attualmente sede del Comune), era alimentata delle precipitazioni meteoriche cadute sul tetto e piano calpestio (lastricato con materiale lapideo), attraverso un reticolo di canalizzazioni e una serie di piccole vasche di decantazione, disposte ad altezze diverse.

L’approvvigionamento idrico nel Salento nel corso dei secoli


di Antonio Bruno

Tutti sono consapevoli che senza l’acqua non è possibile pensare alla vita. Gli insediamenti delle persone umane sono sempre avvenuti nei pressi dei corsi d’acqua che consentivano una semplicità di approvvigionamento.  Io vivo nel Salento leccese che è caratterizzato dall’assenza di corsi d’acqua superficiali. In questa terra il carsismo provoca la dissoluzione delle rocce calcaree, determina l’infiltrazione delle acque nel sottosuolo, più specificamente nel basamento carbonatico della penisola, dove si forma una potente falda, detta falda di fondo, sostenuta dalle acque marine di intrusione continentale e quindi l’acqua è nascosta nelle viscere della terra e sino al secolo scorso i miei antenati ne ignoravano anche l’esistenza.

Ecco che mi chiedo e vi chiedo come possa essersi sviluppata la civiltà in questa terra senz’acqua?

Nell’800 l’acqua dolce del Salento leccese era raccolta con cura, veniva conservata e usata con grande parsimonia. L’acqua necessaria in quel periodo era ottenuta per una metà dalle falde superficiali, attraverso lo scavo di pozzi, e per la restante parte dalla raccolta dell’acqua piovana nelle cisterne.
Ma vediamo di capire qual’era la cura che si aveva per l’acqua nel Salento leccese: si costruivano delle cisterne nel tufo e poi venivano ricoperte lasciando un apertura che permetteva la raccolta delle acque. Nella zona della “Grecìa salentina”, nei comuni di Martano, Soleto, Martignano, Calimera, Sternatia, Zollino, Corigliano d’Otranto, Melpignano e Castrignano, siccome risulta assente la falda superficiale, si raccoglieva l’acqua piovana in cisterne dette “pozzelle”.
Cosimo De Giorni nel 1872 così descrive le cisterne dette pozzelle: ” Se in un terreno costituito da strati relativamente permeabili, si pratica uno scavo e le pareti si circondano di muratura composta di pietre filtranti e il fondo si copre di argilla o bitume o altre sostanze impermeabili, allora le acque piovane si verranno a raccogliere e depositare negli strati inferiori e dureranno un tempo abbastanza lungo. Nel caso delle pozzelle lo strato permeabile è costituito dalla rozza muratura e dalle marne ferruginose, lo strato impermeabile è formato dalle argille. Ho voluto osservare da vicino codeste costruzioni in quelle pozzelle nelle quali l’acqua raggiungeva un livello relativamente inferiore. Le volte sono costituite di pietre informi di leccese bastardo e di calcare compatto disposte le une sulle altre senza cemento a mo’ delle pareti dei muri che delimitano e circondano i fondi rustici, e così dalla base fino alla bocca del pozzo”.

Nei territori vicini a Lecce si raccoglieva l’acqua dilavante sui tetti, avendo cura di non far confluire nella cisterna di raccolta le prime acque autunnali che ruscellando sui tetti polverosi dopo il periodo estivo divenivano cariche di polveri e altre sostanze che erano trasportate dall’acqua.
L’acqua piovana delle precipitazioni atmosferiche successive veniva invece accumulata nella cisterna. In alcuni casi l’acqua piovana che scendeva dai tetti veniva canalizzata in cataletti di zinco o di mattoni e convogliata nella cisterna principale. Questa cisterna era divisa trasversalmente dall’alto in basso da un muro a secco che, come noto, se lasciato senza intonaco,  è molto poroso. Questo muro a secco faceva da “filtro” perché l’acqua passando attraverso questo muro dalla cisterna principale a quella secondaria più piccola risultava filtrata e da qui poi veniva attinta per essere utilizzata. Sistema ingegnoso e assolutamente in linea con i sistemi di filtraggio delle acque utilizzati oggi.

La quantità d’acqua nella cisterna, oltre a dipendere dalle precipitazioni atmosferiche stagionali, era funzionale alla superficie dei tetti e alla loro rifinitura. Infatti è intuitivo che una più ampia superficie di tetti era in grado di raccogliere più acqua piovana. Il limite di allora era rappresentato da case piccole e soprattutto coperte in malo modo da mattoni e legno, se non addirittura di paglia e fango. I tetti così ricavati non erano sufficientemente impermeabili e quindi con una scarsa efficienza nella raccolta dell’acqua piovana.
In alcuni casi si raccoglieva l’acqua piovana canalizzandola dalle aie, che però presentavano una grande dispersione e soprattutto non garantivano l’igiene necessaria.
Vi era l’abitudine di disinfettare l’acqua mettendo nelle cisterne calce viva. Nel caso della raccolta dalle aie, essendo l’acqua carica di materiale organico, produceva cattivi odori che i contadini dell’800 mitigavano immergendo nelle cisterne piante odorose come ad esempio la menta, il timo ed il rosmarino. E’ del tutto evidente che l’acqua raccolta dalle aie era inutilizzabile per scopi potabili ed era invece disponibile per l’irrigazione delle piante.

Nel Salento leccese nel periodo del ‘600 e ‘700 vi fu un grande insediamento di conventi dei più disparati ordini religiosi che spensero la sete delle popolazioni più povere di allora. Come dici? La spiritualità e le preghiere furono la causa dell’approvvigionamento di acqua? No! I conventi avevano grandi superfici di tetti che captavano le piogge e che riempivano di acqua le cisterne dei conventi. Tale quantità era più che sufficiente per i religiosi che donavano l’esubero ai poveri contadini, che così spensero la loro sete.
Con l’avvento della rivoluzione francese e con l’abolizione degli ordini religiosi alle popolazioni del Salento leccese venne a mancare l’acqua dei conventi e la sete aumentò. Le opere di bonifica arrivarono molto più tardi e quindi l’assenza dell’acqua determinò la povertà di queste terre che vivevano di agricoltura.

Oggi con un gesto semplice, ruotando una manopola o alzando una leva, dal rubinetto viene fuori l’acqua, pura, incontaminata e potabile. E’ importante che tutti siamo consapevoli che questo semplice gesto è il frutto degli sforzi e dell’ingegno delle donne e degli uomini del Salento leccese che oggi ha acqua in abbondanza. Ma insieme a questa consapevolezza vi è un pericolo che è rappresentato dall’utilizzo smodato della risorsa che potrebbe esaurirsi. Ma questa è un’altra storia che presto vi narrerò.

 

Bibliografia
P. Papadia – P. Sansò: Le pozzelle del Salento leccese
Mario De Lucia – Franco Antonio Mastrolia: Società e risorse produttive in Terra d’Otranto durante il XIX secolo.

 

 

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