La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (1/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

La superiorità dell’arte si gioca, probabilmente sulla miracolosa convergenza di due elementi contrapposti: da un lato la sinteticità del linguaggio, dall’altro la pluralità semantica che esso racchiude in sè e che, vuoi in modo immediato e superficiale, vuoi in modo più profondo, magari proprio col suo carattere allusivo, riesce a trasmettere. Così anche un manufatto apparentemente senza pretese, nel nostro caso un arazzo, può narrare nello spazio di un solo sguardo quello che in un libro di storia richiederebbe tanti sguardi quante sono le pagine dedicate all’argomento o al problema trattato.

L’arazzo che ci accingiamo a leggere è, se non il più antico documento iconografico della Terra d’Otranto, certamente il più completo, e il suo valore storico appare doppio in quanto testimonia anche una sorta di passaggio di consegne tra l’antica provincia, quella di Terra d’Otranto appunto, e la nuova, quella di Lecce, la cui non dichiarata preminenza è attestata, come vedremo, dal fatto che tutti i dettagli paesaggistici in esso raffigurati si riferiscono a Lecce. Questa sorta di tacita rivendicazione di un primato di prestigio rispetto alle provincie di Brindisi e Taranto sul piano amministrativo con l’acquisizione come suo stemma di quello che era stato della Provincia di Terra d’Otranto (il delfino e la mezzaluna1) è per fortuna compensato dalla citazione di nomi di personaggi non esclusivamente leccesi, a riprova che, al di là di stupidi orgogli campanilistici, la cultura non vive di miopi rivendicazioni in molti casi perfino disgiunte dalla conoscenza storica, quando non nutrite, addirittura, da interpretazioni di comodo, alterazione delle fonti, per non parlare delle innumerevoli superfetazioni succedutesi nel tempo, fino ad arrivare alle bufale pure in questo settore giornalmente propalate dalla stampa (non esclusi i cosiddetti saggi) e dalla rete.

Il prezioso manufatto è custodito nella sala di ricevimento dell’Istituto Marcelline di Lecce2, che ringraziamo qui pubblicamente per la generosa disponibilità dimostrata, senza la quale questa nostra modesta fatica non avrebbe potuto vedere nemmeno l’inizio, ringraziamento tanto più doveroso perché in evidente contrasto con i paletti vari che la burocrazia laica interpone quando si tratta di visionare materiale pubblico, non fosse altro che un semplice atto d’archivio. Non siamo riusciti a reperire documenti che ne attestino la datazione, che si colloca, comunque, tra il 1893 (data del trasferimento dalla vecchia sede) e, prudenzialmente, il 1921, data di spedizione della cartolina in cui è ritratto. Proprio le cartoline d’epoca, quando non diversamente specificato, hanno fornito un notevole supporto, mentre le foto recenti, ad attestare lo stato attuale, sono degli autori.

Nel suo insieme l’arazzo appare come la copertina anteriore di un libro dotato di rilegatura monastica3. Le parti centrali del settore superiore ed inferiore (il primo con lo stemma4), il secondo con la scritta, ne  costituiscono a tutti gli effetti il titolo.

La conformazione di ciascun ovale e di ciascuna cornice sembra echeggiare quella presente in Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Cappello, Napoli, 1601, p. 81 (prima immagine). Com’è noto lo stemma della Terra d’Otranto fu adottato, a partire dal 1933 dalla Provincia di Lecce (seconda immagine).

Al di là dei richiami, reali o presunti, ad un libro appena evocati, sul piano squisitamente tecnico si tratta di un ricamo su un canovaccio a nido d’ape minuto in seta e cotone di colore giallo pallido su cui è stato sistemato il disegno preparatorio poi realizzato in oro a rilievo. Tutto si accorda in un’armonia di segni e colori che stupiscono per la minuta precisione e le sfumature  che fanno apparire l’opera quasi pittura.

Al centro dell’arazzo campeggia, e non poteva essere altrimenti, la personificazione della Terra d’Otranto.

Una giovane donna in chitone5 bianco e imatio6 rosso reca nella destra un ramoscello d’olivo e con la sinistra  regge, appoggiato verticalmente a terra, uno scudo sagomato7 su cui campeggia un delfino (è, come abbiamo detto, lo stemma di Terra d’Otranto).

Alla sua destra, adagiata per terra una cornucopia, notorio simbolo dell’abbondanza e ai suoi piedi, un po’ distanti, quelle che si direbbero spighe.

A nostro avviso non è da escludersi un influsso della rappresentazione della Puglia, contaminata con quella dell’Italia, quali si vedono in Cesare Ripa, Iconologia, Farii,  Roma, 1603, rispettivamente alle pp. 266 e 247.

 

Al di là delle evidenti allusioni in Ripa al fenomeno del tarantismo, che comporta anche inevitabili differenze nel panneggio, tratti in comune ci sembrano l’acconciatura (anche se nell’arazzo i capelli si direbbero trattenuti da una benda), a parte i dettagli indiscutibili della destra che impugna il ramoscello d’olivo e quello, probabile, delle spighe, pur nella loro differente collocazione.

Quella che segue è, a nostra conoscenza, la seconda personificazione  della Terra d’Otranto e di questa, a differenza di quella dell’arazzo (sul problema torneremo in seguito),  conosciamo  la data di realizzazione: 1882. Si tratta del verso di una medaglia (ideazione del galatinese Pietro Cavoti, modello del leccese Eugenio Maccagnani, incisione del fiorentino Giovanni Vagnetti)8. Le due immagini presentano in comune la posizione dello scudo (non la forma, essendo quello dell’arazzo sagomato, quello della moneta ellittico, simile a quello che i Romani chiamavano parma) retto con la sinistra e la cornucopia; la caratteristica parte terminale, che le dà il nome, nell’arazzo è nascosta dalla parte inferiore della figura femminile e nella medaglia manca il ramoscello d’olivo perché la destra della Terra d’Otranto è impegnata a stringere quella dell’Italia.

 

Le due immagini costituiscono quasi una specializzazione locale della figura classica dell’Abbondanza (quella dell’arazzo, più specificamente della Pace, come mostra l’immagine che segue risalente al XVII secolo un’incisione di Carol De Mallery su disegno di M. De Vos stampata da Joan Galle ad Anversa), nella cui rappresentazione la cornucopia è il dettaglio più significativo. E il distico elegiaco che costituisce la didascalia sintetizza i concetti complementari di pace ed abbondanza: Pax alma, ingenuas praesertim quae fovet artes,/orbi suppeditat denique divitias (L’alma pace, che favorisce soprattutto le nobili arti, alla fine procura al mondo ricchezza).      

Per completezza d’informazione va detto che questo processo di personificazione aveva avuto il suo primo timido avvio con l’assunzione delle fattezze di una testa di donna da parte di quella del delfino, come risulta dallo stemma presente a. p. 17 del saggio Antiquitates Neapolis di Benedetto di Falco  inserito nella prima parte del nono tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae uscito a Lione per i tipi di Pietro Vander Aa nel 1723, a cura di Giovanni Giorgio Grevio e Pietro Burmanno.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

___________________

1 Sul tema vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

2 Per le notizie storiche sull’istituto vedi http://www.marcellinelecce.it/wp-content/uploads/2016/06/Istituto-Marcelline-Lecce.pdf.

3 Sul tema vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

4 Sullo stemma vedi Il delfino e la mezzaluna in http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/ (in calce alla prima parte i collegamenti alle restanti quattro) e Il delfino “stizzoso” dellantico stemma di Terra d’Otranto, in http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

5 Dal greco χιτών (leggi chitòn), che significa tunica.

6 Dal greco ἱμάτιον (leggi imàtion) o εἱμάτιον (leggi eimation), diminutivo di ἱμα (leggi ima) o εἷμα (leggi èima), che significa veste.

7 Così in araldica viene chiamato lo scudo con lembi a frastagli mistilinei. Scudi simili, recanti nella parte centrale una testa di Gorgone, protomi animali o teste di divinità sono visibili in fregi dell’età imperiale.

8 Lo stesso ideatore dichiara nell’opuscolo, da lui curato e scritto per gran parte, Medaglia offerta dalla Provincia di Terra d’Otranto a s. e. Agostino Magliani, ministro delle finanze e senatore del Regno, Stabilimento tipografico Scipione Ammirato, Lecce, 1883 (nello stesso anno ripubblicato con accresciuto numero di pagine per i tipi di Spacciante, sempre a Lecce): Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per il tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria. Sulla medaglia vedi pure http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/12/magliani-agostino-detto-tino-e-la-sua-medaglietta-la-ferrovia-tra-brindisi-e-taranto-lho-portata-io/

Notizie inedite su Matteo Tafuri (1492-1584). Nuove rivelazioni da un manoscritto seicentesco

M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola. Proprietà L. Galante
M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola.
Proprietà L. Galante

 

di Luigi Galante*

In una pagina famosa della sua Galatina letterata, pubblicata nel 1709, Alessandro Tommaso Arcudi dà una notizia, e tutti la ricordiamo, su Matteo Tafuri; ed è una notizia tanto celebre, quanto, come sempre per il Tafuri, controversa. Cosa scrive Arcudi? Egli ricorda “Conservavasi nella mia casa (degli Arcudi) la sua (di Gio. Tommaso Cavazza) Calvarie; insieme con quella del tanto nominato, e famoso al mondo Matteo Tafuro di Soleto, ma nell’anno 1672 a tempo ch’io facevo l’anno del noviziato, la vedova mia madre per alcuni timori e scrupoli feminili, fecele ambedue secretamente gettare nel publico cimiterio: non sapendo di che grand’uomini erano quelle, e di che bella memoria alla nostra casa”[1].

Molti studiosi si sono interrogati sul significato di questa ambigua parola: ‘calvarie’, perché quello che sembra il significato del termine più vicino al tempo in cui Arcudi viveva è indubbiamente ‘teschio’. Però certamente è sempre sembrato in qualche modo preoccupante che in una casa privata si conservassero dei teschi anche se appartenuti ad uomini illustri del passato; senza poi voler considerare la difficile compatibilità di questa conservazione con le regole della religione cattolica della quale Arcudi, dotto domenicano, era severo custode. Sicché è del tutto comprensibile che alcuni studiosi abbiano interpretato la parola ‘calvarie’ in modo diverso, ed abbiano sostenuto, non senza argomentazioni e riscontri, che il significato reale intendesse alludere invece a studi o scritti. Questa è stata l’opinione di esperti accreditati del mondo tafuriano e, a tacere di altri, ricordo il compianto Prof. Giovanni Papuli e la sua allieva Luana Rizzo[2]. Soltanto Luigi Manni, tra gli studiosi recenti, ha sostenuto con forte determinazione che per ‘calvarie’ non poteva che intendersi il teschio.[3]

Come stanno davvero le cose? Ancora una volta il dilemma è svelato da una inedita pagina del Galatinese Pietro Cavoti (1819/1890) che ci dà,oltre a questa rivelazione, una serie di sconosciuti particolari sulla sepoltura del Tafuri e, incredibile a dirsi, anche sulle vicende successive delle sue spoglie mortali. Facciamogli allora comunicare le notizie preziose che egli nelle sue peregrinazioni per la provincia, lesse in un antico manoscritto della famiglia Carrozzini, che oggi è probabilmente perduto, ma che nel 1884 si conservava a Soleto presso il canonico Giuseppe Manca il quale lo mise cortesemente a disposizione del Cavoti.

Ricordo dei fatti storici di Soleto da un manoscritto della Fam. Carrozzini. Matteo Tafuro morì il dì 18 novembre 1584, fu seppellito nella cappella di S. Lorenzo delli Tafuri a mano destra sotto l’immagine della Madonna con Nostro Signore. Furono tolte le ossa del filosofo di Soleto per volontà della Famiglia Carrozzini e deposte nel Monastero di S. Nicola in Soleto dentro una cassetta di legno con l’arme dei Tafuro. Vollero donare il teschio di questo insigne, alla famiglia Arcudi di Galatina. Alcuni frammenti dei suoi abiti consumati dal tempo e dai vermi, conservansi come reliquie da questa onorabile famiglia Carrozzini di Soleto. Notizie avute dal canonico Manca di Soleto. Conservasi detto manoscritto in casa sua. Mi mostrò il manoscritto per una mia visita il dì 26 ottobre 1884 per l’acquisto di alcune monete antiche trovate nell’agro di Soleto[4].

L’inclinazione del Manca a collezionare ed acquistare monete antiche, è confermata da una lettera dell’anno successivo, che il canonico scrive a Cavoti:  “Mio amatissimo Pietro. Ho visto le nove monete; pare appartengono al numero delle sessantatrè trovate qui. Sono greche e buone.… Se per vostro conto volete farne l’acquisto di qualcuna, preferite quella di Velia, cioè l’unica in cui si trovansi un leone, oppure qualcuna di Napoli scegliendola tra quelle che portano il bue a faccia umana barbato, le altre scartatele tutte, ma cercate di dar la preferenza a quella di Velia, che potreste pagarla £ 1:50 non più. Qui si son trovate molte altre, e nell’istesso luogo; basta ne parleremo. Vostro affezionatissimo amico e sempre Giuseppe canonico Manca[5].

Insomma, grazie al cimelio che Pietro Cavoti ci ha consegnato, e che è una ennesima riprova di quanto prezioso sia lo studio delle sue carte superstiti nel Museo galatinese, possiamo oggi dire non solo che Luigi Manni ha avuto, a sua tempo, la giusta intuizione, ma possiamo anche conoscere con esattezza il luogo della sepoltura originaria del Tafuri ; (cioè nella chiesa S. di Lorenzo dei Tafuri, e successivamente in S Nicola, oggi scomparse) e così combinando queste notizie con quelle di Arcudi , possiamo anche definire il destino finale del teschio tafuriano. C’è poi tra le cose da notare una data di morte: quella del 18 novembre 1584, che è a me pare, perfettamente bencredibile, perché contraddice, è vero, quella tradizionale divulgata da Girolamo Marciano (al 13 giugno 1582), ma è perfettamente compatibile con i dubbi di quanti hanno notato che nelle opere di Gian Michele Marziano (1583) e di Francesco Scarpa (1584), il Tafuri sembra essere considerato vivente[6].

Non mi parrebbe completo chiudere questo articolo, se non ricordassi anche il contributo iconografico importantissimo che Cavoti ha dato alla scuola tafuriana, non solo copiando da vari luoghi, e conservando per noi le immagini che io ho edito di Matteo Tafuri, ma anche quelle, sempre edite da me, di Sergio Stiso, suo predecessore, e dei suoi allievi, Cavazza, Scarpa e forse Lorenzo Mongiò. Perciò mi pare opportuno pubblicare qui due immagini cavotiane di altri due uomini legati forse al mondo tafuriano, e cioè quella di Giovan Paolo Vernaleone junior e di Stefano Corimba.

Infine aggiungo a complemento del ritratto molto importante del Galateo che ho pubblicato mesi fa insieme a quelli del Galatino,[7] anche il disegno cavotiano di un famoso amico galatinese del Galateo, Girolamo Ingenuo, che Cavoti copiò in casa della famiglia Tanza, da un originale che tutto lascia supporre essere perduto. Ma nelle carte cavotiane c’è di più: un ritratto di G.B. del Tufo8, che è poi il destinatario del famoso pronostico tafuriano che attende ancora di essere edito.

 

[1] A. T. Arcudi, Galatina Letterata (ristampa anastatica), Aradeo, 1993, pag. 49

[2] L. Rizzo, Umanesimo e rinascimento in terra d’Otranto: il platonismo di Matteo Tafuri, Galatina, 2000, pag 121

[3] L. Manni, La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP, pag 113

[4] Il documento cavotiano è conservato presso il Museo Civico di Galatina, come tutti i ritratti riportati in queste pagine, comprese quelle nel saggio del Prof. G. Vallone, eccetto l’immagine tratta dal ms. Vat. lat. 6046. Essi sono di esclusiva proprietà del Comune di Galatina-Museo Cavoti. Per la riproduzione parziale o integrale delle immagini qui riprodotte, è vietata qualunque riproduzione senza autorizzazione scritta al Comune di Galatina, nonchè la richiesta di citazione dell’autore. Ringrazio l’Assessore alla Cultura di Galatina Prof.ssa Daniela Vantaggiato, che mi ha autorizzato alla pubblicazione.

[5] Lettera scritta dal canonico Manca di Soleto al Cavoti l’8 ottobre 1885. Cfr. L. Galante, Pietro Cavoti. I tesori ritrovati, , Galatina, 2007, EdiPan, pag. 76.

[6] G. Vallone, Restauri Salentini, in BSTO, Galatina, 1-1991 nota 14, pag. 155.

[7] L. Galante, Iconografia del Galatino, in Studi Salentini, LXXXV/2009-2010, pp. 75-88.

8  “Per un approfondimento sulla famiglia del Tufo vedi, L.  Manni La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP,”

 

Pubblicato su “Il Filo di Aracne”.

Non essendo in possesso di autorizzazioni alla pubblicazione non abbiamo potuto riproporre le tavole citate nel testo

Un libro di Pietro Cavoti per un ministro delle Finanze

Pietro Cavoti

 

PREGIATO LIBRO DI PIETRO CAVOTI DI GALATINA CON LA MEDAGLIA E LA PERGAMENA IN ONORE DI AGOSTINO MAGLIANI, MINISTRO DELLE FINANZE DEL REGNO D’ITALIA*

di Maurizio Nocera

Andando per mercatini antiquari di Terra d’Otranto, non è raro, e comunque capita, di trovare preziosità bibliofiliche, che ti aiutano poi a comprendere la natura e la storia dei luoghi dove sei nato e vivi. Si tratta spesso di libri, i cui contenuti, una volta letti, ti fanno riemergere dal passato personaggi, storie e saperi ormai sopiti dal tempo e dalla dimenticanza. È quanto mi è accaduto in uno dei mercatini antiquari della domenica di ogni fine mese a Lecce, dove, tempo fa, mi capitò di trovare un libro che dal titolo della copertina nulla faceva trasparire del suo prezioso contenuto. Tuttavia, anche la coperta di questo libro mostrava un certo interesse bibliofilico, nel senso che si tratta di un volume in 8° grande, con coperta rigida rivestita di carta pergamenata, il cui calice indicativo recita così: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Aldilà dell’indicazione del nome del tipografo, appunto G. Spacciante, rinomato stampatore leccese dell’Ottocento che, dopo diverse vicissitudini, divenne infine l’Editrice Salentina di Galatina, le indicazioni di copertina nulla dicono a proposito dell’autore. Quindi, per sapere qualcosa in più, cosa che sempre faccio quando mi capita per le mani un libro, sono andato al frontespizio, dove ho letto: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

Ecco scoperto un’interessante indicazione che mi immediatamente mi ha fatto decidere l’acquisto del volume. Sicuramente deve trattarsi di un unicum perché, molto probabilmente, accompagnava la succitata Medaglia. Francamente non riesco a capire come mai un volume così prezioso sia stato scorporato dal quadro eseguito dal Cavoti e che accompagnava la Medaglia, finendo così sulla bancarella di un antiquario di chincaglieria e prodotti affini.

Comunque, come scrivo poco sopra, si tratta di un libro curato da Pietro Cavoti (Galatina, 1819-1890) del quale, associandolo all’altro patriota galatinese Nicola Bardoscia, il compianto Antonio Antonaci scrive: «Il Cavoti era imparentato per vie diverse, con antiche casate galatinesi, […] Il contributo dato dal Cavoti e dal Bardoscia all’ideale unitario fu, non solo per Galatina ma anche per l’intero Salento, di grande efficacia, anche se di dimensioni diverse: più romantico e per certi aspetti audace e passionale, quello del Cavati, un tipo dalla fantasia accesa e dalle tendenze contraddittorie fino a sembrare talvolta strane, come accade nel mondo degli artisti […] Il Cavoti […] fu il tramite fisso di collegamento tra i patrioti galatinesi e quelli di Lecce. Fu segretario del Circolo patriottico comunale di Galatina, fondato subito dopo quello di Lecce» (v. A. Antonaci, Galatina Storia & Arte, Panico, Galatina 1999, pp. 605-6).

Ma di Pietro Cavoti abbiamo ancora qualche altra notizia fornitaci dall’enciclopedia libera Wikipedia, che riporta quanto segue: «è stato un artista, pittore e studioso dell’arte italiano. Compì i primi studi al Real Collegio dei Gesuiti a Lecce. […] Insegnò francese, disegno e calligrafia nel Collegio degli Scolopi, divenuto poi Liceo Convitto Colonna [Galatina], attuale sede del museo a lui dedicato./ Artista e ricercatore attento, fu nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione nella commissione incaricata di censire e classificare i monumenti italiani, al fine di indicare quelli da considerare monumenti nazionali. Il suo lavoro iniziò dalla provincia di Lecce e precisamente dalla Chiesa di Santa Cristina a Galatina e della Chiesetta di Santo Stefano a Soleto. Furono questi gli anni del suo soggiorno fiorentino, durato 15 anni, dal 1861 al 1876, fino a quando le sue condizioni di salute non lo indussero a ritornare a Galatina./ Fu amico di Atto Vannucci, che gli affidò l’illustrazione della sua Storia dell’Italia Antica./ Nel 1876, tornato a Galatina dalla sua esperienza fiorentina, accettò l’incarico, affidatogli da Sigismondo Castromediano, di presidente della Commissione conservativa dei monumenti di Terra d’Otranto e di Ispettore dei monumenti.Ricevette l’incarico di rilevare gli affreschi del Palazzo Marchesale di Sternatia e di effettuare lo studio dell’edificio arcaico detto Le Cento Pietre di Patù. […] Scrisse inoltre alcuni saggi, tra cui si ricorda Saggio di lavori nelle pietre denominate carparo e pietra leccese delle rocce salentine./ Gran parte dei suoi lavori è conservata nel museo civico di Galatina a lui intitolato».

Ma adesso, vediamo com’è fatto questo libro, curato e per tre quarti scritto da Pietro Cavoti. Il frontespizio è un capolavoro d’arte tipografica con arabeschi e un disegnino dorato in cui cinque puttini lavorano in un ambiente tipografico (interessante la cassettiera con i caratteri mobili e il seicentesco torchio in legno); la carta è pergamenata; i caratteri usati sono gli aldini; gli incipit dei capitoli hanno testatine e grandi lettere iniziali colorate con foglia d’oro; due pagine fuori testo custodite da una carta sottile tipo velina, in una v’è la riproduzione della Medaglia, nell’altra la fotografia della Pergamena d’Indirizzo al Ministro delle Finanze Agostino Magliani; in tutto si tratta pp. 4 bianche + 37 + 5 bianche.

Qui di seguito viene riportato uno dei testi in esso presenti.

 

Pietro Cavoti

Copertina: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Frontespizio: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

 

Testi

Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per l tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria.

L’opera mia fu accolta con somma benevolenza; e con espressioni assai cortesi fui chiamato a pubblicare questi brevi cenni intorno alla mia idea ed al lavoro dei valenti esecutori. Io corrispondo con animo pronto e volenteroso a sì cortese invito, perché fu ispirato dall’amore del luogo natio, e perché, quale che siasi questo mio tenue lavoro, spero che servirà d’incoraggiamento ai giovani, mostrando che la loro Lecce, culta e gentile, smentisce l’antico, amaro e scoraggiante proverbio: Nemo Profeta in Patria.

Adunque verrò esponendo quale sia stato il mio studio per accordare l’idea colla forma, in modo che le onoranze della mia patria al celebre Ministro AGOSTINO MAGLIANI fossero quali si convengono alla dignità di chi le offre ed alla virtù dell’uomo cui spettano; poiché il suo sapere e i suoi fatti pel governo Italiano lo rendono degno di essere annoverato fra i pochi sommi, che in Italia hanno dato vigore a quella scienza, che cerca la ricchezza e la potenza de’ popoli, ed esige aumento e gloria da noi, ora che siamo liberati dal flagello delle male Signorie.

 

MEDAGLIA D’ORO AD AGOSTINO MAGLIANI

E. Maccagnani Mod. – G. Vagnetti Inc. in Roma.

Rovescio: La statua dell’Italia, con al fianco il leone con scudo crociato, che stringe la mano alla Provincia di Lecce con al suo fianco lo scudo col delfino. Sullo sfondo il treno con locomotiva sulla strada ferrata): «ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM – MCXXXII». Prof. P. Cavoti Int. – E. Maccagnami Mod. – G. Vagnetti Inc.

 

CONCETTO DELLA MEDAGLIA

Se il trovare l’epigrafi, i motti, le imprese e le medaglie è cosa difficile per se stessa, certamente cresce molto la difficoltà quando è sterile l’argomento. Ognuno vede quanto poco si porga alla plastica (specialmente per la numismatica) un contratto di mutuo: pur nondimeno è questo appunto il tema della nostra Medaglia.

Sarebbe stato ovvio e facilissimo il trattarlo, ponendo nel diritto l’effigie del celebre Ministro, e nel rovescio una breve iscrizione, che dicesse quello ch’egli aveva operato a pro della Provincia salentina: ma in tal modo si sarebbe ricorso alla epigrafia, quando era pregio dell’opera esprimere il fatto con una rappresentazione, come si conviene ad una medaglia. Imperciocché questo piccolo monumento, essendo di sua natura scultorio, è necessario che parli colla massima sobrietà e chiarezza per mezzo della imagine, alla quale l’epigrafe non deve servire ad altro che a determinare quello, che non si può col linguaggio della figura.

Meditando e rimeditando, trovai che in questo caso la Medaglia non doveva essere soltanto onoraria, ma altresì commemorativa. Primo, perché così la richiedeva un fatto di tanta importanza nella storia commerciale della Provincia salentina: fatto che tornerà a vantaggio della nostra gran patria comune. Secondo, perché così si eleva al suo giusto grado l’onore meritato dall’illustre Economista, imperciocché il suo nome, associato a quello di una Provincia, non resterà racchiuso entro i limiti personali e fra i ricordi di famiglia; ma si estenderà quanto la sfera del progresso contemporaneo delle provincie d’Italia. Terzo finalmente (e questo è più importante) perché questa Medaglia dirà ai nostri nepoti, che quando l’Italia riguadagnò fra le altre nazioni il suo posto d’onore, da tanti anni perduto, i reggitori di questa Provincia seppero, coi loro saggi provvedimenti, stendere queste strade ferrate sul suo terreno, posto come anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente, e così resero più comodi i commerci fra i due mondi, nell’epoca appunto in cui tutti i popoli si affaticavano a stringersi la mano, anche divisi dalle regioni più lontane.

Guardato da questo punto un tema sì sterile a primo sguardo, mi parve poi sì poetico e fecondo, che, studiandolo nella sua pienezza, vidi bentosto la necessità di premerne il sugo, e andai cercando un concetto che, coi mezzi della numismatica, si manifestasse chiaramente.

Quel concetto mi suggerì la leggenda del diritto, e quella del rovescio colla sua allegoria; m’ispirò l’indirizzo in pergamena, e mi fece immaginare la decorazione, che lo contorna. Cosicché tutto il mio tema altro non è che una sola idea incarnata in triplice forma, tradotta in triplice linguaggio. Si concentra nella Medaglia e nelle sue leggende col laconismo numismatico ed epigrafico; si sviluppa nell’Indirizzo colla libertà della prosa; e finalmente viene illustrato nel suo contorno colle iscrizioni, coi simboli e colle allegorie.

Ecco il concetto della Medaglia.

Nel suo diritto, intorno al ritratto del rinomato MAGLIANI, scrissi: AUGUSTINUS MAGLIANIUS D[‘]ECONOMIAE STUDIIS INSIGNIS; perché cola leggenda volli accennare intorno alla fisonomia il profilo, per così dire, della mente dell’uomo, nel quale l’Italia ha trovato il Ministro, che presiede alle Finanze col diritto, che gli viene dal suo valore nella scienza.

Ad esprimere nel rovescio il fatto, in cui egli ci fu sì vantaggiosamente fautore, e che ha per noi e per l’Italia quella importanza, che di sopra abbiamo accennato, mi parve che la forma più vivace sarebbe una rappresentazione allegorica. Per ciò disegnai la maestosa ed augusta figura dell’Italia, che abbraccia la nostra Provincia, e le stringe la mano, conducendola su di una strada ferrata, che va a perdersi nell’orizzonte della scena, in cui si vedono locomotive correnti in varie direzioni. La nostra Provincia pone il piede su di una delle due rotaie, e sull’altra ha posto il corno della prosperità e dell’abbondanza. Sul capo delle due donne splende la Stella d’Italia, e su di essa s’inarca la leggenda: ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM [Una sostiene all’altra].

Le due rotaie, passanti dinanzi ad una colonnetta miliaria, di forma moderna, presentano i loro estremi ricurvi in su, come si vedono al termine delle strade ferrate, per indicare con ciò in quale della Penisola stia la Provincia salentina. Sulla colonnetta si legge il numero di chilometri della distanza di Lecce dal mare.

 

PERGAMENA

INDIRIZZO

All’idea, così rappresentata nella Medaglia, mi pare che possa servire di sviluppo la prosa dell’Indirizzo, come alle parole dell’Indirizzo servono d’illustrazione i simboli, i motti e le iscrizioni del suo contorno. Ecco le sue parole:

AD AGOSTINO MAGLIANI

Senatore del Regno d’Italia e Ministro delle Finanze

L’Italia, già fatta nazione, si affretta, colle altre sorelle, alla grande opera della civiltà universale. Quindi è per noi sacro dovere il tramandare ai nostri figliuoli, come ammaestramenti di famiglia, i nomi degli illustri contemporanei, e specialmente di quelli che, con sapienza civile, seppero dare norma al nostro riordinamento, serbandosi intemerati in questa epoca, che per l’Italia è transito alla sua vita nuova.

Fra i nomi di questi sta scritto il vostro, o Signore; lo richiede la storia della Economia e delle Finanze; e la nostra Provincia vuole imprimerlo in una Medaglia, affinché resti come stampato in una pagina d’oro.

Voi sapeste riordinare secondo la giustizia sociale i tributi, e promuoveste i progressi della Nazionale Economia. Voi manteneste il credito Italiano in questa epoca fortunosa. Voi liberaste il Popolo dalla odiosa imposta sui cereali. Voi deste opera all’abolizione del Corso Forzoso. Voi, guardando sempre alla prosperità della nostra gran patria comune, faceste sì che la provincia idruntina avesse più presto, e con facile dispendio, le strade ferrate che saranno ravvivatrici di quella prosperità civile che da lunga età languiva, malgrado i doni che ne fece Iddio.

Se Taranto gioverà meglio all’Italia pei bisogni della guerra; se Lecce e Gallipoli feconderanno meglio di prima studii e i commerci della pace; se brindisi ed Otranto stenderanno più agevolmente di prima le nostre braccia all’Oriente ed all’Occidente coi paralleli delle strade ferrate e col mare; e se questi beni della Provincia messapica torneranno a vantaggio della nostra intera nazione, tocca a Voi, o Signore, il vanto di avervi efficacemente operato. E quando sorgerà il tardo, ma giusto giudizio della Storia, i nostri nepoti sapranno che mentre il Ministro della Istruzione Pubblica era intento a cavare dalla loro tomba le eloquenti reliquie della nostra antica cultura tarentina, il Ministro delle Fnanze, l’Illustre Economista AGOSTINO MAGLIANI, si adoperava a facilitare i mezzi, affinché potessimo renderci di quella degni eredi e continuatori.

Di tanta importanza è il fatto che Voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuol tramandarlo ai posteri come un’altra fra le corone del merito civile vi tributa l’Italia.

Lecce 1882

 

Il Presidente del Consiglio Provinciale

GAETANO BRUNETTI

del fu Francesco

 

 

In queste parole vedesi chiaro che l’odierno stato d’Italia è il fondo, su cui si accennano i fatti principali del Ministro per la prosperità della nazione risorta. Fra quelli si annovera la sua cooperazione per le già dette strade ferrate, ch’è la giusta orazione di queste onoranze. Ecco la decorazione allusiva che lo contorna.

Nei quattro angoli della cornice, di gusto barocco, i quattro capoluoghi della Provincia di Terra d’Otranto sono indicati dai loro rispettivi stemmi, tenuti da genietti a gruppo, tra quali alcuni fanno svolazzare cartelle con leggende esprimenti i pregi caratteristici di ciascun luogo, sì morali come storici e geografici, ed anche la loro destinazione secondo il nuovo ordinamento della nostra nazione.

Lecce ha sulla sua targa il lupo passante da destra a sinistra sotto l’albero di leccio, e la sua leggenda Artes Ingenuae et Iura rammenta i suoi studii antichi e fiorenti tuttora.

Gallipoli ha il gallo che tiene colle zampe la storica divisa Fideliter excubat; e i suoi pregi geografici e morali sono compresi nell’ampio significato della scritta Terrae marisque dives.

Brindisi ha sulla sua impresa il massacro sormontato da due colonne coronate all’antica. La sua leggenda definisce il suo sito, dalla natura e dalla nazione fatto porto di molta importanza pei commerci fra l’Oriente e l’Occidente; Statio tutissima nautis.

La gloriosa ed antica Taranto ha in capo allo scudo la conchiglia intercalata col nome Taras, e il il corpo dell’impresa è il Taras sul delfino. La scritta Armamentarium Italicun accenna il suo nuovo destino, che ci desta le sue memorie di guerra nel mondo romano.

Gli spazi della cornice, che si avvicinano a questi gruppi, sono adorne di cose allusive alle rispettive leggende.

Pensando che i due stati supremi a cui si riduce la vita dei popoli sono la Pace e la Guerra (domi belliqua) collocai ne’ due centri dei lati verticali di questa cornice i due simulacri della Pace e della Guerra: la prima fra le parole di Silio Italico:

Pax optima rerum

Quas homini novisse datum…

… Pax custodire salutem

Et cives acquare potest

 

la seconda fra quelle di Epaminonda riferite da Plutarco:

Pax Bello paratur, nec tam eam tueri licet nisi cives… ad Bellum instructi.

 

Nel lato superiore è fissata da due borchette la pergamena coll’Indirizzo contornato da meandri d’oro, e adorno del piccolo mezzobusto dell’Italia miniato nell’iniziale.

Questa pagina è alquanto accartocciata nei due angoli del lato inferiore, sicché scuopre due paesi lontani in basso del quadro sul quale scende. In uno, le piramidi e le pagode indicano l’Oriente; nell’altro il Campidoglio e il Vaticano rappresentano l’Italia nelle due grandi epoche della sua storia. Fra queste due scene intercedono campagne, ponti e mare, e corrono locomotive e battelli.

Nel centro di questo lato siedono due putti tenendo lo stemma della città di Otranto, che dà il nome a tutta la Provincia; la quale cole nuove strade ferrate avvicinerà più comodamente di prima Alessandria d’Egitto a Roma. La leggenda di questa parte è:

Distantia jungunt.

Finalmente il quarto lato superiore, che chiude il quadro, ha nel centro un piccolo monumento, in cui vedesi in bassorilievo il ritratto del rinomato Ministro, ed intorno tre genietti che mostrano i fatti principali della sua vita pubblica, scritti in cartelle: la Quistione della Moneta, l’Abolizione della tassa sui cereali, l’Abolizione del Corso Forzoso. Sul piccolo imbasamento vi è questa epigrafe in lettere di oro:

AUGUSTINUS . MAGLIANIUS

Aerarii . Italici

Serbator . et . Auctor

MDCCCLXXXII

 

La composizione di questo gruppo è tratta dalle parole dell’Indirizzo, che sono queste:

«Di tanta importanza è il fatto che voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuole tramandarlo ai posteri, come un’altra fra le corone del merito civile che vi tributa l’Italia.»

 

Quindi vedesi la Provincia di Terra d’Otranto, che pone una ghirlanda d’alloro sul ritratto del Ministro, il quale, secondo l’epigrafe, rammenterà nella storia un’era prosperevole delle finanze del Regno d’Italia.

Su questo lato della cornice, ch’è il principale, vi è la scritta dedicatoria:

Sunt heic suae praemia laudi.

 

Mi pare conveniente che la cornice di legno, che racchiude il quadro, non fosse un ornamento senza significato, e per gli angoli mi giovai del delfino che morde la mezzaluna, e che, posto sui pali di rosso e d’oro, è lo stemma della Provincia.

 

ESECUZIONE

Posciacché ebbi determinata l’idea e la forma, pensai che le opere d’arte, quando giungono ai nepoti, manifestano la mente degli avi non solo, ma anche il grado della loro cultura; imperciocché parlano (a chi sappia bene intendere) direttamente per mezzo della rappresentazione, e con vivacità maggiore nel loro linguaggio estetico, ed anche coi mezzi tecnici, senza bisogno di alcuna parola, absque ulla literarum nota. Quindi cercai, per quanto mi fu possibile, che l’esecuzione fosse tutta lavoro del paese che l’offriva; affinché come pianta indigena mostrasse quale fosse la nostra natural disposizione, e quale lo stato di cultura quando si fecero queste memorie. E però, giovandomi dell’assoluta libertà, che cortesemente mi era data per compiere l’incarico, mi parve giusto e bello scegliere giovani leccesi; tanto più che ben sapeva come dell’opera loro mi sarei giovato con felice affetto.

È vero che quanto io richiedeva era ben poco a mostrare tutto il loro valore; ma tanto bastava al mio intento: varcare i limiti sarebbe stato per lo meno inopportuna abbondanza.

 

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Eugenio Maccagnani, già conosciuto in Italia per opere premiate e di grandi proporzioni, modellò la Medaglia colla grandiosità scultoria, che anche in piccolo ti fa vedere il colossale; ciò ch’è mirabile pregio della glittica e della cultura.

Questo valente giovine, per lunghi e severi studii fra i tesori antichi di Roma, sa giovarsi della forma greca, sicché ne veste l’idea senza sforzo e senza pedanteria. Lo Spartaco, il Mirmillone, l’Aspasia, il Primo Bagno sono opere sue che ciò provano abbastanza.

Nella Medaglia al Ministro MAGLIANI egli ci fa vedere come la stessa mano, che tratta il mazzuolo e la gradina nei monumenti colossali, sappia pure maneggiare la stecca delicata per modellare le piccole forme di una medaglia e di una gemma.

Egli ha ritratto il MAGLIANI colla massima somiglianza, ricercando con sommo giudizio tutti quei minuti e vivaci particolari, di cui si compiace il naturalismo; ma conservando sempre la larghezza della forma scultoria: e ciò non riesce facile a chi non sia nato col sentimento della scultura.

 

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Egli è facile intendere che quando l’opera dello scultore vien trasportata nelle piccole proporzioni del conio dall’incisore, deve subire tutti i pericoli di un testo che passi alla traduzione. Se l’incisore non è artista capace, d’interpretare bene il modello può avvenire che, malgrado la somma diligenza del suo lavoro, faccia sì che lo scultore non vi riconosca più l’opera sua.

Il calco del Maccagnani fu inciso da Giovanni Vagnetti artista degno della sua Firenze. Se fosse mestieri rilevare un ignoto, mi basterebbe apporre qui il catalogo delle medaglie da lui eseguite per celebrare uomini e fatti memorandi della nostra storia: ma il Vagnetti è omai noto abbastanza. A noi occorre dire che il tipi del Ministro MAGLIANI è stato inciso da lui con giusta lode per altre simili onoranze. Ecco perché egli ha saputo capire ogni piano ed ogni piccola modellatura del bassorilievo dello scultore, sicché l’opera sua ha tutto quel pregio che noi qui accenniamo di volo, perché senza la Medaglia non può gustarsi cola sola fotografia.

Sono lieto di avere avuto fra i miei concittadini un distinto valentuomo della mia direttissima Firenze; ma mi duole che l’arte d’incidere le medaglie non si trovi fra noi; e vorrei che sorgesse alcuno ben disposto a coltivare questo ramo dell’arte scultoria severo e difficile quanto necessario ai lumi della storia; cosicché queste mie parole restassero a provare che, quando la nostra Provincia coniava la prima medaglia commemorativa, cominciava allora a coltivarsi quest’arte da tanta età spenta fa noi, dopo i conii bellissimi delle antiche medaglie Tarentine.

 

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L’ornamento della pergamena cercai che avesse un carattere ricco ma serio, e lo volli monocromo, eccetto nei festoncini dei fiori, procurando l’effetto nel giuoco dei piani e della luce. A questo si porge benissimo il barocco elegante della decorazione della nostra architettura del secolo XVII; ed io mi attenni a quel gusto, anche per dare con ciò il tipo dell’arte nostrana.

Questa parte fu da me affidata al signor Pietro De Simone, giovine anch’esso, e leccese come il Maccagnani.

Il De Simone pittore, miniatore e calligrafo ha molto lavorato in Roma per distinte ed onorevoli commissioni. Egli condusse questa pergamena con quel grado di esecuzione che si richiedeva, secondo quel ch’egli ha appreso da pregevoli modelli, lasciando, cioè, quel tormentoso meccanismo che talora raffredda e distrugge l’effetto per la noiosa lisciatura. Che il De Simone abbia ciò fatto con lodevole accorgimento, si vede bene, osservando che, dove l’arte lo richiedeva, egli è stato minuto e diligente miniatore.

Merita lode anche la sua fermezza di mano, e la nitidezza del carattere; che io scelsi di forma latina, come è nei codici del buon secolo, perché la leggiera eleganza, e le bizzarrie e la destrezza di mano nei ghirigori della calligrafia moderna male si addirebbero alla serietà dell’Indirizzo ed alla severa maestà della lingua latina delle epigrafi che accompagnano le figure.

 

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L’intaglio della cornice è lavoro del signor Giuseppe De Cupertinis, anch’esso leccese, giovine distinto con premii riportati per opere d’intaglio in legno. Egli è il primo che fa risorgere fra noi quest’arte decorativa, già spenta coi nostri arcavoli, che ci hanno lasciato pregevoli lavori qua e là in alcune chiese ed in qualche antica mobilia. Quel poco che finora ha fatto qui il De Cupertinis ne assicura ch’egli impianta la sua scuola con prosperi auspicii. Così possano i ricchi persuadersi del sapiente consiglio del Venosino:

Nullus argento color est avaris

Abdito terris, inimice lamnae

… nisi temperato

Splendeat usu;

 

e intendano una volta che l’uso più bello, e più nobile dell’argento è quello che giova ad incoraggiare le arti e le industrie del proprio paese.

 

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Queste mie schiette e libere parole ai valenti giovani, che condussero con tanto amore questo lavoro, valgano ad argomento dell’affetto con cui la loro patria corrisponde a quelli che seppero attuare gloriosamente le speranze che le fecero concepire nei loro primo anni.

Intanto io vorrei che ciò fosse grato anche a tutti gli altri loro confratelli d’animo e d’ingegno eletto, dai quali si spera che sieno ravvivate, a seconda dei nostri tempi, non solo le Arti del Bello, ma altresì tutti i rami delle arti fabbrili, che solo da quelle possono ricevere grazia, bellezza, e quindi aumento di valore.

Così la cura e il dispendio della nostra Provincia, adoperati a facilitare colle strade ferrate il commercio dei nostri lavori, non saranno sprecati per un popolo infingardo, che non sappia offrire altro che i prodotti del suo terreno, fecondo non tanto per opera dell’uomo quanto per sua natura.

Grave danno e somma vergogna sarebbe certamente se i mezzi commerciali che andiamo procurando, invece di servire ad un florido scambio delle nostre opere industriale cin quelle de’ nostri vicini, non servissero ad altro che a renderci più facile il viaggio per pagare, quale tributo della nostra ignoranza, il prezzo dei prodotti dell’altrui cultura, restando noi sempreppiù oppressi dalla ignavia e dalla sonnolenza.

Pensiamo che se noi Italiani fummo forti e longanimi nel cospirare; se fummo coraggiosi e fieri nel combattere, e riconquistammo l’indipendenza politica, non però abbiamo fin  qui riguadagnato la nostra antica indipendenza dalle arti, e dalle industrie dello straniero. Pur troppo siamo ancor scoperti da questo lato agli assalti di quelle: assalti assai più funesti delle armi, perché non uccidono di un colpo solo, ma fanno morire nella fame, dopo averci fatto lungamente agonizzare nella corruzione.

Intanto gli è certo che oggigiorno il progredire ci costa assai meno di quel che ci costava prima; imperciocché la nostra attività non è più rannicchiata e costretta entro la cerchia di una città o di una provincia, come quando ci univa la comune sventura.

In quello stato miserando divisi, spogliati, collo straniero sul collo, e costretti a diuturne umiliazioni, eravamo quasi per perdere ogni speranza di far bene e perfino la coscienza del nostro ingegno. Ma ora lo sviluppo delle nostre forze morali non ha nessuno impedimento. Al regno che premiava gl’ingegni coll’esilio, col carcere, colla ghigliottina, è succeduta la Patria che si adopera sollecita con ogni studio a favorirli.

Quindi è che per non vi ha più scusa, e siamo responsabili in faccia all’Italia, come l’Italia alla presenza delle altre nazioni.

Ed a me pare che la responsabilità di noi Italiani moderni abbia questo di proprio: ch’essa è tanto più grande in confronto di quella degli altri popoli, quanto sono più gloriose in confronto delle altrui le nostre antiche tradizioni. Se gli altri rivolgono lo sguardo al loor passato possono sempre vantarsi di avere progredito riguardo ai primi passi del loro incivilimento; ma noi non potremo mai vantarci di camminare avanti se prima non saremo tornati quelli che fummo quando gli altri si affaticavano a raggiungere la nostra cultura.

Ma speriamo ed operiamo fermamente. Egli è certo che non è spento in noi «il fondamento che natura pone». Egli è certo che vi è la libertà della stampa, e che si vanno sempreppiù stendendo ed incrociandosi per tutto il Bel Paese le fila de’ telegrafi e le rotaie delle strade ferrate.

 

* pubblicato su Il Filo di Aracne

Lettere inedite tra Gioacchino Toma e Pietro Cavoti

 

di Luigi Galante

Rarissimo ritratto fotografico di GToma Foto LGalante
Rarissimo ritratto fotografico di G.Toma. Foto L.Galante
Pietro Cavoti
Pietro Cavoti

 

 

Nel convegno di studi tenutosi a Galatina da valentissimi Professori dell’Università del Salento, in chiusura del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata rievocata la figura del patriota garibaldino e pittore galatinese Gioacchino Toma. Ad ogni relatore è stato concesso uno spazio per delineare la figura artistica del Nostro. Molto apprezzati sono stati gli interventi dei Professori, che hanno tracciato perfettamente chi la figura umana, chi ha descritto i dipinti, chi la sua vita napoletana, chi invece ha rievocato la triste e dolorante adolescenza, generata dai suoi stessi parenti, che è stata forse il periodo più tormentoso dell’orfano, e che lo ha spinto poi alla fuga da Galatina. Ma tutto questo è assai noto, perché descritto con precisa memoria nel suo unico libretto dei Ricordi di un orfano. Rammento che il Prof. Vallone durante il suo intervento, sollevò dei punti interrogativi. Perché vi è stato tanto silenzio del pittore sulla sua Galatina? Perché parla pochissimo del suo paese dopo la sua giovinezza? Perché dopo il suo involontario e profondo distacco da Galatina, non vi è traccia di un suo ritorno e tanto meno di una sua possibile corrispondenza con alcuni personaggi galatinesi? A queste domande posso oggi dare risposta. La curiosità di poter trovare qualche possibile traccia epistolare mi ha spinto a cercare null’unico luogo possibile: il Museo Cavoti di Galatina. Mi sembrava impossibile che due personaggi quasi del tutto coevi, entrambi artisti e concittadini non fossero in relazione. E poi Cavoti, amava Galatina in modo profondo, ne ha custodito con disegni ogni possibile memoria, come quelle fondamentali della casa Arcudi, perché non sperare in un suo legame anche al Toma? Nei primi giorni di gennaio, intento a consultare uno dei tanti raccoglitori, la mia attenzione fu attirata da un foglio con la quale Cavoti aveva annotato alcune famiglie importanti di Galatina, con relativa posizione sociale. In questo curioso appunto, figura anche il nome di “Gioacchino Toma – Belle Arti…Medico (il padre) – Onore”.

Studio in gesso del volto di G Toma custodito nel Museo  Cavoti - Galatina
Studio in gesso del volto di G. Toma custodito nel Museo Cavoti – Galatina

Quel piccolo ritrovamento accese in me la speranza, di poter trovare ancora dei documenti riconducibili al pittore. E ancora, un’altra annotazione cavotiana, riconduce sempre al pittore di Galatina “Gioacchino Toma mi scrive per ricevere la mia visita in casa sua a Napoli. Gli risposi il 14 settembre 1861”i. Di questa lettera non ho potuto trovare copia.

Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito

 

La mia convinzione che tra Cavoti e Toma ci fossero legami amichevoli, e forse anche degli incontri, era però confermata. Lo seppi ancor meglio quando in un taccuino rintracciai l’indirizzo di Gioacchino Toma a Napoli, che Cavoti aveva diligentemente annotato. “Prof. Toma Gioacchino, via della Valle 43 Napoli”.ii Da quell’istante la certezza era realtà. Ed ecco venir fuori un altro scritto di enorme interesse, perché ci racconta in pochissimi righi lo stato d’animo in cui era Gioacchino Toma nell’ottobre del 1864. Scrive Cavoti: << N.B.-Incontro. Incontrai Gioacchino Toma in Napoli il dì 18 ottobre 1864. Lo vidi assai magro e pieno di ansia, ma in ottima salute. Mi salutò piangendo e promisi di rivederlo. Lo supplicai (venire) a Firenze e poi a Galatina, ma mi rispose tosto >>iii. La conferma di quell’incontro tra i due artisti galatinesi mi portò a cercare con estrema attenzione tra le carte cavotiane, traendo da un altro taccuino lo schizzo a matita del ritratto di una giovane donna. In basso al disegno Cavoti annota <<Nannina. Mi si offrì volentieri a posare nello studio dell’amico Gioacchino Toma. Napoli 15 aprile 1863.>>iv . Una nuova conferma della loro amicizia e del loro contatto nella casa napoletana di Toma. La scoperta poi del bellissimo ritratto di Nannina eseguito dal Cavoti, fornisce con esatta precisione quel volto di donna che per molti anni aveva posato per il Toma, come confermato dallo stesso, nei Ricordi di un orfano.v Le scoperte più importanti sono arrivate nei giorni successivi. Dopo un’ accurata analisi di tutto il Fondo cavotiano, sono emerse tre lettere, dai contenuti di intensa amicizia. Una era indirizzata da Cavoti all’amico, e due del Toma a Cavoti. Il ritrovamento, fino ad oggi sconosciuto a tutti gli studiosi che si sono interessati scrupolosamente del Toma, danno luce al legame con “l’unico amico vero” rimastogli a Galatina. In una delle due intense lettere, scrive: << Ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina…..Perché turbi il cuore colla nostra Galatina? >> E ancora << Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina… Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. >> Frasi forti, fortissime, che traboccano di immenso sentimento per Galatina che Toma non vedrà mai più. Questo segreto nascosto, ed oggi riemerso, lo dobbiamo sempre e solo al nostro Pietro Cavoti. Lascio ora ai lettori di questa rivista che spesso ospita miei saggi, il piacere di gustare le splendide ed inedite lettere tra due illustri che in passato fecero grande Galatina.

Lettera autografa di G Toma
Lettera autografa di G. Toma

 

lettera autografata di G. Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922

 

 

Lettera da Toma a Cavoti

 

viNapoli da casa 12 Gennaio 1862

Pietro Cavoti

Caro fratello mio

Di quanto sollievo, di quanta consolazione sia stata la tua amabilissima a me che vivo vita da te divisa, vorrei dirtelo con parole; ma temendo che io non possa appieno manifestare tutto quel che sento, lo lascio alla tua immaginazione. Ne’ tuoi caratteri ho veduto a chiare note scolpita la tua chiara affezione verso di me, ho ritrovato io la vera immaginazione del tuo cuore sempre tendente al bene, e mi son rallegrato moltissimo d’aver finalmente rinvenuto un caro amico che mi parlasse veramente da fratello. Oh! Pietro mio, quanto è difficile cosa ritrovar a dì nostri un’anima che a fronte aperta ti sollevasse di cuore. La vil turba dei gonzi che s’incalza e preme ha fieramente profanato il santo simulacro d’amicizia; ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina, ma fortunatamente trovato in tal epoca costà. Di qui è che se vedo un cuore il quale si confaccia alla mia tempra ardo di cuore per quello, lo desidero, lo bramo fortemente, e vorrei seco menare i miei giorni. Oh! Quanto dura mi è quindi la lontananza mio caro Pietro che mi divide in te, io avea già ritrovato il mio Duce, il mio amico, il mio tutto. Ma ciò è finito. Pazienza. Mi domando Pietro mio che fò? Perché mi turbi il cuore colla nostra Galatina? Il ritornare è morire. Meno i miei giorni con la mia tavolozza. Credi forse ch’io mi sia dimenticato de’ nostri amici? No, certo di no. Su di questo particolare parleremo a lungo di presenza. Amami come io ti amo e ricordati del

Tuo Affezionatissimo Amico e fratello

Gioacchino Toma

N.B. Gli amici napoletani Michele Simonetti, Gennaro Spasiano e Antonio Migliacci ti bramano ardentemente qui. Tutti ti salutano.

 

Napoli -1874

Mio caro Pietro

Ho ricevuto la tua ultima lettera del dì 11 novembre. Scrivente di questa mia è il caro amico Giuseppe Boschetto,viii non potendolo fare di proprio pugno perché affetto da forti dolori alle povere braccia e al costato. Pietro mio caro, tu mi fai il dono a quante volte mi torni alla mente i nostri discorsi ed i nostri lamenti soavi alla mia memoria. Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina. Nelle tue letterine trabocca la mia mente al passato ai giorni giocondi di giovane fanciullo con gli amici oramai perduti. Quante fiate trafiggi la mia anima, non torturarmi ancora amico mio. Piango. Piango. Piango sempre la mia Patria. Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. Tu fratello mio provasti le mie stesse sofferenze, ma il debole destino ti ha riportato soave alle tue belle e dure faccende della Commissione Conservatrice di belle Arti. Le ore per me più care sono qui , quelle che io consacro allo incantesimo della mia tavolozza, dei miei colori, le mie tele adorate da me sempre, e tu che hai l’anima fatta ad amarle; e forse più che la mia , non crederai esagerato quanto ti dico? Tempo addietro in un momento di dolce ricordo menai in fretta sulla tela quello che i miei piccoli occhi videro la prima volta, la mia tanto amata casa e la bella Chiesa di Santa Caterina, ma non distò due giorni che l’animo mio era in triste subbuglio, e i ricordi diventarono inferno, e in un attimo di pazzia distrussi quello che era l’unico ricordo della mia Galatina. Oh! Caro Pietro, scrivimi, scrivimi sempre, fammi toccare le tue belle lettere che giungono da colà, ma non fare verbo con nessuno, te ne prego. Tu solo sai la nostalgia che meno. Non indebolire la mia forza. Basta, Basta, Napoli è la mia pace. Perdonami Pietruccio mio, ma sono lacerato da forti dolori. Non ti soggiungo altro. Amami molto chi ti ama assaissimo.

 

Ti abbraccio mille e mille volte e siati sempre caro

Il tuo costante Amico vero

Gioacchino Toma

ixGalatina li 15 Ottobre 1874

Gioacchino mio caro

Ebbi la tua aspettata e bella lettera il di 21 scorso. Mi dici nella tua che assai ti pesa la lontananza degli amici cari, ma che l’ami, non però. Oh quanto sei lodevole per ciò. Come dice il Pellico all’oggetto <<per esercitar bene la divina scienza della carità con tutti gli uomini, bisogna farne il tirocinio in famiglia >>. Siamo figli della stessa Patria caro Gioacchino. Qual dolcezza nell’aver trovato appena venuti al mondo gli stessi oggetti da venerare con predilezione. Ma passiamo ad altro. Leggo che sei tornato sulle tue care tele dopo lunga assenza, e di questo son contento. Non cader più allo sconforto degli anni passati, cancella dal tuo cuore i nostri ricordi che oggi ancor ti affliggono. Lavora le tele, guardati dall’egoismo; proponiti ogni giorno nelle tue fraterne relazioni desser generoso. Che debbo dirti di più? Io non vorrei finirla mai. Fratello mio, non lasciarmi privo di tue nuove ad ogni tanto che potrai. Scrivi un rigo e mettilo alla posta, che io l’avrò assai assai. Ossequia per me la tua famiglia. Che Dio benedica sempre noi nel suo amore. Accetta, o fratello un bacio di cuore, e ricorda che il tuo caro Pietro ti annovera tra i più cari al cuore. Da casa L’Amico tuo vero

 Pietro Cavoti.

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i* Per la consultazione dei testi, delle immagini riprodotte in digitale e dei doc. cavotiani, ringrazio il Comune di Galatina e tutto il personale della Biblioteca P.Siciliani e del Museo Cavoti di Galatina. Le foto sono di Luigi Galante.

** Per la prima volta in assoluto, viene pubblicata l’unica fotografia poco nota di G. Toma. Vedi G. Calò, Gioacchino Toma pittore, Biblioteca P. Siciliani Galatina, – Firenze : G. C. Sansoni, 1923, coll. D II Cart. Q / 22.

*** Il disegno cavotiano del giovane Toma, fu da me individuato nel luglio 2008 e pubblicato in copertina al Bollettino Storico di Terra d’Otranto n. 15. Si noti, al centro in basso del ritratto, oltre alla firma autografa di Cavoti, lo scritto del nome di “G. Toma”

 Album 3380, teca mobile sala 3, foglio 81

ii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.4150

iii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.499, sala 3, teca blindata 2

iv Racc. 3411, teca mobile sala 3, foglio 22

v Vedi G. Toma, Ricordi di un orfano, a cura di Aldo Vallone, Congedo Ed., Galatina 1973, pp. 91,93. <<…posai gli occhi su di una graziosa ragazza vestita tutta di nero. Pensai di fare un grazioso quadretto con quella bella figurina, e fattole domandar s’ella volesse prestarmi a farmi da modella, avendo accondisceso, dipinsi con essa un’orfana.>>

vi Racc. 1858/2063, sala 3, teca blindata 2, inv.1926. Da una attenta indagine , è stato possibile individuare l’attività degli amici di Toma che salutano a chiusura di lettera P. Cavoti. Si tratta di Michele Simonetti – architetto, Gennaro Spasiano – Dott. Fisico, e Antonio Migliacci – pittore.

vii Racc. 34(?)2/34(?)3, sala 2, teca blindata 1. La lettera è custodita nei “Documenti proprietà Cavoti e Torricelli” identificata con il n° 13

viii G. Boschetto, pittore. Napoli 1841/1918. Fu ammesso giovinetto nello studio di G. Mancinelli; seguì gli studi artistici sotto la guida di D. Morelli.

ix Racc. 955/1500 teca blindata, sala3. La lettera risulta mancante di numero di inventario perché collocata dopo 2 pagine bianche dal n° di inv. 1217.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Scultura dell’Otto e Novecento nel museo Cavoti di Galatina

 

di Lorenzo Madaro

L’interesse per la scultura pugliese dei secoli XIX e XX da parte del mondo degli studi storico-artistici ha registrato negli ultimi anni un netto aumento; non sono mancate, difatti, importanti iniziative editoriali ed espositive. Nell’orbita di questo interesse vanno inquadrati questi appunti sulla collezione di scultura conservata nel Museo Civico “P. Cavoti” di Galatina, di cui ringrazio il personale, in particolare Silvia Cipolla, per la disponibilità accordatami durante i miei sopralluoghi.

Situata in un’ala dell’ex Convento dei P.P. Domenicani di Galatina – dal 2000 sede del Museo civico, dopo il trasferimento delle collezioni dalla vecchia sede di Palazzo Orsini inaugurata negli anni trenta ed attiva solo per pochi anni – la sezione scultura del XX sec. comprende una consistente e disomogenea raccolta di opere di alcuni artisti nati o attivi sul territorio salentino tra otto e novecento ed è da annoverare tra le raccolte più significative del territorio pugliese. È senz’altro la donazione Gaetano Martinez il nucleo più consistente con poco più di trenta opere, alcune delle quelli tra le più interessanti del suo percorso di ricerca, che sono state donate dallo stesso artista nell’agosto 1928 (Specchia, 2003). Così come confermano alcune iscrizioni poste sul retro delle sculture, la donazione di alcune opere del maestro si è certamente protratta anche in anni più recenti, come nel caso di un Nudo femminile del 1947 donata da Giovanni Giunta di Roma nel 1988. Nato a Galatina nel 1882, dopo una prima formazione avvenuta nella locale Scuola di Arti e Mestieri diretta da Giuseppe De Cupertinis, si trasferisce a Roma nel 1911, ma solo per un breve periodo. Al 1922 è datato il suo definito trasferimento nella capitale; nello stesso anno esegue il Caino, tra le sculture più affascinanti della sua produzione, in cui si avverte un forte senso di tragicità espresso tramite suggestioni rodiniane. A Roma non manca di avviare meditazioni sulla sintassi quattrocentesca, come attesta il gesso intitolato Adolescente (1926) al Museo Cavoti, ma gli interessi dello scultore sono molteplici. Numerose le opere degli anni trenta esplicitamente legate a quel senso arcaicizzante e monumentale tipico dell’indagine di un Arturo Martini, anche se in questo stesso decennio non rinuncia a un divertissement slegato apparentemente dalla sua ricerca, considerato che il Ritratto caricaturale conservato nella raccolta è datato 1935. Il decennio successivo, come avverte Federica Riezzo – curatrice, assieme a Giancarlo Gentilini, di una mostra antologica allestita nel 1999 a Palazzo Adorno di Lecce – si apre con la partecipazione alla Biennale di Venezia (1942) con una sala personale. Un riconoscimento al valore di un artista che in questi anni avvia “una singolare produzione di ‘teatrini’ in terracotta” (Gentilini, 1999) interrotta bruscamente dalla morte avvenuta nel 1951.

Un gesso di Pietro Siciliani, filosofo e pedagogista nato a Galatina nel 1832, ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, il legame profondo e autentico con la storia della città in cui è ospitata l’istituzione museale. L’autore dell’opera è Eugenio Maccagnani; nato a Lecce nel 1852 si forma inizialmente presso lo zio Antonio, celebre cartapestaio, per completare poi gli studi all’Accademia di San Luca di Roma, città in cui ha un ruolo preminente nella grande impresa del Vittoriano, inaugurato nel 1911. Autore di un nucleo alquanto consistente di sculture pubbliche e da camera, non troncherà mai i rapporti con la sua città natale; nella Villa Garibaldi, tra gli altri monumenti, si conserva proprio un Busto di Siciliani datato 1891. Muore a Roma nel 1930.

Giacomo Maselli, quasi ignorato dalle fonti pugliesi fino a tempi recenti, è autore di un ritratto in bronzo del Siciliani che restituisce un aspetto più intimista del filosofo, a differenza dei tratti fieri e vigorosi espressi dal Maccagnani. Nato a Cutrofiano nel 1883, nel 1904 si trasferisce a Milano, dove opera attivamente fino al 1958, anno della sua scomparsa. L’opera della raccolta galatinese è un doveroso omaggio a un cittadino illustre a cui è dedicata, tra l’altro, la Biblioteca Comunale ubicata nel medesimo stabile in cui è ospitato il museo.

La presenza delle due opere Gruppo antropomorfo e Vendetta, entrambe databili intorno al 1940, firmate da Pietro Baffa, esorta a qualche accenno, per lo meno biografico, sull’artista nato nel 1885 a Galatina. Si forma presso il locale Regio Istituto Artistico “G. Toma” e, come il compaesano Martinez, nel 1911 emigra a Roma. Frequenta il Museo Artistico Industriale, il neonato giardino zoologico – sin da questi anni si caratterizza come artista animalista – e lavora presso lo Stabilimento di mobili Loreti, dove perfeziona le sue competenze di ebanista, già parzialmente acquisite nel laboratorio paterno. Nel 1914 si sposta a Napoli; insegna presso il locale Istituto Artistico e respira per sei anni la cultura artistica partenopea. A Lecce diviene uno dei più validi maestri del Regio Istituto Artistico fondato dal Pellegrino. In Gruppo antropomorfo le masse dei due animali si fondono fino a diventare un tutt’uno, invadono lo spazio con uno spirito fantasioso che caratterizza ad esempio Tigre e Orso (Galatina, coll. privata), due terrecotte invetriate degli anni venti, assimilabili a un gusto liberty. Echi gemitiani, ricercatezza e raffinatezza esecutiva caratterizzano il satiro che con veemenza sguscia una lumaca in Vendetta, un gesso patinato, la cui replica in bronzo è conservata in una collezione privata leccese.

Rimorso, un gesso patinato del 1935 firmato dallo scultore neretino Michele Gaballo, è un’opera che testimonia l’operatività di un “autore di un numero assai considerevole di sculture in marmo, gesso patinato, bronzo, di vario genere” (C. Gelao, 2008), ma al contempo non ancora studiato approfonditamente. L’artista, nato nel 1896, dopo una prima formazione a Lecce presso la scuola di disegno annessa alla Società Operaia, si trasferisce a Napoli e, dopo poco, a Roma, dove collabora alla realizzazione della statua di Benedetto XV nelle grotte Vaticane (1923). Dopo il suo rientro a Nardò si dedica all’insegnamento; muore nel 1951. L’opera conservata nel museo galatinese ben s’inserisce nella sua ricerca plastica legata a certe istanze novecentiste che si ravvisano in particolar modo nella semplificazione dei tratti del volto.

Appartiene allo scultore leccese Raffaele Giurgola il ritratto di Carlo Delcroix che afferma quel forte senso di plasticismo che connota la sua produzione plastica. Nato nel 1898 si forma alla scuola di disegno della Società Operaia, per proseguire poi gli studi a Napoli, dove è allievo di Achille D’Orsi. Celebre per aver eseguito numerosi Monumenti ai Caduti nel Salento, è stato per quasi un trentennio docente presso l’Istituto Pellegrino di Lecce, città in cui è morto nel 1970.

Vittorio Vogna, artista nato a Galatina nel 1916, si forma nel Regio Istituto Artistico Industriale di Lecce, dove entrerà in contatto, tra gli altri, con lo scultore galatinese Pietro Baffa, docente di scultura con cui intratterrà rapporti amicali anche durante il suo trasferimento a Napoli, dove studia presso la Facoltà di Architettura. Ritorna poi nel Salento dove insegna nel suddetto istituto artistico e avvia la sua attività di architetto. Muore nella sua città natale nel 1995. Poche sono le opere note e si attende pertanto una prima analisi del suo percorso creativo che andrà eventualmente confrontato con i documenti conservati presso eredi e conoscenti. Il Museo custodisce, altresì, una Testa di fanciulla firmata da Nikkio Nicolini, autore misconosciuto che, secondo quanto affermato da Michele Afferri (in C. Gelao, 2008), ha eseguito quest’opera secondo i dettami di un gusto legato al recupero dei valori formali arcaici. Altri ritratti di uomini illustri cui Galatina ha dato i natali si riscontrano, così come per il citato ritratto di Siciliani del Maccagnani, in un corridoio interno al museo, dove sono collocati, altresì, dei ritratti di Baldassarre Papadia, Macantonio Zimàra, Alessandro Tommaso Arcudi e Pietro Colonna firmati, rispettivamente, da M. D’Acquarica, P. Bardoscia e C. Mandorino. Attenzione ai temi animalier si riscontrano poi in due pannelli di I. Montini, mentre è dello scultore A. Trono una Testa virile datata 1927 e difatti conforme a taluni orientamenti stilistici dell’epoca, come l’interessante maternità a firma di A. Duma, altro autore che meriterebbe un approfondimento. Restano poi alcune opere anonime, tra cui un Bozzetto di monumento, tutte da studiare e contestualizzare, anzitutto cronologicamente.

Bibliografia essenziale consultata:

Scultura italiana del Novecento. Opere tendenze protagonisti, a cura di C. PIROVANO, Milano 1993. Gaetano Martinez. Scultore, a cura di G. GENTILINI, F. RIEZZO, Matera, 1999. A. FOSCARINI, Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, a cura P. A. VETRUGNO, Lecce 2000. A. PANZETTA, Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell’ottocento e del primo novecento, Torino 2003. Museo Comunale Pietro Cavoti di Galatina, a cura di D. SPECCHIA, Galatina, 2003. M. AFFERRI, Cento anni di scultura salentina, in Arte e artisti in Terra d’Otranto, a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, Matera 2007. Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, a cura di C. GELAO, Venezia, 2008.M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, Galatina s.d. [ma 2010].

Lo spirito unitario a Galatina tra il 1799 e il 1848

   
 

di Tommaso Manzillo

Gioacchino Toma, Piccoli patrioti (1862)

 

Il 17 marzo di quest’anno ricorre il 150mo dalla nascita del Regno d’Italia, proclamato dal re Vittorio Emanuele II di Savoia, grazie all’intesa opera diplomatica svolta da Camillo Benso conte di Cavour e alla impresa dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Mentre fervono i preparativi in tutta Italia per l’importante traguardo raggiunto (tra l’altro il 17 marzo 2011 sarà festa nazionale, onorata con il riposo dal lavoro e dalla scuola), anche Galatina ha ricordato l’evento nella serata del 4 dicembre 2010, presso la sala Fede e Cultura “Mons. Gaetano Pollio”), con la presentazione e distribuzione gratuita del libro di Tommaso Manzillo e Donato Lattarulo, “Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente”, con prefazione del prof. Giancarlo Vallone, presente alla serata, insieme al sindaco, dott. Giancarlo Coluccia, al senatore Giorgio De Giuseppe, all’onorevole Ugo Lisi e alle altre personalità istituzionali locali, tutti coinvolti in un appassionante dibattito, moderato dal dott. Rossano Marra, ricordato da quel pugno duro battuto sul tavolo dallo stesso senatore De Giuseppe, segno evidente della carica ideale del suo pensiero.

Il processo di unificazione italiana ebbe un forte impulso con la nascita della Repubblica Partenopea del 1799 (22 gennaio – 13 giugno), figlia, a sua volta, della grandi rivoluzioni europee, prima fra tutte quella francese con la diffusione degli ideali della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità e la decapitazione della sorella della regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, ossia Maria Antonietta. Di questa prima esperienza rivoluzionaria e libertaria, che fu rappresentata dalla Repubblica Partenopea, il nostro Gioacchino Toma ci ha lasciato due stupende raffigurazioni di Luisa Sanfelice, figlia di un generale borbonico di origine spagnolo, decapitata nel settembre del 1800 per aver smascherato la congiura dei Baccher, dopo aver diverse volte rimandato la sua esecuzione perché ella riteneva di essere incinta.

Per questo il nostro Toma la raffigura nella sua cella intenta a preparare il corredino per un bimbo che non nascerà mai. Una di queste tele trovasi presso il museo Capodimonte a Napoli, mentre la seconda presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. Come alcuni studiosi hanno sottolineato, la grandezza del Toma si esprime proprio attraverso la sua straordinaria capacità di ridurre all’essenziale un episodio ricco di profondi sentimenti e di tragiche situazioni.

Gioacchino Toma è ancora ricordato a Napoli come il “Grande Toma”, come ho piacevolmente notato la scorsa estate, e fu coinvolto anch’egli nelle lotte rivoluzionarie del 1860, quando si aggregò alla Legione del Matese con il grado di sottotenente, partecipando all’assalto di Benevento “che prendemmo piegando poi su Padula”. Da questa esperienza trasse l’ispirazione per alcuni dipinti patriottici quali O Roma o morte del 1863.

Gli effetti della Rivoluzione napoletana si ebbero anche a Galatina quando il sindaco, Donato Vernaleone, fece issare nel febbraio del 1799 l’albero della Libertà in piazza San Pietro, segno dei tempi che stavano mutando. Difatti, l’arrivo dei napoleonidi e la legge di eversione

La situazione di Galatina nell’Italia post-unitaria

di Tommaso Manzillo

Con la battaglia del Volturno e l’ingresso di Garibaldi a Napoli, il re Francesco II fu costretto alla fuga, ma i galatinesi non mostrarono mai grande entusiasmo per questo passaggio reale, perché le radici filo borboniche, nella nostra città, erano ancora molto profonde.

Ci volle l’intervento del decurione Nicola Bardoscia, affinché il sindaco, Antonio Dolce, indicesse la data degli scrutini il 21 ottobre 1860, presso il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, situato presso la Torre dell’orologio (costruita nel 1861 come simbolo dell’Italia Unita).

L’amministrazione galatinese aveva faticosamente soffocato le manifestazioni d’entusiasmo dovute alla notizia dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, mentre pochissimi avevano espresso il loro voto, nonostante gli interventi di Nicola Bardoscia, Fedele Albanese (che fu uno dei primi ad entrare, come giornalista, nella  “breccia di Porta Pia” del 20 settembre 1870, insieme a La Marmora) e Innocenzo Calofilippi.

particolare di palazzo nobiliare nel centro storico di Galatina

 

Per sconfiggere l’inerzia dei galatinesi, determinante rimane l’intervento del medico Nicola Vallone, per richiamare gli elettori alle urne, mentre bivaccavano in piazza San Pietro. Nicola, figlio più giovane di Donato e morto in giovane età, ebbe una brillante carriera di medico e scienziato, spesso lontano dalla sua città: a Napoli, per conseguire la laurea in medicina; a Vienna, entrò in contatto con gli ambienti accademici e culturali approfondendo gli studi professionali e la ricerca e la sperimentazione in una branca importante della scienza medica, ossia l’anatomia patologica; alla Sorbona di Parigi, dove seguì le lezioni di Claude Bernard, considerato tra i più grandi scienziati del tempo; a Berlino dove subì l’influenza delle idee democratiche del suo maestro e deputato parlamentare Rudolf Virchow, uno dei più autorevoli esponenti dell’anatomia patologica. Nicola Vallone rappresentò un modello di cultura politica e un prestigioso referente nelle relazioni sociali, proiettando la famiglia nella politica attiva, grazie anche al forte influsso che subiva dall’ambiente liberale galatinese, nel quale erano influenti le figure di  Pietro Cavoti, Berardino Papadia, Giustiniano Gorgoni e Rosario Siciliani.

Ritornando al 21 ottobre 1860, il voto si esprimeva con l’uso dei legumi, dato l’alto tasso di analfabetizzazione: le fave erano per i sì, mentre i fagioli per il no. Il responso fu di 1257 sì, più 1253 voti favorevoli espressi dai forestieri che stavano a Galatina per il mercato.

Dopo la proclamazione del regno d’Italia (17 marzo 1861), la carta fondamentale o Statuto cui fare riferimento era quello Albertino, varato e concesso al popolo in fretta e in furia nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, il quale rimase in vigore, seppur con opportune modifiche, fino al 1846, quando fu adottato un regime costituzionale provvisorio, in attesa

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