Libri| La famiglia Letizia in età barocca

 

Antonio Faita – Luciano Antonazzo, La famiglia Letizia in età barocca. Ricostruzione storica e biografica. Opus pennicilli xcellentis pictoris Agnelli Letitia Alexanensis
Schena Editore, Collana: Biblioteca della ricerca. Puglia storica, Fasano 2019, pp. 180

 

Dalla Prefazione di Mimma Pasculli

Il volume illustra la biografia del pittore Aniello Letizia (napoletano di nascita ma per parte paterna di origine alessanese), nonché del cugino Oronzo Letizia.

Di entrambi, che con la loro arte diedero lustro al Salento dalla fine del XVII secolo fin oltre la metà del successivo, si tracciano anche le vicende familiari, aspetto fin qui mai affrontato dagli esperti. Con l’ausilio di documenti inediti, rinvenuti sia in Napoli, presso gli archivi di Stato, Fondazione Banco di Napoli e Curia Arcivescovile; in quello di Stato di Lecce, in quelli parrocchiali (Alessano, Patù, Presicce, Lecce, Gallipoli e Galatone) e diocesani (Gallipoli, Lecce e Ugento), si fa piena luce sull’anno di nascita e sul primo nome di battesimo di Aniello, come anche sulle vicende sue e della famiglia Letizia. Si sapeva che era figlio d’arte in quanto il padre Domenico era iscritto alla Corporazione dei pittori di Napoli mentre non si era a conoscenza che la sua specializzazione fosse quella di pittore su cristallo. Rientrato in Alessano sul finire del 1600 in un primo tempo collaborò verosimilmente col cugino Oronzo che con la sua famiglia si era trapiantato a Lecce.

Nonostante la sua arte fosse considerata dagli esperti inferiore a quella del cugino la sua produzione pittorica fu di gran lunga maggiore. Ciò è dovuto certamente ad un suo presunto apprendistato presso Luca Giordano, ma forse in misura maggiore al clamore suscitato nel 1714 da un presunto evento miracoloso riconducibile ad una immagine di san Bernardino Realino da lui dipinta. Delle prime opere di Aniello si è rinvenuta solo qualche sporadica notizia mentre la sua attività è ben documentata per i lavori eseguiti, a partire dal primo decennio del 1700, per la chiesa del SS. Crocifisso della Pietà di Galatone e per gli oratori confraternali della Purità e del SS. Crocifisso di Gallipoli. Inoltre, un excursus delle sue opere ‘certe’, documentate o datate, senza sconfinare in fantomatiche analisi comparative, con ipotetiche attribuzioni sulle varie opere disseminate in ‘Terra d’Otranto’.

Aniello dalla consorte Agnese Fanuli non ebbe discendenza, ciò che gli consentì di vivere una vita agiata a differenza di Oronzo che vide dilapidata la sua fortuna ad opera dei suoi due figli maggiori già durante la propria vita. Negli ultimi anni della sua esistenza infatti fu costretto a far entrare in Conservatorio le due figlie più piccole mentre Aniello accoglieva presso la sua casa la nipote Chiara, figlia del fratello Gennaro che ebbe buona fama di scultore. E fu proprio Chiara ad essere nominata propria erede da Aniello. Ma alla morte di questi sorsero gravi controversie su detta eredità con una netta contrapposizione tra Gennaro e la figlia che si vide costretta anche, per l’opposizione del padre, a contrarre un matrimonio segreto.

La questione dell’eredità di Aniello rimase aperta e sembra che solo dopo la morte di Chiara e di Gennaro la vicenda trovò una soluzione. Questo lavoro è rivolto a tutti gli studiosi di arte, di storia-patria, alle guide turistiche per approfondire il loro operato e a tutti coloro che con la loro sensibilità vogliono preservare e recuperare il nostro patrimonio storico-artistico.

Una proposta per Paolo de Matteis nella chiesa di Santa Teresa a Nardò

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

particolare della tela nella chiesa di Santa Teresa a Nardò (ph Lino Rosponi)

 

Marino Caringella, Una proposta per Paolo de Matteis nella chiesa delle Teresiane di Nardò

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 207-211

 

ITALIANO

 La recente ipotesi attributiva a Paolo de Matteis della Transverberazione di Santa Teresa con Sacra Famiglia, allogata nella chiesa delle Teresiane a Nardò, e qui discussa e ritenuta convincente alla luce di raffronti con opere certe del pittore cilentano. Il carattere acerbo di alcuni dettagli anatomici e una certa disomogeneità stilistica fanno pensare ad alcuni interventi di bottega, segnatamente a Domenico Guarino. Ove tale impressione fosse confermata da un auspicabile restauro, la datazione del dipinto sarebbe prossima al 1698, anno in cui de Matteis licenzia la Madonna delle Grazie per la cattedrale neretina, e comunque anteriore al 1702, quando il maestro parte per Parigi ponendo fine al rapporto di collaborazione col Guarino.

 

ENGLISH

The recent hypothesis that attributes to Paolo de Matteis the Transverberazione di Santa Teresa con Sacra Famiglia (Transverberation of St. Teresa with the holy Family) placed in the church of the Teresians in Nardò, is here discussed and considered convincing in the light of the comparisons with the irrefutable works of the Cilentan painter. The immature nature of some anatomical details and a certain lock of stylistic homogeneity suggest some involvements particularly by the studio of Domenico Guarino. If this impression could be confirmed by a desirable restoration, the date of the painting would be close to 1698, the year when

de Matteis dismisses the Madonna delle Grazie (Our lady of Grace) to the Nardo Cathedral, anyway preceding the 1702 when the master leaves to Paris putting an end to the collaboration with Guarino.

 

Keyword

Marino Caringella, Paolo De Matteis, Chiesa S. Teresa, Nardò

Due dipinti di Niccolò de Simone e di Giovanni Andrea Coppola nella chiesa di Sant’Angelo a Tricase

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Stefano Tanisi, L’Educazione della Vergine di Niccolò de Simone e il Sant’Oronzo di Giovanni Andrea Coppola nella chiesa di Sant’Angelo a Tricase

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 195-204

 

 

ITALIANO

L’attenzione di questo studio è rivolta a due dipinti seicenteschi, di recente restaurati, conservati nella chiesa di Sant’Angelo di Tricase, edificio un tempo incardinato alla famiglia Gallone, raffiguranti uno l’Educazione della Vergine, opera attribuibile al pittore belga Niccolò de Simone, e l’altro, il Sant’Oronzo, del pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola.

 

ENGLISH

The attention of this work is directed to two recently restored paintings of the seventeemth-century that were conserved in Sant’Angelo’s church in Tricase, building that was once under the possession of Gallone’s family. The painting depicting the Virgin’s education is allegedly related with the Belgian painter Niccolò de Simone, the other one, instead, is portraying Saint Orontius and belongs to the painter Giovanni Andrea Coppola from Gallipoli.

 

Keyword

 Stefano Tanisi, Niccolò De Simone, Andrea Coppola, Tricase

 

Il pittore alessanese Oronzo Letizia (1657-1733 ca.)

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Stefano Tanisi, Il pittore alessanese Oronzo Letizia (1657-1733 ca.)

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 31-56

 

 

ITALIANO

Il pittore Oronzo Letizia (1657-1733 ca.), nativo di Alessano nel Capo di Leuca, è da considerarsi protagonista della pittura barocca in Terra d’Otranto tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Nella sua famiglia di pittori si annovera tra l’altro Saverio, il figlio che seguirà le sue orme, Domenico e Aniello, padre e figlio, rispettivamente zio e cugino del nostro. In questo studio e per la prima volta elencata l’estesa produzione del Letizia, partendo da quella autografa che ci ha consentito di comprendere il ductus pittorico, risolvendo cosi una grossa lacuna attributiva di tanti dipinti che erano stati arrogati ad altri o segnalati genericamente come opere di artisti ignoti.

 

ENGLISH

The painter Oronzo Letizia (1657-1733) originally from Alessano, a commune part of Capo di Leuca, could be considered as the main character of baroque painting in Terra d’Otranto during the period between the end of the seventeenth-century and the beginning of the eighteenth-century. His family includes some important painters like the son Saverio which followed in the footsteps of his old man, Domenico and his son Aniello that are respectively uncle and cousin of our character. In this work is listed for the first time the Letizia’s large production and special role is given to the original hand-signed composition that allowed us to identify the painter’s «ductus», the distinguishing features which solved enormous gaps in the allocation of many of his paints usually considered achievements of other painters or, more generally, indicated as a product of unknown artists.

 

Keyword

Stefano Tanisi, Oronzo Letizia, pittura XVII-XVII sec.

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (III parte)

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

di Giovani Greco

 

Della bravura artistica di frà Angelo dovette sentir parlare Sstefano II Gallone di Tricase. Difatti, quando nel 1651 costui fu nominato principe da Filippo IV di Spagna[1], approfittando della presenza del nostro nel convento dei cappuccini del paese, gli dovette commissionare un grande dipinto per la chiesa dei frati raffigurante S. Antonio da Padova. Il quadro è attualmente collocato nella piccola chiesa dei Cappuccini[2]. Nell’ala sinistra, all’interno della prima delle tre cappelle comunicanti, troviamo l’imponente tela dove frà Angelo raffigurò il Taumaturgo in piedi, quasi di profilo, con la mano sinistra appoggiata sul tavolo mentre con la destra abbraccia Gesù Bambino. Ai lati del Santo sono raffigurati degli angeli, in basso a sinistra il busto del committente Stefano II Gallone e in basso a destra lo stemma della famiglia principesca.

Nella parrocchiale di Casarano il bellissimo altare barocco degli Astore[3] nel transetto destro, è decorato da una grande tela centinata raffigurante L’Assunta[4] che frà Angelo dovette dipingere quando stanziava nel convento dei cappuccini di quella città. La ripartizione netta dei dipinto in due campi (quello inferiore riservato alla raffigurazione degli apostoli e ai busti dei committenti -gli Astore padre e figlio – e quello superiore in cui trova posto l’Assunta trasportata da uno stuolo di angeli), peculiarità artistica ancora priva dell’esperienza romana, gli angeli danzanti, il volto della Vergine assolutamente identico a quello delle sante raffigurate nel dipinto autografo nella collegiata di Copertino, l’elaborazione di una scala cromatica già vista consentono di datare l’opera tra il 1645-50.

La disposizione delle figure, la composta ripartizione delle masse e il sicuro controllo dei sentimenti rivelano la sorprendente bravura di questo frate che a Martina Franca subentra ad Antonio Donato d’Orlando portando a termine l’altare maggiore della chiesa dei cappuccini. Qui infatti vi dipinse L’Angelo custode, La Maddalena e l’Eterno del fastigio che, insieme alla grande tela del d’Orlando del 1589 raffigurante l’assunzione di Maria, completano l’allestimento pittorico dell’altare nel pieno rispetto degli insegnamenti della Controriforma[5].

Dai cappuccini di Martina passò a quelli di Nardò per eseguire l’intero arredo iconografico dell’altare maggiore della chiesa collocando al centro il grande dipinto raffigurante Il Perdono di Assisi e due tele laterali nelle quali sono raffigurati L’Angelo custode e San Michele Arcangelo, noto esempio di devozione che si trova spesso nelle chiese dei cappuccini. Nell’opera principale frà Angelo traccia idealmente due diagonali a colloca alle estremità della prima due gruppi di angeli musicanti, mentre alle estremità della seconda dispone S. Francesco che in ginocchio riceve il perdono da Gesù e la Vergine[6].

Poco più tardi lo troviamo alle prese con un altro grande quadro raffigurante la Regina Martirum[7] collocato nel transetto sinistro della collegiata di Copertino, sull’altare consacrato a San Sebastiano. L’impostazione del dipinto sembra procedere per percorsi obbligati: partendo dal nucleo figurativo in primo piano nel quale spicca la composizione anatomica e la luminosità dell’incarnato di S. Sebastiano si passa, quasi obbligatoriamente a S. Francesco che allevia i dolori delle anime purganti; si sale in alto dove ventitré santi, tra cui S. Lorenzo, S. Domenico, S. Carlo Borromeo, S. Antonio da Padova, S. Agata, S. Lucia e Santa Caterina popolano i lati destro e sinistro della Vergine col Bambino. L’opera, commissionata dall’Università locale è una delle poche giunte fino a noi firmata e datata. In basso a destra infatti reca la seguente iscrizione: F. ANGELUS A CUPERTINUS CAPUCCINUS A.D. 8bris 1655.

Nel 1668, di ritorno da Roma dove aveva concluso il prestigioso incarico in Vaticano, mons. Gerolamo De Coris gli commissionò S. Gerolamo morente[8] che volle collocare tra le sei colonne barocche del suo altare eretto nella navata laterale destra della cattedrale di Nardò[9]. Un’opera in cui frà Angelo manifesta pienamente le sue ambizioni compositive nel raggruppamento dei personaggi la cui connotazione drammatica è affidata non soltanto all’espressione esangue di S. Gerolamo, ma soprattutto ad una scala di accordi cromatici, da cui emergono il bianco e il vermiglio dei panneggi che avvolgono il Santo, e ad un rigore chiaroscurale sapientemente elaborato nell’incarnato. Quest’opera rappresenta, senza ombra di dubbio, il risultato pittorico più eccellente di frà Angelo: frutto dei frequenti contatti con la pittura romana e in modo particolare con le opere del Caravaggio.

Un altro momento della maturità di frà Angelo lo si può cogliere nella chiesa del convento dei Cappuccini di Alessano dove, ancora una volta svolge un tema molto caro ai frati: Il perdono di Assisi. La tela è collocata sull’altare in legno che occupa l’interra parete di fondo della chiesa. Come hanno dimostrato i lavori di restauro eseguito nel 1986, il dipinto è precedente alla costruzione dell’altare. Nella parte inferiore sono raffigurati i santi Chiara, Francesco d’Assisi, Leonardo e Antonio da Padova che implorano l’indulgenza di Cristi e della Vergine seduti maestosamente in alto e circondati da uno stuolo di angeli musicanti, L’opera, che per sua superba composizione cromatica sarebbe ascrivibile al periodo post-romano del Nostro, fu donata alla chiesa verso la seconda metà del Seicento da Laura Guarini, signora di Alessano e grande benefattrice dei capuccini, in occasione della nascita del primo figlio atteso per oltre sei anni[10].

Scolpito dal copertinese Ambrogio Martinelli per conto della famiglia De Magistris, il quarto altare della navata laterale destra della Cattedrale di Gallipoli custodisce il dipinto raffigurante l’Immacolata, altra opera ascrivibile alla maturità artistica di frà Angelo. La tela, non firmata, è stata attribuita da alcuni al clan dei Genuono e da altri ad un cappuccino di nome Facis[11]. Non si sa da chi e su quali basi fu fatta quest’ultima attribuzione. Tuttavia nell’ipotesi che sul dipinto esistesse questa sigla si potrebbe pensare ad un monogramma in cui è racchiuso il nome di frate Angelo cappuccino il quale dovette realizzare il dipinto durante un soggiorno nel locale convento dei cappuccini. La raffigurazione della Vergine appare impostata in un cerchio il cui perimetro è segnato da uno stuolo di angeli danzanti nonché altri due ai lati che reggono ciascuno la turris eburnea e la domus aurea. L’impostazione delle masse sembra ricondurci idealmente ad un ostensorio al cui centro vi è l’Immacolata, mentre la base è costituita da S. Agata a destra e S. Leonardo a sinistra.

Per evidenti analogie stilistiche con la produzione certa del pittore, anche la Madonna del Carmine nella chiesa parrocchiale di Melendugno potrebbe, secondo Giovanni Giangreco, appartenergli nonostante il dipinto non sia coevo all’altare.

Le opere che al ritorno da Roma dovettero impegnare maggiormente frà Angelo, vista l’imponenza scenografica elaborata su ampie superfici, furono senza dubbio la S. Anna e la Sacra Famiglia (1671) e la Traditio clavuum collocate attualmente nel coro della parrocchiale di Galatina. Nel primo dipinto la Vergine in posizione seduta guarda amorevolmente il Figlio già adolescente, raffigurato in piedi e in atto di leggere un libro aperto su un leggio. A sinistra sono rappresentati S. Anna e S. Gioacchino seduti e S. Giuseppe: a destra, una fanciulla in atto di sollevare un grappolo d’uva da un cesto ricolmo di frutta. La parte apicale del dipinto è riservata all’Eterno circondato da angeli e cherubini. Nella zona centrale della seconda opera è raffigurato Gesù nell’atto di chinarsi per porgere le chiavi a S. Pietro il quale, inginocchiato, le prende con un atto di profonda devozione. Nella parte superiore un nimbo di angeli regge il triregno e la croce astile. In basso sono raffigurati S. Domenico e S. Tommaso d’Aquino. Relativamente al primo dipinto l’attribuzione a frà Angelo fu fatta dall’Arditi il quale rivelò di aver attinto la notizia dalla “Relazione di S. Pietro in Galatina” di A. Tommaso Arcudi del 1793. Nel “Dizionario Bio-Biblioghrafico degli uomini chiari in T.d’O.” il quadro si reperta come una delle migliori opere del cappuccino. Più recentemente il Montinari descrive ambedue le opere e attribuisce la Sacra Famiglia alla “scuola napoletana della seconda metà del XVII secolo”.

Ma ci vorranno i recenti studi di Mario Cazzato per restituire a frà Angelo la paternità delle due opere. Lo studioso, definendo il nostro come il più importante pittore della seconda metà del Seicento, rivela che quando nel 1671 l’arcivescovo Adarzo de Santander concesse agli Arcudi una sepoltura nella chiesa Matrice di Galatina lo fece a condizione che dovesse realizzare l’immagine di qualche santo. Sicchè, per onorare una cosi solenne condizione chiamarono frà Angelo da Copertino che dipinse un quadro grande con l’immagine della gloriosa sant’Anna[12].

A Sogliano, nella chiesa dell’ex convento degli agostiniani (1617) dedicata alla “Madonna del Riposo”, esiste un altro dipinto di frà Angelo raffigurante l’Immacolata eseguito tra il 1668 e il 1670. Difatti, quando nel 1667 i frati concessero a Crisostomo Coia una cappella dedicata all’Immacolata all’interno della loro chiesa, questi si impegnò di fare il quadro seu ancona in essa cappella dell’Immacolata Concettione, et altre cose necessarie per farci celebrare , et fare la sua sepoltura. Nel bellissimo dipinto è raffigurata la Vergine che, insieme agli angeli e a Dio Padre, occupa buona parte della superficie pittorica. In basso, secondo la volontà del committente che si fece raffigurare in un angolo a destra, trovano posto S. Gioacchino, S. Domenico, S. Francesco di Sales e Santa Teresa. Attualmente l’opera è collocata nel coro della chiesa di fronte ad un’altra notevole tela raffigurante la Madonna della Cintura che Cazzato attribuisce al cappuccino copertinese[13].

A Lecce la presenza di frà Angelo è attestata nella chiesa di S. Francesco d’Assisi[14] (detta anche S. Francesco della Scarpa) dove, in occasione del suo rifacimento, nel 1682 dipinse il quadro autografo raffigurante l’Immacolata[15]. Nella seconda metà del Settecento il dipinto fu oggetto di un contenzioso tra la Confraternita dell’Immacolata[16] che aveva sede nella chiesa e i frati, lite seguita da Gaetano Jotti della Regia Udienza di Lecce. Quest’ultimo acquisì agli atti alcune interessanti dichiarazioni fatte a vario titolo da personaggi leccesi di età compresa tra i cinquanta e i sessant’anni . In una declaratio del 21 gennaio 1757 il patrizio leccese, Ignazio Panzini, sostenne di abitare vicino al convento dei francescani e per aver di continuo visitata la di loro chiesa come anche divoto della Vergine Immacolata, sa benissimo che il quadro della medesima esisteva prima dell’altare che ora trovasi dedicato al SS. Crocifisso e così ancora chiamato. L’altare, sostenne il Panzini, fu edificato dal defunto don Gaetano Cardamone nel 1720 quindi, fu nel medesimo altare collocato il quadro che prima esisteva nella cappella del Crocefisso, indi poi dall’istesso don Gaetano fu migliorato e posto in oro come di presente si trova[17]. Stessa affermazione fu fatta il 24 gennaio seguente dai reverendi Francesco Favilla e Isidoro Santoro, sacerdoti mezionarij nella Cattedral Chiesa della Città di Lecce[18]. Il 18 febbraio seguente furono raccolte inoltre, le dichiarazioni del magnifico Filippo Pintabona, del sacerdote don Nicola Calenda, del falegname del convento, Santo Naie r del barbiere dei frati, Gregorio Tamburelli i quali dissero di sapere benissimo che l’altare della Conc.ne di Maria Immacolata sistente dentro detta chiesa, ove al presente da fratelli dell’Oratorio si solennizza la festa della Conc.ne di Maria Immacolata fu edificato a proprie spese da don Gaetano Cardamone e dopo migliorato e fatto in oro[19]. Giova ancora ricordare un atto del 7 marzo seguente con il quale la baronessa leccese Lucrezia Scaglione, vedova di Antonio Personè, per devozione verso la Vergine donò il suo abito ricco e propriamente una Andria di drappo in oro col fondo color latte e fiori in oro e seta a condizione che venisse usato per vestire la statua dell’Immacolata per tutto il periodo che si solennizzava tale festività e in particolare durante la processione che si svolgeva l’8 dicembre di ogni anno[20].

Quasi certamente l’ultimo decennio della vita (1675-85) frate Angelo lo dovette trascorrere nei conventi di Scorrano e di Salve. Nella chiesa dei cappuccini di Scorrano intitolata a S. Maria degli Angeli e costruita in soli due anni dal 1598 al 1600 dal copertinese Evangelio Profilo[21] il pittore, ormai settantenne, realizzò il grande quadro raffigurante Il Perdono di Assisi, opera che dovette portare a termine con l’aiuto di Giuseppe Andrea Manfredi di Scorrano, un prete pittore che quasi certamente seguì frà Angelo quando questi lavorò nella parrocchiale di Salve[22]. Ai lati del Perdono, collocato sull’altare maggiore della chiesa, vi sono altre due tele: a sinistra una Maddalena penitente e a destra l’Angelo Custode attribuibili al Manfredi. Alcune discrasie anatomiche , infatti (si veda nella Maddalena l’angelo in caduta libera il cui collo non è affatto in asse con il tronco), fanno pensare più ad un principiante come Manfredi che ad un pittore esperto quale era frà AAngelo.

Secondo i Ruotolo , il nostro “eseguì quadri pregevoli in diverse chiese di Salve”[23]. Nella cappella intitolata a S. Antonio Abate esisteva un dipinto raffigurante il Santo[24]. Nella parrocchiale in brandita tra il 1596 e il 1669 e consacrata a S. Nicola Magno il 15 ottobre 1677 da mons. Antonio Carafa, le pitture degli altari laterali dedicati all’Immacolata e alla Vergine del Rosario erano state realizzate dal nostro cappuccino e andate perdute. Secondo uno zibaldone del 1750 , nel monastero dei cappuccini, eretto sotto il titolo di S. Maria della Misericordia, vi erano sette altari compreso il maggiore ed erano dotati di ottimi quadri alcuni dei quali dipinti da frà Angelo e ci cui fino a noi è giunto solo quello raffigurante La visione di S. Francesco che adorna l’altare maggiore[25]. Secondo l’autore dello zibaldone a Salve frà Angelo eseguì numerosi dipinti tra cui S. Michele Arcangelo, Sant’Orsola, l’Immacolata, l’Assunta, La Madonna del Rosario, Lo Spirito Santo, S. Antonio Abate ed altri quadri raffiguranti scene della Passione di Cristo[26].

La presenza di questo cospicui numero di dipinti non solo attesta la lunga permanenza del pittore a Salve, ma lascia presumere che proprio nel locale convento dei cappuccini si dovette concludere la sua esistenza terrena.

Ma cosa ne è stato di quei quadri che si trovavano presso il convento dei cappuccini, tra cui certamente quelli raffigurante la Passione di Cristo? Secondo quanto mi racconta l’architetto Maria Rosaria Sperti Peluso – alla quale indirizzo un doveroso ringraziamento – suo padre, Camillo Sperti, affermava che i suoi antenati custodivano nella loro casa di Salve una ricca quadreria e una biblioteca nelle quali erano confluiti i volumi e le tele del locale convento al momento della soppressione. Purtroppo la cura nel custodire queste ricchezze venne meno intorno alla metà del degli anni Trenta in seguito alla morte di suo nonno , l’avvocato Giovanni Sperti, il quale lasciò la moglie e quattro figli in tenera età che, per negligenza e trascuratezza, dispersero tutto e andarono via da Salve. Fortunatamente, però, una tela della serie della Passione raffigurante la VI stazione della Via Crucis, ovvero Cristo asciugato dalla Veronica fu ritrovata nel giardini retrostante la casa di suo nonno che fungeva da riparo ad un pollaio. La tela fu quindi recuperata da Camillo Sperti che la portò nella sua casa di Martignano e in seguito trasferita in quella della figlia Maria Rosaria. Camillo Sperti, sempre ben informato sulle vicende della sua famiglia, ricordava di aver sempre letto alla base di questo quadro l’inscrizione: “Frà Angelo da Cupirtinu p.”. Frase rimastagli sempre impressa per la tipica lectio dialettale con cui era menzionato il nome del paese; purtroppo questa firma autografa è scomparsa insieme al lembo inferiore della tela.

Nel 1682 frà Angelo dipinse un’ariosa pala d’altare raffigurante la Vergine, il Bambino e S. Giuseppe Patriarca circondati da uno stuolo di angeli di cui uno regge un cartiglio con la scritta SALUS INFIRMORUM. Nella zona inferiore sono raffigurati S. Francesco e S. Antonio da Padova in posizione orante e sullo sfondo S. Chiara. In basso a sinistra si legge l’iscrizione. F. ANGELUS A CUPERTINU CA. [PPUCCI]NUS . PE SUA DEVOTIONE PINGEBAT 1682. Questo dipinto è stato segnalato per la prima volta nel ’96 da Mario Cazzato[27] e attualmente collocato nella cappella di S. Maria delle Grazie in Copertino. Nonostante i suoi 73 anni qui frà Angelo dimostra una mano ferma e felice nell’equilibrio delle masse e nell’armonizzazione della scala cromatica. Ed è del periodo post-romano la tela raffigurante S. Francesco che riceve le stimmate, collocata nella medesima chiesa, esemplata su quella del Barocci osservata dal nostro in Vaticano. Nonostante il pessimo stato di conservazione è possibile osservare l’emergenza più significativa di questi dipinto affidata alla figura del Cristo che assume le sembianze dell’Angelo e che frà Angelo ripropone attingendo alla vasta iconografia medievale[28] . Questo dipinto – in cui Cristo compare privo della croce e munito di sei penne ad ognuna delle quali Alano da Lilla assegnò un titolo che riassume ciò che singolarmente significano, e cioè: confessio, satisfactio, carnis munditia, puritas mentis, dilectio proximi, dilectio Dei – è, quindi, una seicentesca raffigurazione delle stimmate di S. Francesco[29] eseguita da frà Angelo per assecondare l’incessante devozionismo francescano della popolazione.

Concludendo questa breve quanto provvisoria indagine si può affermare che frà Angelo, insieme con Giovanni Donato Chiarello, Ambrogio Martinelli ed Evangelio Profilo i primi due per la scultura e il terzo per l’architettura, fornirono un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio figurativo di cui la chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la propria egemonia.

Frate Angelo da Copertino non mancò di lasciare l’impronta della sua pittura in quasi tutti i centri di Terra d’Otranto dove sorgeva una comunità di cappuccini e in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento di propaganda religiosa. Potremmo affermare infine che, la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche da offrirci risultati pittorici che superano i limiti di una produzione artigianale di carattere locale e devozionale.

 

Note

[1] Su Stefano Gallone cfr. A. Raeli, Aneddoti di storia tricasina, a cura di M. Paone (Galatina 1951, 59.

[2] Sui Cappuccini di Tricase si veda il saggio di G. Sodero, ‘Per la storia dell’ex complesso monumentale dei Frati Cappuccini di Tricase’, Leucadia, a cura della Società di Storia Patria per la Puglia sez. di Tricase, (Miggiano 1986), 63-80.

[3] ACVN, Visite Patorali di A. Sanfelice, A/13, 1719, c. 64v. Il 21 aprile 1719 il vescovo visitò l’ “Altare Beatam Mariae Virginis sub tit. Assumptionis et laudavit”. Nella zona acroteriale dell’altare osservò un’iscrizione lapidea la quale attesta che nel 1711 l’altare fu assegnato al chierico Vito Antonio de Astore, che con atto di notar Antonio Vergario, vi fondò un beneficio ecclesiastico.

[4] L’opera è stata pubblicata in AA. VV. Pittura in Terra d’Otranto, tav. 63 e attribuita ad un anonimo pittore meridionale della fine del XVI secolo.

[5] N. Marturano, Tradizioni pittoriche, 80. Cfr. anche M. Rutigliano, Chiesa di S. Antonio ai Cappuccini (Locorotondo 1973), 45.

[6] Una copia speculare del Perdono fu eseguita molto più tardi da un anonimo pittore locale per il coro del convento della claustrali di Santa Chiara di Nardò. Ringrazio Rosetta Fracella per avermi messo a disposizione una riproduzione del dipinto.

[7] De Giorgi, La Provincia di Lecce, II, 239. Cazzato, Guida di Copertino, (Galatina 1996), 82. Cfr. anche A S L, Dizionario biografico degli uomini illustri. Il dipinto è stato restaurato nel 1973 per volontà dell’arciprete d. Giuseppe Marulli.

[8] Cfr. Mazzarella, 197.

[9] Si veda il recente contributo di Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per frà Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, (Nardo 2014), pp.79-96.

[10] A. Caloro-A.Melcarne-V.Nicolì, Alessano storia, arte, ambiente (Tricase 1994), 33. Le altre tele che adornano l’altare sono settecentesche e raffigurano Il Profeta Isaia, Sant’Anna e la Vergine Bambina, mentre nel tondo del fastigio è raffigurato S. Giuseppe, antico titolare della chiesa. Queste tre tele sono attribuite al pittore alessanese Aniello Letizia. Cfr. anche Caloro, Guida di Leuca. L’estremo Salento tra storia arte e natura a cura di M. Cazzato (Galatina 1996+), 72-73

[11] S. Verona, Gallipoli e i suoi monumenti, (Gallipoli 1983), 55; pur riconoscendo l’eccellenza, la tela di Gallipoli è attribuita ad un “ignoto pugliese”, in Virgo Beatissima. Interpretazioni mariane a Brindisi (Brindisi 1990), fig. 7 del saggio di M. Gustaella che è anche curatore dell’opera.

[12] Arditi, 191. De Giorgi, II, 423, M. Montinari, Storia di Galatina, testo ampliato e annotato a cura di A. Antonaci (Galatina 1972), 168-69. M. Cazzato L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche. Dinamiche storiche di un’area del Salento (Galatina 1989), 306-9. Id. ‘Galatina, la storia’ Guida di Galatina, (Galatina 1994), 49.

[13] Cfr. Cazzato, L’area galatinese, 309-11. Sulla presenza degli agostiniani cfr. G. Castellani, ‘Gli insediamenti agostiniani della Puglia meridionale’, Puglia e Basilicata ecc. Miscellanea in onore di Cosimo Damiano Fonseca (Galatina 1988), 83-4.

[14] La chiesa sorse nel 1273 e fu ricostruita nel 1600. Nell’Ottocento fu annessa al regio Liceo Palmieri. Cfr De Giorgi, II, 96-9.

[15] Purtroppo di quest’opera e del crocifisso ligneo di Vespasiano Genuino si sono perse le tracce . Cfr. Paone, Chiese di Lecce, II, (Galatina 1979), 238. Sulla chiesa di S. Francesco d’Assisi cfr anche G. C. Infantino, Lecce Sacra (Lecce 1634), 96-9.

[16] La chiesa di S. Francesco della Scarpa fu un importante centro di pietas; in essa vi erano tre confraternite di antica data: quella dei Terziari, detta anche del Cordone di S. Francesco che si estinse con l’espulsione dei frati avvenuta con decreto del 12 aprile 1913; quella dell’Immacolata, detta volgarmente della Madonna del tuono e quella del Nome di Dio, chiamata in seguito del SS.mo Nome di Gesù la più antica di tutte le confraternite e arciconfraternite di Lecce. La confraternita dell’Immacolata fu posta sotto il Regio Patronato fin dal 1561 e l’8 dicembre di ogni anno celebrava la festività della Vergine con il contributo del Regio Fisco pari a 40 ducati. Cfr. G. Barrella, San Francesco della scarpa in Lecce 1219-1918 (Lecce 1921), 19.

[17] A S L , atti di notar Lorenzo Carlino 46/78, a 1757, c. 14v.

[18] A S L, Ivi, c.16r.

[19] A S L, Ivi, c 62rv

[20] A S L,Ivi, c. 80v. La Scaglione stabilì inoltre che l’abito doveva conservarsi nella sagrestia del convento in una “cassa asciutta quale cassa debba stare dentro uno stipo della sacrestia e le chiavi si debbano tenere dall’Ordinario dell’Oratio e dal Priore del Convento”. Che se in futuro la destinazione d’uso dell’abito fosse stata modificata sarebbe dovuta rimanere comunque in favore del “cappellone ed altare dell’Immacolata”. Se la confraternita si fosse trasferita altrove, dell’abito si sarebbero dovuti fare “paliotti, paramenti sacri ed altre cose simili per uso ed ordinamento di detto Cappellone”. Infine, stabilì che l’abito non si sarebbe dovuto assolutamente “Vendere, alienare, permutare, donare, imprestare”.

[21] G. Giangreco, “Scorrano tra cultura e tradizione. S. Maria degli Angeli. Convento dei Frati Minori Cappuccini”, Libera Voce, n. u. (Scorrano 1997), 1 e 3.

[22] Giuseppe Andrea Manfredi lasciò diverse tracce della sua pittura in Scorrano nella chiesa di S. Maria della Neve. Ai primi del Settecento lo troviamo impegnato nella parrocchiale di Salve dove, tra il 1704-5 per volontà di don Andrea Tommaso Lecci, indorò e affrescò i medaglioni della volta poi crollata nel 1938. Cfr. G. Cardone, Vita del Servo di Dio don Alessandro Cardone, a cura di Nicola Corciulo (Galatina 1969), 33- 4. Secondo lo Zibaldone salvese del 1750, il Manfredi “fu poi dipingitore maggiore dell’Arcivescovado di Napoli”. Cfr. A. Simone, Salve. Storia e leggende (Milano 1981), 105-8-11. Del Manfredi , che divenne molto amico del cardinale Pignatelli, cfr. il mio 1723 Viaggiatori barocchi da Copertino a Napoli (Galatina 1995), 50. L’anonimo cronista del viaggio però, lo chiamava erroneamente Giovanni.

[23] G. Ruotolo, Ugento, Leuca, Alessano, (Siena 1969), 253-4-5

[24] La cappella doveva far parte di un piccolo comprensorio di case sita in via S. Maria e costituenti un piccolo ospizio. Cfr. Simone, 128.

[25] Giuseppe Maria Venneri nel suo Cenno storico sul comune di Salve del 1860 aggiunge che posteriormente alla chiesa i frati costruirono una sacrestia preceduta dal coro dei Terziari, mentre nella parte anteriore vi era il coro dei sacerdoti e un organo che, andati via i monaci, fu portato nella chiesa di Ruggiano. Cfr. Simone, 123-124. Sulla chiesa dei cappuccini restaura negli anni trenta del Novecento a cura dell’arciprete Francesco de Filippi, poi arcivescovo di Brindisi, si veda anche Ruotolo, 255.

[26] Simone, 104.

[27] Cazzato, Guida, 51.

[28] Per questa particolare iconografia che discende da uno dei miracoli occorsi in via a S. Francesco, cfr M. Meiss, Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento (Torino 1982), specialmente 177-182.

[29] C. Frugoni, S. Francesco e l’invenzione delle stimmate (Torino 1993). AA.VV. S. Francesco in Italia e nel Mondo (Milano 1990).

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Per la prima parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Per la seconda parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (II parte)

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (II parte)

di Giovani Greco

 

3 . L’esiguità delle fonti archivistiche non consente, fin qui, una completa ricostruzione biografica di frà Angelo. Tuttavia, in questa sede, si è in grado di fornire alcune inedite notizie che potranno costituire una significativo punto di partenza per un’analisi filologica delle sue opere. Il 4 marzo 1609, in Copertino, in un’abitazione nelle adiacenze della cappella intitolata a San Pietro Caposotto[1],Lucia Turi, moglie di Bartolomeo Tumolo, dette alla luce Giacomo Maria. Il giorno successivo l’infante fu condotto nella parrocchiale e l’arciprete, don Giovanni Maria Caputo, alla presenza dei padrini, i magnifici G. Francesco e Giacomo Racanata, gli somministrò il sacramento del battesimo[2].

Il documento che ci consente di risalire all’atto di battesimo è una Donatio fatta per frà Angelo da Cupertino del notaio leccese Giuseppe Garrapa del 7 febbraio 1632[3]; a questa data, nel convento dei cappuccini di Rugge in Lecce, alla presenza del notaio e degli opportuni testimoni “frate Angelo de Cupertino, al presente novizio dell’ordine dè Frati Minori di S. Francesco d’Assisi Capucinorum, al secolo Jacoby Maria filius legittimo di Bartolo Tumulo de Cupertino spontaneamente asserì come l’anni passati (quattro anni prima) si deliberò abbandonare il mondo e servire tutto il tempo di sua vita il Signore Dio per acquistare tesori celesti, et acciò più commodamente patire e seguire si claustrò dentro detta Religione di San Francesco e pigliò l’habito di Cappuccino dove al presente si ritrova, et persistendo à detta sua bona e santa voluntà intende à detta Religione professare et morire e dovendo de prossimo fare detta professione et avanti di quella fare la Renunzia e rifiuta dè suoi beni ha supplicato l’Ill.mo di questa Città si concedi la licenza di poter fare detta rinuncia di detti suoi beni servata la forma dell’ordine S.T.C. (Sacro Tridentino Concilio).

Il 1628, all’età di 19 anni, Giacomo Maria Tumolo abbandonò gli abiti secolari per quelli francescani abbracciando la rigida regola cappuccina nell’antico convento di Rugge, unica sede del noviziato.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
  1. Da questo momento di frà Angelo si perde ogni traccia. A differenza della vocazione religiosa di cui ora siamo in grado di saperne di più, l’assenza di documenti non ci consente di stabilire come, dove e quando rivelò quella per l’arte. Possiamo solo immaginare che appena adolescente sia rimasto affascinato dalle opere del suo concittadino, Gianserio Strafella, e si sia applicato con ogni mezzo a perfezionare il disegno e ad affinare il linguaggio delle luci, delle ombre e dei colori.

Ma usciamo dalla sfera delle ipotesi e cerchiamo di percorrere, per quanto è possibile, le sue vicende artistiche che potremmo dividere sin d’ora in due periodi: il pre e il post romano.

Di sicuro siamo in grado di stabilire che a 27 anni era già in grado di esprimere una certa conoscenza cromatica, stilistica ed iconografica che lo poneva fra le emergenze artistiche più interessanti di Terra d’Otranto. E mi riferisco all’opera di Ruffano raffigurante L’apparizione del Bambino a Sant’Antonio di Padova nella quale è emersa recentemente la seguente iscrizione: “FRAT[ER] ANG [E]LUS A CUPA[RTI]NO / PINGEBAT 1636”. Quasi certamente il dipinto fu chiesto dai cappuccini di Ruffano ad un altro monastero in seguito al mutamento del Santo protettore del paese da S. Francesco d’Assisi a Sant’Antonio di Padova, avvenuto nel 1683 sotto Ferrante II Brancaccio, principe di Ruffano[4].

 

Note

[1] Sarà utile ricordare che la chiesa intitolata a San Pietro Caposotto sorse nel XVI secolo e dal 1707 mutò il nome in Madonna delle Grazie.

[2] Archivio della Chiesa Collegiata di Copertino, (ACCC), Liber Baptizatorum, 3, c. 216r.

[3] A S L, atti di notar Giuseppe Garrapa, 46/23, a. 1632, cc. 17r-18r.

[4] Cfr A. de Bernart, ‘Il convento dei Cappuccini di Ruffano’, in Nuovi Orientamenti, XIII, 75, (Gallipoli 1982). Id. Culto e iconografia di S. Antonio da Padova in Ruffano, (Galatina 1987. AA.VV. Pittura in Terra d’Otranto, tav. 314. A. de Bernart – M. Cazzato, Ruffano una chiesa un centro storico, (Galatina 1997), 50-51 e passim.

 

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Per la prima parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Seicento pittorico sconosciuto

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) 

di Giovani Greco

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino. Museo Diocesano di Nardò

 

E’ noto che frà Angelo da Copertino, come pittore dell’ordine dei minori cappuccini di Terra d’Otranto attivo nel XVII secolo, emerse dall’oscurità nel corso dell’Ottocento, quando l’interesse per la storia locale ebbe un eccezionale incremento quantitativo attraverso gli scritti dell’Arditi[1] e del De Giorgi[2]. Ma quelle segnalazioni furono ben poca cosa a fronte del prestigio che il frate ebbe in vita. Infatti nel 1710 il vescovo di Nardò, Antonio Sanfelice, in occasione della visita pastorale a Copertino, affermò per la prima volta che nel decennio compreso tra il 1658 e il 1668, essendo pontefice Alessandro VII, il nostro fu addirittura nominato “conservatore” delle pitture vaticane[3]. Carica eccezionale, questa, che per gli storici salentini dell’Otto-Novecento costituì l’unico dato biografico dell’artista. Invano si attesero gli sviluppi della critica più qualificata[4] la quale, in alcuni interventi ricognitivi sulla pittura del Seicento in Terra d’Otranto, concentro le sue attenzioni su figure come quelle del Catalano, del Coppola, del Finoglio, dei Fracanzano: presenze artistiche decisamente emergenti ma non tali da oscurare l’opera di frate Angelo.

Una recente nota d’archivio segnalata da Mario Cazzato – al quale esprimo in questa sede particolare gratitudine – mi ha convinto ad intraprendere un’indagine su frà Angelo nel tentativo di restituire all’attenzione degli studiosi la sua attività permeata di quegli interessanti fermenti manieristici introdotti da Gianserio Strafella e diffusi secondo i canoni controriformistici[5], da Donato Antonio d’Orlando[6]. Frà Angelo infatti seppe sintonizzarsi con l’atmosfera del secolo, il Seicento, ricco di implicazioni devozionali, adottando un modo di dipingere che, come ha osservato il Marturano[7], per i suoi effetti chiaroscurali per quella predilezione per le sue tinte scure e per una sottile vena di sensualità che percorre soprattutto certe immagini femminili, si potrebbe agevolmente collegare al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca.

 

  1. Come è stato appena accennato, i primi indizi su frà Angelo risalgono al 1710 grazie ad Antonio Sanfelice il quale, tra l’altro, negli atti delle sue Sante Visite annota che nel 1668 il suo predecessore Girolamo de Coris, per l’altare di S. Girolamo nella cattedrale di Nardò, aveva fatto eseguire da frà Angelo la pala raffigurante il santo omonimo che riceve l’Eucarestia[8].

Nel 1885 si registra l’intervento di Giacomo Arditi che, citando i copertinesi che si distinsero in ogni ramo di virtù e di sapere, include frà Angelo tra i pittori, definendolo autore di pregevoli dipinti[9].

 

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Cosimo De Giorgi, nei suoi “Bozzetti di viaggio” del 1888, non può fare a meno di citare frà Angelo[10] confermando quanto aveva sostenuto l’Arditi.

Più ricca appare la coeva nota riportata nel “Dizionario bio-bibliografico degli uomini chiari di Terra d’Otranto”; l’anonimo estensore cita cinque dipinti eseguiti dal nostro, tra cui una non meglio definita tela conservata nella chiesa di San Giuseppe da Copertino, sostenendo che “molte e molte altre [opere] si son perdute tra cui, credo, quella della Vergine col Bambino con frate orante ai piedi, forse il suo ritratto, collocato nella chiesa dei Cappuccini di S. Maria dell’Alto in Lecce ed oggi nella cappella privata del signor Vito Prete di Copertino, alla cui base, vi si legge il nome dell’autore e quanto resta del millesimo 16…”[11]

Agli inizi di questo secolo, Pietro Marti, ne redigere un elenco a stampa di pittori, architetti e scultori salentini include frà Angelo e lo definisce pittore di qualche merito[12].

Nel 1930 Amilcare Foscarini tenta di smontare la notizia del soggiorno romano di frà Angelo, sostenendo che “il frate non era un pittore di tanta importanza da essere Conservatore delle pitture degli illustri artisti che ornavano il Vaticano” in quanto, nel decennio in questione, frà Angelo era “già abbastanza vecchio”[13]. Se il Foscarini si fosse documentato presso l’archivio neritino, avrebbe ricavato che Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per sdebitarsi verso la diocesi di Nardò – della quale fu eletto vescovo il 1 giugno 1635 – quando fu elevato alla somma dignità della chiesa (7 aprile 1655), non dimenticò la “sua “ diocesi per la quale manifestò in più occasioni particolare predilezione[14]. Sicché, informato dal vicario apostolico, Giovanni Granafei, dei raggiunti traguardi artistici di frà Angelo (basti pensare che proprio nell’ottobre di quell’anno aveva termina la Regina Martirum per l’altare di S. Sebastiano nella collegiata di Copertino), Alessandro VII decise di chiamarlo a sé per offrirgli il prestigioso incarico di “conservatore” delle pitture vaticane.

Nel “Dizionario Biografico degli Italiani”, troviamo una nota su frà Angelo a firma di M. Pepe la quale suggestionata probabilmente dal Foscarini, respinge la tesi secondo la quale il nostro non poté svolgere l’incarico affidatogli da Alessandro VII in quanto la morte lo colse intorno al 1650[15]. A parte una serie di inesattezze contenute nella nota, alla biografa sarebbe bastato verificare il millesimo riportato sulla tela della Regina Martirum (1655) per ricredersi sull’anno della scomparsa del pittore.

 

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Sull’argomento vedi anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/26/lattivita-pittorica-fra-angelo-copertino-sec-xvii-terra-dotranto/

http://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-da-copertino_(Dizionario-Biografico)/

 

Note

[1] G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto (Lecce 1885), 146-154.

[2] C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio (Lecce 1888), II, 329-423.

[3] Cfr. Archivio della Curia Vescovile di Nardò (ACVN), A/11, Visite pastorali di mons. A. Sanfelice, (1710-1718), 1, c. 5r. “Visitavit successive in eodem latere versus boream altare sub titulo S. Sebastiani protectoris huius terrae com icone eiusdem sancti nec non sanctorum S. Francisci Assisij ed Animarum Purgatorij depicta a celebre pictore Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit pictutarum Vaticani”.

[4] Si veda L. Galante, “Sintonia e varianti della pittura salentina nell’incontro con la pittura metropolitana”, AA. VV. Barocco leccese. Arte e ambiente del Salento da Lepanto a Masaniello (Milano 1979), 247-97. L. Mortari, “Appunti sulla pittura dei Sei-Settecento in Puglia”, AA:VV: Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia (Fasano 1980), 5-61. AA.VV. Pittura in Terra d’Otranto secc. XVI-XIX, a cura di L. Galante (Galatina 1993).

[5] Cfr. E. Male, L’art reliogeux apres le Concile de Trento (Parigi 1932), Cfr. anche L. Galante ‘Aspetti dell’iconografia sacra dopo il Concilio di Trento nell’area pugliese’, AA.VV. Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno moderno a cura di B. Pellegrino e F. Gaudioso (Galatina 1987), II, 515-34.

[6] La figura del d’Orlando è stata definita sul piano della identità storico-artistica da M. Cazzato “Sulla via delle capitali del Barocco. Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII sec.) (Aradeo 1986). Giova aggiungere qui L. Manni “L’Annunziata di Corigliano: un dipinto (1588) scomparso di Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò, Il Bardo, VII, 2, (Copertino 1997), 9.

[7] Crf. N. Marturano, ‘Tradizioni pittoriche e plastiche a Martina dal XV al XIX secolo’, Guida di Martina Franca (Alberobello 1983), 80.

[8] E. Mazzarella La sede vescovile di Nardò, (Galatina 1972, 197.

[9] Arditi, La Corografia,cit.

[10] De Giorgi, La Provincia di Lecce cit. 329-423.

[11] Archivio di Stato di Lecce (ASL), Dizionario biografico degli uomini chiari di Terra d’Otranto, ‘Angelo da Copertino’.

[12] P. Marti, La Provincia di Lecce nella storia dell’Arte, (Manduria 1922), 113

[13] A. Foscarini, Artisti salentini, ms. 329 BPL, 5-6

[14] Fabio Chigi accolse con cordialità o due canonici inviati dal capitolo e dal clero per congratularsi della sue alezione a Pontefice, offrendo loro diversi doni per ornamento della cattedrale. Beneficò non pochi cittadini della diocesi di Nardò tra cui Giovanni Francesco Cristaldi, Francesco Antonio Coriolano, padre Giovanni Lorenzo Cristiano dell’ordine carmelitano. Cfr. Mazzarella, 175-191.

[15] M. Pepe, ‘Angelo da Copertino’ Dizionario Biografico degli Italiani, 3, 226-27.

Gli altari dell’Addolorata e della Natività nella matrice di Parabita.Storia di due tele andate perdute

di Giuseppe Fai

La chiesa Madre di Parabita è ricca di storia e di numerose opere d’arte, ma non tutte sono pervenute a noi oggi, a causa dei continui rimaneggiamenti che si sono succeduti nei secoli scorsi, oppure a causa di fenomeni di dispersione.

Il caso più eclatante è, senza dubbio, legato alla grande pala d’altare, realizzata da Teresa Palomba e custodita, fino al XIX secolo, nella cappella della Madonna Addolorata, raffigurante la titolare dell’altare.

Ripercorriamo, dunque, in breve, la storia di quest’altare e dell’opera un tempo lì custodita, su cui molto si è discusso e scritto.

foto 1 (ph Salvatore Leopizzi)

 

L’altare della Madonna Addolorata (Foto 1) fu eretto, insieme all’omonima cappella, nel 1745, dopo l’abbattimento dell’antico altare della Madonna del Monte Carmelo[1], su commissione di don Paolo Ferrari, le cui spoglie sono ancora oggi lì custodite.

Dopo la morte della duchessa di Parabita Lucia La Greca, tutto il patrimonio della famiglia Ferrari passò alla figlia della duchessa, Maria Antonia, ultima erede dei Ferrari, la quale, a sua volta, donò il feudo di Parabita al notaio Raffaele Elia di Ceglie Messapica[2]: il patronato dell’altare dell’Addolorata, dunque, passò alla famiglia Elia.

Quando poi Tommaso Ravenna (1866 – 1947)[3] sposò Anna Elia, sorella ed erede di Raffaele Elia Junior[4], il giuspatronato dell’altare dell’Addolorata venne unificato con quello della Natività, già dei Ravenna. Questo spiegherebbe perché l’arciprete Fagiani, nel 1942, in un questionario informativo per la diocesi, avrebbe scritto che a detenere il giuspatronato di questo altare era la famiglia Ravenna – Elia[5].

Il primo a parlare della tela commissionata da don Paolo Ferrari e del nome della sua autrice è Cosimo De Giorgi, il quale, nei suoi Bozzetti di viaggio, scrive che la tela custodita presso l’altare della Madonna Addolorata è opera di Teresa Palomba, datata 1746, “di mediocre fattura”[6].

Per quanto riguarda Teresa Palomba è interessante il recente studio condotto da Ugo Di  Furia nel terzo numero de  Il delfino e la mezzaluna, il quale mette in discussione sia la sua origine parabitana sia la paternità della tela dell’Addolorata, custodita nella casa canonica della matrice.

Di Furia ritiene infatti, che l’origine parabitana della Palomba sia dovuta a un’errata interpretazione dello studioso salentino Pietro Marti[7], considerando anche che Giuseppe Serino, nelle sue Memorie[8], non cita nessuna pittrice Teresa Palomba tra i personaggi illustri di Parabita.

Riguardo invece l’opera custodita nella casa canonica, che molte personalità locali hanno attribuito alla Palomba, secondo Di Furia potrebbe essere un’opera di Aniello Letizia[9].

A supporto di questa ipotesi bisogna considerare il fatto che le pale d’altare, rimosse nel corso del Novecento nella chiesa matrice, dalle loro originarie collocazioni, non hanno subito alcuna alterazione, diversamente da quello che, secondo alcuni, sarebbe accaduto a questa.

Sta di fatto che ad oggi, l’opera che è possibile ammirare presso l’altare dell’Addolorata non è più quella della Palomba ed è firmata G. Giorgino – Lecce, probabilmente risalente alla prima metà del Novecento (Foto 2).

foto 2 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Che fine avrà fatto un’opera così importante?

Un’ipotesi di ricerca potrebbe essere ricavata dal confronto con un’altra opera scomparsa dalla nostra chiesa e che, a mio avviso, potrebbe essere ancora presente a Parabita, legata all’attuale altare della Sacra Famiglia, un tempo dedicato alla Natività di Gesù.

Un altare denominato della “Natività di Nostro Signore Gesù Cristo” compare, già a partire dal 1659, nella visita pastorale del vescovo di Nardò Girolamo De Choris[10], dove si specifica che l’altare fu commissionato da don Ottavio Castriota, sebbene l’arciprete Vincenzo Maria Ferrari, nel 1792[11], ne indichi erroneamente l’erezione nel 1661.

Per avere nuove notizie riguardo l’altare bisognerà attendere il 1827, quando, nelle notizie richieste dal vescovo Salvatore Lettieri per la Visita pastorale[12], si legge che l’altare della Natività si mantiene grazie a don Bartolo Ravenna (1761 – 1837)[13], il famoso storico gallipolino, il quale aveva acquistato i beni della famiglia che, fino a quel momento, aveva provveduto al mantenimento, cioè quella dei Castriota.

Un’altra notizia viene fornita da Giuseppe Serino, il quale scrive che a seguito dei lavori di ampliamento del corpo di fabbrica della chiesa, conclusisi nel 1853, Giovanni Ravenna (1812 – 1870)[14] aveva predisposto l’edificazione di un nuovo altare, dedicato anch’esso alla Natività di Gesù[15](Foto 3).

foto 3 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Il 18 gennaio 1922 l’arciprete di Parabita chiede alla Sacra Penitenzieria Apostolica il privilegio per i defunti per l’altare di Gesù Bambino[16]: c’è da supporre, dunque, che intorno a questa data il titolo dell’altare cambi, mutando da Natività di Gesù a Gesù bambino, probabilmente a seguito del cambio della tela. Il soggetto ritratto è infatti  Gesù Bambino tra Maria e Giuseppe ed il dipinto è firmato da Luigi Scorrano (Foto 4).

foto 4 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Il 15 febbraio 1929 lo stesso privilegio viene prorogato per altri sette anni e nella parte posteriore del foglio di richiesta della proroga viene annotato che essa è riferita all’altare della famiglia Ravenna[17].

Nel già citato questionario, compilato nel 1942 dall’arciprete Fagiani, inoltre, si può leggere che, in quell’anno, la famiglia Ravenna – Elia deteneva il giuspatronato non solo sull’altare dell’Addolorata, ma anche su quello della Natività[18].

Della tela originariamente posta sull’altare, raffigurante la Natività, come di quella della Palomba, si sono perse le tracce.

Tuttavia, un’ipotesi di ricerca, che vorrei qui esporre, riguarda una tela, collocata nella cappella di un palazzo, a Parabita, appartenente alla famiglia Ravenna, che potrebbe corrispondere alla perduta tela della Natività.

A farmi avanzare quest’ipotesi, sono essenzialmente tre elementi: la famiglia che custodisce questa tela è la diretta discendente della stessa famiglia Ravenna che, già nell’Ottocento, aveva ottenuto il giuspatronato dell’altare dalla famiglia Castriota; la forma della tela sembra combaciare con la cornice dell’attuale pala d’altare della Sacra Famiglia; la data riportata sulla tela, 1853, coincide con la data di edificazione del nuovo altare, voluto da Giovanni Ravenna, durante i lavori di ampliamento della chiesa parrocchiale.

Questa tela, inoltre, nell’angolo in basso a sinistra, reca la firma del pittore, un tale Andrea Stefanelli, forse un artista locale, e rappresenta la nascita di Gesù, con tre angeli e altre tre figure, un suonatore di flauto, una donna anziana e una giovane donna (Foto 5).

foto 5. Per gentile concessione della famiglia Ravenna di Parabita (ph Salvatore Leopizzi)

 

Qualora questa ipotesi fosse confermata comporterebbe che agli inizi del Novecento la tela della Natività sia stata sostituita con quella della Sacra Famiglia dello Scorrano, diventando di proprietà della famiglia che deteneva il giuspatronato dell’altare in questione.

Considerando la testimonianza dell’arciprete Fagiani, la commissione delle due nuove tele, del Giorgino e dello Scorrano, potrebbe essere della stessa famiglia Ravenna – Elia, che nel 1942 provvedeva ancora al mantenimento dell’altare.

Pertanto bisognerebbe chiedersi se anche la tela della Palomba, sostituita con quella del Giorgino, abbia subito la stessa sorte della Natività dello Stefanelli.

Naturalmente ci troviamo di fronte ad un’ipotesi di ricerca, poiché al momento nessuna fonte che ho avuto modo di consultare fa riferimento esplicito a questo avvicendamento di tele avvenuto nel ‘900 nella matrice di Parabita.

 

Note

[1] Stato delle Chiese e luoghi Pii della Terra di Parabita descritto dal Rev. Sign. Arcip.te D. Vincenzo M.a Ferrari della stessa Terra in esecuzione delli ordini e a tenore delle istruzzioni date in Santa Visita a IX.obre 1792 da Monsig.re Illmo D. Carmine Fimiani Vescovo di Nardò, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1792.

[2] A. De Bernart (a cura di), Paesi e figure del vecchio Salento, Barra, Congedo Editore, 1980, Volume I, pp. 66-67.

[3] O. Seclì, Parabita. Origini storia genealogie di novantanove cognomi, Parabita, Tipolitografia Martignano, 1992, p. 173.

[4] A. De Bernart, op. cit., p. 67.

[5] Questionario per la parrocchia in generale, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1942.

[6] C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Galatina, Congedo Editore, 1975, p. 242.

[7] U. Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici, in “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, a. III n°3, , p. 108.

[8] G. Serino, Memorie sulla Terra di Parabita e sue antichità, 1855, in A. D’Antico (a cura di), Parabita. Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, Alezio, Tipografia Corsano, 1998.

[9] U. Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici, op. cit., pp. 108-109.

[10] Visita Pastorale di Geronimo De Coris, Archivio Storico Diocesano “Mons. Domenico Caliandro”, Nardò, 1659.

[11] Stato delle Chiese e luoghi Pii della Terra di Parabita descritto dal Rev. Sign. Arcip.te D. Vincenzo M.a Ferrari della stessa Terra in esecuzione delli ordini e a tenore delle istruzzioni date in Santa Visita a IX.obre 1792 da Monsig.re Illmo D. Carmine Fimiani Vescovo di Nardò, cit.

[12] Notizie volute da Monsignor Vescovo D. Salvatore Lettieri per la Santa Visita. Parabita, Archivio Storico Diocesano “Mons. Domenico Caliandro”, Nardò, 1827.

[13] O. Seclì, op. cit., p. 173.

[14] Ibidem.

[15] G. Serino, op. cit., p. 28.

[16] Privilegi e altari, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1922.

[17] Privilegi e altari, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1929.

[18] Questionario per la parrocchia in generale, cit.

L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 immacolata latiano

Domenico Ble, L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 263-267.

 

ITALIANO

Il fenomeno della pittura giordanesca ha avuto una grande importanza e diffusione in Terra d’Otranto tra il XVII e l’inizio del XVIII secolo. La circolazione delle opere del maestro Luca Giordano o degli elaborati dei suoi allievi ha così influenzato la maniera di diversi pittori locali. La pittura giordanesca ha interessato anche Latiano con la tela dell’Immacolata Concezione conservata all’interno dell’omonima chiesa: per anni scarsamente valorizzata e non adeguatamente posta in risalto per il suo valore artistico, in questo articolo viene collocata all’interno di un panorama pittorico ben più ampio. In riferimento al suo artefice si può dunque passare dal generico «autore ignoto» ad un più opportuno «pittore giordanesco».

 

ENGLISH

The phenomenon of the Giordanesca painting has had a great importance and diffusion in Terra d’Otranto between the seventeenth century and the beginning of the eighteenth century. The circulation of Luca Giordano’s works or of his pupils’ papers has influenced the manner of many local painters. The Giordanesca painting has affected also Latiano with the canvas of the Immacolata Concezione (the Virgin) kept in the interior of church with the same name: under-appreciated for years and not enough highlighted for its artistic value, in this essay it is placed on the inside of a much wider pictorial panorama. Referring to its author we can pass from the generic «unknown author» to a more veritable «giordanesco painter».

 

Keyword

Domenico Ble, Luca Giordano, Latiano, Immacolata Concezione

L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino
Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino

 

di Marcello Gaballo

Giovanni Greco, storico e giornalista copertinese, il 28 dicembre prossimo, alle ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, di fronte alla Cattedrale di Nardò, sarà uno dei due relatori che si alterneranno nella serata dedicata alle opere “ritrovate”, che troveranno degna collocazione nel Museo Diocesano di Nardò.

Il titolo del suo intervento è “L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto”, in considerazione che una delle opere è il Battesimo di Gesù, di recente restaurata dall’Impresa Leopizzi 1750, proveniente dalla chiesa copertinese delle Clarisse.

L’opera pittorica del frate cappuccino, Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (Copertino 1609 – 1682 ?), oltre ad apparire sintonizzata con l’atmosfera del Seicento, si ricollega al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca, di cui questo frate rimase “contaminato” nel decennio 1658-68, allorchè fu chiamato a Roma da Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per rivestire la carica di conservatore delle pitture vaticane.

Rimasto a lungo ai margini della critica, frà Angelo è stato riscoperto sul finire dell’800 dagli storici locali, che lo annoverarono tra i pittori di pregevoli dipinti.

Studi e ricerche hanno comprovato la sua presenza in diverse comunità di frati cappuccini di Terra d’Otranto, dove lasciò l’impronta della sua pittura in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento propagandistico di prestigio.

Attraverso la pittura questo frate-pittore fornì un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio di cui la Chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la fede cristiana.

Senza ombra di dubbio possiamo affermare che la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani, fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche tanto da offrire risultati pittorici decisamente fuori dei limiti di una produzione artigianale di carattere devozionale, così da dovergli riconoscere un ruolo primario nell’ambito della pittura francescana del suo secolo.

Giovanni Greco, nel suo prezioso lavoro Seicento pittorico sconosciuto: frate Angelo da Copertino (1609-1685)[1], aveva già segnalato numerosi dipinti autografi del religioso: Sant’Antonio di Padova (1636) nella chiesa dei Cappuccini di Ruffano, la prima opera a lui attribuita[2]; la Regina Martirum (1655) nella chiesa matrice di Copertino[3]; la Salus infirmorum (1682) nella chiesa Santa Maria delle Grazie di Copertino[4]; l’Immacolata (1682) nella chiesa San Francesco della Scarpa di Lecce (opera dispersa); il Perdono di Assisi (1684) nella chiesa dei Cappuccini (ora nella chiesa matrice) di Salve.

Privi di firma e data sono: il Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Cappuccini di Tricase; l’Angelo Custode, la Maddalena penitente e il Padreterno nella chiesa dei Cappuccini di Martina Franca; il Perdono di Assisi, l’Angelo Custode e San Michele Arcangelo nella chiesa dei Cappuccini di Nardò; il Perdono di Assisi nella chiesa dei Cappuccini di Alessano; il San Girolamo morente nella cattedrale di Nardò; l’Immacolata e santi nella cattedrale di Gallipoli; la Madonna del Carmine nella chiesa matrice di Melendugno; Sant’Anna e la Sacra Famiglia e la Traditio clavuum nella chiesa matrice di Galatina; San Francesco stimmatizzato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Copertino.

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)
San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Altri studi hanno assegnato al nostro cappuccino la Trinità nella chiesa di Sant’Oronzo di Campi Salentina[5]; l’Immacolata e santi e Sant’Anna e la Vergine col Bambino nella chiesa matrice di Maglie[6].

Di recente ne ha trattato ampiamente anche Stefano Tanisi, per il quale è da “considerarsi un pittore “popolare”, poiché il suo linguaggio espressivo e compositivo comunicava ai devoti illetterati un’immediata e comprensibile narrazione visiva delle storie sacre. Le immagini, in linea con le finalità dell’arte riformata e, dunque, dell’ambiente cappuccino, del quale fra’ Angelo ne è chiaramente fautore, dovevano avere chiari intenti dottrinali, rispecchiando la dignità e la santità dei modelli, in modo da suscitare nel credente atti di fede e commozione”[7].

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d'Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)
Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Lo stesso Tanisi riporta la stima nutrita per il frate dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice (Napoli 1660 – Nardò 1736), che nella visita pastorale del 1710 “rileva il dipinto con le immagini di San Francesco e le anime del Purgatorio collocato sull’altare di San Sebastiano nella matrice di Copertino, segnalando che l’opera è stata “depicta a celebre pictore frate Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit picturarum vaticani”, e che dunque il pittore, fra il 1658 e il 1668, fu nominato “conservatore delle pitture vaticane”.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)

 

Sempre Tanisi arricchisce il profilo scrivendo “nel 1719 il Sanfelice continuava a individuare e lodare diverse opere del pittore francescano: nella matrice di Casarano annota opere di fra’ Angelo, una nella cappella dello Spirito Santo, dipinta dal “celeberrimi Pictoris Cupertinensis, vulgo dicti del Capuccino”, e l’altra nella cappella delle Sante Anime del Purgatorio, che dal “celeberrimo Pictore Cupertinensi depicta est”[8].

E per concludere, lo stesso, nella sua lunga elencazione delle opere attribuite, annota il San Girolamo nella cattedrale di Nardò (sull’altare omonimo, secondo a destra), che il Sanfelice fa riportare nella visita come il dipinto sia “picta manu F. Angeli Capuccini Cupertinensis Pictoris aetate sua excellentissimi”[9].

locandina-28

[1] In “Studi in onore di Aldo de Bernart”, Galatina 1998, pp. 43-56.

[2] Firmata e datata “Fra Ang. A Cup.no pingebat 1636”.

[3] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertinus Capuccinus A.D. 8bris 1655”.

[4] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertino Ca[ppuci]nus per sua devozione pingebat 1682”.

[5] Cfr. P. A. Vetrugno, Arte e Fede nel Salento del secolo XVII: la Ss. Trinità di Frate Angelo da Copertino, in “Lu Lampiune”, a. XVI, 1, pp. 119-126.

[6] cfr. E. Panarese – M. Cazzato, Guida di Maglie, Galatina 2002, p. 128.

[7] Cfr. S. Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in “Il Delfino e la Mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, n°3 (2014).

 

[8] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale chiesa matrice di Casarano, c. 61v.

[9] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale cattedrale di Nardò, c. 59.

Una veduta neretina dell’antica Noyon

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Il S. Eligio del pittore neretino Donato Antonio D’Orlando custodito a Nardò nella chiesa della Beata Vergine del Carmine ha ispirato il titolo di questo lavoro1 con un suo dettaglio, anzi con due. Il primo è rappresentato da un paesaggio, il secondo dal testo che vi si legge sovrapposto a mo’ di didascalia. Partiremo proprio da questo facendo notare la sua divisione in due spezzoni: a sinistra la CITTÀ DI NOVI, a destra OME IN BELGI2. La divisione ha lo scopo di evitare che la sovrapposizione invada fino a renderla illeggibile la figura del pastore e del secondo gregge che lo segue, dettagli il cui valore simbolico in riferimento a S. Eligio protettore dei maniscalchi e dalle miracolose capacità veterinarie (si ricordi il miracolo della zampa riattaccata al cavallo, cui allude, forse, proprio il cavallo scalpitante che si nota in basso a sinistra) è, sia pure indirettamente, indiscutibile. Il testo, dunque,  va letto continuativamente: CITTÀ DI NOVIOMI IN BELGI. Noviomi è l’italianizzazione di Noyon, la città appartenente in epoca romana alla Gallia belgica (da qui il successivo IN BELGI) e della quale, com’è noto,  S. Eligio fu vescovo. Il nome latino largamente attestato nel XVII secolo per Noyon  era Noviomum, come mostra, per fare un solo esempio, il Noviomi (genitivo locativo, dunque solo per puro caso formalmente uguale al Noviomi del dipinto) che si legge in Josephus Geldolphus a Ryckel, Vita S. Beddae, Typis Cornelii Coenestenii, Lovanii, 1631, p. 4213. Una forma femminile, Novioma, è attestata in epoca medioevale; per esempio: nel Chronicon Ecclesiae Sancti Bertini di Giovanni Iperio (seconda metà del XIV secolo) in Recueils des historiens des Gaules et de la France, a cura di Martin Bouquet, Aux dépens des libraires associés, Paris, 1741, v. III, p. 5814.

Largamente attestato è pure l’aggettivo Noviomensis, come per Nardò Neritonensis da un nominativo Neriton o Neritonum, da cui le forme volgari Neritone e Neritono. Anche per Novionensis uno dei tanti esempi è in un manoscritto del 1190 pubblicato in Martin Marville, Trosly-Loire ou le Trosly des Conciles, Typographie D. Andrieux, Noyon, 1869, p. 2365.

Quanto fin qui detto basta ed avanza per affermare che lo scorcio paesaggistico raffigurato è proprio una veduta di Noyon. La posizione della didascalia appare anomala, ma, d’altra parte, non poteva essere collocata in posizione diversa, come le altre che si leggono ai piedi del santo, le cui caratteristiche grafologiche non appaiono perfettamente compatibili con quelle della didascalia della veduta.6

È d’obbligo, giunti a questo punto, chiedersi se la rappresentazione è di fantasia o se il D’Orlando s’ispirò a qualche modello e, presumibilmente, a quale. Abbiamo condotto la ricerca su due filoni. quello delle opere pittoriche e quello delle opere a stampa cronologicamente compatibili con il pittore, tali, cioè, che potesse averle conosciute personalmente. Il primo non ha dato alcun esito (nel senso che non siamo riusciti a reperire neppure un dipinto raffigurante Noyon), le cose sono andate un po’ meglio con il secondo, che ci ha offerto i documenti che di seguito riproduciamo, lasciando, comunque, ad altri più esperti il giudizio di probabile plausibilità di rapporto con la veduta neretina.

Cominciamo con un’incisione di Joachim Duwiert (1580 circa-1648), del 1611, pubblicata in Alfred Pontieux, L’Ancien Noyon, A. Sevin & C., Chauny, 1912.

La seconda incisione è di Claude Chastillon (1559/1560-1616), topografo reale dal 1592.  Le sue incisioni sono custodite in parecchi musei prevalentemente francesi; questa fu pure pubblicata postuma, insieme con altre tavole, in Topographie françoise ou représentation de plusieurs villes, bourgs, chasteaux, maisons de plaisance, ruines et vestiges d’antiquitez du royaume de France, designez par dessunst Claude Chastillon et mise en lumière par Jean Boisseau, Paris, 1641. Di seguito il frontespizio e la tavola che ci interessa.

Dello stesso incisore è conservata a Noyon nel Musée Jean Calvin un’altra veduta.


Riportiamo, infine, per completezza documentaria un’ultima tavola, anonima, la cui data di pubblicazione non sembrerebbe compatibile con il D’Orlando. Tuttavia va detto che nulla esclude che detta tavola sia stata pubblicata sciolta precedentemente. È inserita in Les plans et profils de toutes principales villes et lieux considerables de France, Sebastien Cramoysi, Paris, 1638.

______________

1 Pubblicato in Decor Carmeli.Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, Mario Congedo editore, Galatina, 2017, pp. 147-150.

2 M. Cesari in La Puglia il manierismo e la controriforma, a cura di Antonio Cassiano – Fabrizio Vona, Congedo, Galatina 2013, p. 255 la riporta, ma legge IMBELGI, ipotizzando che si tratti di una veduta di Nardò.

3 Hunc vitae canonem sequebantur olim Hospitalariae Parisiis et Noviomi in Francia … (Seguivano un tempo questo canone di vita le Ospitaliere a Parigi ed a Noyon in Francia).

4 Intereà decedente Achario Episcopo urbis Noviomae, ad Episcopatum eiusdem urbis venerabilis vir Mummolinus provehitur … (Frattanto alla morte di Acario vescovo della città di Noyon diventa vescovo della medesiuma città il venerabile uomo Mummolino …). Noviomae è genitivo di Novioma e, come giustamente fa notare in nota il curatore, Mummolino non subentrò ad Acario ma proprio ad Eligio, il futuro santo.

5 … ecclesie beate Marie Noviomensis … ( … alla chiesa della beata Maria di Noyon …).

6 Le tre didascalie del bordo inferiore sono prive di riquadri iconologici di riferimento e sono ancora visibili perfettamente le linee-guida.

Nella prima si legge: TRONCATI LI PIEDI DI QUATRO CAVALLI,/[LA] BENEDITIONE LI FÈ SANI; segue un segno interpretabile come un adattamento rettilineo del lau buru (la croce basca), un altro che raffigura un animale (si direbbe un cane) e un altro ancora, articolato in due elementi, di problematica lettura, anche se ci potrebbe essere una valenza araldica. Tuttavia non è da escludere che la sua funzione sia puramente decorativa e che i segni finali delle due altre didascaklie ne rappresentino la progressiva semplificazione. Nella seconda: S. ELIGIO, FÀ TRONCARE IL PIEDE D’UN CAVALLO DEL RÈ DAL/MINISCALCO, CH’ERA FEROCISSIMO LO FÈ SANO ET HUMILE; segue un segno per il quale vedi la precedente didascalia. Nella terza: S. ELIGIO, PREGATO DA MOLTI MASSARI, ET MOLI/SANITÀ AL LOR BESTIAME; segue un segno che appare come l’estrema semplificazione di quello finale della prima didascalia; MOLI e lo spazio libero all’inizio di quest’ultima’ultima didascalia potrebbe essere un indizio, più che della mutilazione, dell’incompiutezza dell’opera.

 

Pubblicato nel volume “Decor Carmeli”:

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

Il dipinto delle sante Maria Maddalena e Francesca Romana del pittore Donato Antonio D’Orlando

 

di Stefano Tanisi

Donato Antonio d'Orlando

Soggetto: Sante Maria Maddalena e Francesca Romana

Epoca: 1618

Autore: Donato Antonio D’Orlando (1560 ca. – 1636)

Tecnica: olio su tela

Misure: cm. 263,5 x 166

Stato di conservazione: recente restauro

Provenienza: Ugento, Museo Diocesano (già nella chiesa delle Benedettine di Ugento)

Iscrizioni: DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618/ S. M. MADALENA / S. FRANCESCA ROMANA / scene lato sinistro: Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem / Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat / Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur / Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret / Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit / scene lato destro: Moltiplica il pane in refettorio / Esce odore soavissimo del suo corpo / Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi / Sana un putto del mal caduco / […]

 

La tela, proveniente dalla chiesa delle Benedettine di Ugento, raffigura le due Sante Maria Maddalena e Francesca Romana. È un’opera autografa del pittore Donato Antonio D’Orlando di Nardò, da come si può leggere dalla firma “DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618”. Datata dunque 1618, allo stato attuale è l’ultima opera che si conosce con certezza del pittore neretino.

Il dipinto, come spesso si riscontra nelle opere del pittore, ha un carattere devozionale e didattico, grazie all’utilizzo di scenette che ritraggono gli episodi salienti della vita delle due sante accompagnate dalle relative didascalie che permettono ai fedeli una più facile lettura della rappresentazione sacra. Come in altre opere, il pittore utilizza delle bordature in foglia oro per delimitare le scene.

In passato la Chiesa latina accomunava nel culto di santa Maria Maddalena tre donne diverse: 1) la peccatrice perdonata a casa di Simone il lebbroso; 2) Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro; 3) l’indemoniata Maria Maddalena (da Magdala, città da dove proveniva) liberata da Gesù che diverrà la sua devota discepola. Essa fu tra le donne che assistette alla crocifissione e divenne la testimone diretta della resurrezione di Cristo. Ed è quest’ultima che va correttamente indicata come la nostra santa.

Nel dipinto ugentino la Maddalena è raffigurata a sinistra in ginocchio con le mani congiunte in segno di preghiera; il suo sguardo è diretto verso il cielo. Alle spalle è un vaso di vetro trasparente contenente il profumo con il quale avrebbe dovuto ungere la salma di Cristo la Domenica di Pasqua. Il lato sinistro è ripartito da cinque scenette con gli episodi della vita della santa, accompagnate da sintetiche didascalie in latino stentato, dove troviamo a partire dall’alto: Gesù mentre è a cena a casa di Simone guarito dalla lebbra, la peccatrice s’inginocchia ai suoi piedi (Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem); a casa la santa fa penitenza in ginocchio frustandosi il petto con una catena d’oro di fronte a un tavolo dove è poggiato un crocefisso, il vaso dei profumi e il teschio simbolo della vanitas (Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat); Maria con la sorella Marta insieme a un gruppo di donne ascoltano la predica di Cristo posto su di un pulpito (Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur); lo sbarco della Maddalena a Marsiglia, anche se la didascalia allude a una predica con san Pietro a Roma (Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret); la morte della Maddalena e la gloria tra gli angeli (Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit).

Donato Antonio d'Orlando

La Maddalena ugentina, pur nella rigidità della posa, ricorda la stessa santa raffigurata nella Crocifissione della chiesa matrice di Galatone. Entrambe, anche se dipinte specularmente, si dimostrano simili nella fisionomia del volto, nell’attacco della testa al lungo tozzo collo, nel modo di trattare la fluente capigliatura, nell’anatomia delle mani.

Donato Antonio d'Orlando

Queste due opere si rivelano assai decisive nell’attribuzione al D’Orlando di un noto dipinto raffigurante la Pietà, conservato nella chiesa dei Carmelitani di Nardò, attribuito nel 1964 da Michele D’Elia e Nicola Vacca al pittore Gian Serio Strafella (documentato dal 1546 al 1573) di Copertino: nonostante il recente restauro che ha evidenziato i colori e le forme, nel 2013, nel catalogo della mostra leccese dedicato ai pittori manieristi (Cassiano-Vona, 2013), gli studiosi hanno confermato tale dipinto al pittore copertinese. È chiaro che la qualità pittorica e coloristica dei tre dipinti menzionati è certamente differente (cosa assai palese nella produzione del pittore), ma mettendo a confronto i tre volti della Maddalena sorprendentemente si richiamano tra loro nella configurazione del naso e delle palpebre dell’occhio, particolari fisiognomici – riscontrabili anche in altri dipinti autografi – che sono peculiari della produzione del D’Orlando. Conferma si ha quando si raffronta anche l’anatomia del corpo esanime del Cristo nel compianto di Nardò con quella del Crocifisso di Galatone (confronta anche con il corpo di Cristo della tela della Madonna della Misericordia della chiesa omonima di Nardò o con quello dell’Allegoria del Sangue di Cristo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Seclì).

Simmetricamente a destra troviamo raffigurata, sempre in ginocchio, santa Francesca Romana. La santa, vissuta tra il XIV e il XV secolo, fu sposa, madre, vedova e fondatrice a Roma dell’ordine religioso delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto. Ha dedicato la sua vita all’unità della Chiesa, ai poveri, malati e morenti. Nel dipinto ugentino l’oblata è raffigurata nella sua consueta iconografia: vestita con abito nero e lungo velo, mentre nelle mani regge il libro delle regole. È affiancata dall’angelo custode – abbigliato con una vistosa dalmatica rossa e tiene in mano una palma con i datteri – che la difese dal demonio. Anche il lato destro è occupato da cinque scene dei miracoli della santa, con le relative didascalie scritte invece in italiano, dove troviamo: santa Francesca che moltiplica il pane nel refettorio di fronte alle consorelle (Moltiplica il pane in refettorio); la salma della santa distesa su un catafalco, dal cui corpo esce un odore soave, mentre le consorelle assistono sorprese e un monaco gli si è inginocchiato ai piedi (Esce odore soavissimo del suo corpo); la santa raffigurata in ginocchio davanti il tabernacolo mentre è rapita in estati dopo la Comunione (Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi); la santa guarisce dall’epilessia un giovane trattenuto da un anziano (Sana un putto del mal caduco); la santa visita un’ammalata distesa nel letto (didascalia consunta).

Lo sfondo, dalle contrastate tonalità fredde grigio-verde, è occupato in alto dal cielo plumbeo che va gradualmente a rischiarirsi sulle vette delle montagne alle cui pendici compaiono dei piccoli nuclei abitativi.

Il recente restauro ha restituito i colori e i dettagli del dipinto, oscurati da numerose ridipinture e strati di sporco. Nella rimozione delle parti ridipinte è emerso che le labbra delle due sante sono state in passato volutamente sfregiate.

 

Bibliografia:

– D’Elia M. (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardo antico al rococo, catalogo, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1964, p. 136;

– Vacca 1964 = Vacca N., Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in Archivio Storico Pugliese, XVII, 1964, p. 33;

– Corvaglia F., Ugento e il suo territorio, ristampa, Tipografia F. Marra, Ugento, 1987, p. 110;

– Palese S., Monasteri e società in Terra d’Otranto. Le monache benedettine di Ugento, in «Archivio Storico Pugliese», Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, a. XXXIII, 1980, pp. 271-272;

– Cazzato M., Sulle vie delle capitali del Barocco, Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII Sec.), Aradeo 1986, p. 22

– Cassiano A., Il Museo Diocesano di Ugento, in Antonazzo L., Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria, Galatina, Congedo Editore, 2005, p. 90;

– Cassiano A. – Vona F. (a cura di), La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 56-57, 224-225.

 

(Tratto da: Tanisi S., Scheda 6. Sante Maria Maddalena e Francesca Romana, in S. Cortese (a cura di), La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, Domus Dei, Ugento 2015, pp. 51-53)

Antonio Verrio pittore tra Italia, Francia e Inghilterra

Antonio Verrio pittore tra Italia, Francia e Inghilterra

L’avventuroso matrimonio del giovane artista leccese: due interessanti documenti

 

di Fabio Antonio Grasso

 autoritratto

 

Antonio Verrio è un nome che risuona non poco nella sale del palazzo reale di Windsor così come in alcuni edifici di Tolosa (e non solo) in Francia. E’ un pittore di peso nella storia dell’Arte dell’Italia meridionale ed europea. Sugli inizi della sua attività artistica poco o nulla è noto. Sappiamo molto dei suoi ultimi anni e dell’anno della sua morte, il 1707. Non si conosce, invece, con esattezza né l’anno nè il luogo della sua nascita (1636, 1639 o 1634?, Napoli o Lecce?), quasi nulla dei suoi primi anni di vita; ipotizzata ma non ancora dimostrata la sua presenza a Roma.

In un documento recentemente ritrovato in Francia egli si dichiarerebbe nato a Napoli (DE GIORGI R., “Couleur, couleur!”. Antonio Verrio: un pittore in Europa tra Seicento e Settecento, Firenze:Edifir, 2009, p. 45). Non è noto al momento se sia stata fatta una ricerca nell’archivio della chiesa napoletana indicata, san Giovanni Maggiore. Certo è invece che la ricerca condotta da più studiosi sugli atti di battesimo relativi agli anni Trenta del Seicento (epoca presunta della nascita) custoditi presso l’archivio storico diocesano di Lecce sembra non avere trovato notizie a supporto di un’altra ipotesi: quella di Lecce come città natale dell’artista. Andrebbe detto, però, e non sembra sia stato segnalato dagli stessi storici, che nell’archivio appena citato manca il volume dei battezzati relativo al 1634, motivo per cui non si può escludere, in questa fase della ricerca e fino a che non verrà eseguita la verifica scaturita dal documento francese, che la nascita del pittore possa essere avvenuta anche a Lecce e proprio in quest’anno archivisticamente mancante. Il percorso di ricerca è tracciato, non rimane che seguirlo.

Diventano particolarmente interessanti a questo proposito due testimonianze presenti in un fascicolo (ACA Le, Fondo Matrimoni e Stati Liberi, Busta 20, fasc. 2271, a.1681) sul cui ulteriore contenuto si ritornerà a breve.

 

 

Fig.1. Lecce, chiesa del Gesù, Beniamino accusato del furto della coppa d'argento
Fig.1. Lecce, chiesa del Gesù, Beniamino accusato del furto della coppa d’argento

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Il 28 novembre 1681 il clerico Celso Trezza di cinquantatre anni, a Lecce da trentadue, afferma sotto giuramento: “ […] dicho io conoscei per molti anni Antonio Verrio / perche costui fu clerico e diverse volte quando io / ero caporale in questa Curte à tempo di / Monsignor Pappacoda venne carcerato in queste carceri. […]”, e poi poco oltre continua “[…] Sono molti anni che manca da Lecce si / disse che andò in Roma, e che poi fusse / passato avanti […] lo conobbi molti anni per clerico e doppo si casò / con una giovane di chi non so il nome / (ma) // era sorella di Pompeo, e di Giovanni Giacomo Tornese / di Lecce.”

“In quale luogo fu celebrato il matrimonio?”, chiede l’interrogante. Celso Trezza risponde: “Questo lo carcerammo una notte dentro / la casa di detta sorella de Tornesi, che habitava / verso la strada dell’Arco di Prato e lo / condussimo carcerato in queste carceri vescovali ma perche poi / disse che la volea per moglie il matrimonio / tra di loro mi ricordo che si celebro sopra / lo corrituro di questo Palazzo dove venne la detta / giovane, e si fè per ordine di detto Monsignor Vescovo. […]”.

Lo stesso giorno presta la sua dichiarazione anche un altro testimone il cinquantottenne leccese Carlo Guarino. Alla domanda se conoscesse A. Verrio risponde: “[…] Io ho conosciuto Antonio Verrio figlio del Pittore / che si chiamava Giovanni (a) perché eramo / paesani, e con occasione di esso era clerico ed io / son stato molto tempo cursore di questa Curte / alcune volte lo carcerammo in queste carceri. / […] Sono molti anni che partì da Lecce / dicono, che andò in Roma, e poi fusse / passato in Francia. / […] questo Antonio si casò con una / giovane di chi non mi ricordo il / nome, ma era sorella di Pompeo, e // e di Giovanni Giacomo Tornese di questa città. / […] detto Antonio allora era clerico che havea da / quindici anni e più, et hebbimo l’avviso, / che stava in casa di detta Tornese, io con / clerico Celso Trezza allhora capurale di questa / Curte, et altri nostri compagni li diedimo l’assalto / in casa di detta giovane che habitava in una / casa verso l’Arco di Prato, e lo trovammo in / detta casa, e là lo carcerammo, e lo portammo / carcerato in queste carceri vescovali, e stando carcerato per ultimo / disse, che la volea per moglie e de facto il / matrimonio tra lui, e detta giovine si celebrò / sopra il currituro di questo Palazzo avanti alle / dette carceri, e questo è quanto passa. […]”.

 

 

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Nel fascicolo contenente queste due testimonianze segue poi un’altra dichiarazione, quella prestata da Lorenzo Dedas di Casarano il 27 novembre del 1681. Questi si trova in carcere perché querelato da una donna di Scorrano, tale Giuditta Stradiotti,“[…] per causa che io (dice il dichiarante, ndr) la conobbi carnalmente […]”. Tale ultima dichiarazione (riportata qui in modo estremamente sintetico) non sembra avere relazione alcuna con le due testimonianze precedenti dello stesso fascicolo e Antonio Verrio. Verrebbe da pensare a un errore “di unione” delle prime carte alle seconde, la pratica infatti è identificabile con il nome del terzo dichiarante e della Stradiotti. Se dovessimo ragionare per analogia con quanto si vede nelle altre pratiche simili dello stesso fondo archivistico si potrebbe pure pensare che le carte di cui ci occupiamo siano la parte di una sorta di “processo” relativo all’accertamento di Stato Libero proprio del pittore. La loro parzialità consente di avanzare diverse ipotesi ma di non accettarne nessuna con certezza. Si ricordi, inoltre, a questo proposito, che le due prime testimonianze risalgono al 1681 e non possono essere quindi parte della documentazione (non reperibile) per il già noto matrimonio del pittore (avvenuto nel 1655 circa) con Massenzia Tornese. Non può escludersi, a questo punto, ma è solo una delle ipotesi, che tali carte siano quanto rimane della documentazione relativa a un secondo matrimonio del pittore. Altra questione lasciata aperta, a giudicare da quanto affermato dalla più recente e autorevole storiografia, è quella legata al padre, Giovanni. Questi, segnalato durante la stesura di un atto notarile (AS Lecce, Protocolli notarili, BRUNETTA D. M., not. in Lecce, atto del 5 ottobre 1630, cc. 238v – 243) in qualità di testimone, è identificato senza titoli professionali come : “Joannes de Verrio de Neapoli Litij commorans” ovvero è napoletano e vivente a Lecce. Il rogito è utile anche perché attesta che egli era nel capoluogo salentino (non è noto se con la sua famiglia o meno) già nel 1630. Giovanni è presente, ancora sempre senza titolo professionale, anche in altri documenti fra cui un altro rogito (AS Lecce, Protocolli notarili, CAROPPO G., not. in Lecce, atto del 4 novembre 1651, cc. 134 – 136v) riguardante il figlio Giuseppe (non è indicato in tale documento ma è noto che di professione era pittore) e la moglie di quest’ultimo, Lucrezia Bibba. Ammesso che sia vero quanto dichiarato dai documenti, Giovanni oltre ad essere avvocato e giureconsulto (documento francese) fu anche pittore (testimonianza di Carlo Guarino) così come lo era l’altro figlio Giuseppe. Antonio Verrio, in sintesi, proveniva da una famiglia di pittori, andò a Roma ed ebbe una adolescenza turbolenta se è vero che fu più volte carcerato.

probabile autoritratto di Antonio Verrio da giovane, particolare della fig 1
probabile autoritratto di Antonio Verrio da giovane, particolare della fig 1

Un probabile suo autoritratto, non distante dall’epoca dei fatti narrati in questi documenti, potrebbe essere il giovane vestito di rosso in un dipinto presso la chiesa leccese del Gesù (FIGG. 1-2). Della sua vicenda d’artista una cosa colpisce in particolare: l’allora vescovo di Lecce, padre nobile del Barocco leccese, mons. L. Pappacoda forse non comprese l’alto valore artistico di questo giovane, almeno non tanto da trattenerlo a Lecce con commissioni. Forse fu per il passato turbolento di A. Verrio, certo è che andando via da Lecce questo pittore fece la sua fortuna.

 

 

Lecce, chiesa santa Irene, altare di santo Stefano
Lecce, chiesa santa Irene, altare di santo Stefano

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A Lecce A. Verrio rimase pochi anni. Afferente alla sua prima produzione è il dipinto raffigurante il martirio di santo Stefano collocato nell’altare omonimo datato 1662 (entrando nella chiesa di santa Irene è il primo a sinistra). In quest’opera il martire è al centro, con lo sguardo rivolto al cielo dove uno stuolo di angeli in circolo genera una singolare e coinvolgente scena luminosa allusiva della santità cui conduce il martirio stesso. Tutto attorno al martire quattro figure di cui due pronte a scagliare le pietre della lapidazione, un altro intento a raccogliere da terra un sasso e infine un soldato di spalle. La scena è evidentemente un frammisto di crudezza e serafica tranquillità. Nella chiesa del Gesù sono due dipinti collocati nei corti bracci del transetto, in quello di sinistra è l’opera dal titolo “Beniamino accusato del furto della coppa d’argento”, nel transetto destro, l’altro dipinto ha per titolo: “Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli”. La drammaticità del “martirio di santo Stefano” cede il passo in questi due ultimi dipinti del Gesù a una narrazione più contenuta nei toni, sembra di fatto, soprattutto la seconda opera, una fotografia istantanea dell’evento dove il pittore sembra cogliere di sorpresa i personaggi della scena (ambientata in uno spazio interno, a tratti irreale, sul cui fondo si apre un arco e quindi il cielo). Nel primo dei due dipinti, le figure appaiono tutte a favore di camera, come si direbbe oggi, ovvero tutti hanno il volto verso l’esterno del quadro e l’osservatore del dipinto. Ancora a Lecce dello stesso autore potrebbe essere (la critica non è concorde) il dipinto raffigurante la Strage degli Innocenti collocato in un altare sotto lo stesso titolo nella chiesa di santa Maria degli Angeli. Quest’opera dal macabro sapore è un continuo e drammatico aggrovigliarsi dei corpi dei bambini trucidati e dagli assassini mandati da Erode. Nell’opera dal titolo “San Francesco Saverio appare al Beato Marcello Mastrilli” (Lecce, Pinacoteca Provinciale “Giuseppe Palmieri”) il tono diventa più soffuso e intimista, le fonti di luce principali sono l’uomo disteso nel letto e l’aureola del Santo che gli è al fianco. Il resto è dominato da tinte scure da cui emergono i volti degli altri personaggi perché illuminati dalla luce di alcune candele e da quella della santità. La presenza a Lecce di Antonio Verrio è segnalata assieme a Giovanni Andrea Coppola nella realizzazione della tela dal titolo “San Giusto converte Sant’Oronzo” collocata nell’altare di san Giusto in Cattedrale. Come detto, A. Verrio lasciò Lecce per andare a Roma, Firenze, quindi in Francia e infine l’Inghilterrra dove dipinse molti degli ambienti della celebre residenza reale di Windsor.

 

 

 

 

 

 

La prima testimonianza

 

 

Die 28 novembris 1681 Lycij in Curia Episcopali coram Rev. (…) / Clericus Celsus Trezza de T(e)rra Paludis Lycij degens / ab annis triginta duorum filius qm Josephi aetatis suae / annorum quinquaginta trium in circa ut dixit …[prosegue formula di rito del giuramento]

(…) An ipse testis cognoverit, et cognoscat Antonium / Verrio de Lycio et qua occasione. / Respondit. Signore dicho io conoscei per molti anni Antonio Verrio / perche costui fu clerico e diverse volte quando io / ero caporale in questa Curte à tempo di / Monsignor Pappacoda venne carcerato in queste carceri / (…) Ubi ad praesens deg(at). / Respondit. Sono molti anni che manca da Lecce si / disse che andò in Roma, e che poi fusse / passato avanti. / (…) An sciat dictum Antonium remansisse clericum vel / in matrimonium se collocasse, cum qua ubi, et / quando. / Respondit. Lo conobbi molti anni per clerico e doppo si casò / con una giovane di chi non so il nome / (ma) // era sorella di Pompeo, e di Giovanni Giacomo Tornese / di Lecce. / (…) In quo loco fuerit celebratum matrimonium / predictum. / Respondit. Questo lo carcerammo una notte dentro / la casa di detta sorella de Tornesi, che habitava / verso la strada dell’Arco di Prato e lo / condussimo carcerato in queste carceri vescovali ma perche poi / disse che la volea per moglie il matrimonio / tra di loro mi ricordo che si celebro sopra / lo corrit(u)ro di questo Palazzo dove venne la detta / giovane, e si fè por ordine di detto Monsignor Vescovo. / (…) De contestibus. / Respondit. Ci fu Carlo Guarino servente di questa Corte / et altri nostri compagni. / …[formula conclusiva di rito della testimonianza giurata seguita dalla firma del testimone]

 

 

 

 

La seconda testimonianza

 

Eodem die (ibidem civitate) eodem / Carolus Guarino de Lycio filius Josephi aetatis / suae annorum quinquaginta octo circiter ut dixit …[prosegue formula di rito del giuramento]

(…) An ipse testis cognoverit, et cognoscat Antonio Verrio / de Lycio, à quanto tempore et qua occasione. / Respondit. Io ho conosciuto Antonio Verrio figlio del Pittore / che si chiamava Giovanni (a) perche eramo / paesani, et in occasione di esso era clerico et io / son stato molto tempo cursore di questa Curte / alcune volte lo carcerammo in queste carceri. / .. Ubi ad praesens degat. / Respondit. Sono molti anni che partì da Lecce / dicono, che andò in Roma, e poi fusse / passato in Francia. / (…) An dictus Antonius quandoque habuerit / uxorem. / Respondit. Signor si questo Antonio si casò con una / giovane di chi non mi racordo il / nome, ma era sorella di Pompeo, e // di Giovanni Giacomo Tornese di questa città. / (…) Ubi fuerit celebratum matrimonium (predictum) / Respondit. Detto Antonio allhora era clerico che havea da / quindici anni e più, et hebbimo l’avviso, / che stava in casa di detta Tornese, io con / clerico Celso Trezza allhora capurale di questa / Curte, et altri nostri compagni li diedimo l’assalto / in casa di detta giovane che habitava in una / casa verso l’Arco di Prato, e lo trovammo in / detta casa e là lo carcerammo, e lo portammo / carcerato in queste carceri vescovali, e stando carcerato per ultimo / disse, che la volea per moglie e de facto il / matrimonio tra lui e detta giovine si celebrò / sopra il corrituro di questo Palazzo avanti alle / dette carceri, e questo è quanto passa. / (…) De contestibus / Respondit. Lo detto Celso et altri nostri compagni. / …[formula conclusiva di rito della testimonianza giurata seguita dalla firma del testimone]

 

 

 

fabiograssofg@libero.it

 

La chiesa madre di Casarano: nuove ipotesi e brevi annotazioni

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)

di Maura Sorrone

 

La chiesa madre di Casarano, dedicata a Maria Santissima Annunziata, è da annoverarsi tra i monumenti più rilevanti del barocco salentino.

Tra gli studi sulla chiesa, si ricordano soprattutto le pubblicazioni inerenti le opere pittoriche: il saggio di Mimma Pasculli Ferrara che ha analizzato le sei tele di Oronzo Tiso[1], quello di Michele Paone del 1980[2] e l’inventario dei dipinti curato da Lucio Galante nel 1993[3].

La chiesa fu edificata tra la fine del XVII e i primi decenni del secolo successivo, in seguito all’abbattimento di un edificio precedente, scelta da imputarsi probabilmente alla crescita demografica del paese.

Il progetto, o quantomeno l’esecuzione materiale dei lavori, in precedenza attribuiti ipoteticamente al clan dei Margoleo[4], sembra invece da riferirsi più correttamente alla famiglia De Giovanni, costruttori originari di Galatina. Infatti fu Angelo De Giovanni, ha lasciare il suo nome in un epigrafe ben in vista sulla facciata principale della chiesa.[5] La scelta di maestranze galatinesi ci autorizza a ritenere ancora una volta questo paese del Salento tra i centri più significativi per l’edilizia barocca della provincia[6]. Sicuramente, le tante botteghe presenti sul territorio[7] furono in grado di favorire, in modo diverso, la diffusione di modelli che dai centri principali ben presto entrarono a far parte della cultura architettonica delle periferie, facendo così diventare il barocco da leccese a salentino[8].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

La chiesa, a croce latina, ha una pianta longitudinale. La facciata principale, alquanto semplice, presenta il portale arricchito da una decorazione a punta lanceolata, motivo utilizzato di frequente da Giuseppe Zimbalo e con lui entrato nella cultura tipica dell’arte salentina fino al Settecento inoltrato[9].

All’interno si possono ammirare opere risalenti a periodi diversi quasi a testimoniare il cambiamento di gusto e le scelte operate dai diversi committenti. Innanzitutto, come accennato in precedenza, la chiesa attuale ha sostituito quella precedente, ma alcune opere realizzate per la vecchia matrice furono trasferite nella nuova costruzione. Hanno generato maggior confusione le poche e scarne notizie su un probabile acquisto fatto a Lecce nel 1874 dal Reverendo don Giuseppe De Donatis[10] che portò a Casarano diversi altari provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce[11]. Anche se non abbiamo forti testimonianze documentarie che ci permettano di attestare certamente quali siano le opere provenienti dalla vecchia chiesa e neppure precise carte documentarie che attestino l’acquisto del 1874, i restauri degli ultimi anni sembrano dare corpo ad alcune ipotesi, in questa sede soltanto brevemente segnalate[12].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

Ponendoci di fronte all’altare maggiore è facile percorrere con lo sguardo l’intera navata. A sinistra, vicino al portale d’ingresso è collocato l’Altare di Sant’Antonio di Padova (primo decennio del XVIII secolo), nel quale vi è la statua lapidea del santo. Durante gli ultimi lavori di restauro è stata scoperta un’iscrizione prima d’ora completamente sconosciuta. Si tratta di un’epigrafe per ricordare Giuseppe Grasso che restaurò quest’altare, un tempo dedicato ai re magi, intitolandolo al santo di Padova[13]. Nessuno conosceva queste parole completamente nascoste dal responsorio latino, (si quaeris miracula), che si ripete nella preghiera dedicata al santo di Padova e trascritto in un clipeo dell’altare.

A mio avviso, Giuseppe Grasso è lo stesso benefattore che nel 1713 ha lasciato il suo nome sull’altare dell’Immacolata nella matrice di Ruffano. Com’è stato ricordato di recente[14] si tratta di un noto personaggio appartenente ad una famiglia di medici. Da Ruffano ben presto egli si trasferì a Lecce diventando, a quanto ci dicono le fonti, il medico di fiducia del vescovo Pignatelli[15].

È piuttosto insolito che un’ epigrafe in memoria di un illustre benefattore, tanto generoso da impegnarsi a finanziare un intervento di restauro, sia stata volutamente coperta mentre di solito è consuetudine ricordare gli interventi di restauro con epigrafi e iscrizioni ben visibili sulle pareti delle chiese salentine, sugli altari e sulle tele dipinte. Credo che sia più corretto leggere la scelta di modificare l’iscrizione nell’ottica di un vero e proprio riutilizzo dell’altare che, provenendo da un’altra chiesa, doveva essere adattato a un altro luogo entrando nella vita di una nuova comunità di fedeli. Inoltre, nelle carte documentarie dell’archivio parrocchiale non sembrano esserci riferimenti a questo facoltoso medico. Dunque, l’altare potrebbe essere uno di quelli provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa. Anche per quanto riguarda l’intitolazione originaria non sembra esserci stato nelle diverse chiese matrici di Casarano alcun altare dedicato ai Magi né al Presepe. Tematiche più solitamente vicine alla religiosità francescana. È possibile dunque che l’epigrafe modificata e la statua di Sant’Antonio siano state assemblate al nuovo altare dopo il 1874[16].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)

Per cercare di capire le scelte fatte, in assenza di precise carte documentarie, credo che si debba considerare la tematica del riutilizzo di parti o intere strutture d’altare che, entrate in questa chiesa devono aver integrato o rinnovato gli altari che qui già esistevano o che si scelse di creare ex novo perché segno di una particolare devozione del territorio, come abbiamo visto per Sant’Antonio.

Tornando alla nostra breve visita in chiesa, segue all’altare del Santo di Padova, quello dedicato all’Immacolata e poi ancora il pulpito ligneo del 1761 e l’organo a canne realizzato dieci anni dopo[17].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)

Nella navata destra si susseguono l’Altare dell’Incoronazione della Vergine, quello del Rosario che al centro conserva la tela omonima dipinta da Gian Domenico Catalano[18] e l’altare dedicato alle Anime del Purgatorio. Quest’opera, realizzata entro il 1660[19] fu voluta dal Chierico Giovanni D’Astore.

Sebbene realizzato per la chiesa precedente, quest’altare insieme  al dipinto posto al centro, è frutto di una scelta unitaria da parte del committente e, nonostante i diversi spostamenti subiti all’interno della chiesa, il dipinto e la struttura architettonica sono state mantenute insieme. I lavori di realizzazione furono affidati a Donato Antonio Chiarello per la scultura e a Giovanni Andrea Coppola per la tela dipinta[20].

Ricordiamo tra l’altro che lo scultore copertinese in questi stessi anni realizza a Casarano l’altare maggiore nella chiesa della Madonna della Campana.[21]

Altri tre altari sono posti nel transetto: quello dell’Annunciazione, realizzato entro il 1829 dal capomastro Vito Carlucci[22] (a destra), e a sinistra quello dedicato a San Giovanni Elemosiniere, mentre l’Altare dell’Assunta è collocato in cornu epistolae.

L’Altare dedicato al protettore del paese, è frutto di diversi adattamenti. La nicchia posta al centro è stata modificata dall’aggiunta di due colonne, accorgimento utilizzato probabilmente per adattare lo spazio, in precedenza destinato ad ospitare un dipinto, alla statua ottocentesca (fig. 7). Nelle visite pastorali e nello scrupoloso lavoro fatto da Chetry, si cita più volte un altare dedicato al Crocifisso, presente in chiesa dal primo decennio del XVIII secolo fino al 1799[23]. Quest’intitolazione certamente sembra essere più consona agli angeli scolpiti in basso che reggono i simboli della Passione.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)

L’altare dedicato all’Assunzione della Vergine, datato 1740, appartiene invece a un altro ramo della già citata famiglia D’Astore[24]. Questa struttura ha sostituito un’altra più antica attestata in chiesa fin dal 1719. L’altare, bell’esempio di scultura barocca, si caratterizza per gli angioletti scolpiti che letteralmente invadono lo spazio della scena, dipinta quasi due secoli prima dal pittore neretino Donato Antonio D’Orlando (fig. 9). La tela sicuramente fu richiesta da un’altra committenza data la discordanza degli emblemi visibili. Quello dei D’Astore presente nella macchina d’altare, precisamente  nei plinti alla base delle colonne, è diverso da quello visibile nel dipinto (fig. 10).

Al 1634 risale la tela del Miracolo di San Domenico di Soriano. Essa è parte restante di un altare documentato in questa chiesa fino al 1910. L’opera è adesso collocata nel transetto sinistro, di fronte all’altare dell’Assunta. L’anno di esecuzione e il monogramma del pittore[25] sono stati recuperati durante il recente restauro. Nel transetto destro, di fronte alla cappella novecentesca in cui è riposto il SS. Sacramento, vi è la tela raffigurante la Pentecoste, attribuita ad un pittore di cultura emiliana[26] probabilmente del XVII secolo.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

A questa veloce descrizione si vuole aggiungere la segnalazione di alcune sculture e architetture attualmente collocate nel cimitero comunale. Si tratta precisamente di due trabeazioni decorate con motivi fogliati e di quattro statue. Non c’è dubbio che le due trabeazioni siano parte dell’architettura di un altare così come una delle statue, raffigurante Sant’Oronzo. Quest’ultima, come possiamo vedere dalle fotografie, sembra essere stata staccata da un altare. Infatti, la figura, anche se è molto danneggiata, mostra un intaglio carico di particolari nella parte frontale, a differenza del retro, in cui la pietra, piatta, è lasciata completamente allo stato grezzo.

Si può ipotizzare che, in seguito alle modifiche di fine Ottocento, l’altare sia stato smembrato e alcune parti siano state trasportate nel cimitero comunale edificato proprio alla fine di questo secolo.

Ad ogni modo, dopo i recenti interventi di restauro si spera che un nuovi studi possano chiarire le vicende storico – artistiche di una delle principali chiese del Settecento in Terra d’Otranto[27].

 

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell'Assunta, tele di D. A. D'Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell’Assunta, tele di D. A. D’Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2, cui si rimanda per la bibliografia, fonti archivistiche e sitografia

 


[1] Oltre alle sei tele conservate nella matrice, la studiosa ha analizzato quelle conservate nella chiesa confraternale dell’Immacolata e quelle della cappella della famiglia Valente. M. PASCULLI FERRARI, Oronzo Tiso, Bari 1976.

[2] M. PAONE, I Tiso di Casarano, in A. DE BERNART,  Paesi e figure del vecchio Salento, Casarano, vol. I, Galatina 1980, pp. 258 – 272.

[3] Regione Puglia Assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/46 Casarano, Pittura in Terra d’Otranto, (secc. XVI – XIX), Inventario dei dipinti delle chiese di Acquarica del Capo, Alliste, Felline (fra. di Alliste), Casarano, Matino, Melissano, Parabita, Presicce, Racale, Ruffano, Torre Paduli (fraz. di Ruffano), Supersano, Taurisano, Ugento, Gemini (fraz. di Ugento), a cura di L. Galante, Galatina 1993.

[4] Questa ipotesi probabilmente nasce per la somiglianza della chiesa casaranese con la vicina chiesa madre di Ruffano realizzata dai fratelli Ignazio e Valerio Margoleo. Sulla chiesa di Ruffano: A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano: una chiesa, un centro storico, Galatina 1989; V. CAZZATO – S. POLITANO,  Topografia di Puglia: atlante dei monumenti trigonometrici : chiese, castelli, torri, fari, architetture rurali, Galatina 2001, cit. p. 238.

[5]M. L. SORRONE, Alcune note sulla chiesa madre di Casarano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 23 novembre 2012 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/23/annotazione-sulla-chiesa-madre-di-casarano/.

[6] M. CAZZATO, L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche, in: M. CAZZATO, A. COSTANTINI, V. ZACCHINO, Dinamiche storiche di un’area del Salento, Galatina 1989, pp. 260 – 366.

[7] Si ricordano tra gli altri: l’artista neretino Giovanni Maria Tarantino che nel 1576 firma il portale della chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano, Pietro Antonio Pugliese, che lavorò alla chiesa di Santa Caterina Novella di Galatina intorno al 1619 e l’architetto leccese Giuseppe Cino, autore  di numerose opere a Lecce e nel Salento che, a quanto dicono i documenti, aveva stretti legami lavorativi con i suoi fratelli, che ricoprivano il ruolo di <<costruttori>>, cfr. M. PAONE, Per la storia del barocco leccese, estr. da “Archivio storico pugliese”, 35 (1982), fasc. 1, cit. p. 141.

[8] M. CAZZATO, L’area galatinese…, cit. p. 330.

[9] F. ABBATE, Storia dell’arte Meridionale, Il secolo d’oro, Roma 2002, p. 267.

[10] Il Reverendo Giuseppe De Donatis commissionò anche il restauro della tela di Oronzo Tiso, San Giovanni che distribuisce l’Eucarestia ai fedeli, (a sinistra, dietro il presbiterio). Intervento ricordato da un’iscrizione posta in basso a sinistra sulla tela, si veda: L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni latine del Salento. Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, Galatina 1994, p. 139.

[11] G. BARRELLA, La chiesa di San Francesco della Scarpa in Lecce, Lecce 1921, p. 28; C. DE GIORGI, La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Galatina 1975, vol. II, p. 153; A. CHETRY, Spigolature casaranesi, I, La chiesa matrice di Casarano, ed. a cura dell’Amministrazione comunale di Casarano, Casarano 1990, p. 11.

[12] Queste brevi segnalazioni vogliono essere un preambolo ad un lavoro più dettagliato che chi scrive sta svolgendo.

[13] <<DANT. O  PATAVINO/ SERAFICA FAMILIAE P.P SIDERI FULGENTISS.O/ SACELLUM OLIM REGIBUS AD PRAESEPE VENIETIB(US)/ SACRUM IOSEPH GRASSUS VETUSTATE COLLAPS(US)/ DICAVIT: UT SI ILLI QUONDAMSTELLA DUCE IAM/ DEUM HOMINEM NORUNT: TANTI NUNC/ SIDERIS LUMNEM DEUM SIBI NOSCAT/ PROPITIATOREM>>, trad. <<A Sant’Antonio di Padova astro fulgentissimo tra i presbiteri della famiglia serafica Giuseppe Grasso ha dedicato questo altare rovinato dagli anni un tempo (dedicato) ai re (magi) diretti al presepe affinché come loro un tempo guidati dalla stella hanno già conosciuto il Dio uomo, così ora alla luce del Santo Astro, Dio gli si mostri propizio>>.  Traduzione a cura di G. Pisanò, F. Danieli e don Agostino Bove. In queste sede voglio ricordare con affetto il mio prof. Gino Pisanò scomparso nei giorni di revisione di questo saggio.

[14] A. DE BERNART, I Grassi di Ruffano: una famiglia di medici, estr. da “Nuovi Orientamenti”, 12 n. 71, Cutrofiano 1981, A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano…, Galatina 1989, p. 37.

[15] S. TANISI, Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 17 luglio 2012,

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/.

[16] A Casarano è ben documentato il culto di Sant’Antonio da Padova, al quale era intitolata una cappella, cfr. ACVN, Atti delle visite pastorali, Mons. Antonio Sanfelice, anno 1711, A/52. È probabile che una volta dismessa questa, la statua in pietra del santo sia stata trasferita nella chiesa madre.

[17] Al centro si legge: D.O.M. / A. D./ MDCCLXXI.

[18] Attivo negli anni 1604 – 1628.

[19] <<[…] per sua devott.ne a sue proprie spese novam.te have eretto, et edificato una cappella sotto il titulo dell’Anime del Purgatorio dentro la Matrice chiesa di […] Casarano dalla parte destra nell’entrare dalla porta grande d’essa chiesa et proprio dove stava prima il quadro di s. Trifone, nella quale anco a sue proprie spese vi ha fatto un quadro delle dette Anime del Purgatorio…>>. ASLe, Protocolli notarili, notaio Marc’Antonio Ferocino, anno 1660, f. 138, 20/3, Archivio di Stato, Lecce.

[20] V. CAZZATO, Il Barocco leccese, Bari 2003, p. 99; V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare barocco nel Salento: da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, Roma 2007, catalogo della mostra, pp. 107 – 129, cit. pp. 113 – 114. La tela fu inizialmente commissionata a Giovanni Andrea Coppola, ma egli non riuscì a portare a termine l’opera che dopo la sua morte fu completata dal pittore Fra’ Angelo da Copertino. Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Luciana Margari. Sulla vicenda si segnala un recente articolo di S. TANISI, La tele delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 10 gennaio 2012, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-tela-delle-anime-del-purgatorio-di-casarano-due-autori-per-un-dipinto/.

[21]V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare…, cit. p. 114.

[22] Sull’altare si legge: Vito Carlucci e figli (Muro leccese) mentre sulla tela è presente l’anno di esecuzione: 1829.

[23] ACVN, Atti delle Visite Pastorali, mons. Antonio Sanfelice, anno 1719, b. A/77;  A. CHETRY, Spigolature…, cit. p. 27 e p. 41. Anche quest’altare, nella sua architettura originaria, fu commissionato dalla famiglia D’Astore.

[24]L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni …, cit. p. 127: << Gentilicium familiae de Astore sacellu[m] hoc/ deiparae in coelum evectae dicatum ac benef[icio]/ [a] notaro qu[o]nda[m] Antonio Vergaro fu[n]d[a]tore donatum/ cl. Vitus Antonius De Astore ex matre pronep.[os]/ excitandu[m] curavit anno reparati orbis/ MDCCXL>>, <<Questo altare gentilizio della famiglia d’Astore, dedicato alla Madonna Assunta in Cielo e dotato di un beneficio dal defunto notaio Vergari, il signor Vito Antonio d’Astore, pronipote da parte di madre, fece erigere nell’anno della redenzione del mondo 1740>>.

[25]ORT. BR. NER. 1634, (Ortensio Bruno Neritonensis). Altri dipinti sono accompagnati da questo stesso monogramma, pensiamo alla tela dell’Immacolata nella chiesa di Santa Lucia a Taviano e al dipinto raffigurante il Miracolo di Soriano nella chiesa matrice di Racale. In queste opere per l’abbreviazione della provenienza si legge “N. US” e non “NER.” (neritonensis), cfr. L. GALANTE, Pittura…, cit. p. 11 e nota n. 23 a p. 20. Si veda anche: A. SERIO – G. SANTANTONIO, Racale: note di storia e costume, Galatina 1983.

[26] L. GALANTE, Pittura…, fig.74 senza numero di pagina.

[27] Ringrazio sentitamente il parroco, don Agostino Bove, per la disponibilità e per avermi permesso di fotografare la  chiesa.

Il “non finito” di Francesco Solimena a Nardò

di Paolo Marzano

fronte
S. Michele Arcangelo, attribuito a Francesco Solimena, nella cattedrale di Nardò

Ritengo si debba continuare a parlare di ‘scuola del Solimena’, intendendo, con questa affermazione, determinare un contesto di ‘culture’ pittoriche differenti e, allo stesso tempo, afferenti al maestro napoletano. Nell’ opera del S. Michele Arcangelo, appena restaurato, diversi sono i caratteri che potrebbero avvicinare la pittura in esame, ad una delle figure dominanti, quell’arte, a cavallo tra ’600 e ’700, nell’Italia meridionale. Ma, anche diversi particolari, non corrispondono al risultato che invece, proprio Francesco Solimena, pretendeva venisse fuori, dalle sue opere.

Chi ha pratica della storia dell’arte, conosce l’importanza dei documenti, l’ambito storico, ne contempla la veridicità, ma anche dei non secondari filtri che attengono alle descrizioni d’impostazione della scena, dei piani sovrapposti ed intersecanti i volumi, la struttura anatomica, i lineamenti del viso, direzione e tiraggio dei muscoli in relazione ai gesti espressi, quindi l’incarnato, la direzionalità del panneggio, la piegatura e la sovrapposizione del flusso coloristico sulle stoffe, la naturalità delle forme in relazione alla luce al chiaroscuro e all’ombra.
Un piccolo anticipo su quello che verrà a breve pubblicato.

Oltre alla strana aureola dell’Arcangelo (forse la continuazione del panneggio rosso) e ai semplificati, quasi schematici, tratti del viso (occhi troppo segnati, proporzionalmente grandi e quieti rispetto all’azione totalizzante della scena che vi si svolge) di sicuro ambiente napoletano, ma lontani come approcci del maestro, suggerisco di osservare nelle molte opere del Solimena il trattamento della luce.

Proprio il contatto della zona di luce, anche violenta e unidirezionale, sui volumi, determina, nei più importanti lavori del Solimena, appena dopo la scura zona d’ombra, un chiaro riverbero luminoso che, in numerosi altri casi, conferma la serie dei piani (o quinte) dell’impostazione compositiva dell’intera scena e risolve l’apparato chiaroscurale, dell’episodio raffigurato. Il viso del S. Michele, dunque, pur nella posizione privilegiata, poco si discosta, per i semplici lineamenti, dai cherubini sul fondo immersi nelle nuvole.

La ‘scuola’ quindi è certamente del Solimena, come la figura di lucifero che viene a forza ricacciato nell’inferno sembrerebbe confermare. Infatti, un maggiore approfondimento e quindi avvicinamento alle opere del Solimena rivela quella particolare figura ripresa più volte; per esempio dal personaggio quasi centrale sulle scale nella “Cacciata di Eliodoro dal tempio” o nei suoi disegni preparatori la ritroviamo disegnata per due volte nei due sensi di appoggio. Poi nel putto con la corona della “Giuditta e Oloferne” o ancora la stessa torsione e postura nella “Battaglia tra Lapiti e Centauri”.
L’opera ritengo sia attribuibile ad allievi del Solimena, su suo evidente disegno preparatorio, oppure, se si certificasse la chiara paternità del maestro, risulta sempre essere un’opera “non finita”, appunto per l’assenza dell’ultimo strato di riverbero luminoso e dunque della maggiore brillantezza ed evidenziazione tridimensionale generale, ora assente. Poco esaltata infatti la cascata centrale della ‘spira’ del panneggio rosso (l’afflato divino al suo guerriero) e la sublime curvatura finemente piumata (meravigliosamente reale) dell’ala a sinistra dell’arcangelo Michele.

Si attendono ulteriori riflessioni dibattiti, discussioni e confronti, per un’opera che va ad arricchire il bagaglio dell’antichissimo, e che si sta rivelando sempre più prezioso, scrigno della Cattedrale di Nardò.

 

I primi due sono compresi insieme nell'opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne "La cacciata di Eliodoro dal Tempio", solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell'Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne "la battaglia tra Lapiti e Centauri", il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell'opera "Giuditta e Oloferne" di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.
I primi due sono compresi insieme nell’opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne “La cacciata di Eliodoro dal Tempio”, solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell’Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne “la battaglia tra Lapiti e Centauri”, il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell’opera “Giuditta e Oloferne” di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/22/nardo-un-solimena-riscoperto/

 

http://www.liberoquotidiano.it/news/454848/Scoperto-un-nuovo-Caravaggio.html
http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_luglio_27/caravaggio-non-suo-martirio-1703469347692.shtml
http://culturasalentina.wordpress.com/2010/07/28/a-proposito-del-caravaggio-a-lecce/

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmineappartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore

25 marzo. Annunciazione di Maria Vergine. Una tela a Maruggio

Annunciazione, di Paolo De Matteis (olio su tela, 1712). Saint Louis Art Museum

 

di Nicola Fasano

 

L’Annunciazione, tema caro alla pittura italiana (si pensi alle celebri tele di Simone Martini, di Antonello da Messina e di Lorenzo Lotto), rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione (Luca 1:26-38).

La ricorrenza dell’evento cade il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo. Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante. Nel corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema; molto spesso i pittori hanno colto nell’Annunciazione il “pretesto” per raffigurare sfarzosi interni, si pensi ai fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele. In altri casi, rimanendo in ambito quattrocentesco, l’ambientazione risulta semplice e spoglia come in Beato Angelico del chiostro di San Marco a Firenze o nel Domenico Veneziano del Fitzwilliam museum di Cambridge.

Nel ‘500, senza fare fuorvianti generalizzazioni, la scena può essere ambientata in esterni (è il caso del Leonardo degli Uffizi) o al chiuso di una stanza che presenta un’apertura (finestra, arco) dal quale si intravede il paesaggio;  non raro è il caso dell’ambientazione in cortili, in porticati o in terrazze con il paesaggio sullo sfondo e la balaustra a delimitare l’avvenimento sacro.

Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell'Annunciazione, 1291
Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell’Annunciazione, 1291

Nell’arte della Controriforma, quella che ci interessa per il dipinto che andremo a trattare, lo sfondo architettonico viene progressivamente abbandonato a favore di un fondale neutro che vede il cielo abbacinante sul quale si staglia la colomba dello Spirito Santo. L’Angelo annunziante può essere accompagnato da un seguito di cherubini a testimonianza della presenza divina; poca concessione invece, viene lasciata al superfluo, ai dettagli che non siano utili all’identificazione della Sacra rappresentazione: il giglio, il cestino da lavoro di Maria, il libro che racchiude la profezia di Isaia sul concepimento della Vergine. Sono questi i rigidi dettami preconizzati dal cardinale Paleotti  sulle immagini sacre, le quali dovevano suscitare pietà nello spettatore.

Matteo Bianchi – Annunciazione -olio su tela cm. 205×152 ph Nicola Fasano

Il nostro dipinto proviene dalla parrocchiale di Maruggio, un paese ad una trentina di chilometri da Taranto. La tela raffigura la Vergine seduta sull’inginocchiatoio, a capo chino e con il braccio destro sul petto in segno di devozione, nell’atto di ricevere Gabriele portatore del lieto annuncio. L’Annunciata maruggese risponde figurativamente al tipo della humiliatione[1] secondo quanto scritto da Luca (Lc,1,38) “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto”. L’arcangelo  adagiato su una nuvola e accompagnato da una genia di cherubini, reca il giglio simbolo di purezza; chiude la scena al di sopra del gruppo la colomba dello Spirito Santo che spicca dal fondo dorato. Il dipinto inganna, ad osservarlo attentamente non si esiterebbe un attimo ad attribuirlo a Paolo De Matteis e l’ubicazione di Maruggio tra Taranto e Lecce, centri (soprattutto quello ionico), dove il pittore campano fu operoso, non farebbe altro che confermare (ingannevolmente) questa ipotesi.

Invece a pochi chilometri da Maruggio, a Manduria precisamente, sorge nel ‘700 una importante bottega di pittori, i Bianchi, che monopolizza la committenza nobiliare e religiosa, “permettendo” di fare entrare nella cittadina messapica solo dipinti di pittori del calibro di un Trevisani e qualche altro dipinto solimenesco proveniente da Napoli. Tutto ciò a conferma del fatto che a Manduria non si trovano tele del francavillese Carella, del martinese Olivieri, o tele dei più quotati pittori leccesi.

Questo in un certo senso ha appiattito il livello qualitativo della pittura manduriana. Non avendo infatti concorrenti, il “clan” dei Bianchi si adagia su una pittura edificante e convenzionale che riprendendo stilemi solimeneschi, maratteschi o del De Matteis accontenta una committenza provinciale senza grandi pretese.

In realtà, due della stirpe dei Bianchi, i più dotati Diego Oronzo Bianchi e il fratello più piccolo Matteo Bianchi, sono pittori che non sfigurano in un discorso generale sulla pittura salentina del Settecento. Non si spiegherebbe altrimenti come i loro dipinti siano presenti nel leccese, a Taranto, a Brindisi, in terra di Bari e nel territorio lucano (Pasquale Bianchi), questo a conferma della richiesta di loro opere al di fuori del territorio messapico.

Tralasciando l’Olivieri “raccomandato” del Solimena, è difficile  trovare un’altra bottega attiva in buona parte del territorio pugliese e nei territori limitrofi[2].

La tela maruggese è opera autografa di Matteo, il più dotato tecnicamente della famiglia. Fino a pochi anni fa si conosceva poco delle sue opere, e l’Annunciazione maruggese ne è la più celebre e la più nota alla critica. Grazie al lavoro di schedatura fatto da Massimo Guastella[3], sono emersi altri dipinti e si è fatta luce sulla vita del pittore e tesoriere della Collegiata manduriana.

Anzitutto è emersa una notevole perizia tecnica nel disegno, testimoniata da alcuni fogli in collezione Arnò ed è stata evidenziata l’abilità nel trascrivere con facilità brani pittorici di maestri affermati quali il Solimena, il Maratta e il dipinto in questione ne è la riprova.

L’opera portata all’attenzione dalla Pasculli Ferrara[4] e accennata da M. D’Elia[5], viene studiata da Galante[6] che la ritiene copia di un’altra opera del De Matteis di collocazione ignota. Entrambe le opere secondo lo studioso, sono riprese da un analogo soggetto nel Museum of Art di St. Louis, già nella collezione della duchessa di Laurenzano, la quale aveva commissionato il dipinto all’artista cilentino.

La tela del Bianchi trova visibilità nella mostra del 1995 sul Barocco a Lecce e nel  Salento, nel cui catalogo Guastella[7] ritiene il dipinto tratto da un cartone del più quotato maestro sulla scorta del dipinto già accennato da Galante di ubicazione ignota. Lo stesso studioso che colloca la tela attorno al secondo-terzo decennio del ‘700, non esclude un rapporto indiretto con il De Matteis attraverso le opere tarantine. A tal proposito invito a confrontare l’Annunciata maruggese con la Vergine dipinta dal campano nel Carmine di Taranto e quella della Matrice di Grottaglie.

La monumentale opera di schedatura sul patrimonio pittorico manduriano curata da Guastella e fotografata da La Fratta nel 2002  non aggiunge nulla di nuovo sul dipinto in questione[8], ma come già ricordato in precedenza, analizza criticamente la produzione pittorica di questa importante famiglia e “apre” al pubblico le collezioni private, altrimenti inaccessibili, che raccolgono  disegni inediti di Matteo.

Infine nel 2009 in uno studio condotto da Don Pietro Pesare[9], si acquisiscono nelle note a margine  altre interessanti informazioni sul dipinto. La tela agli inizi del ‘900 fu spostata dalla Chiesa Madre del piccolo comune nella cappella cimiteriale di Santa Maria del Verde insieme ad altre tele. Per un fortuito caso l’Annunciazione si salvò dal furto sacrilego perpetrato da ladri il 4 novembre 1975, in quanto il religioso aveva portato la tela in Soprintendenza, per il quanto mai provvidenziale restauro[10].

Attualmente la tela è tornata a Maruggio ed è stata  collocata nel presbiterio della Matrice. Il dipinto commissionato dalla famiglia Covelli[11], di cui il Pesare riconosce lo stemma nobiliare (il sole rosso nascente e l’agnello in basso), probabilmente proveniva dall’altare eponimo della Matrice e sostituiva una precedente tela commissionata dalla famiglia Maldonata-Carrone, imparentata con gli stessi Carrone[12]. Lo studioso inoltre aggiunge che il dipinto maruggese è esemplato dalla tela del De Matteis conservato in San Michele Arcangelo ad Anacapri.

L’impaginazione spaziale a sviluppo verticale della scena richiama la celebre Annunciazione di Nancy dipinta dal Caravaggio, così come la direttrice diagonale che taglia idealmente il dipinto facendo dialogare l’Angelo e la Vergine; alle spalle della stessa un tendaggio verde circoscrive il letto a simboleggiare il Thalamus Virginis che, insieme al poggiapiedi, rafforza il clima intimità  domestica della scena. L’indirizzo classicista e accademizzante desunto dal De Matteis, si manifesta attraverso l’assetto bilanciato della raffigurazione, in cui i protagonisti si distinguono per grazia e bellezza, come ricordato da Galante[13]. Il classico pulviscolo dorato nella parte superiore della composizione si stempera nella luce diffusa che solidifica le forme e risalta il preziosismo serico, esaltando il manto azzurro della Vergine, il panno bianco e il drappo arancio di Gabriele.  


[1] Papa R., Caravaggio l’arte e la natura, Firenze, 2008, p. 204

[2] Forse solo la bottega dei Carella  fu così operosa.

[3] Guastella M., Iconografia Sacra a Manduria, Manduria, 2002.

[4] Pasculli Ferara M., Contributi a Giovan Battista Lama e a Paolo De Matteis, in Napoli Nobilissima vol. XXI, fasc. I-II, Napoli, 1982, p. 49, fig. 9.

[5] D’Elia M., in AA.VV. La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 285, fig. p. 286. Curiosamente nella riproduzione fotografica l’immagine è speculare.

[6] Galante L., Qualche considerazione sul De Matteis in Puglia, in Questioni artistiche pugliesi, Galatina, 1984, p.13, tav. III fig.3.

[7] Guatella M. in AA.VV. Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995, p. 84 cat.79. Anche in questa riproduzione l’immagine è stata riportata specularmente.

[8] Guastella M., op. cit., 2002,  p. 46.

[9] Pesare P., I Frati dell’Osservanza di Santa Maria della Grazia di Maruggio, Manduria , 2009, pp. 208-209.

[11] Famiglia di origine leccese, stabilitasi a Maruggio nel ‘500.

[12] Pesare P., op. cit., 2009,  p. 209 .

[13] Galante L., op. cit., 1984,  p.15.

Un libro sugli affreschi dell’abbazia di San Mauro

Abbazia-S.-Mauro-Sannicola
Mercoledì 13 marzo 2013, ore 19, a Sannicola ci sarà la presentazione del volume “Sannicola – Abbazia di San Mauro. Gli affreschi sulla serra dell’Alto Lido presso Gallipoli” a cura di S. Ortese.

Edito da Lupo nella collana De là da mar saranno presenti, oltre l’editore Cosimo Lupo, gli autori Mario Cazzato, Giuseppe M. Costantini, Manuela De Giorgi, Marina Falla Castelfranchi, Francesco Gabellone, Davide Melica, Sergio Ortese, Valentino Pace, Giovanni Quarta, Ritana Schirinzi.

Introducono Giuseppe Nocera (Sindaco di Sannicola), Danilo Scorrano (assessore alla Cultura di Sannicola).
Presentano Gioia Bertelli (prof. ordinario di Storia dell’Arte Medievale presso l’Università degli Studi di Bari), Antonio Cassiano (Direttore del Museo Sigismondo Castromediano), Regina Poso (Ordinario di Storia del Restauro dell’Università del Salento).

uno degli affreschi sul sottarco dell'abbazia di san Mauro
uno degli affreschi sul sottarco dell’abbazia di san Mauro

Soleto. Tra le meraviglie di Santo Stefano (I parte)

di Massimo Negro

Siete mai stati colti in qualche occasione da una sensazione di inadeguatezza?

A me capitava sistematicamente ogni volta che, aprendo il mio archivio fotografico, osservavo le foto degli affreschi della splendida Chiesa di Santo Stefano a Soleto. E questo per un po’ di anni. Le foto sono così rimaste silenti per lungo tempo a causa di questo mio timore.

A dire il vero non c’è una ragione precisa per cui oggi, a distanza di anni, decido di affrontare l’argomento. Forse un pizzico di incoscienza. Chissà! Fatto sta che l’ora è giunta e le mani hanno iniziato a muoversi sulla tastiera. Vedremo un po’ alla fine che ne uscirà.

Premessa strana la mia, per chi non conosce e, soprattutto, non ha avuto modo di visitare la Chiesa. Stato d’animo comprensibile per chi, invece, ha già avuto modo di osservare la ricchezza, la varietà e la complessità del ciclo pittorico all’interno. Per cui corre l’obbligo specificare in questa sede quanto già scritto in altre occasioni. I miei racconti sono frutto di osservazione e non di studio approfondito, per quanto ogni notizia riportata sia frutto di ricerca bibliografica.

Il mio racconto su questo sito sarà articolato in tre note. Questa è la prima.

Ma andiamo per gradi e, percorrendo le stradine del piccolo ma ben conservato centro storico di Soleto, giungiamo dinanzi alla facciata di questo inestimabile gioiello, incastonato tra le mura bianche della stretta via su cui si affaccia.

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La strada è stretta e si fa una certa fatica ad abbracciare con un unico sguardo la pur piccola facciata dell’edificio religioso. Il piccolo portale in stile romanico è sormontato da un piccolo rosone dello stesso stile e, in cima, un campanile a vela.

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Parte delle decorazioni in pietra leccese non si possono più ammirare. E’ probabile che questo sia semplicemente dovuto alla friabilità della pietra adoperata, ben visibile in particolare intorno all’architrave.

Per avere traccia dei committenti occorre volgere lo sguardo in alto. Al di sopra del rosone che sovrasta il portale d’ingresso con molte difficoltà si possono notare due piccoli scudi araldici. Quello più visibile lascia intravedere i lineamenti dell’arma dei Del Balzo. Infatti nei due inquartamenti superiori dello scudo, a fatica si può notare la stella a sedici punte e il corno da caccia dei principi d’Orange. Del secondo è giunto sino a noi ancor meno e gli studiosi hanno potuto lavorare solo su delle ipotesi. Seconda una di queste, si potrebbe scorgere un corno di luna calante, iconografia tipica delle armi delle famiglie che pretendevano di discendere dai Magi. Seguendo questa interpretazione giungiamo alla famiglia nobiliare provenzale dei De Baux, i signori di Baux che pretendevano di far risalire le proprie origini a uno dei tre Magi, Baldassare. De Baux che nel giungere in Italia a seguito di Carlo I  D’Angiò mutarono il loro nome in Del Balzo.

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Ancorché ormai poco visibili, questi due scudi araldici hanno il pregio di poter collocare temporalmente la costruzione del piccolo tempio ai tempi di Raimondello Del Balzo Orsini, che resse le conte di Soleto e di Lecce tra il 1384 e il 1391. Comunque non a data più remota come alcuni studiosi hanno tentato di fare.

Proprio riguardo la data di erezione dell’edificio vi è un piccolo mistero. All’esterno non vi è alcuna data incisa nella pietra. Mentre all’interno, sulla parete settentrionale, vi è quel che resta di una iscrizione dedicatoria sulla quale, con notevole difficoltà, è possibile leggere solo quanto segue – “Fu eretta …” – null’altro.

La cosa strana, fonte questa di mistero, è che la scritta pare essere stata cancellata scientemente e in modo uniforme, come se qualcuno, in un qualche periodo della storia non abbia voluto che venisse ricordata la data di costruzione e il committente. Una sorta di damnatio memoriae.

Dall’800 una sorta di lettura di poco più completa di questa iscrizione è giunta sino a noi. Ci arriva dal Diehl che sosteneva di essere riuscito a decifrare il numero 6855, corrispondente all’anno 1346/47. Gli studiosi sono poco propensi a dargli fiducia, in quanto in altre occasioni pare che ci abbia tramandato delle interpretazioni cronologiche non veritiere o comunque smentite da studi successivi.

Ci sono tornato qualche mese addietro. Non sono entrato perché la porta che nel passato, ahimè, era sempre aperta, oggi è finalmente chiusa e l’accesso avviene solo con guida, scongiurando in tal modo eventuali atti di vandalismo. Riguardo questo punto mi permetto di dare un suggerimento all’Amministrazione di Soleto. Ancorché ritenga che, data la bellezza del sito, lo stesso non possa rimanere aperto senza alcuna vigilanza, sarebbe molto suggestivo se l’attuale portone fosse sostituito da una struttura con vetri che possano far vedere l’interno anche nelle ore in cui la chiesa non è visitabile. Si può ben immaginare la bellezza della visione dell’interno nel camminare lungo la stradina del centro storico ove è sita, nelle calde serate d’estate.

Ma prima di entrare, come per altri siti, è di sicuro interesse leggere quello che Cosimo De Giorgi scrisse nei sui Bozzetti (1888) quando giunse a visitare il luogo.

“Il più importante monumento di questo paese [Soleto] per le pitture che contiene è la chiesina di S. Stefano, la quale fu edificata nel XIV secolo … e fu una di quelle che mantennero il rito greco fino al 1600 … Fino ai primi di questo secolo [‘800] fu isolata da tutti i lati, mentre oggi è chiusa tra abitazioni e giardini [ndr. In effetti all’interno è possibile notare due porte ora murate sul lato settentrionale e su quello meridionale].

La facciata è in parte sciupata. Mancano le colonne sulle quali poggiavano i leoni che si vedono ancora sum mensoline confitte nel muro, nei due lati dell’architrave, mutilati e corrosi dal tempo [ndr. dei leoni che nota il De Giorgi resta quasi nulla]. Il fregio di quest’architrave e il fresco della lunetta sono anche perduti.”

La facciata nel passato era sicuramente affrescata. Solo alcune tracce di intonaco sono giunte sino a noi. In buona sostanza poco rilevanti e a riguardo, già al tempo, il De Giorgi non scrisse nulla.

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Entrare nella chiesetta è come immergersi nella storia. Ancor prima del fatto artistico in se di gran valore, guardare gli affreschi ci apre un ampia finestra sui costumi dell’epoca in cui furono realizzati. Vestiti, corazze e persine una tavola imbandita. Dal punto di vista religioso una sorta di stupefacente “Biblia pauperum” in cui, dalla rappresentazione del maligno alla risurrezione del Cristo, tutto trova sintesi e compimento. Si può solo immaginare l’impressione che doveva suscitare nel tardo Medioevo la figura del Diavolo che ingurgita le anime dei dannati.

Abside foto d'insieme2

La prima sensazione che mi coglie immancabilmente ogni volta che entro, è una sorta di smarrimento. La ricchezza della decorazione paretale mi fa quasi venire le vertigini. Ho quasi l’impressione che tutte le figure ritrarre sulle pareti si volgano a guardarmi. Con il tempo mi sono dato un metodo di lettura; perché proprio di lettura si tratta.

Parto dalla parete ove è posizionata l’abside.

All’interno della catino absidale posto al livello dell’altare, nella parte inferiore sono ritratte cinque figure. Al centro un giovane Cristo e ai lati, due per lato, delle figure di Santi Vescovi. Di questi solo uno è stato attribuito, il primo alla destra del Cristo, e si tratta di San Giovanni Crisostomo. Per gli altri, nonostante la presenza di cartigli non è stato possibile attribuire un nome.

Abside Cristo Quattro Santi Vescovi2

Abside Cristo 2

Abside San Giovanni Crisostomo

Nella parte superiore del catino è rappresentata la Trinità e la discesa dello Spirito Santo, la Pentecoste, su Maria e sui dodici Apostoli, che danno le spalle alle mura di Gerusalemme. Degli Apostoli è stato possibile identificare Pietro, alla destra di Maria, e Giovanni, Mattia e Giacomo alla sua sinistra.

Abside Pentecoste insieme 2

Di particolare importanza sono i cartigli bianchi con delle iscrizioni in greco, che hanno in mano i dodici. Hanno un significo ben preciso e sono concatenati tra loro: sono i dodici articoli del Simbolo degli apostoli. Una rappresentazione molto importante e rara, soprattutto se si considera che fece la sua comparsa nel XV secolo. Da alcuni fonti pare invece che il Simbolo degli apostoli fosse conosciuto sin dal XIII secolo. Nello specifico, la versione soletana pare che debba le sue origini al modello niceno-costantinopolitano.

Abside Pentecoste particolare 1 2

Ma cos’è questo Simbolo apostolico? Riporto la traduzione dal greco dei primi articoli per rendere più comprensibile quanto scritto sin d’ora:

  1. Credo in un solo Dio  Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra,
  2. E in un solo Signore Gesù Cristo, suo Figlio unigenito
  3. Che si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria
  4. Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso e fu sepolto
  5. ….

Non lo riporto per intero per non annoiare il lettore. Dei cartigli solo l’articolo 7 e 8 non solo leggibili.

Abside Pentecoste 2 2

Si tratta in buona sostanza di quello che noi oggi chiamiamo “Credo” e che viene recitato durante la messa subito dopo la Liturgia della Parola. Le origini di questa preghiera sono antichissime e, secondo le ipotesi di studio prevalenti, potrebbe avere le sue origini proprio negli Apostoli. Ecco perché è molto suggestivo vederlo rappresentato in questi termini all’interno di Santo Stefano.

Spostando lo sguardo più in su, lungo la parete dell’abside, si giunge ad uno degli affreschi più suggestivi presenti all’interno dell’edificio: l’Ascensione e la Visione dei Profeti.

Abside Ascensione2

L’artista in questa sua opera ha saputo sapientemente miscelare due eventi molto importanti raccontati all’interno della Bibbia, fondendone alcuni dei loro elementi costituenti in modo eccellente. Ecco quindi che l’Ascensione di Cristo si fonde con le visioni dei profeti Ezechiele e Daniele, anticipando i contenuti rappresentati nell’altra grande e maestosa opera pittorica presente all’interno, quella del Giudizio Universale. Per cui l’Ascensione di Cristo diventa messaggio di annuncio del suo secondo ritorno alla fine dei tempi.

Abside Ascensione particolare2

Abside Ascensione particolare Ezechiele2

Abside Ascensione particolare Daniele 2

Dall’abside volgo lo sguardo verso la parete settentrionale. Su questa parete è presente una porta murata, sull’architrave della quale era posta l’iscrizione dedicatoria il cui contenuto è stato cancellato. La porta a detta del De Giorgi conduceva verso l’attiguo locale della sagrestia (ora non c’è più).  Dell’iscrizione perduta riporto quanto scrisse il De Giorgi:

“Fu distrutta da un impiastriccione microcefalico il quale la ricoprì di uno strato di cerussa sciolta nell’olio di lino.”

Parete Settentrionale

La parete settentrionale è divisa in quattro sezioni orizzontali. Dall’alto in basso, le prime tre sono dedicate al Ciclo Cristologico, mentre nell’ultima sezione in basso, la più larga, sono rappresentate figure di santi e sante. Ciascuna sezione è articolata in riquadrati affrescati. Vista l’impossibilità di soffermarmi su ciascun riquadro, concentrerò la mia attenzione solo su quelle da me ritenuti più significativi. Per approfondimenti, consiglio testi specializzati.

La prima sezione orizzontale del Ciclo, posta in lato, va dal ritorno dei Magi sino al battesimo di Gesù. Una prima particolarità è riscontrabile nell’assenza della Natività. L’autore subito dopo il riquadro dei Magi, parzialmente perduto, rappresenta infatti la Fuga in Egitto.  Di questa colpisce il viso triste e preoccupato della Vergine Maria che più che abbracciare il Bambino, pare quasi che si pieghi su di lui con l’obiettivo di proteggerlo e rassicurarlo con il proprio corpo. Le movenze immaginate del Bambino rafforzano questa sensazione di timore perché, come si può notare, Gesù, volto verso il viso della Madre, cerca di aggrapparsi al suo collo, proprio come fanno tutt’oggi i  bambini quando hanno paura.

Fuga in Egitto

Timore ben fondato in ciò che  possibile vedere nel riquadro successivo, la tristemente nota Strage degli Innocenti. I soldati, contestualizzati nelle loro divise all’epoca di realizzazione dell’affresco (cioè con equipaggiamento tipico angioino), sono pronti a scagliare i bambini in terra per ucciderli, mentre un terzo cerca di strappare il figlio ad una madre. Dalla loggia del palazzo si vede Erode impartire l’orrendo ordine.

Strage degli Innocenti 2

Della prima sezione, l’ultimo commento riguarda il riquadro successivo, che precede i due successivi dedicati al battesimo. Il riquadro in questione introduce la figura del Battista in fasce con sua madre Elisabetta, rappresentati nel Miracolo della Montagna. E’ un episodio narrato nel Protovangelo di Giacomo, secondo il quale la montagna si aprì per nascondere al suo interno madre e figlio per sfuggire ai soldati.

Il miracolo della montagna

Passiamo ora alla seconda sezione orizzontale della parete settentrionale. Il primo riquadro è molto suggestivo. Narra la Tentazione nel deserto ad opera del diavolo. Diavolo che, come si può osservare, decide di assumere, per mezzo delle intenzioni dell’artista, una particolare sembianza: quella di un frate francescano. E tale rischia di apparire se non si presta attenzione ad un particolare: i piedi. Infatti la figura tentatrice al loro posto ha delle zampe palmate di rapace.

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Subito dopo sono raccontati due miracoli compiuti dal Cristo. Il primo a destra è la guarigione del cieco, mentre il secondo si riferisce al miracolo della guarigione dell’indemoniato. Un elemento di particolare suggestione è presente nel secondo riquadro nel quale, osservando la figura del miracolato, si può notare che dalla bocca dello stesso fuoriesce una piccola figura nera. Questa altri non è che il diavolo. La figura del maligno, rappresentata poco sopra la testa, è molto simile a quella che è possibile scorgere nella Chiesa di San Mauro a Lido Conchiglie all’interno della rappresentazione del battesimo del Cristo.

Guarigione del cieco nato e del sordomuto

Nel riquadro successivo è collocata la Risurrezione di Lazzaro. Le figure coinvolte sono quelle presente nei racconti evangelici. Faccio solo notare come l’autore ha voluto rappresentare l’agire degli amici di Lazzaro che sembrano per certi versi infastiditi nel dover aprire il sepolcro a causa del fetore che da lì emana. Questo stato d’animo è rappresentato molto bene nei loro atteggiamenti; infatti si può notare come si portino un po’ tutti la mano a coprire naso e bocca.

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Segue poi l’Ingresso a Gerusalemme che costituisce l’ultimo dei riquadri chiaramente visibile della seconda sezione. Infatti i riquadri successivi sono molto compromessi; si possono intravedere i contorni delle figure ma, ahimè, la colorazione è andata quasi del tutto persa.

L'ingresso a Gerusalemme

Della terza sezione orizzontale mi soffermo solo sul riquadro in cui sé rappresentata la comparizione davanti a Pilato. Qui si può notare come Pilato abbia un’espressione sorridente, quasi benevola sul viso. Appare invece chiaramente chi è il grande accusatore del Cristo, ritratto con le caratteristiche sembianze degli ebrei dell’epoca e con una borsa di denari in mano. Una rappresentazione in linea con la normale credenza che voleva che fossero gli ebrei i veri ed unici colpevoli della sua crocifissione.

Bacio di Giuda e Processo dinanzi a Pilato

I riquadri successivi continuano con altri momenti della Passione del Cristo, sino al riquadro della sua Resurrezione. Di quest’ultimo rimane ormai ben poco.

Nell’ultima sezione orizzontale, che si sviluppa in modo uniforme su tre lati dell’edificio (ad eccezione dell’abside), sono rappresentati una serie di figure di Santi e Sante.

Da sinistra le sante Tecla, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria.

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A seguire San Simone e l’Arcangelo Michele.

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Termina così la prima delle tre note. Per ovvie ragioni di tempo e di spazio non tutti gli affreschi sono stati riportati e commentati, come non lo saranno per le prossime. D’altro canto questo non vuole essere un trattato, non ho i mezzi e la voglia per farlo. E’ un invito rivolto a tutti quelli che leggeranno questa nota. Un invito a completare questa ricerca e a contemplare la bellezza del ciclo pittorico, recandovi personalmente a Soleto in questo piccolo ma mirabile gioiello.

di Massimo Negro

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Cosimo De Giorgi. La Provincia di Lecce. Bozzetti. 1888.

M. Berger – A. Jacob. La Chiesa di S. Stefano a Soleto. Argo 2007.

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Note correlate:
– Soleto. Tra le meraviglie di Santo Stefano (II parte).

http://massimonegro.wordpress.com/2013/01/29/soleto-tra-le-meraviglie-di-santo-stefano-ii-parte/

– Soleto. Tra le meraviglie di Santo Stefano (III e ultima parte). Il Giudizio Universale.

http://massimonegro.wordpress.com/2013/02/12/soleto-tra-le-meraviglie-di-santo-stefano-iii-e-ultima-parte-il-giudizio-universale/

Il pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796) a Galatina

di Giovanni Vincenti

Non è stato ancora raggiunto il momento di sintesi storica relativa alla intensa attività artistica del pittore ruffanese Francesco Saverio Lillo1, fissabile tra il 1765 che è la data delle sue prime opere documentate2 ed il 1796 anno della sua morte, né altresì delineato con compiutezza il suo ruolo nell’ambito della pittura sacra salentina della seconda metà del Settecento.

Considerato «un artista sostanzialmente modesto e incapace di cogliere le novità dei modelli cui si rifece, e di adeguarsi al loro livello qualitativo, fornendone una traduzione del tutto lontana dalla loro modernità»3, il Lillo fu comunque, uno degli ultimi esponenti di quella scuola salentina, l’unica vera scuola pugliese, promotrice della diffusione delle tendenze artistiche napoletane che, proprio nel corso dell’ultimo scorcio del ‘700, con la loro ampia e progressiva capacità unificante eliminarono ogni senso al significato distintivo tra «centro» e «periferia».

Nella sua breve, ma intensa permanenza napoletana – è documentato un suo soggiorno a Napoli dal dicembre 1763 al febbraio 1764 – rimase affascinato dalla pittura di Francesco Solimena (1657-1747) alla quale sembra aver guardato in momenti diversi della sua attività, per alcune versioni di suoi dipinti sino a proporre finanche copie, mentre in loco tenne a modello i lavori di Liborio Riccio (1720-1775) da Muro e dei leccesi Serafino Elmo (1696-1777), forse suo maestro di bottega, e Oronzo Tiso (1720-1800), dai quali desunse il gusto tutto metropolitano delle «larghe composizioni»4.

 

La sua modesta produzione bene si prestava comunque, ad accontentare le esigenze di una committenza, sia laica che religiosa, la quale richiedeva opere che, a più basso costo, potessero riecheggiare in periferia i modelli dei più celebri pittori napoletani.

Fig. 1. Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie. S
Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie

 

Di Saverio Lillo, a Galatina, sono documentate due opere. La prima, una Annunciazione (fig. 1) collocata sull’omonimo altare nella chiesa dei domenicani, datata e firmata XAVERIUS LILLO P. 1793. La tela raffigura la Vergine sull’inginocchiatoio, a corpo chino e con le mani al petto in segno di devozione, nell’attimo in cui l’arcangelo Gabriele le annuncia il concepimento verginale e la futura nascita di Gesù, e lei figurativamente risponde “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38). L’arcangelo, adagiato su una nuvola, porge alla Vergine un giglio, simbolo della purezza e con l’altra mano indica una colomba rappresentante lo Spirito Santo, mentre fa vivace corteo un dorato stuolo dei putti angelici che volteggia nel cielo. Lo schema compositivo, il cui tema è ripreso nell’ovale presente nella collegiata di Maglie5, rinvia, senza mai raggiungerne però il livello qualitativo, al modello solimenesco realizzato nella chiesa di Donnalbina a Napoli.

Fig 2
Fig.2

La seconda, un S. Paolo (fig. 2) nell’altare nella chiesa omonima datato e firmato: FRANC. XAV.US LILLO P. 1795, «qui il santo è rappresentato monumentalmente a tutt’altezza, avvolto da un mantello rosso che superiormente scopre la veste verde. Stringe la spada e con la destra indica un putto che innalza un volume aperto sulle cui pagine è scritto: UNICUIQUE/AUTEM NOS/TRUM DATA/EST GRATIA/SECUNDUM/MENSURAM/DONATIONIS/CHRISTI; sulla pagina di fronte: AD EPHES. /CAP. IV./VERS. 7. ROM. XII. 3./I COR. XII. 11./II COR. X. 13. Alle spalle del santo è raffigurato l’episodio di Malta; c’è la nave a vele spiegate in alto mare e poi l’arrivo sulla costa dove si verifica l’episodio miracoloso della vipera raccontato in Atti: 28, 2-6. Sul lato opposto della marina è raffigurata una città con un profilo montuoso: dovrebbe essere Malta, ma è chiaramente un paesaggio di fantasia, tipico comunque della produzione del pittore. […] Alla destra del santo un gruppo di tre persone inscena un dramma racchiuso tutto nella figura dell’uomo languente, col volto cadaverico, sostenuto da una donna che implora il santo mentre l’altra offre all’ammalato un sorso d’acqua – quella del pozzo – da un contenitore metallico per alleviargli la pena. Ai piedi del santo, messi quasi in riga ai suoi ordini ci sono le cause di quel dramma: la tarantola, lo scorpione, il serpente»6. Qui la raffigurazione assume significati ben più pregnanti di quella che lo stesso Lillo realizzò, ossia l’Avvento di S. Paolo, nella chiesa domenicana di Tricase, il 17697, poiché riassume tutta la tradizione galatina in cui, giammai la musica, ha facoltà risolutrice, la gratia di guarir, dal morso velenoso, bensì l’acqua miracolosa del pozzo sito nelle case dette di S. Paolo8.

Fig 3
Fig, 3

A queste opere mi pare ora si possa aggiungere, in questa sede, un dipinto inedito che va ad arricchire il corpus delle opere del Lillo. Trattasi di una tela raffigurante il Trionfo della Fede sull’Eresia (fig. 3), non datata, ma firmata LILLO P., collocata nella cappella dell’Immacolata nella chiesa matrice di Galatina, ma proveniente dalla chiesa dei cappuccini. E’ questo un documento significativo del costante rapporto che il pittore tenne con i modelli solimeneschi napoletani e qui infatti, è evidente il ricorso del Lillo all’affresco del Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei domenicani (1701-1707) realizzato sulla volta della sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli. La raffigurazione allegorica della Fede rievoca il modello realizzato dal Lillo, tra il 1765 ed il 1767, nella Una Fides nell’estradosso della cappella di S. Antonio da Padova della parrocchiale di Ruffano, mentre il corpo dell’eretico sconfitto ha sembianze simili a quelle dei corpi ignudi della tela Eliodoro che ruba i tesori del Tempio, del 1765, nel presbiterio sempre nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 4
Fig.4


 

Ma al Lillo attribuirei anche altri due inediti dipinti, presenti a Galatina, che rivelano appieno le caratteristiche tipiche del suo stile. Il primo La fuga in Egitto (fig. 4) che, collocato nella chiesa dell’Addolorata, è opera di notevole qualità realizzata dopo il 1780 quando i confratelli del sodalizio dei Sette Dolori ebbero «l’accortezza di farvi lavorare sei medaglioni di figura ovale […]. Nei loro vuoti adunque vi si collocarono quelle sei tele dipinte di ugual grandezza e figura che tutt’ora si osservano. Queste rappresentano vari episodi della vita di Gesù Cristo. Eccoli: la sua Circoncisione, la Fuga in Egitto, la Disputa coi dottori nel tempio, la Gita al Calvario, la Crocefissione e la sua Sepoltura. Sarebbe stato desiderabile che un altro pennello più diligente e finito si fosse adoperato per queste»9. Tra questi lavori, che costituiscono la Via Matris, solo ne La fuga in Egitto si rileva ben altra mano e altro pennello, tanto da poterla accostare alla ottagona tela de La Natività di Maria Vergine che il Lillo realizzò, prima del 1770, sulla volta del transetto nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 5
Fig 5

Il secondo, La sacra famiglia con S. Giovannino, S. Anna e S. Gioacchino (fig. 5),  conservato presso il museo civico “P. Cavoti”, è una composizione di buona qualità per la realizzazione della quale il Lillo si ispirò, ancora una volta, alla omonima tela solimenesca. Al centro della scena, come si ricava dalla descrizione tratta dall’Inventario museale (n. 145), «la Vergine vestita di rosso con manto azzurro che regge il Bambino proteso verso S. Anna ammantata e col capo coperto. Sulla destra, appoggiato ad una roccia, S. Giuseppe che guarda il Bambino, mentre porta la mano destra in alto indicando in lontananza, è vestito di azzurro con manto bruno, ha la verga fiorita poggiata sulla spalla sinistra. S. Giovannino inginocchiato tende la destra verso il Bambinello e regge con la sinistra un’asta con un cartiglio dietro di lui: Ecce Agnus Dei. Sulla sinistra S. Gioacchino vestito di bruno con manto rosso, con le mani giunte sul petto, rivolge lo sguardo verso il Bambino».

 

 

NOTE

1 Su di lui cfr. A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese del Settecento, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano una chiesa un centro storico, Galatina 1989, pp. 45-48; A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese nel bicentenario della morte (1796-1996), in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 1996, 6, pp. 81-86.

2 Cfr. M. CAZZATO, Barocco in provincia: la ricostruzione (1706-1712) della parrocchiale di Ruffano. Note e documenti, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano etc., cit., Documento V, pp. 175-177.

3 Pittura in Terra d’Otranto (secc. XVI-XIX), a c. di L. Galante, Galatina 1993, p. 10.

4 Cfr. C. DE GIORGI, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882, I, p. 157.

5 Cfr. E. PANARESE – M. CAZZATO, Guida di Maglie. Storia, Arte, Centro Antico, Galatina 2002, p. 120, fig. 262.

6 Questa descrizione è tratta da M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” a Galatina, Galatina 2007, pp. 64-67.

7 Cfr. S. CASSATI, La chiesa di S. Domenico in Tricase, Galatina 1977, tav. XLVII.

8 Per questo ed altro, cfr. M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” etc., cit., pp. 41-72;  AA. VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Galatina 2001; A. VALLONE, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Galatina 2004.

9 Cfr. G. VINCENTI, Galatina tra storia dell’arte e storia delle cose, Galatina 2009, p. 165.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Due tele di Sant’Oronzo ed una inedita immagine di Galatina nel Seicento

di Giovanni Vincenti

 

FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)
FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)

 

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A. Coppola)

La «nuova immagine di S. Oronzio dipinta» [fig. 1] [fig. 2] che, realizzata dal gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659), «medico, musico ed eccellente pittore», quale segno visibile della popolare gratitudine alla scampata epidemia di peste, fu solennemente introdotta nella chiesa cattedrale leccese il 17 dicembre 1656 e risultò talmente aggradita ai devoti che in breve tempo «se ne sono cavate innumerabili copie per diverse città e terre della provincia» nelle quali «parimenti con molta pietà e liberalità sono stati al medesimo Santo eretti altari essendo da esse stato eletto per lo protettore».

FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo.
FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo

FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo
FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo

Anche Galatina non fu esente da questo entusiasmo devozionale. Nella chiesa della SS. Annunziata delle clarisse (S. Luigi) infatti, sulla cantoria lignea nel retrospetto, è collocato un quadro di S. Oronzo Vescovo [fig. 3] [fig. 4] copia coeva di quello del Coppola la quale deriva dalle visioni mistiche del misero pritello calabrese d. Domenico Aschinia, in cui il santo è «vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…..un poco rovesciato dalla parte di sopra, sopra del quale ci era una piccola croce…..aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Dà fianchi di costui vi eran due angeli, quasi vestiti con adobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro». Ad pedes, sulla sua sinistra, il profilo di una città: Galatina [fig. 5], rinserrata dentro una imponente cinta muraria entro cui si apre una delle sue tre porte urbiche cinquecentesche [fig. 6], custodita da due coppie di colonne a fusto liscio poggianti su alti plinti e reggenti una robusta trabeazione che pare raccordarsi con ampie volute alle pareti laterali.

FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare della tela di S. Oronzo

 

 

FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare a maggiore ingrandimento della tela di S. Oronzo

Appena oltre le mura si intravede la presenza di alcune chiese con i rispettivi alti campanili, mentre all’esterno «battenti divoti, che squarciano pienamente le loro membra per amor di Oronzio» il quale con la mano protesa verso la città scaccia la «figuretta nervosa della peste volante nello sfondo lontano». Questa rappresentazione iconografica rievoca alla mente quella di qualche anno posteriore, dopo il 1675, del Patrocinio di S. Pietro su Galatina [fig. 7], opera proveniente dalla chiesa dei domenicani ed ora conservata presso l’episcopio idruntino. Qui è S. Pietro il defensor civitatis: la mano sinistra regge il volumen con su le due chiavi legate da un fiocco rosso, mentre lo sguardo è rivolto in basso alla sua destra a seguire la mano protesa a protezione di Galatina da una «figura ignuda di donna che scappa in direzione opposta alla città, con la testa tra le mani a proteggersi dalle sferzate celesti» di un angelo con la spada fiammeggiante; anche questa è la rappresentazione simbolica della peste.

FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro.
FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro

Ma c’è ovviamente molto di più. Il 20 agosto 1662, D. Francesco Andriani, l’anno seguente nominato procuratore del duca Gio. Maria Spinola, «per la devotione, che dice havere, e portare verso d.a Collegiata Chiesa havere più e più volte pregato d.o Rev.do Capitolo, et Clero che li concedessero una Cappella, seu Altare dentro d.a Chiesa con conveniente loco di potere costruire una sepoltura avanti di quella, offerendo per carità di detta concessione docati trenta cinque». Il Reverendo Capitolo e Clero «fece deliberatione, et conchiuse che si dovesse concedere la Cappella ultima à man destra all’entrar di d.a Chiesa dalla porta maggiore, ch’è la Cappella à canto à S.to Gorgonio con facoltà di fare la sepoltura vicino d.a Cappella», il tutto come da atto rogato il 20 febbraio 1663. L’Andriani fece innalzare in quella cappella un altare dedicandolo al glorioso S. Oronzo e dipingere un Martirio del Santo [fig. 8] [fig. 9] che, il 1760, così sono descritti: «viene l’altare di Sant’Oronzo Vescovo di Lecce, e Protettore della Provincia, e nel quadro vi sta dipinto il martirio di detto Santo, e di Giusto e Fortunato, colli carnefici attorno, e molti angioli, quale altare è de jure patronatus della famiglia Andriani, e ai piedi del medesimo vi è la di loro sepoltura, quale tiene molti oblighi di messe, e sotto l’arco maggiore vicino la fonte della Acqua Santa vi è una sepoltura per la comodità del publico».

FIG.8. Galatina. Museo civico
FIG.8. Galatina. Museo civico

FIG.9. Galatina. Museo civico. Martirio S
FIG.9. Galatina. Museo civico. Particolare della tela precedente

 

A quello stesso altare D. Domenico Andriani, suo nipote, che il 1692 aveva comprato il feudo di S. Barbara per settemila ducati, lega, il 1702, un lascito di «docati cento alla Cappella del Glorioso S. Orontio sita nella chiesa Matrice fondata dai miei Antecessori» con l’obligo per i suoi eredi di far celebrare tante messe nella suddetta cappella per quante derivassero dal censo attivo di quei cento docati. Non solo, ma il 1732, testando le sue ultime volontà «nella sua solita casa d’abitazione sita dentro questa terra nel vicinato della SS. Trinità», l’Andriani, tra le altre, scrive: «inoltre raccomando l’Anima mia a Dio, ed alla protezione della Madonna Santissima, del mio Angelo Custode, de’ miei santi divoti; acciò colla loro protezione m’impartisca dal Signore un felice passaggio, e doppo la mia morte, voglio che il mio cadavere si seppellisse nella Chiesa Collegiata di questa Terra, nella sepoltura della Cappella di S. Orontio de’ miei maggiori e trovandomi morire in Andrano, voglio essere seppellito nel Convento de’ PP. Domenicani di quella Terra, senza alcuna pompa funerale».

 

San Luigi 013

 

San Luigi 012
particolare della tela precedente

 

Pubblicato su Il filo di Aracne.

 

 

8 dicembre. Sine macula. Una tela dell’Immacolata Concezione a Squinzano

 

di Valentina Antonucci

La chiesa dell’Annunziata di Squinzano è uno dei più straordinari ambienti ecclesiali seicenteschi conservatisi integri, anche per quanto riguarda  la decorazione pittorica, nella diocesi di Lecce. Entrando nella grande chiesa squinzanese ci si sente immediatamente trasportati nel cuore del XVII secolo: la suggestione è emozionante. Il visitatore si trova infatti immerso in un ambiente riccamente decorato, con quasi tutte le tele originali ancora al loro posto: tele dalle dimensioni impressionanti, che misurano poco meno di quattro metri d’altezza per due e mezzo di larghezza! L’abside è occupato da un maestoso altare ligneo ornato da piccole pitture tra cui, al centro, quella della Madonna col Bambino. Tutta la chiesa è un inno al culto mariano: a Maria Vergine è infatti interamente dedicato il programma iconografico.

Lo stato di conservazione dei dipinti è precario, per alcuni di essi è pessimo, e tutto il complesso versa purtroppo  in un grave stato di abbandono. Alla mancata valorizzazione si tentò anni or sono di porre rimedio con l’organizzazione di una bella mostra documentaria, a cura del dott. Salvatore Polito. Dagli studi allora realizzati, pubblicati sul materiale illustrativo dell’allestimento (non altrove, per quel che io sia riuscita a sapere) si possono trarre molte e puntuali informazioni sullo stato di conservazione, sui dettagli della tecnica pittorica dei dipinti e sull’iconografia.

La storia della chiesa dell’Annunziata di Squinzano attende dunque ancora di essere ricostruita e scritta nei suoi particolari, che comprendono anche le notizie relative allo straordinario evento religioso e culturale che fu la sua stessa fondazione da parte della devota Maria Manca nonché alla venerazione che intorno a questa figura e al santuario da lei fondato si sviluppò nel tempo. Quel vero e proprio repertorio di pittura salentina che in essa è fortunatamente conservato attende per parte sua di essere recuperato con gli opportuni interventi di restauro, rivalutato, studiato e reso finalmente fruibile al pubblico.

Entro la metà del secolo l’Annunziata di Squinzano, grazie al finanziamento e alle cure di Maria Manca, era completata , ma già dagli anni ’30 del secolo probabilmente erano all’opera i pittori che avrebbero dovuto realizzare le vaste superfici pittoriche previste.

Non vi è alcuna coerenza stilistica e linguistica tra le diverse tele: si deve perciò supporre che siano state eseguite in modo indipendente l’una dall’altra e non dalla medesima bottega. Tuttavia si scorgono in esse legami con artisti attivi in ambito francescano: la Visitazione, dalla bizzarra ambientazione architettonica di sapore rinascimentale, sembra infatti legata ai modi espressivi di fra’ Giacomo da San Vito, mentre la Circoncisione di Gesù, nonostante la pesante ridipintura che la copre, è attribuibile all’anonimo maestro della Presentazione al Tempio di S. Maria degli Angeli a Lecce, la quale d’altra parte è iconograficamente legata al grande telone dal medesimo tema presente proprio nell’Annunziata.

Altre tele sembrano invece degli unica di artisti che lavorarono in modo sporadico in diocesi di Lecce, senza essere legati al contesto produttivo locale. Lo stile fresco ed espressivo della Natività della Vergine ad esempio non trova riscontri in altre opere della diocesi, così come il linguaggio carnoso e vigoroso della bella Immacolata Concezione, per la quale non sembrano esservi analoghi, se non altro sul piano della qualità.

E’ proprio su quest’ultimo dipinto che voglio soffermarmi in questa sede, per metterne in rilievo alcuni aspetti iconografici e alcune caratteristiche di stile che gli conferiscono, a mio giudizio, un fascino tutto particolare. Si tratta di una versione particolarmente bella e grandiosa di uno schema iconografico piuttosto diffuso nella diocesi e, più in generale, nel Salento: Maria è in piedi su una falce di luna sorretta da due angioletti che, specularmente, reggono in mano rami di due piante simboliche, le rose bianche e l’ulivo, entrambe riferibili alla Vergine;  ai suoi lati due ordinate, ascendenti schiere di Angeli sorreggono i simboli delle litanie lauretane; al di sopra, all’interno della centina, il Padreterno appare tra le nubi a benedire la propria creatura perfetta, sine macula, sul cui capo volteggia la colomba dello Spirito Santo. Una regale corona è posata sui capelli biondi, mentre un alone di luce dorata l’avvolge tutta. Sono elementi comuni nell’iconografia dell’Immacolata del XVII secolo, ma si osservi come qui vengano tradotti in modo inconsuetamente grandioso e attraente: gli Angeli che sorreggono da un lato la gigantesca Turris e dall’altro il modellino in grande scala del Templum si affacciano al proscenio paffuti e dolcemente sorridenti, avvolti da vesti riccamente panneggiate, dialogando tra loro con gli sguardi e con i gesti, conquistando l’ammirazione dello spettatore e suggerendogli al tempo stesso le proporzioni, le distanze e le profondità in cui si scalano gli altri personaggi, fino ai remoti Angeli musici assisi nella corte celeste. Maria riempie tutto lo spazio aurato con il suo amplissimo mantello azzurro, con le braccia che si muovono in eloquente gesto di intercessione, con i bei capelli soffici sparsi sulle spalle.

L’ambiguità iconografica con il tema dell’Ascensione e Incoronazione della Vergine è frequente nelle rappresentazioni seicentesche del controverso dogma immacolista, approvato ufficialmente dalla Chiesa soltanto nel XIX secolo (ma caldamente patrocinato già ai tempi del nostro dipinto dalla corona di Spagna e dall’Ordine francescano): la tela squinzanese non fa eccezione, richiamando anch’essa l’idea che Maria stia appunto ascendendo al Cielo, incoronata e trionfante.

Facendo poi scorrere lo sguardo verso il basso e osservando ciò che si trova sul “proscenio” del dipinto, troveremo ancora elementi caratteristici e degni d’attenzione. Il Serpente, nemico veterotestamentario della nuova Eva, appare qui raffigurato come una creatura dalle fattezze diabolicamente antropomorfe, contorte in una smorfia di rabbia e terrore cui non è difficile dare spiegazione, poiché la punta d’acciaio di una lancia, la cui asta è però invisibile incombe su di lui come se fosse spinta da una forza soprannaturale, è già quasi conficcata nel suo cranio. Si tratta di una soluzione bizzarra e inedita per raffigurare la sconfitta del demonio ad opera della Vergine Madre di Dio.

Ai due lati, in basso, secondo uno paradigma iconografico che si diffonde nel XVII secolo, sono raffigurati due santi in adorazione della Vergine, come se fossero comuni devoti ritratti nell’atto di preghiera e contemplazione: si tratta di uno straordinario stratagemma comunicativo che consente allo spettatore di sentirsi “sullo stesso piano” del santo che, come lui, rivolge il proprio sguardo alla Vergine Immacolata, l’icona cui si tributa venerazione.

A sinistra è raffigurato un giovane e commovente sant’Antonio da Padova con il suo ramo di giglio, la tonsura, il saio francescano: si osservi la cura con cui il pittore si è soffermato a rendere l’incarnato del volto delicato e roseo, le mani tornite e paffute, gli occhi quasi rovesciati in estasi, le labbra leggermente dischiuse in una preghiera che, nel silenzio assorto della chiesa, sembra quasi di udirgli mormorare.

A destra invece il pittore, certamente su richiesta del committente, ha giustapposto la vigorosa vecchiaia di un canuto san Nicola, rigorosamente bardato di abiti vescovili ma, nelle fattezze, già ad un passo dall’assumere l’aspetto che, qualche secolo dopo, trionferà sui manifesti pubblicitari della Coca Cola. In questa figura l’anonimo artista salentino sembra aver speso il meglio della sua capacità di tornire e cesellare l’immagine nei dettagli più corposi e realistici, dai peli della barba ai riflessi della luce sulla pelle lucida del volto del vecchio, dalle minuscole perle che ornano la sua mitria agli intagli che arricchiscono il suo pastorale.

 

Bibliografia: P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, pp. 239 ss.

6 dicembre. San Nicola. Tre affreschi del santo di Myra nella cattedrale di Nardò

Cattedrale di Nardò, particolare di uno degli affreschi ritraenti san Nicola

di Marcello Gaballo

Tra le sorprese che la cattedrale di Nardò riserva possono senz’altro comprendersi i numerosi affreschi, per lo più quattrocenteschi, alloggiati sulle semicolonne e sulle facce dei due ordini di pilastri a base rettangolare della navata centrale, oltre che sulle pareti laterali delle due navate.

Tutti di buon livello qualitativo, qualcuno anche ottimo, sono stati descritti in più riprese dal De Giorgi, dalla Gelao e da Micali. In occasione dell’Anno Santo Giubilare del 2000, in una pubblicazione su Cesare Maccari e sui dipinti della cattedrale neritina, ebbi modo di trattarne anche io, integrando con ricerche archivistiche e notizie inedite desunte da protocolli notarili.

Da quel lavoro estrapolo gli affreschi che ritraggono il santo di Myra, ben tre, riproponendoli in occasione della festività che ricordiamo oggi in questo spazio.

Cominciamo dal primo, che si osserva sul secondo pilastro della navata sinistra (per chi entra), presumibilmente della fine del XIV secolo-inizi XV. E’ allocato sul lato settentrionale e lo ridenominai San Nicola tra Gesù e la Vergine. Ridipinto a tempera dopo la metà del XV secolo, il santo appare benedicente more graecorum, secondo lo schema bizantino. Ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, felonion rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. Appeso alla vita si intravede parte del fazzoletto (epigonation). In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge al santo il Vangelo.

Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici; nel terzo inferiore sono graffite diverse iscrizioni greche ed ebraiche. Inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’ azzurro dello sfondo. Misura m. 2,48×0,80 e lo stato di conservazione è discreto.

Sul terzo pilastro, sempre della navata sinistra, è ritratto ancora un San Nicola, anche questo, come il precedente, della fine del secolo XIII, ridipinto a tempera nel secolo successivo.

La pittura è la meglio conservata rispetto alle altre del medesimo pilastro. Ritrae il santo frontalmente, a figura intera, inquadrato in un arco trilobato, in piedi sullo sfondo azzurro, con camice bianco e piviale (felonion)[1] rosso, stola (omoforion) nerocrociata, guanti bianchi, con la mano sinistra impugnante il pastorale. La testa è circondata da un’aureola raggiata gialla, mentre nella parte superiore, all’altezza della spalla, si legge il nome del Santo (NICOLAUS) e si ripete uno stemma nobiliare, rovinato in più punti e con parte degli smalti originari mutati nelle ridipinture[2].

Anticamente dotata di altare proprio, la cappella era sub titulo di S. Nicola il dipinto era alloggiato sempre nella navata sinistra, ma in luogo diverso dall’attuale.

Poco distante, in corrispondenza della base del campanile, vi è il trittico, recentemente restaurato, con S. Maria Maddalena orante, la Beata Vergine col Bambino e un terzo affresco con S. Nicola. Quest’ ultimo, in posizione frontale assisa, su sfondo scuro, benedicente alla greca, è vestito con camice bianco e solito felonion rosso, omoforion e guanti bianchi, sostenente con la mano sinistra un libro, poggiato sul ginocchio sinistro, su cui si legge Ecce sa/ cerdos/ magnus/ qui in di/ ebus su/ is placuit/ Deo et/ inventus.

Il volto è incorniciato dai capelli bianchi e dalla barba corta a riccioli. L’ affresco, di m. 2×0,80, è incorniciato da una banda gialla dipinta e mostra diverse scrostature, graffiti ed incisioni.

Finalmente riemerge il dipinto del Solimena nella cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Occorre tornare sulla determinazione del già citato don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, che continua a recuperare le memorie artistiche dell’Ecclesia Mater neritina, magari sollecitato dall’appuntamento del 2013, atteso evento che celebrerà i 600 anni del massimo tempio religioso cittadino[1].

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Questa volta si è restituito all’ antico splendore un dipinto raffigurante un san Bernardino da Siena[2] sul pulpito della basilica, quasi rispondendo all’appello lanciato da Milena Loiacono in un suo saggio di qualche anno fa: Un’opera da salvare: il San Bernardino da Siena attribuito a Francesco Solimena[3]. L’Autrice sottolineava “il pessimo stato di conservazione” e “al fine di arrestarne il lento ed inevitabile degrado, sarebbe auspicabile un intervento di restauro che consentisse di giungere anche ad una più approfondita conoscenza dei materiali e quindi ad una più corretta lettura del manufatto”.

Il dipinto di nostro interesse, distinto dall’altro affrescato nel 1478 sulla parete della navata sinistra e del quale si è già trattato[4],  è ubicato sul dossale del solenne pulpito, addossato al quinto pilastro della navata centrale, in cornu evangelii.

Il pulpito della cattedrale di Nardò

La presenza in questo luogo, un tempo deputato alle predicazioni più che alla proclamazione della Parola di Dio tenuta dall’ambone[5], fu scelta dal vescovo Antonio Sanfelice[6], per tramandare ai posteri, ancora una volta, che in  questo sacro tempio predicò il santo senese (*Massa Marittima, 8 settembre 1350 – +L’Aquila, 20 maggio 1444). Celebre per la straordinaria capacità oratoria e le ferventi prediche tenute in moltissime città italiane, tanto da essere ancora considerato il più illustre predicatore italiano del secolo XV, il frate Minore avrebbe predicato nella cattedrale di Nardò nel 1433, probabilmente chiamato dal vescovo dell’epoca, suo confratello, monsignor Giovanni  Barella o Barlà, in carica dal 1423 al 1435.

La tribuna, il dossale e il baldacchino del pulpito della cattedrale di Nardò

Prima di accennare al capolavoro riemerso, forse è utile qualche cenno sul pulpito che lo ospita. Poggia questo su  quattro colonne marmoree policrome, delle quali le anteriori a base circolare e le posteriori, addossate al muro, a base rettangolare. Particolarmente elaborata la tribuna, sempre in marmo policromo, con i due stemmi angolari del vescovo Sanfelice e il monogramma bernardiniano nella parte centrale, tutti e tre altorilevati. A sinistra di chi guarda una porticina d’accesso lignea, inserita nell’interruzione della tribuna,  mette in comunicazione il ridotto spazio della stessa con la scala in ferro che consente di salirvi; un elemento decorativo, anche questo ligneo, riprende il controlaterale in marmo. Il dossale su cui è posto il nostro lavoro sorregge il baldacchino, sul cui soffitto è dipinto lo Spirito Santo, sotto forma di splendida colomba ad ali spiegate al centro di una raggiera.

La scala in ferro che conduce al pulpito. In primo piano particolare del marmoreo portacereo pasquale, coevo con il pulpito
particolare con le colonne e lo stemma del vescovo Sanfelice, sempre in marmi policromi, che si ripete ai due angoli della tribuna
particolare della tribuna e spessore murario (di colore bianco) sopravvissuto nei restauri di fine Ottocento, quando di svestì la cattedrale delle opere architettoniche realizzate da Ferdinando Sanfelice
base della tribuna
porticina lignea che separa la tribuna dalla scala

L’eccezionalità dell’evento, ritenendo da più parti quella neritina come l’unica tappa del santo nella nostra regione, fu giustamente rimarcata dall’instancabile Sanfelice, che commissionò il lavoro ad uno dei più grandi artisti napoletani a lui coevi, il celeberrimo Solimena, che lo eseguì con pittura ad olio su marmo.

Un’epigrafe immortalava l’opera e l’autore: S. Bernardinus Senensis/ qui suis concionibus/ illustriorem reddidit/ basilicam hanc/ ad uiuum expressus[7]/ a celeberrimo Solimena/ Anno D(omi)ni MDCCXXXIV.

l’epigrafe sanfeliciana posta sotto il dipinto

 

lo Spirito Santo sotto forma di colomba dipinto sulla volta del baldacchino

Marina Falla Castelfranchi[8], pur non avendo potuto visionare il dipinto per il pessimo stato in cui versava, lo ha attribuito alla maturità di Francesco Solimena. Dell’artista, ben noto al vescovo e a suo fratello Ferdinando, si conservano a Nardò almeno altre due opere: la Madonna in gloria tra i Santi Pietro e Paolo (cappella privata del vescovo) e San Michele Arcangelo, sull’altare omonimo in Cattedrale, di cui si legge la paternità in una delle visite pastorali[9].

S. Bernardino da Siena (1734) di Francesco Solimena nella cattedrale di Nardò

La perizia dell’operatore Valerio Giorgino ha restituito un’opera molto interessante, che certamente sarà esaminata e descritta dagli studiosi del Solimena. Il santo, vestito di un abbondante saio minoritico e stretto in cintura dal cingolo, è raffigurato per tre quarti. Con l’indice della mano destra mostra l’oggetto, forse ligneo, che è tenuto dalla sinistra; sul fusto si innesta una cartella ottagonale su cui è inciso il trigramma IHS[10], con la croce innestata sull’asta trasversale della H e con i tre chiodi della Passione alla base delle lettere. Se nell’affresco neritino di cui si è già fatto cenno il santo viene raffigurato in età avanzata, qui invece ha una età media, con il capo leggermente volto a destra e lo sguardo verso il riguardante, quasi ad invitarlo alla contemplazione del simbolo da lui stesso ideato.

Ci auguriamo che l’azione di recupero e di restauro continui per le tante altre ricchezze di cui può gloriarsi la cattedrale neritina, così che si presenti all’appuntamento, ormai prossimo, nella sua migliore forma.


[2] Sul san Bernardino da Siena affrescato a Nardò si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.

[3] In “Kronos”, n°4 (2003), pp. 145-146, Congedo Editore.

[5] Furono le Instructiones fabricae del cardinale Borromeo a stabilire che il pulpito dovesse trovarsi in tutte le chiese, a circa metà della navata, sopraelevato rispetto all’assemblea, così che il predicatore potesse essere visto e udito da tutti.

[6] Napoletano, XXIV vescovo della diocesi, in carica dal 2/11/1707 sino al 1/1/1736, data della sua morte. Sull’attività del presule si veda anche https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/

[7] Da leggersi ad vivum expressus = rappresentato realisticamente, al naturale. Ringrazio Armando Polito per la corretta interpretazione.

[8] M. Falla Castelfranchi, Monumenti di Nardò dal XIII al XVIII secolo, in Città e Monastero. I segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), a cura di Benedetto Vetere, Galatina 1986, p. 253. Del dipinto ne aveva già scritto M. D’Elia in due suoi lavori: Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, Roma 1964, p. 185; La Pittura Barocca, in La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 279.

[9] La tela è in restauro e si spera che questo confermi l’attribuzione.

[10] IHS, le prime tre del nome greco di Gesù, oppure forma abbreviata di “Iesus Hominum Salvator”. Il simbolo, più tardi adottato anche dai Gesuiti, conteneva la devozione al Nome di Gesù. Venne rappresentato in moltissimi luoghi religiosi e civili, pubblici e privati, e risulta che esso campeggiasse sulle antiche porte della città di Nardò. Risalta anche sulla tribuna del nostro pulpito, inserita nel sole raggiante.

La Madonna del Rosario di Alliste opera giovanile di Giovanni Andrea Coppola

Fig. 1 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario. Alliste, Chiesa di San Giuseppe

di Emanuele Arnesano
Le vicende della Madonna del Rosario, grande tela del pittore gallipolino Giovanni Andrea  Coppola, sono strettamente legate a quelle della chiesa di San Giuseppe, ad Alliste, in cui essa da sempre è custodita. La ricca documentazione storica, che la riguarda e cui si fa riferimento nel presente lavoro, è costituita soprattutto dalle relazioni sulle Visite Pastorali che si susseguirono in Alliste nell’arco di un secolo, dal 1618  al 1719, conservate nell’Archivio Vescovile di Nardò e puntualmente citate da Antonio Pizzurro in un suo interessante lavoro[1]. Lo studioso ci informa che nel 1618 al vescovo De Franchis la chiesa, che allora era denominata chiesa di S. Salvatore, sembrò piccola e vecchia. Il presule perciò invitò le autorità comunali del tempo a migliorarne le condizioni attraverso lavori di manutenzione straordinaria. Quando il vescovo ritornò per una seconda visita nel 1620 notò che in due anni nulla era stato fatto e questa volta ordinò che la chiesa venisse addirittura ricostruita.

Fig. 2 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (ritratto del committente). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

I lavori di ampliamento e ristrutturazione iniziarono quasi subito ma, a causa dei costi e soprattutto delle tristi condizioni economiche in cui versava l’Università di Alliste, si protrassero per tutto il secolo XVII. Comunque già nel 1659, durante la sua visita pastorale, monsignor Girolamo De Coris accennò brevemente, oltre che all’altare maggiore, anche all’altare e alla  tela del Santissimo Rosario, la cui costruzione era stata autorizzata dal papa Urbano VIII con bolla del 15 gennaio 1636. L’altare venne nuovamente lodato nella successiva visita pastorale da monsignor Orazio Fortunato il 24 maggio 1678.

Finalmente l’8 gennaio 1698 lo stesso vescovo Fortunato poté visitare la nuova chiesa ormai del tutto ricostruita e i suoi cinque nuovi altari. Nel 1719 il vescovo Antonio Sanfelice – che intanto nel 1717 aveva elevato la chiesa parrocchiale a Collegiata ad instar – nella visita pastorale (29 aprile-1 maggio), «visitavit altare S.mi Rosarij et laudavit».

L’opera, un olio su tela di notevoli dimensioni (cm. 385 x 250), non è firmata e riporta le seguenti iscrizioni: sullo stemma in basso a sinistra, «SPES MEA IN DEO EST» e, accanto al ritratto del committente (ripetuta sul bordo esterno dell’ovale), «EX VOTO DIDACI DE TOMASO».

Il dipinto (fig. 1), già segnalato dal De Giorgi nel 1888[2] e attribuito a Giovanni Andrea Coppola, è stato pubblicato dal Galante nel 1993[3], dopo più di un secolo durante il quale incuria e dimenticanza ne avevano compromesso gravemente lo stato di conservazione. Il Galante, nel confermarne l’attribuzione a Giovanni Andrea Coppola, ha proposto quale data di esecuzione il 1655, ponendola negli ultimi anni di attività del pittore gallipolino, morto nel 1659[4].

Fig. 3 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Viaggio al Calvario). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Un recente restauro, eseguito nel Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, ha riportato il dipinto alla bellezza originaria, testimoniata da alcune foto, eseguite da chi scrive, a corredo del presente lavoro. 

Il problema della tela della Madonna del Rosario oggi riguarda principalmente la datazione, che andrebbe notevolmente anticipata rispetto al 1655 e collocata tra il 1638 e il 1640. Più che alla maturità, apparterrebbe a quella che possiamo definire la fase giovanile dell’attività artistica del Coppola, che comprende gli anni che seguirono il suo rientro in patria, avvenuto nel 1637, e precede la realizzazione delle grandi tele della Cattedrale di Gallipoli. A sostegno della nuova proposta di datazione interviene la storia stessa della committenza. Antonio Pizzurro ci informa infatti che il conte Diego De Tommasi (1609 – ?), ottenuta l’autorizzazione con bolla del papa Urbano VIII del 15 gennaio 1636, fece costruire nella Chiesa Matrice di Alliste un altare sormontato dalla grande tela della Madonna del Rosario, dove in basso a destra fece dipingere la propria immagine e a sinistra lo stemma della nobile famiglia De Tommasi. Se l’autorizzazione papale alla costruzione dell’altare è del 1636, appare strano che il De Tommasi abbia commissionato il quadro votivo circa vent’anni dopo. D’altro canto la tela è un tutt’uno con la spessa e artistica cornice aggettante, che la contiene, ed è parte integrante della mensa dell’altare, che dal punto di vista artistico non presenta particolari degni di nota; non si spiegherebbe pertanto la presenza per circa vent’anni di un altare costituito solo da una mensa priva di elementi decorativi. Il committente, inoltre, raffigurato dal pittore nell’angolo in basso a destra (fig. 2), appare piuttosto giovane, di una trentina d’anni (era nato nel 1609) più che un cinquantenne.

Fig. 4 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Flagellazione). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

A confortare la proposta di nuova datazione della tela intervengono comunque vari elementi stilistici. Anzitutto vi è da osservare che, come le storiette della Vergine delle Grazie e dei Santi Giovanni Battista e Andrea della Cattedrale di Gallipoli, i quindici tondi dei Misteri del Rosario (fig. 1) sono stati dipinti con massima cura da Giovanni Andrea Coppola, che, nonostante il piccolo formato, ha costruito i singoli episodi con grande armonia ed equilibrio. La misura ridotta comunque non ne compromette la fruibilità, al punto che per questa tela si può parlare di sedici scene: i 15 tondi e il grande ovale interno.

La parte centrale della tela richiama la Pentecoste di Coppola del 1636 che si conserva in San Romano a Lucca, in particolare per l’impostazione simmetrica della scena che vede la Vergine posta al centro. Nei personaggi ai lati della Vergine nella Madonna del Rosario tornano gli apostoli della Pentecoste, con lo sguardo rivolto verso l’alto: in particolare la figura del pontefice Pio V con la tiara rimanda direttamente all’apostolo a sinistra della Pentecoste, con la testa rivolta totalmente all’indietro. La disposizione dei personaggi, quasi sullo stesso piano rispetto alla Madonna col Bambino e l’impostazione generale della scena, più che ai dipinti della tarda attività, nei quali l’evento religioso si svolge su due piani ben distinti, l’umano e il divino, in una marcata verticalità, si accosta alle opere giovanili, caratterizzate da una costruzione dello spazio, equilibrata e ben impostata, che mette in risalto l’incontro ravvicinato tra l’umano e il divino. Mentre nelle grandi pale della Cattedrale di Gallipoli lo sfondo si apre, permettendo di intravedere il paesaggio e rendendo la scena più ariosa e con un’impostazione scenografica ricca di personaggi che si affacciano da entrambi i lati, in un movimento spesso frenetico, nella Madonna del Rosario le figure emergono dal fondo scuro illuminate dalla luce proveniente da sinistra, che rende i particolari della pelle e disegna i gonfi manti: evidenti le reminiscenze caravaggesche nella resa della fronte rugosa del pontefice o del profilo immerso nell’ombra del san Domenico. La resa luministica ricorda i chiaroscuri delle opere toscane e tutto appare essenziale, rasserenante. Come nella Pentecoste di Lucca infatti le figure, quasi estatiche e comprese del mistero, appaiono composte ed assorte e l’atmosfera è intima e quasi confidenziale, espressa dal dolcissimo sorriso della Vergine a santa Caterina; il Bambino a cavalcioni in braccio alla Madre, mentre accarezza san Domenico, ricorda quello che si china verso il vecchio re nell’Adorazione dei Magi degli Uffizi. La Natività di Maria e la Nascita del Battista delle Storiette di Gallipoli e le altre opere realizzate dal Coppola nella seconda  metà degli anni trenta del Seicento tra Toscana e Salento, esprimono tutte appieno il senso di genuina serenità e il pathos, con cui l’artista carica questi episodi di storia sacra, derivante anche dalla profonda assimilazione del classicismo bolognese di Annibale Carracci e Guido Reni. Non è casuale poi, quando ammiriamo la piccola Crocifissione di Alliste, il contatto con le serie dei misteri del Rosario proposte da Pietro Ricchi, il Lucchese, allievo del Reni.

Fig. 5 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (rose alternate agli ovali dei misteri). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Non secondario appare  l’accostamento della tela di Alliste ad alcune sacre conversazioni dello stesso soggetto, presenti soprattutto in Toscana e così diffuse nel  Cinquecento: basti citare quelle di Raffaello, Lorenzo Lotto, Federico Zuccari e poi di Fra’ Bartolomeo, le cui opere il Coppola ebbe modo di conoscere a Lucca, a conferma ancora una volta della formazione toscana del pittore gallipolino. Possiamo trovare vari elementi caratteristici di queste pale d’altare come gli angeli reggidrappo e il baldacchino, l’architettura, che inquadra la Vergine attorniata dai Santi, i committenti in abiti contemporanei e la stessa formula piramidale della Vergine e del Bambino rivolti agli astanti. La presenza del cagnolino sul gradino poi, elemento non estraneo ad altre opere del Coppola, ricorda alcuni dipinti di Jacopo da Empoli, cui il gallipolino è vicino in altre opere, e conferisce alla scena un aspetto più realistico. Il dipinto del Rosario è lontano dalle citazioni letterali, desunte dai grandi artisti studiati tra Napoli, Roma e Firenze, che vediamo in gran numero nelle grandi tele delle Cattedrale di Gallipoli, segno che il Coppola di Alliste è in una fase di formazione e di continua formulazione, che, alla fine del quarto decennio del Seicento, lo porta ad essere ancora libero di esprimersi per poter arrivare al punto di equilibrio della sua produzione artistica.

Sono soprattutto le undici Storiette della Vergine e dei santi Giovanni Battista e Andrea, che il Coppola dipinse intorno alla pala della Vergine delle Grazie di Domenico Catalano tra il 1637 e il 1640, ( subito dopo il rientro in patria dalla Toscana) ad essere le più affini ai Misteri del Rosario: vivacità descrittiva e narrativa, freschezza del disegno e sintesi del tratto e ancora  gli inconfondibili colori del Coppola, le figure allungate, specialmente nei personaggi nudi, viste nello Studiolo di Francesco I a Firenze, le fugaci lumeggiature nelle armature dei soldati sono alcuni elementi che caratterizzano l’arte del giovane Coppola. L’accurata definizione anatomica, il movimento e la drammaticità delle scene spiegano il naturalismo presente nel dipinto, che non fu mai estraneo alle opere del pittore gallipolino. Ma anche il tardo-manierismo fiorentino e il classicismo emiliano  sono molto evidenti e predominano nettamente sugli elementi barocchi dell’ultimo Coppola, quello che si manifesterà più chiaramente dopo il  secondo viaggio a Napoli del 1640-41. Basti citare il morbido panno tra le mani della Veronica nel Viaggio al Calvario (fig. 3), così vicino a quello dei quadretti degli Uffizi, dipinti prima del rientro in patria nel ‘37, o la Flagellazione di Gesù (fig. 4) che riprende l’impostazione scenica della Flagellazione di San Matteo nelle Storiette. Altra annotazione meritano le rose che a mazzetti di cinque (fig. 5) si alternano ai tondi dei Misteri e che sembrano richiamare quelle dipinte, insieme ai tondi degli stessi misteri del Rosario, dal toscano Giovanni Martinelli intorno a una Madonna con Bambino di Jacopo del Casentino, conservata nella chiesa di Santo Stefano a Pozzolatico (Firenze), per l’impostazione, il naturalismo e il luminismo, cui il Martinelli e Giovanni Andrea Coppola restarono sempre fedeli. Nelle piccole pitture dei Misteri, negli angeli che sorreggono il dipinto e nelle rose che a mazzetti si alternano ai medaglioni emerge la profonda qualità della tecnica pittorica del Coppola pittore più che il valore cultuale e devozionistico dell’immagine sacra. Tutta l’opera comunque risulta ben impostata ed armoniosamente realizzata da un pittore, Giovanni Andrea Coppola, che appare, anche nelle opere meno conosciute, uno dei massimi rappresentanti dell’arte della prima metà del XVII secolo in Puglia, e non solo.

Foto di Emanuele Arnesano.

pubblicato su Spicilegia Sallenina n°3


[1] A. PIZZURRO,  Alliste. Frammenti di storia locale, Taviano 1988, 310-320.

[2] C. DE GIORGI, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882-1888, II, 251: «Nella parrocchiale vi è un quadro della Vergine del Rosario che si vuole del Coppola, fatto per voto di Diego de Tommaso ed un altro mediocrissimo di Nicolò Romano del 1608 (sic)».

[3] L. GALANTE, Pittura in Terra d’Otranto (secc.XVI-XIX), Galatina 1993.

[4] L. GALANTE, La pittura, in Il Barocco a Lecce e nel Salento, Catalogo della mostra a c. di A. Cassiano, Roma 1995, 65: «con l’attribuzione alla stesso pittore e con la proposta di datazione, anche per riferimenti documentari indiretti, intorno al 1655. Di sicuro interesse è la soluzione iconografica, che riprende il modello dell’immagine di devozione dipinta, trasportata o sorretta dagli angeli, e offerta alla devozione o alla preghiera del donatore o committente, un modello affermatosi agli inizi del ‘600, lo si trova, infatti in Rubens. Il tema del Rosario, inoltre, non più esemplato sulle stereotipe formulazioni tardo-cinquecentesche, sembra qui calato nel clima di una recuperata naturalezza, quale è ravvisabile anche in alcune tele della Cattedrale di Gallipoli, pur essendo evidenti le mai abbandonate propensioni classiciste leggibili nell’impianto complessivo». Cfr. anche ID., Aggiunte a Giuseppe Verrio e Giovanni Andrea Coppola e qualche precisazione sugli esordi di Antonio Verrio, in Studi in onore di Michele D’Elia, a c. di Clara Gelao, Spoleto 1996.

La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Baylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale

Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte (seconda parte)

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento (seconda e ultima parte)

di Daniela De Lorenzis

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Venere e Cupido), (foto A. Bonzani)

… Cultura, tenore di vita e intento autocelebrativo dei nuovi insediati si evincono dalla lettura degli affreschi che ornano le volte del palazzo, ma soprattutto da quelli presenti nel salone ubicato nell’“Appartamento antico”.

In questo ambiente, «la lamia gaveda dipinta a fresco»[i] esibisce una complessa impalcatura iconografica, interessante non tanto per la resa pittorica piuttosto modesta (fatta eccezione per gli stemmi che presentano una fattura meno approssimativa)[ii], quanto per i significati che sottende: è evidente, da una parte, l’intento di celebrare la lucida politica matrimoniale dei d’Amore – volta a evitare l’estinzione del casato, ma anche un eccessivo frazionamento dei beni patrimoniali – dall’altra di rendere in chiave mitica un tributo alla virtus della stirpe, o di singoli membri, quali dispensatori di benessere e prosperità per il feudo.

Al centro della volta campeggiano le figure di Mercurio, Venere, Cupido e, probabilmente, Giove[iii], fra loro collegate dallo svolazzo di un lungo e sinuoso drappo rosso, simbolo della natura passionale dell’Amore.

Il leit-motiv che informa le decorazioni pittoriche sembrerebbe essere dunque il tema amoroso con evidente allusione al cognome d’Amore, ma anche alle vicende familiari dei marchesi[iv]: negli stessi anni in cui sono realizzati gli affreschi, infatti, Francesco e Nicola d’Amore impalmano rispettivamente Anna Maria Basurto e Camilla d’Amore, ossia la vedova e la figlia del defunto marchese Giuseppe d’Amore, erede del maggiorato.

Gli affreschi del salone celebrano dunque queste doppie nozze, avvenute tra il 1695 e il 1697, ma i cui capitoli matrimoniali erano stati stipulati già nel 1691.

Non è un caso, del resto, che i due stemmi della famiglia al centro della volta sono posti in asse con le raffigurazioni mitologiche che sono per eccellenza l’esaltazione dell’amore, proponendo in successione le figure di Venere e Cupido, del primo stemma dei d’Amore sul quale Venere depone una corona, del secondo stemma dei d’Amore sul quale Cupido depone un’altra corona e, infine, di Venere e Adone.

La sequenza autorizza pertanto a ritenere che ci si trovi di fronte a una sorta di sciarada estetica non solo allusiva al cognome della famiglia, ma volta

Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento

 

di Daniela De Lorenzis 

Ugento, palazzo d’Amore, affreschi sulla volta del salone (1694-95), (foto A. Bonzani)

Nell’ambito del processo di trasformazione che nel Salento, dal XVI al XVIII secolo, porta alla riconversione di molte strutture fortificate in palazzi gentilizi[i], il salone è indubbiamente uno degli elementi che sancisce con maggiore incisività questo passaggio[ii].

Ubicato sempre al piano nobile, è il luogo deputato per antonomasia a scopi celebrativi e di rappresentanza. In esso il proprietario «orchestra ed elabora la scenografia della grandezza familiare»[iii], facendo sfoggio nel contempo della propria cultura ed erudizione. è quanto emerge dall’analisi delle decorazioni pittoriche presenti in molte residenze aristocratiche del Salento, non ultime quelle che ornano le volte del castello di Ugento[iv].

Acquistato da Pietro Giacomo d’Amore[v] – insieme al feudo – il 31 gennaio 1643, il fortilizio sorge in cima all’acropoli ponendosi a caput del recinto murario sul versante nord-orientale[vi]. Da questo lato il “Marchesale Palaggio” domina sul sottostante pianoro dove si adagia il Borgo, così come illustrato nella veduta dell’abitato realizzata sul finire del Seicento da Cassiano De Silva e pubblicata il 1703 dall’abate Pacichelli[vii].

La trasformazione più radicale del maniero – oggetto di numerosi interventi di restauro nel corso dei secoli – si colloca tra la fine del Seicento e l’ultimo quarto del secolo successivo quando, con l’insediamento dei d’Amore, sono ridimensionate le caratteristiche difensive dell’immobile che, soprattutto all’interno, assume l’aspetto di un palazzo gentilizio.

Pur risiedendo saltuariamente a Ugento, i marchesi si prodigano non poco per rendere fastosa questa residenza, adeguando l’antica struttura militare alle proprie esigenze e ampliando le fabbriche preesistenti con ambienti dotati di moderna funzionalità e con nuovi spazi di rappresentanza, opportunamente decorati da cicli pittorici di soggetto mitologico.

Promotori degli interventi tardo-seicenteschi sono verosimilmente i fratelli Nicola e Francesco d’Amore. A farlo presumere sono alcune considerazioni che si potrebbero fare in merito alla politica successoria della famiglia. Infatti, a seguito della morte senza eredi maschi di Giuseppe d’Amore (figlio di Carlo, che il 23 dicembre 1649 aveva elevato la contea al rango di marchesato), il cugino Nicola eredita il feudo di Ugento nel 1691, insieme al maggiorato istituito dal capostipite Pietro Giacomo, il quale – per disposizione testamentaria – aveva stabilito che alla morte senza eredi della linea primogenita maschile del figlio Carlo sarebbe dovuta subentrare la primogenitura maschile del figlio secondogenito Giovan Battista.

Francesco d’Amore, invece, succede allo zio Carlo Brancaccio nel possesso dei feudi di Ruffano, Torrepaduli e Cardigliano, sul primo dei quali consegue il titolo di principe con diploma del 14 novembre 1695[viii].

Questi, inoltre, ottiene la delega di assumere il governatorato di Ugento dal

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

La nostra amica e collaboratrice Valentina Antonucci ha conseguito nei giorni scorsi, con il massimo dei voti, il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Meridionale tra Medioevo ed Età Moderna nei rapporti col Mediterraneo Orientale ed Occidentale, presso l’Università degli Studi del Salento, Facoltà di Beni Culturali – Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, discutendo la tesi “La pittura sacra nella Diocesi di Lecce dal Concilio di Trento agli inizi del XVIII secolo”.

Ci ha fatto dono dell’abstract del suo pregevole lavoro, che volentieri pubblichiamo sul nostro spazio, e gioendo con lei per l’ambita meta, formuliamo vivissimi auguri.

ph. Valentina Antonucci

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

di Valentina Antonucci

Partendo da una ricognizione sistematica dei dipinti a tutt’oggi esistenti negli edifici sacri della diocesi (considerando anche quelli musealizzati, ma di documentata provenienza ecclesiastica diocesana), il presente studio ricostruisce il panorama della pittura sacra a destinazione pubblica nell’ambito storico-topografico della città sede vescovile e del suo territorio ecclesiastico tra gli anni che seguono la chiusura del Concilio di Trento e il primo decennio del XVIII secolo, scegliendo come criteri d’indagine e come descrittori della situazione studiata: il ruolo della committenza, le figure artistiche e le tendenze pittoriche emergenti, la ricorrenza di temi, soggetti e iconografie nonché la loro corrispondenza con le istanze della Chiesa controriformata.

Ampio spazio viene dedicato, in sede introduttiva, al problema della dispersione degli arredi mobili negli ultimi due secoli, fenomeno che, durante la campagna di ricognizione sul territorio, lavorando in parallelo con l’indagine documentaria, la dott.ssa Antonucci ha potuto registrare in tutta la sua gravità, descrivendone le origini storiche e le diverse cause che si sono sovrapposte nel corso del tempo fino ad oggi.

I tre capitoli del testo sono dedicati allo studio delle diverse componenti della committenza, alla definizione di un profilo delle personalità e delle tendenze artistiche emergenti, all’analisi dei filoni tematici e iconografici che risultano nettamente prevalenti quanto a ricorrenza, sia in senso sincronico che in senso diacronico.

Due volumi di Catalogo corredano il testo: in essi sono state raccolte le immagini, appositamente realizzate per la presente ricerca, di circa duecentocinquanta opere appartenenti al patrimonio di pittura sacra della diocesi di Lecce risalenti al periodo tra la metà del XVI e il primo decennio del XVIII sec.

Ogni opera è stata schedata in modo dettagliato, con l’indicazione di soggetto, autore, epoca, tecnica, dimensioni, stato di conservazione, nonché con una relazione storico-critica e la bibliografia di riferimento. 

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