Dialetti salentini: scuèrpu

di Armando Polito

La voce al singolare designa il pero selvatico detto anche calapricu1 o piràscinu2(prima foto), ma pure l’arbusto spinoso delle more selvatiche in passato usato come ostacolo dissuasivo dall’oltrepassare un atu3(seconda foto).

Per l’etimo non posso che partire dal maestro universalmente riconosciuto, cioè il Rohlfs. Egli, però, non dà alcuna proposta etimologica, rimandando da scuerpu a scorpu e da questo a scuorve, dove invita solo ad un confronto con il napoletano scuòvero e rinvia da capo a scorpu.  Al lemma scuèrpulu, poi, evidente diminutivo di scuèrpu, invita ad un confronto con il calabrese scuorpu e scòrpuru (c’è anche la variante scuòrpuru).

Passo ad Antonio Garrisi che nel suo Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990, così tratta il lemma:

scuerpu sm. Pruno, frutice spinoso in genere, che nasce spontaneo nelle siepi; sterpo secco. [lat. med. excorpo(rus) ].

Con questo lemma il Garrisi (sulle cui etimologie spesso ho avuto da obiettare in più di un mio post su questo blog) ha superato se stesso e sul piano metodologico e su quello dell’acribia. Partendo, infatti, dall’idea che s- iniziale sia ciò che rimane di ex latino (ipotesi iniziale più che legittima) rimaneva da risolvere il resto (-cuerpu): e siccome, da solo cuerpu in salentino significa corpo, come non pensare al latino corpus/corporis, da cui derivano cuerpu e corpo? Troppo facile, direte! E, infatti, bisognava mettere in campo un latino medioevale excorpo(rus), dal quale sarebbe derivato scuerpu. Ma, se si comprende il passaggio ex->s-, giustificare l’apocope di –rus sarebbe impresa titanica. Non è finita: pure io, che titano non sono, ho difficoltà a comprendere la congruenza semantica di questo etimo e sfido chiunque a trovare, anche nel più recondito lessico medioevale, l’attestazione di excorporus, che non ho esitazione a definire dato truffaldino e fuorviante, in parole povere totalmente inventato. Il Garrisi potrebbe essere stato suggestionato dalla variante calabrese scuòrpuru, che, come ho detto sopra citando il Rholfs, si alterna a scuorpu, di cui essa è diminutivo: da scorpulu, per cui quella r in origine era una l e, quindi, con cuerpu/corpo non ha nulla a che fare.

Chiudo la rassegna  con  Giuseppe Presicce, che in Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/scorpu.html) così tratta il lemma in questione:

Lo scorpium(m) che si legge è da emendare in scorpiu(m) e questa volta lo dico memore che chissà in quanti miei scritti sarò incorso nella stessa svista o errore di battitura rimasto poi lì in bella vista perché non ho avuto occasione di accorgermene o perché nessuno lo ha notato o me lo ha fatto notare. Sulla citazione di Plinio, invece, il discorso si fa complicato.

Scorpium è l’accusativo di scorpius, il cui uso nel latino classico spazia dalla zoologia (col significato di scorpione e di scorfano) all’astronomia (col significato di Scorpione, la costellazione), all’arte militare (era il nome di una macchina da guerra che scagliava pietre, dardi ed altri proiettili), alla botanica (nome di un arbusto detto anche tragos). Scorpius appartiene alla seconda declinazione (scorpius/scorpii), ma nei significati prima riportati era in uso anche scorpio/scorpionis, dal cui accusativo (scorpionem) è l’italiano scorpione.

Per quanto riguarda la botanica, branca che qui ci interessa, Plinio nella Naturalis historia  usa scorpius/scorpii  una sola volta:

XXVII, 116: Est et alia herba tragos, quam aliqui scorpion vocant, semipedem alta, fruticosa, sine foliis, pusillis racemis rubentibus, grano tritici, acuto cacumine, et ipse in maritimis nascens. Huius ramorum X aut XII cacumina trita exvino pota coeliacis, dysentericis, sanguinem exscreantibus, mensium abundantiae auxiliantur. (C’è anche l’altra erba trago, che alcuni chiamano scorpio, alta mezzo piede, cespugliosa, senza foglie, con piccoli grappoli rosseggianti, col seme simile a quello del grano, con cima appuntita, anch’essa nascente nei luoghi marittimi. Dieci o dodici cime dei suoi rami pestate e bevute col vino giovano ai sofferenti di stomaco, ai dissenterici, a chi sputa sangue e all’abbondanza del mestruo)

Scòrpion è un accusativo alla greca che suppone un nominativo scòrpios, che è la trascrizione del greco σκορπίος  (leggi scorpìos). lo spostamento dell’accento dal greco al latino è assolutamente normale essendo la penultima breve.

Scorpio/scorpionis, invece, è usato nei seguenti passi:

XIII, 37: Tragon et Asia fert, sive scorpionem, veprem sine foliis, racemis rubentibus, ad medicinae usum. (Anche l’Asia produce il trago o scorpione, rovo senza foglie, dai grappoli rosseggianti, adatto ad uso medicinale)

XXI, 54 Ergo quaedam herbarum spinosae sunt, quaedam sine spinis. Spinosarum multae species. In totum spina est asparagus, scorpio: nullum enim folium habet (Dunque alcune delle erbe sono spinose, altre senza spine. Molte sono le specie di quelle spinose. Tutto spina è l’asparago, lo scorpione: infatti non ha alcuna foglia)

XXII, 17: Ex argumento nomen accepit scorpio herba. Semen enim habet ad similitudinem caudae scorpionis, folis pauca. Valet et adversus animal nominis sui. Est et alia eiusdem nominis effectusque sine foliis, asparagi caule, in cacumine aculeum habens, et inde nomen.  (Non a caso l’erba scorpione ha preso questo nome. Ha infatti il seme che assomiglia alla coda dello scorpione, scarsa di foglie. È efficace contro i morsi dell’animale da cui trae il nome. Ce n’è un’altra con lo stesso nome ed effetto senza foglie, col gambo di asparago, con in cima un aculeo, da cui il nome).

A questo passo pliniano si riferisce il Presicce, ma qui Plinio usa scorpio/scorpionis e non scorpius/scorpii.

Al di là della problematica identificazione sicura del nostro scuerpu con una delle specie ricordate da Plinio, suscita perplessità che ad uno studioso come il Rohlfs non sia balenato un possibile riferimento al latino scorpius. io non escluderei che la sua prudenza sia legata a motivi fonetici. Infatti, se l’esito –o– >-ue– è assolutamente normale (mentre –i->-ue– non lo sarebbe se pensassimo a scirpus che significa giunco), rimane da spiegare la perdita della –i– , anche se la sua posizione atona potrebbe aver favorito la sua caduta.

La i risulta ingombrante anche se si ipotizzasse la derivazione da scorpio/scorpionis e, più precisamente, non, come sarebbe regola, dall’accusativo scorpionem, ma dal nominativo scorpio, fenomeno rarissimo, come in uomo che, secondo l’interpretazione corrente, è fatto derivare dal nominativo homo e non dall’accusativo hominem.

E allora? So che qualcuno mi accuserà di fantasticare, ma anche nello studio degli etimi la fantasia non guasta. Intanto passo dalla botanica alla zoologia ricordando che scòrfano deriva dalla variante regionale scòrpena o scorpèna, che è dal latino scorpaena (per cui scorpèna è più corretto di scòrpena, anche se scorfano ne ha ereditato l’accento, che, poi, è quello della voce originaria greca che sto per citare), a sua volta dal greco σκόρπαινα (leggi scòrpaina), derivato dallo σκορπίος prima ricordato. La terminazione in –αινα ricorre in alcuni nomi femminili come, per esempio, in λέαινα (leggi lèaina), che significa leonessa, di fronte al maschile λέων (leggi leon). Ora, togliendo –αινα σκόρπαινα mi rimarrebbe σκόρ-, in cui, come ognun vede, la ι di σκορπίος è scomparsa.

Spesso la fantasia passa dal trotto al galoppo. Premetto che a Roma alcuni gladiatori erano vere e proprie celebrità, seguite come oggi lo sono i vip televisivi e, cosa abbastanza comune anche allora, ognuno esibiva un nome, è il caso di dire, di combattimento, cioè un soprannome che ne sintetizzava le doti. Su un piano leggermente inferiore si collocavano gli aurighi.

Marziale (I-II secolo d. C.) nei suoi Epigrammi ne ha immortalato uno di nome Scorpo4:

IV, 67: Praetorem pauper centum sestertia Gaurus/orabat cana notus amicitia,/dicebatque suis haec tantum deesse trecentis,/ut posset domino plaudere iustus eques./Praetor ait: – Scis me Scorpo Thalloque daturum,/atque utinam centum milia sola darem -./- A pudet ingratae, pudet ah male divitis arcae./Quod non das equiti, vis dare, praetor, equo? -.(Il povero Gauro conosciuto per antica amicizia chiedeva al pretore cento sesterzi e diceva che tanti ne mancavano ai suoi trecento per poter applaudire l’imperatore da perfetto cavaliere. Il pretore disse. – Tu sai che dovrò pagare Scorpo e Tallo e volesse il cielo che ne dessi solo centomila -. Ah, vergogna dell’ingrato forziere malamente ricco! Ciò che non dai al cavaliere, lo vuoi dare, o pretore, al cavallo? -)

V, 25: – Quadringenta tibi non sunt, Chaerestrate: surge,/Lectius ecce venit: sta, fuge, curre, late -./

Ecquis, io, revocat discedentemque reducit?/Ecquis, io, largas pandit amicus opes?/Quem chartis famaeque damus populisque loquendum?/Quis Stygios non volt totus adire lacus?/Hoc, rogo, non melius, quam rubro pulpita nimbo/spargere et effuso permaduisse croco?/Quam non sensuro dare quadringenta caballo,/aureus ut Scorpi nasus ubique micet?/O frustra locuples, o dissimulator amici,/haec legis et laudas? Quae tibi fama perit! (Cherostrato, tu non hai i quattrocento: alzati, ecco viene Lezio; fermo, scappa, corri, nasconditi! Chi mai, ahimè, lo richiama e lo fa tornare mentre se ne va? Chi mai, ahimè, gli mette a disposizione da amico ampie ricchezze? Chi consegniamo agli scritti e alla fama e perché la gente ne parli? Chi non vuole entrare tutto nelle acque dello Stige? Questo, chiedo, non è meglio che spargere i palcoscenici di pioggia rossa e profumarli di zafferano spruzzato?  Che darne quattrocento al cavallo che non proverà nulla affinché l’aureo naso di Scorpo brilli ovunque? O inutilmente ricco, o ingannatore dell’amico, tu questo scegli e lodi? Quale fama ti è venuta meno!) 

X, 50:   Frangat Idumaeas tristis Victoria palmas,/plange, Favor, saeva pectora nuda manu; mutet Honor cultus, et iniquis munera flammis/mitte coronatas, Gloria maesta, comas./Heu facinus! Prima fraudatus, Scorpe, iuventa/occidis et nigros tam cito iungis equos./Curribus illa tuis semper properata brevisque/cur fuit et vitae tam prope meta tuae? (La Vittoria rompa triste le palme idumee, tu, o Favore, batti il nudo petto con mano crudele, l’Onore cambi abito e tu, o Gloria, getta mesta la tua chioma coronata come dono alle ingiuste fiamme. Oh delitto! Ingannato nel fiore della giovinezza, tu, o Scorpo, muori e tanto rapidamente aggioghi i neri cavalli. Quella meta sempre cercata dal tuo cocchio e in breve raggiunta perché fu tanto vicina pure alla tua vita?)

X, 53: Ille ego sum Scorpus, clamosi gloria circi,/plausus, Roma, tui deliciaeque breves,/ invida quem Lachesis raptum trieteride nona,/dum numerat palmas, credidit esse senem. Io sono il famoso Scorpo, gloria del rumoroso circo, di te, o Roma, entusiasmo e breve delizia, che l’invidiosa Lachesi, mentre contava le vittorie, credette che io fossi vecchio, rapendomi a ventisette anni)  /

XI, 1: Quo tuquoliber otiosetendis/Cultus Sidone non cotidiana?/Numquid Parthenium videreCerte:/
Vadas et redeas inevolutus:/libros non legit illesed libellos;/nec Musis vacataut suis vacaret./Ecquid te satis aestimas beatum,/contingunt tibi si manus minores?/Vicini pete porticum Quirini:/turbam non habet otiosiorem/Pompeius vel Agenoris puella,/vel primae dominus levis carinae./Sunt illic duo tresvequi revolvant/nostrarum  tineas ineptiarum,/sed  cum sponsio fabulaeque lassae/de Scorpo fuerint et Incitato.(Dove tu, ozioso libro, dove ti dirigi adorno di porpora non usuale? Forse a vedere Partenio [segretario di Domiziano e protettore di Marziale]? Certamente: vai e ritorna senza essere stato letto; egli non legge i libri ma i libretti né ha tempo per le Muse o solo per le sue ne avrebbe. Forse ti stimi sufficientemente beato se ti toccano mani meno nobili? Dirigiti verso il portico del vicino Quirino; non ha una folla più sfaccendata (quello di) Pompeo o (del)la figlia di Agenore [Europa] o (de)il signore della prima leggera nave [Giasone]. Lì ci sono due o tre che scuoteranno le tarme delle mie schiocchezze, ma quando la scommessa e i racconti su Scorpo ed Incitato saranno stanchi)

Che questo Scorpo fosse famoso per la sua abilità a punzecchiare i cavalli o a pungere (in senso metaforico) gli avversari? Anche se così fosse, però, come spiegare il passaggio da Scorpius a Scorpus?

Se la letteratura con Marziale ci ha lasciato il ricordo di un auriga col nome di Scorpo, l’epigrafia è stata molto più generosa: CIL  VI 10052: Vicit Scorpus equis his/Pegasus Elates Andraemo Cotynus (Ha vinto Scorpo con questi cavalli: Pegaso, Elate, Andremone, Citino). L’epigrafe, rinvenuta a Roma, è datata tra l’81 ed il 96 d, C. , per cui molto probabilmente questo Scorpo coincide con quello immortalato da Marziale.

Un altro agitator  (auriga) di nome Scorpus  compare in un’altra epigrafe(CIL, VI, 10048) datata tra il 146 e il 150 d. C.  (dunque è un personaggio vissuto successivamente a quello di Marziale ma rispetto al quale la scelta del nome di battaglia molto probabilmente non è casuale), della quale riporto il pezzo che ci interessa: … Flavius Scorpus victor II … et Pompeius Musclosus victor III … (Flavio Scorpo due volte vincitore e Pompeo Muscoloso tre volte vincitore …). 4

Frutto di fantasia,ma in senso buono,  è certamente questo canto popolare di Lecce e Cavallino in tema, tratto dal volume II di Canti e racconti del popolo italiano a cura di D. Comparetti e A. D’ancona dedicato ai Canti popolari delle provincie meridionali raccolti da A. Casetti e V. Imbriani, v. I, , Loescher, Roma, Firenze, Torino, 1871, p. 101. Lo trascrivo di seguito, con la mia traduzione in italiano corrente e qualche nota, senza anticipare nulla sul sostrato erotico del componimento e lasciando a voi l’identificazione non letterale di sciardinu, porta segreta, milu ‘ngranatu, ‘brecueccu e, dolce in fondo, atu.

Beddha, allu tou sciardinu nci su’ statu,

de la porta segreta su’ trasutu;

de pizzu a pizzu l’aggiu camenatu,

lu sciardinieri nu’ mm’ha canusciutu.

Nde l’aggiu cueutu lu milu ‘ngranatu,

e lu ‘brecueccua  tou caru tenutu.

Mo’ nci aggiu misu lu scuerpu allu atub,

trasa ci ole, ca ieu nd’aggiu ‘ssutu.

 

Bella al tuo giardino ci sono stato,

dalla porta segreta sono entrato;

in lungo e in largo ci ho camminato,

il giardiniere non mi ha riconosciuto.

Ne ho colto la melagrana,

e la pesca tua tenuta cara.

Adesso ho messo il rovo sul passaggio;

entri chi vuole, che io ne sono uscito.

 

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a Brecueccu è la pesca; con le varianti percocu e bbricuecu è dal latino praecoquu(m)=(frutto) precoce. Avevo promesso che nulla avrei detto sull’interpretazione metaforica di questo come degli altri dettagli. Prima di congedarmi, però, voglio dare il famoso aiutino ai lettori più giovani ed anche a quelli della mia età con problemi di memoria: nel 1976 uscì la commedia erotica all’italiana Il solco di pesca con Gloria Guida nella parte di Tonina …

b Vedi la nota n. 3

 

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1 Dal latino calabrix attestato solo in Plinio, Naturalis historia, XVII, 14: Et zizizpha grano seruntur mense Aprili. Tuberes melius inseruntur in pruno silvestri, et malo cotoneo, et in calabrice: ea est spina silvestris. (Le giuggiole si sotterrano col nocciolo nel mese di aprile. Il lazzeruolo s’innesta meglio sul susino selvatico, sul melo cotogno e sul pero selvatico: questa è una pianta spinosa selvatica)

2 Dalla radice pir- di piru (pero) + un suffisso dispregiativo –àscinu, come, al femminile, purpàscina (polpo femmina, di dimensioni maggiori rispetto al maschio e dalle carni meno tenere) dalla radice purp– di purpu (polpo) + -àscina.

3 Sull’atu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/08/dialetti-salentini-atu/

4 Di Scorpus onomastico di persone comuni molte sono le testimonianze epigrafiche, ne riporto, a titolo di esempio, un paio:

CIL VI, 15413: D(is) M(anibus) Claudiae/Eutychiae/P(ublius) Aelius Aug(usti) lib(ertus)/Scorpus /coniugi/ sanctissim(ae) fec(it) (Agli dei Mani di Claudia Eutichia Publio Elio Scorpo liberto di Augusto fece alla moglie santissima). Qui Scorpus in terza posizione mpstra chiaramente la sua natura di cognomen (soprannome)

CIL V, 582, 11: ]/Aug(usti) lib(erto) tabul(ario)/Symphorus et/Scorpus liberti/et heredes patron(o)/bene merenti/fecer(unt) (al liberto  contabile di Augusto i liberti Sinforo e Scorpo e gli eredi riconoscenti fecero al protettore)

Addio al calaprìcu e compagni


 di Armando Polito

In un’epoca in cui l’ingegneria genetica promette mirabilie e, con particolare riferimento al mondo vegetale, già serve sulle nostre tavole frutta e verdura di forma e sapore (?) inusitati, può sembrare da inguaribile nostalgico del tempo che fu dedicare quattro righe ad un umilissimo arbusto un tempo molto diffuso dalle nostre parti: il calaprìcu, cioè il pero selvatico. La voce ancora oggi è usata per sottolineare il sapore amaro di un cibo o il carattere scontroso di una persona, anche se la metafora a breve scomparirà seguendo in questo il destino dell’arbusto.

È per me paradossale e scandaloso che a parole si sottolinei l’importanza della biodiversità e che contemporaneamente non si muova un dito per salvare specie animali e vegetali in pericolo di estinzione e che, anzi, per motivazioni egoisticamente ed esclusivamente economiche (qualcuno ha persino la spudoratezza di affermare che le modificazioni genetiche applicate all’agricoltura risolveranno il problema della fame nel mondo!) si sovrapponga incoscientemente e presuntuosamente alla biodiversità progettata,  realizzata e collaudata nei millenni dalla natura e parzialmente turbata dall’uomo con l’antichissima tecnica dell’innesto, quella ideata, sempre dall’uomo, in questi ultimi anni e immessa sul mercato senza, a mio avviso, le dovute garanzie che solo un controllo prolungato nel tempo può dare.

È triste consolarsi col passato, ma tant’è! Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) nella Naturalis historia (17, XIV, 75) ci ha lasciato sul tema quanto segue; non so, anche su altri temi, purtroppo, cosa lasceremo noi…:

Tubures melius inseruntur in pruno silvestri et malo cotoneo et in calàbrice. Ea est spina silvestris; quaecumque optime et myxas recipit; utiliter et sorbos.

(I lazzeruoli si innestano meglio sul susino selvatico, sul melo cotogno e sul calaprico. Questa è una pianta spinosa selvatica; accoglie ottimamente ogni specie e i susini; con buoni risultati anche i sorbi).

E tre secoli dopo Palladio Rutilio Tauro Emiliano (Agricultura, X, 14) ribadiva:

Mense ianuario ultimo vel februario tuburum surculus mirabiliter proficit cydonio insitus. Inseritur autem melis omnibus et piris et prunis et calabrici melius trunco fisso quam cortice.

(Alla fine di gennaio o di febbraio la gemma dei lazzeruoli attecchisce mirabilmente innestata sul melo cotogno. Si innesta inoltre su tutti i meli, peri, susini e sul calaprico meglio a spacco che a corteccia).

Ma il funerale dei portainnesti antichi vede, oltre al calaprìcu, il piràscinu (altra specie di pero selvatico, il cui nome è da piru+lo stesso suffisso dispregiativo di nannàscina, purpàscina, etc. etc.; un latino piràginus è attestato molto tardi e precisamente nello statuto di Atena (Sa) che è anteriore al 1475), la maràngia [direttamente dall’arabo narang, dal persiano narany , probabilmente dal sanscrito nagaranja=frutto degli elefanti, mentre in italiano si è sviluppato arancio con caduta di n– per deglutinazione in seguito a fusione con l’articolo (un narangio>un arangio>arancio); solo in epoca relativamente recente, per probabile importazione da Gallipoli e incrocio con mara=amara, la voce si è specializzata ad indicare la varietà amara] e il tèrmite (specie di olivo selvatico); la voce è  direttamente dal latino tèrmite(m)=ramoscello, con specializzazione del significato; i  nostri  oliveti secolari ed  ultrasecolari con il loro irregolare sesto d’impianto provano la pratica antica  di  innestare   in pieno  campo  olivastri  (tièrmiti) spuntati qua e là nei campi e nella macchia e, con la loro maggiore resistenza alle malattie rispetto ad esemplari frutto di tecniche colturali più recenti, confermano ciò che già il poeta latino Orazio (I° secolo a. C.) aveva celebrato nei versi 41-48 del 16° epodo: Nos manet Oceanus circumvagus: arva beata/petamus, arva divites et insulas,/reddit ubi cererem tellus inarata quotannis/et imputata floret usque vinea,/germinat et numquam fallentis termes olivae/suamque pulla ficus ornat arborem,/mella cava manant ex ilice, montibus altis/levis crepante lympha desilit pede (Ci attende l’Oceano che tutto abbraccia: di campi beati/andiamo in cerca, di campi ricchi e di isole/dove la terra ogni anno senza esssre arata dà le messi/ e la vite senza essere potata rifiorisce sempre/ e il ramo dell’olivo che mai inganna germoglia/e il giovane fico orna il suo albero,/il miele stilla dal cavo leccio, dall’alto dei monti/scende giù con la sua corrente fragorosa l’acqua leggera).

Termes è connesso col greco terma=meta, limite e con i latini termo, termen e tèrminus=linea di confine, a riprova questa volta del fatto che un tempo dei rami segnavano il confine di un campo,  proprio come avrebbero fatto per secoli nelle nostre campagne le piante di olivo (chisùre). E Tèrminus per i Latini era il dio dei confini.

Al di là della contestualizzazione storica (l’abbandono della terra natia verso lidi che sembrano una sorta di paradiso è visto da Orazio come unico rimedio al clima di distruzione e morte indotto dalle guerre civili), dove cercheremo rifugio noi dopo aver violentato anche l’Amazzonia? Sembra una vendetta della storia e pure dell’etimologia quando si pensa che il greco terma, prima citato, deriva dal verbo tèiro (in latino tèrere, dal cui participio passato tritum sono nati i nostri trito, tritare e triturare) che significa logorare, indebolire. I Greci erano partiti da questo concetto di sfinimento e morte per dar vita a quello di conclusione, confine; poi i Latini, a parte i già nominati termo, termen, tèrminus e Tèrminus avevano mantenuto l’originario significato negativo oltre che nel verbo tèrere anche in tarmes/termes=tarma (dalla variante termes la nostra tèrmite o termìte, il temibile insetto). E noi? Noi, in pochi decenni, siamo stati capaci solo di percorrere il cammino inverso…

E io sono stato solo in grado di partorire queste poche, inutili osservazioni e questi miserabili, altrettanto inutili versi (?)…

Lu tèrmite

                                                                                  

Quantu tièmpu è ppassàtu ti ddhu ggiùrnu!                  

Simènte eri, ti ceddhu cuncardàta1;                              

ti lu sole poi sott’a llu furnu                                          

la vita chiànu chiànu è spuntàta.

                                                                                        

Picchi acqua ‘ggiàna2 intr’a ‘stu maru cuèzzu,            

stuèrtu e ttanti bbuchi intr’a lla scorza,                        

ti stòria antìca tu sî ormai ‘nu stuèzzu                          

e ddi natùra la proa ti la forza.

                                                                                       
Ma quarche ccosa strana mo sta ssiènti:                      
                                       

l’acqua non è cchiù queddha e mmancu l’aria,            

troppu ti pressa càngianu li tièmpi,                                                                            

lu sangu ‘ndi mbilèna addha malària.                                                                      


E ppàssari, ciciàrre  e ssaccufàe
3                                                                 

sempre menu ti fannu cumpagnìa,                                       

irdulèddhe e ccardìlli cchiù no ‘nd’hae                         

e sta tti pìgghia la malincunìa.

                                                                                       
Piensi ca no ppuè ffare mancu figghi                            

e la simènte tua a ‘n terra minàta                                 

sai ggià ti sicùru ca ttra ppicchi                                    

è mmuffìta, morta e ppoi squagghiàta.

                         

L’olivastro

 

Quanto tempo è passato da quel giorno!

Seme eri, riscaldato dal ventre di un uccello;

del sole poi sotto il calore

la vita piano piano è spuntata.

 

Poca acqua piovana dentro questa roccia amara,               

storto e con tanti buchi nella corteccia,

di storia antica tu sei ormai un pezzo

e la prova della forza della natura.

 

Ma qualche cosa strana stai ora sentendo: 

l’acqua non è quella di una volta e nemmeno l’aria,

troppo in fretta cambiano i tempi,

il sangue ci avvelena una diversa malaria.

 

E passeri, cinciallegre e rigogoli

sempre meno ti fanno compagnia,

verdoline e cardellini non ci son più

e ti sta prendendo la malinconia.

 

Pensi che non puoi fare nemmeno figli

e il seme tuo a terra abbandonato

sai già di sicuro che tra poco

sarà ammuffito, morto e poi disfatto.

_______

1 Il calore del ventre dell’uccello che ha inghiottito il seme favorisce, dopo la sua eliminazione, l’attecchimento; cuncardàre corrisponderebbe ad un inusitato italiano concaldare.

2 Da *foggiàna, acqua che si raccoglie nella fòggia (fossa), con aferesi di fo-.

3 Dal greco siukòfagos=mangiatore di fichi.

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