Porto Selvaggio, perla del Salento, gradito e consigliato da The Telegraph

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di Giuseppe Massari

I consigli di viaggio proposti dall’autorevole quotidiano inglese The Telegraph, che indica 21 destinazioni italiane, tra le quali il parco di Porto Selvaggio-Palude del Capitano di Nardò, che mantiene alta la bandiera della Puglia, insieme al Gargano, non sono da sottovalutare, considerato che, questo territorio, fortunatamente e coraggiosamente, è stato preservato da scempi urbanistici, dalle colate di cementificazioni che ne avrebbero deturpato la bellezza, lo splendore, l’originalità e la ricchezza paesaggistica, storica, culturale ed ambientale.

Oggi, possiamo dire che è una perla del Salento.

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Portoselvaggio, altrimenti definita “l’oasi più bella del Salento”, negli ultimi anni è stata già al centro di attenzioni, di considerazioni; in vetta alle classifiche più prestigiose. Sia a livello giornalistico che di tour operators, nazionali ed internazionali, tanto da diventare affollata meta estiva per le sue acque cristalline e fresche ma, anche come luogo d’attrazione culturale per la presenza di siti archeologici tra i quali la Grotta del Cavallo, “santuario della preistoria” e Serra Cicora.

La grotta del Cavallo ha restituito numerosi reperti legati all’Uomo di Neanderthal (resti macellati di animali, da cui il nome della grotta, manufatti di pietra, ecc.); nella grotta sono state rinvenute le testimonianze di una cultura, l’Uluzziano.

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

L’importanza archeologica di Serra Cicora, invece, consiste nella presenza di una frequentazione del primo neolitico a ceramica impressa, seguita da uno stanziamento di neolitico recente – finale a ceramica Serra d’Alto e Diana. A quest’ultimo (V millennio a.C.) si deve l’impianto di una vera e propria necropoli che ha restituito finora circa venti individui, alcuni dei quali in strutture megalitiche che anticipano una tipologia ritenuta fino a ieri molto più recente.

Il Parco, possiamo dire che la fa da padrone. Esteso per oltre 1.000 ettari, riunifica in un’unica area il parco naturale attrezzato già istituito nel 1980 e l’area naturale protetta della Palude del Capitano, già classificata dalla L.R. 19/97. Con la Legge Regionale n. 21/1980, nella zona compresa fra la Torre dell’Alto e quella di Uluzzo, è stato istituito il Parco Naturale attrezzato di Porto Selvaggio, che ha evitato la cementificazione, prospettata dai numerosi progetti di lottizzazione già presentati e contro cui la popolazione locale si è coraggiosamente battuta.

Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay
Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay

 

La zona sottoposta a tutela copre una superficie di 424 ettari e ospita ambienti costieri tipici dell’area mediterranea. Dagli anni ‘50 si è aggiunta, poi, per effetto del rimboschimento operato dal Corpo Forestale dello Stato, una cospicua colonia di pini d’Aleppo, pianta pioniera che attecchisce perfettamente su questi terreni aridi e rocciosi. La pineta scende fino al mare e regala un’ombra profumata di resina a chi cerca un riparo alla calura estiva. La piccola insenatura di Porto Selvaggio è costituita da ciottoli e scogli bassi, che spesso tendono a formare piccole cavità che sembrano delle grotte. L’acqua cristallina permette di vedere, anche ad occhio nudo, gli splendidi fondali popolati da pesci e alghe multicolore.

Meraviglia, stupore e consenso, per la scelta dell’organo d’informazione inglese, sono stati espressi dal presidente del Gal Terre d’Arneo, Cosimo Durante. “Siamo tutti orgogliosi di questa nomina, come cittadini pugliesi oltre che salentini e di Terra d’arneo. Evidentemente si tratta di un risultato frutto dell’attuazione di principi di tutela che hanno permesso di preservare un luogo di così forte bellezza e, parallelamente, un lavoro congiunto che mette assieme attività di promozione a cura dell’ente parco competente, della civica amministrazione e della nostra agenzia di sviluppo locale, GAL Terra d’Arneo. Nella presentazione del comprensorio di Terra d’Arneo, difatti, il parco di Porto Selvaggio è uno dei nostri punti di forza per presentare il complesso sistema ambientale e culturale del comprensorio”.

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31 marzo 2016. Renata Fonte ha vinto

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

di Pino de Luca
E’ quasi l’una di notte, il jet leg dell’ora legale mi ha scombussolato. Metto insieme i pezzi del prossimo articolo del venerdi. Sono contento, molto contento di come alcuni pezzi di Salento, in particolare uno che non disvelo, stiano crescendo in manera prorompente, quasi sia stato levato un tappo che li comprimeva. O forse è stato levato per davvero. Non è compito mio giudicare. E guardando le carte e le storie sono incappato nelle date, in vecchie foto e vecchi articoli. Vecchi si, come a volte mi capita di essere giudicato. Forse a buona ragione. In quelle vecchie foto, con tanti chili in meno e tanta rabbia in più ne ho trovate alcune di un 31 marzo fatto al Belvedere di Porto Selvaggio. Molti anni fa. Che tempi ho avuto l’onore di vivere, che persone ho avuto il piacere di conoscere, molte personalmente e molte per contatto pubblico. Era il 1984 alla prima esperienza di Consigliere Comunale da meno di un anno, cominciavo a comprendere cosa significava muoversi in un comune difficile, avere sulle spalle le speranze degli sconfitti da sempre e di fronte la forza e l’arroganza di chi aveva sempre vinto. C’era tanta fiducia, entusiasmo, ingenua lealtà e incrollabile fede nell’utopia dell’eguaglianza e del comun sentire. Era il 31 di marzo e giunse a notizia orrenda: Renata Fonte, assessore al comune di Nardò, era stata uccisa a colpi di pistola mentre tornava a casa. Sapevamo bene cosa fosse già la quarta mafia e sapevamo bene che cresceva grazie alla miopia e alla sottovalutazione, quando non alla complicità delle istituzioni.
Ricordo i giornali del tempo e le veline che, come sempre, cercavano di instillare nell’opinione pubblica idee balzane e, trattandosi di una donna, la pista passionale era la preferita. Fino ad indicare persino il marito come possibile coinvolto. Che vergogna. Molti anni dopo si capirà che dietro c’era una mano criminale ma mai si è giunti al terzo livello … ci si è fermati al secondo. Eppure le sentenze di quell’ulteriore livello ne parlano ma restò inaccessibile. E comunque Renata ha vinto. Il Salento ha ancora Porto Selvaggio strappato alla speculazione grazie proprio al suo impegno. A Sabrina e Viviana il mio caro saluto.
Ci sono state Persone come Renata che hanno dato la vita per la loro terra e ci sono persone che ne fanno strame vendendone brandelli ai passanti. Il Salento esiste, ma i salentini continuano ad esistere ancora?
A noi la scelta!!!

Portoselvaggio: alcuni scorci nell’interpretazione di alcuni pittori contemporanei

di Armando Polito

Questo post ha la sola pretesa di costituire lo stimolo iniziale per una sorta di catalogo tematico che potrà via via, almeno mi auguro, prendere corpo grazie alla collaborazione dei lettori che vorranno inviare le loro informazioni e degli artisti che questo dettaglio del nostro paesaggio hanno interpretato con le tecniche più disparate e che del loro lavoro vorranno inviare una testimonianza fotografica e, se lo riterranno opportuno, un’immagine di loro stessi.

Comincio con due salentini, l’uno defunto, l’altra giovanissima (è nata a  Sava, in provincia di Taranto, nel 1989)

Enzo Sozzo (1917-1993), Marina di Porto Selvaggio, 1975 (olio su tela; immagine tratta da http://www.kijiji.it/annunci/per-la-casa/lecce-annunci-lecce/marina-di-porto-selvaggio-lecce-olio-su-tela-enzo-sozzo/7623951; l’immagine dell’autore è tratta da http://www.imovepuglia.tv/old/storie/enzo-sozzo-ovvero-storia-di-un-pittore-partigiano/1764/).

Simona De Leo, Portoselvaggio, 2010  (immagine tratta da http://simonadeleo.blogspot.it/2010_08_01_archive.html; l’immagine dell’autrice è tratta da http://iodisegnoamodomio.blogspot.it/p/le-mani.html).

Dopo i due salentini è la volta di altri autori, viventi, che hanno dovuto fare più strada, in senso geografico non essendo salentini, per dare vita alle loro creazioni.

Jacqueline Cope, Porto Selvaggio, 2010 (olio su tela; immagine tratta da  http://www.premioceleste.it/jacqueline.cope). Così l’artista commenta il suo dipinto:  Nella pittura plein air il tonfo delle onde era piccola in lontananza, ma la sua forza ed energia ha fatto una grande impressione. In questo dipinto ho voluto catturare la forza e l’energia dell’acqua che colpisce il masso, ma per dare la vista il senso di aspettativa, in attesa del prossimo colpo dell’onda.

 

Sebastian Lettner, Porto selvaggio, 2012,(polaroid dipinta, 9 x 7 cm.; immagine tratta da http://julietartmagazine.com/it/sebastian-lettner/;l’immagine dell’autore è tratta da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151649047512081&set=a.436704897080.209999.656852080&type=1&theater).

Dal primo dei due indirizzi appena citati: Le polaroid dipinte da Sebastian Lettner mantengono il fascino dell’azione disinvolta, apparentemente non meditata, attraverso la quale l’artista crea cromie brillanti, che oscillano fra tramonti e fluidità acquatiche di Porto selvaggio: un’effusione di colore con strisce, macchie, grumi, nella gamma del seppia, un nero magmatico interrotto da una vibrante nota color acquamarina. Istantanea fotografica, nitido ricordo, poi, magari, dissolvenza. La fotografia in polaroid subisce un processo di trasformazione attraverso il linguaggio del gesto pittorico. Il fondamento di quest’azione  è da ricercare  nell’inconscio  che a tratti riemerge come un inchiostro dall’oscurità conturbante.

Maurizio Ciccani, Porto Selvaggio, 2013 (dipinto ad olio su legno; immagine tratta da http://mauriziociccani.com/2013/09/25/porto-selvaggio/dsc00879/; l’immagine dell’autore è tratta da http://www.joyaa.net/joyaa/uploads/author_images/big/dsc00266-2-871403.jpg).

 

L’immagine di Sebastian Lettner che abbiamo visto prima si colloca a metà strada tra la pittura tradizionale e quella elettronica. Mi riesce difficile, invece, dare una collocazione ben precisa alla tecnica della foto stampata su canvas1 (di seguito Portoselvaggio dello Studio Hemingway s.r.l. di Martano; l’immagine è tratta da http://www.salentoimmagini.it/prodotto.asp?id=116) perché, pur comportando, comunque, l’intervento selettivo dell’uomo (scelta della foto, sua eventuale elaborazione, calibratura cromatica della stampante, etc. etc.), essa è clonabile all’infinito, a meno che una volontà precisa o una memoria di massa trasformatasi all’improvviso in una memoria di merda … non ne abbia cancellato il corpo digitale. Forse il raffronto più consono è con la vecchia stampa artistica da rame (con il ruolo di protagonisti alla pari del disegnatore e dell’incisore), per cui la foto sta al rame come la tela pittorica sta alla carta, come la stampante al torchio.

Francesco Carrino. Mi piace chiudere la carrellata con un artista autodidatta, neretino doc, nonché mio carissimo amico.  Oltre che pittore è anche musicista e a tal proposito segnalo su questo stesso blog  il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/01/omaggio-a-portoselvaggio-2/.

 

Francesco Carrino

Portoselvaggio Francesco Carrino

Forse è lo scorcio meno spettacolare di Portoselvaggio, ma certamente il più suggestivo e stimolante per la fantasia, perché rappresenta il tratto iniziale di un percorso verso la bellezza, quasi il progressivo aprirsi di un sipario su uno scenario da sogno che non si vede l’ora di scoprire. Credo sia la sensazione che tutti i visitatori  ben conoscono, dato che si tratta di un passaggio piuttosto obbligato.

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1 Alias tela pittorica. Spesso ci si sciacqua la bocca con le parole inglesi rimediando la figura di chi si crede moderno e disprezza tutto del passato semplicemente perché lo ignora. Costui  lo farebbe certamente con meno supponenza anche con canvas, se sapesse che il termine è fratello del francese canevas e  del nostro canovaccio e che tutte le voci appena ricordate sono figlie del latino cannabis=canapa; e, in rapporto a quest’ultima voce, il “costui” di cui sopra forse resisterebbe anche all’idea di drogarsi …

 

 

Porto Selvaggio – Palude del Capitano. Alcune osservazioni

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di Maria Grazia Presicce

 

Osservavo la meravigliosa natura intorno a me cercando di individuare una spiegazione tangibile al Progetto, portato avanti per anni e in minima parte realizzato, inerente al Parco Porto Selvaggio – Palude del Capitano. Quello che più mi lascia perplessa è il non rilevare nessun tipo di vantaggio o meglio nessun beneficio economico per la comunità, dal tanto decantato “piano di recupero della zona Parco,” nonostante la spesa così imponente per avviare e svolgere i vari lavori.

Sono del parere che non basta proteggere un luogo con tutte le sue prerogative; avrebbe un senso se, oltre a tutelarlo (anche se sulla “tutela” bisognerebbe fare un discorso a sé, visto che spesso viene intesa solo sulla carta) si fosse riusciti a creare posti – lavoro per i cittadini e non solo poltrone, conferenze e progetti inutili per non dire parole più dure e offensive.

Buona parte dei soldi spesi per la difesa del parco potevano essere sicuramente risparmiati e utilizzati per iniziative più proficue. Riguardo il restauro dei fabbricati presenti nel parco, rimasti contenitori di aria stantia, sarebbe bello sapere a cosa è servito risanarli se non dovevano avere nessuno scopo utile. Gli uccelli e tutti gli animali dei dintorni non avevano bisogno di vedere i locali ristrutturati, a loro andavano bene com’erano, tra l’altro potevano almeno usarli per ripararsi. Sicuramente non andava bene a chi ha sfruttato la situazione a suo mero vantaggio.

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Nardò, Palude del Capitano

Devo precisare che, alla fine, è giusto anche che chi ha svolto i lavori ci abbia guadagnato, (nulla si fa per nulla!) solo che sarebbe stato bello se il tutto avesse avuto un prosieguo conveniente per la comunità che intorno ci vive. Il ripristino avrebbe avuto un senso se indirizzava verso obiettivi proficui anche dal punto di vista economico; intendo dire che sarebbe stato opportuno creare all’interno di questi luoghi, servizi “a pagamento” legati al territorio, utili per gli abitanti del luogo e per i turisti. E non mi si venga a dire che la legge non lo consente e altre simili baggianate! Sappiamo benissimo che quando qualcosa, politicamente, si vuole ottenere non c’è legge che tenga. Anche perché, ogni giorno, si assiste a travisamenti e accomodamenti delle leggi secondo i propri comodi e questo, purtroppo, avviene anche in ambito locale. Basta guardare lo scempio che si è fatto a S. Isidoro con la realizzazione del Villaggio “ BLU Salento”.

Altro che scempio della natura, altro che impatto ambientale! Eppure, quando è stato realizzato, non si sono avvertite lagnanze da parte di nessun politico, di nessun ecologista o ambientalista. All’epoca, nessuno ha  gridato all’obbrobrio. Il villaggio è sorto col beneplacito di politici, ambientalisti, animalisti ed eseguito, alla faccia di tutte le norme giuridiche e ambientali, creando disagi su disagi alla comunità che lì, abitualmente, ci vive, quindi…

Quindi, come si può vedere, con la buona volontà “politica” si arriva a tutto, e non sempre c’è bisogno di fare “magagne”, a volte basterebbe un po’ di buona volontà e buon senso.

Dell’incantevole ambiente della Palude del Capitano non basta che si facciano belle foto, bei servizi televisivi (ben vengano anche quelli!) e poi solo parole parole parole e di realizzazioni concrete neppure l’ombra.

Per non parlare del Marchio d’area del Parco e della sede dello stesso, la Masseria Torre Nova. Anche lì, conferenze, spettacolini e parole parole e parole che rimbombano, una volta dette, solo nei tanti locali sempre vuoti e spesso chiusi ma…accuratamente sorvegliati. Tanto sorvegliati e chiusi che è accaduto, in estate, che essendo chiusi, i sorveglianti, non permettevano l’accesso ai turisti nemmeno per una superficiale visita all’interno del cortile!

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Ci rendiamo conto di cosa potrebbe diventare quel luogo, tenendo conto che si è creato anche un Marchio d’area? Mi chiedo perché non è stato dato in gestione in modo da realizzare un punto vendita delle produzioni del Parco e dei prodotti e manufatti tipici della zona e, pubblicizzando il luogo, inserirlo in un itinerario in modo tale che il turista, oltre la visita agli incantevoli ambienti della masseria, lasciasse anche una testimonianza, economica, del suo passaggio.

Purtroppo, spessissimo, siamo bravi solo a lamentarci e il benessere e i posti di lavoro che con poco si potrebbero creare, nessuno li ravvisa. Si portano avanti progetti e progettini che servono solo ad illudere ragazzi desiderosi di lavorare e che servono solo a portare voti a chi li lusinga, mentre tanti programmi realistici che, effettivamente, porterebbero a delle opportunità tangibili e favorirebbero tanti cittadini, sembra davvero che nessuno li percepisca. Purtroppo, siamo invischiati in così tante beghe burocratiche, in cavilli di tutti i generi che pochi cercano di risolvere e se qualcuno si prodiga per capirci qualcosa, quando si reca negli uffici di competenza, si rende conto che ognuno cerca di celarsi dietro leggi e leggine che prova ad interpretare a proprio modo per togliersi da ogni responsabilità. Si ha paura di fare, di decidere e quei pochi che cercano di darsi da fare, si fa di tutto per farli desistere . E si va avanti così, senza concretare niente o realizzando cattedrali nel deserto piene di nulla, strapiene di parole e paroloni, piani utopistici di tecnici specializzati, di onorevoli del momento che ci mettono la faccia per i loro intrallazzi, per i loro favoritismi, per il loro tornaconto elettorale e al di là di questo, alla fine, tutto resta statico e tutti continuano a crogiolarsi in questa staticità.

 

Preistoria/ A Nardò e dintorni sarebbe nato l’uomo moderno

di Biagio Valerio

Baia di Uluzzo (Nardò-Lecce), nella foto (portadimare.it) l’ingresso della grotta del Cavallo segnalata dalla freccia

Due denti potrebbero riscrivere la storia dell’uomo così come la conosciamo e testimoniare che la zona ionico-salentina sia stata davvero la culla dell’Homo sapiens sapiens. A Nardò e dintorni, insomma, sarebbe nato l’uomo moderno e ciò è successo molto prima di quanto si pensasse: oltre 40mila anni fa. Lo dicono i fossili umani ritrovati in Italia, a Portoselvaggio.

I resti sono stati analizzati da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui alcuni italiani, e i dati pubblicati sull’ultimo numero di Nature. Si tratta di due molari ritrovati della Grotta del cavallo e, inizialmente, classificati come appartenenti ad un uomo di Neanderthal.

E’ stato Stefano Benazzi, ricercatore all’Università di Vienna, ad utilizzare nuove e raffinate tecniche e datarli a circa 44mila anni fa: sono questi i resti di uomo moderno più antichi d’Europa.

Le datazioni rivelano che la diffusione dei primi uomini moderni sia avvenuta prima di quanto ipotizzato finora e che i nostri progenitori hanno coesistito con i Neanderthal, sicuramente nel meridione d’Italia, per molte migliaia di anni.

i denti che hanno consentito la scoperta (per gentile concessione di portadimare.it)

I denti da latte ritrovati nella Grotta del Cavallo sono stati sempre associati alla cultura detta Uluzziana – toponimo coniato dal professore Arturo Palma di Cesnola, dell’università di Siena, negli anni Sessanta – della quale si

Quei due denti ritrovati a Portoselvaggio (Nardò) sono i resti di uomo moderno più antichi d’Europa

Stefano Benazzi

di Biagio Valerio

E’ un giovane ricercatore italiano del dipartimento di Antropologia all’università di Vienna, il 34enne Stefano Benazzi, a riscrivere la storia dell’uomo moderno. Che avrebbe mosso i suoi primi passi nel Salento e, precisamente, nell’area di Portoselvaggio. Lì, oltre 40mila anni fa, i primi uomini della specie Sapiens sapiens, quella che avrebbe conquistato il mondo affermandosi su tutti gli altri mammiferi, cacciavano nelle praterie di quella che sarebbe diventata, millenni dopo, la baia di Uluzzo.

La particolarità di questa scoperta, legata all’indagine di due molari da latte ritrovati durante le campagne di scavo degli anni Sessanta nella Grotta del cavallo, è che l’Homo sapiens avrebbe convissuto, nello stesso spazio fisico, con gli esemplari della specie dell’uomo di Neanderthal che, secondo gli studiosi, si è estinta misteriosamente forse proprio per la concorrenza del suo “collega” più evoluto.

L’uomo moderno è nato molto prima di quanto si pensasse, dunque, oltre 40mila anni fa. Lo testimoniano i fossili umani ritrovati in Italia, nella Grotta del Cavallo, resti che sono stati analizzati da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui alcuni italiani, e i dati pubblicati sull’ultimo numero di Nature. Benazzi ha utilizzato raffinate tecniche di datazione facendo fermare l’orologio del tempo a 44mila anni fa: quei due denti ritrovati a Portoselvaggio sono i resti di uomo moderno più antichi d’Europa.

Intorno a quei denti, però, gravita un mistero. Ne delinea i confini Vittorio Marras che fa parte dello storico Gruppo speleologico neritino, che affiancò Arturo Palma di Cesnola e Edoardo Borzatti von Lowenstern

I denti decidui di Grotta del Cavallo i resti più antichi di uomo moderno in Europa?

I primi uomini moderni europei

Secondo i risultati di uno studio pubblicato su Nature, i membri della nostra specie (Homo sapiens) sarebbero arrivati in Europa alcuni millenni prima di quanto finora attestato. Il gruppo di ricerca, guidato dai ricercatori del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna, ha analizzato due denti decidui rinvenuti nella Grotta del Cavallo, una cavità preistorica della Puglia (prov. Lecce). Scoperti nel 1964, questi denti erano ritenuti neandertaliani dalla comunità scientifica, mentre sarebbero da attribuire a uomo anatomicamente moderno secondo i risultati di questa recente ricerca. Questa scoperta ha importanti implicazioni riguardanti le abilità cognitive dei neandertaliani e le possibili cause della loro estinzione. Nuove datazioni al radiocarbonio realizzate dall’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit
dell’Università di Oxford, collocano i livelli di rinvenimento dei denti a ~45-43mila BP (data calibrata). I denti decidui di Grotta del Cavallo sono quindi i
resti più antichi di uomo moderno in Europa finora conosciuti.

La ricerca pubblicata su Nature è stata condotta dal Dr. Stefano Benazzi, ricercatore italiano presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna, Austria, con la collaborazione internazionale di 13 istituzioni europee, incluse anche l’Università di Pisa e l’Università di Siena. Questo studio si basa sulla rivalutazione di denti fossili rinvenuti nella Grotta del Cavallo scoperta nel 1960 e inizialmente studiata da Arturo Palma di Cesnola, Professore emerito dell’Università di  Siena.

Grotta del Cavallo, racchiude una serie stratigrafica di circa 7 m con più livelli di età paleolitica, che comprendono periodi di occupazione sia neandertaliana che di  uomo moderno. I due denti da latte oggetto della ricerca sono stati rinvenuti nei livelli archeologici dell’Uluzziano. La cultura uluzziana (nome che deriva dalla Baia di Uluzzo dove si apre la grotta) è diffusa in larga parte dell’Italia ed è stata rinvenuta anche in Grecia. Fra i suoi prodotti, accanto ai manufatti litici, sono presenti strumenti in osso e soprattutto oggetti ornamentali e pigmenti, elementi generalmente associati al comportamento simbolico dell’uomo moderno.

Uomo di Neanderthal

Sulla base di studi precedenti i denti uluzziani di Grotta del Cavallo erano
considerati neandertaliani dalla maggior parte degli studiosi; pertanto era
comunemente accettato dalla comunità scientifica che gli Uluzziani fossero
neandertaliani che però possedevano una cultura solitamente ritenuta tipica
dell’uomo anatomicamente moderno, e che, a seconda delle interpretazioni,
l’avessero sviluppata autonomamente o acquisita dall’uomo moderno attraverso un processo di acculturazione.

Il Dr. Benazzi e colleghi hanno potuto mettere a confronto modelli digitali 3D
(ottenuti da immagini ad alta risoluzione da microtomografia computerizzata –
µCT) dei due denti di Grotta del Cavallo con un ampio campione di denti
neandertaliani e di uomo moderno. Grazie a due metodi indipendenti, i
ricercatori hanno analizzato vari caratteri della struttura interna ed esterna
dei denti, in particolare lo spessore dello smalto e il contorno generale delle
corone dentarie. I risultati hanno dimostrato che i due denti sono attribuibili
a uomo moderno anziché a neandertaliani. Il Dr. Benazzi osserva: “I fossili
umani sono molto rari e ancora di più lo sono i denti decidui. Questo studio è
stato realizzato grazie alla collaborazione di numerose istituzioni europee che
hanno messo a nostra disposizione i fossili umani. La rivalutazione dei denti
di Grotta del Cavallo è stata possibile grazie all’uso di tecniche innovative
sviluppate nel corso dell’ultimo decennio che fanno capo alla branca
dell’Antropologia chiamata Virtual Anthropology.”

I livelli uluzziani sono stati recentemente ridatati dalla Dr. Katerina Douka, dell’Università di Oxford, Gran Bretagna, dato che le valutazioni cronologiche precedenti erano affette da contaminazione recente. Essendo i denti fossili di Grotta del Cavallo troppo piccoli per essere datati direttamente, Douka ha
utilizzato un nuovo approccio al radiocarbonio per datare le conchiglie utilizzate come ornamento e rinvenute negli stessi strati archeologici dei denti. I risultati dimostrano che questi reperti risalgono a circa 45-43mila anni fa (data calibrata).

“Queste nuove datazioni”, riassume Benazzi, “fanno dei due denti di Grotta del
Cavallo i più antichi reperti europei di uomo moderno finora conosciuti. Questa  scoperta retrodata l’arrivo dei membri della nostra specie nel continente  europeo e indica che la coesistenza di neandertaliani e uomini moderni sia avvenuta per alcune migliaia di anni. Inoltre, sulla base di queste evidenze fossili abbiamo dimostrato che gli uomini anatomicamente moderni, e non i neandertaliani, hanno prodotto la cultura uluzziana. Ciò ha importanti implicazioni per la nostra comprensione delle abilità cognitive dei neanderaliani e dello sviluppo del comportamento umano moderno: gli elementi innovativi propri della cultura uluzziana non sarebbero quindi riconducibili ai neandertaliani ed è perciò ancora da dimostrare che questi umani avessero sviluppato negli ultimi millenni prima della loro scomparsa una cultura simile  a quella dell’uomo anotomicamente moderno. La nostra scoperta dà indicazioni anche sulle modalità di popolamento del continente europeo. È plausibile supporre che gruppi umani provenienti dall’Africa e passanti per il Vicino Oriente, si siano spostati anche lungo una via mediterranea, con ingresso in Italia facilitato dalla regressione marina dell’ultimo periodo glaciale”.

 

Note dell’editore

*”The Early dispersal of modern humans in Europe and implications for
Neanderthal behaviour” di Stefano Benazzi et al. sarà pubblicato su Nature il
02 novembre 2011, 18:00 London time (GMT) / 14:00 US Eastern Time. DOI 10.1038
/nature10617

*La ricerca è stata finanziata da: NSF 01-120 Hominid Grant 2007, A.E.R.S.
Dental Medicine Organisations GmbH FA547013, Fondation Fyssen, DFG INST 37/706-
1 FUGG.

*L’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit è finanziato in parte dal Natural
Environment Research Council (NERC). Una parte di questo progetto è stata
finanziata grazie a una borsa NERC–NRCF. Vedi : http://www.nerc.ac.uk/

Dr. Stefano Benazzi è un ricercatore (post-doctoral fellow) presso il
Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna.

Cinzia Fornai è candidata PhD presso il Dipartimento di Antropologia
dell’Università di Vienna.

Dr. Katerina Douka è una ricercatrice (post-doctoral fellow) al Research
Laboratory for Archaeology and History of Art, School of Archaeology
dell’Università di Oxford.

L’arte di scavare la pietra

di Fabrizio Suppressa

I primi abitanti che popolarono il nostro territorio erano prevalentemente semi-nomadi, si spostavano a seconda dei periodi stagionali con gli armenti al seguito, alla ricerca di pascoli da utilizzare. I loro ricoveri erano costruiti con materiale vegetale (legno, canne, fango, pelli), sul suolo calcareo, come testimoniano i numerosi buchi da palo, scavati nella roccia in aree costiere o sulle alture rocciose.

Con lo stanziamento, le invasioni e l’influenza di altri popoli, nonché con lo sviluppo di nuove tecnologie, l’uomo iniziò a sfruttare ciò che aveva in abbondanza – il materiale lapideo – ricercando nuove soluzioni edilizie adatte ai nuovi bisogni.
Sulle scogliere di Porto Selvaggio è presente una cava, datata all’epoca messapica, da cui si estraeva una roccia calcarea molto compatta e resistente, cavata con un metodo molto antico: venivano scavati i contorni del concio da estrarre e si infilavano al di sotto dei cunei di legno che, bagnati abbondantemente con acqua, dilatandosi provocavano il distaccamento del pezzo dal substrato roccioso;  sono ancora visibili i segni lasciati dagli scalpelli, e numerosi blocchi monolitici, alcuni di notevoli dimensioni, che aspettano da millenni un imbarco, dai resti del sommerso molo d’attracco delle navi.

Passarono i secoli e dal vicino Oriente arrivarono i monaci Basiliani, portatori di grandi conoscenze tecniche, oltre che della cultura e della lingua. Essi erano dediti prevalentemente all’esercizio spirituale, in ascesi, o in piccoli cenobi. A causa delle persecuzioni iconoclaste e delle scorrerie di pirati e barbari, preferirono realizzare i loro luoghi di culto e le loro dimore in cavità ipogee che scavarono a mano, creando cripte, abitazioni a grotta, depositi per derrate alimentari. Alcuni complessi molto articolati dove si uniscono con splendidi affreschi raffiguranti scene di rievocazioni evangeliche e figure di santi per lo più orientali sono tra i capolavori del Salento. I monaci insegnarono alle nostre genti medievali i benefici di queste tipologie abitative di cui rimangono molte testimonianze nei pressi di Casole a Copertino, come pozzelle e case a grotta, ormai riempite di terra per piantarvi ulivi. Rimangono ancora alcune cripte, come a Veglie quella della Favana, in agro di Nardò quella di Sant’Antonio Abate, a Copertino quella di Masseria Monaci, della Grottella; rimangono anche alcune testimonianze orali, seppur molto fantasiose di lunghe gallerie che collegano varie località, come i conventi.

 

Dal Basso Medioevo agli Anni ’50

Con la necessità di accorpamento della popolazione e la relativa difesa, cresce il bisogno di materiale edilizio per la costruzione delle strutture. Nasce così la nuova figura dello zzoccatore, o del cavamonti, mentre il paesaggio rurale si trasforma; alcune aree adatte all’estrazione vengono trasformate per la nuova attività “industriale”. Lo zzoccatore, era uno dei mestieri più duri e meno pagati, il nome deriva dall’unico attrezzo usato, lo zzueccu; un ferro con due punte, la prima lunga circa 35 cm e stretta, disposta a coltello, serviva per creare i quattro solchi paralleli, che davano i lati al concio, la seconda punta più corta, lunga circa 20 cm, con forma di ascia, serviva ad estrarre il pezzo mediante lievi colpi e facendo leggermente leva alla base, e per livellarne le irregolarità.

Lu zzueccu Esiste ancora a Copertino, il vico degli zoccatori, un rione all’epoca molto povero e con le condizioni igieniche ai limiti della vivibilità, caratterizzato da una strada molto stretta con le case ammassate le une e le altre, situata appena fuori le mura sulla direttrice, stradale che portava alle tagghiate, ovvero alle cave.

In base alle richieste de lu mesciu, il cavamonti estraeva i cuzzetti, i pezzi, che in cantiere in base alle dimensioni prendevano il nome di purpittagnu con sezione quadrata di 25 cm, pizzottu con 30 cm di base, Palmo e mezzo con 35 cm di base. L’altezza veniva definita tagghia, ed era in legno e costante per tutti i zoccaturi (25 cm nel Novecento, ma varia a seconda delle epoche), la lunghezza invece variava a seconda dell’utilizzo e si misurava in palmi.

La qualità del tufo faceva dipendere il prezzo, quello rosso, era di scarso valore poiché il primo strato sotto il terreno era ricco di umidità e molto più friabile, sovente era utilizzato per le fondazioni o scartato, quello bianco, di media qualità veniva estratto dalle parti più basse della cava, quello giallo, per tutti gli impieghi variava di prezzo in base all’area di estrazione, le più rinomate erano presso masseria la Torre (torre te lu fieu) e li Monaci. Infine il materiale veniva trasportato dalla cava al cantiere tramite il trainieri.

Il paesaggio che si viene a creare è molto singolare, le cavità prendono forma a gradini, a causa dell’ingombro laterale dello zzueccu, con un labirinto irregolare costituito di varie stanze, dislivelli, scale e pinnacoli di pietra non estratta poiché di cattiva qualità (con catene o linee di cozza).
Una volta esaurita, la cava veniva recuperata a giardino, pian piano la natura si riappropriava della terra, e crescevano spontaneamente, chiappari, tumi, fichi, ficatigne, mentre in anfratti più ampi venivano piantati ulivi o agrumi; con il materiale tufaceo di scarto venivano realizzati muretti a secco di contenimento o di confine, e furnieddhi per riparo dalle improvvise intemperie.
La natura geologica del tufo permette la creazione di questi miracolosi giardini ad esempio il mantenimento dell’umidità in caso di siccità; questi esempi sono ritrovabili nell’area a sud est di Copertino, ma purtroppo c’è da constatare l’ignoranza di molte persone, che hanno utilizzato questi anfratti per liberarsi di elettrodomestici non più funzionanti, materassi rigorosamente bruciati, carcasse di auto, e l’immancabile “cesso” incontrastato principe delle improvvisate discariche salentine.

Consiglio ai lettori la visione di questo bel documento dell’Istituto Luce, a proposito delle nostre cave:

http://www.youtube.com/watch?v=n1Q8WJcalTY

Nardò. Quel faraonico piano Càfari

di Gianni Ferraris

Cerchiamo di comprendere qualcosa in più sul faraonico piano Cafari. Si tratta della costruzione di un mega villaggio turistico in località “Cafari” ed adiacente al villaggio turistico “Torre Inserraglio”.

A chiederne autorizzazione sono due società con sede in Napoli.

Dei complessivi 608.719 metri quadri della lottizzazione dei comparti 78 e 79 (come definiti dal PRG di Nardò nella località denominata Cafari) le due società possiedono rispettivamente il 33.9% e il 23.9% che, come si evince, corrispondono al 57,8% del totale, il rimanente 42.2% è parcellizzato fra una miriade di piccoli proprietari. Cosa prevede il piano di cementificazione di un’area salentina adiacente a Porto Selvaggio che riporta alla mente Renata Fonte?

Sapiens e noi

di Mauro Marino

Il primo Homo sapiens europeo è salentino, pardon… pugliese, no anzi, italiano. Era molto piccolo e  non era ancora allenato ai distinguo “regionalisti” apparteneva alla Natura, era sua intima cosa nella bellezza di Uluzzo che chissà com’era in quel remoto tempo, 43 – 45mila anni fa.

Certo la Grotta del Cavallo davanti non c’aveva il mare. Una foresta forse, oh!, che foresta… o forse una palude?

I resti del pargolo, due dentini attorniati da conchiglie, vennero trovati negli anni Sessanta del Novecento, e in prima battuta vennero attribuiti all’estinto Neanderthal e per cui datati ancora più indietro. Oggi finalmente è tutto chiaro l’Uomo Moderno, il Sapiens più antico che “conosciamo”   in Europa, viveva lì, a due passi da Nardò. È Storia, una delle tante che fanno unico questo territorio, luogo di transiti, d’arrivi e partenze…

Anche dall’altra parte, dov’è Badisco, le tracce dell’Uomo ci portano a Millenni fa, ma son cose dimenticate, invisibili e preda dell’incuria. Ma che fa, le notizie durano il tempo che durano e si è sempre pronti a strillare per poi farsi muti.

Grande pompa s’è consumata in questi giorni, locandine e paginoni che inneggiano alla primogenitura e alla pubblicazione sull’autorevole rivista britannica “Nature” della ricerca guidata da Thomas Higham dell’Università di Oxford e da Stefano Benazzi dell’Università di Vienna..

Poi, battuta la news, finito lo sturbo, tutto cadrà nel dimenticatoio e nenche un pannello avvertirà che lì, due denti da latte, hanno dato la prova che un gradino dell’evoluzione della nostra “dannata” specie è passato da lì… ma chissà da quante altre parti dimenticando di far ritrovare i dentini…

Ciò che preoccupa è la modalità ormai di “moda” nel Salento di “sparare” le notizie “salentocentriche”, con un enfasi che è roba da psichiatria.

Modo “barocco” che innalza facciate e poi immediatamente dopo dimentica di nutrire la necessaria operatività per valorizzare la “ricchezza” che il territorio ha custodito. Citavo prima Badisco e la Grotta dei Cervi, che non ha alcuna “evidenza”, ma l’elenco è lungo, interminabile se ci mettiamo a guardare. È come se il tanto osannato marketing territoriale si fermasse alle parole e alla prima scrematura di denari, poi nulla diventa cultura, educazione, pratica e semenza di crescita. Usurare soltanto questo lo stile. Consumare, tanto che poi di noi, non ritroveranno neanche i dentini!

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