Euippa: il passaggio dal complimento alla calunnia è breve …

di Armando Polito

 

A differenza di altri miei post, quello recente su Euippa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/07/euippa-la-fantomatica-regina-di-lecce/), che pure toccava molte note dolenti reali o da me presunte, ha registrato un solo commento trasmessomi tramite facebook e da me letto per puro caso dall’autore delle foto, Pietro Barrecchia, che, per chi non lo sapesse, è stato mio alunno.

Riporto, violando volontariamente la riservatezza per la seconda volta …, la parte del suo messaggio che può avere un qualche interesse comune.

Mi scrive Pietro: ” … Una sola cosa mi sorprende. Pensavo che ricamasse di più sull’etimologia di Euippa. Secondo lei potrebbe trattarsi di un appellativo dato alla rappresentata, essendo probabilmente una bella donna? Tipo un modo antico, gentile e greco, anticipatario del romano “Ah bona!”. In fondo potrebbe essere tradotto con bella cavalla! Non crede? A questo punto penserà: ” Ma ione ci aggiu prodottu?“.

Ho gradito, naturalmente, tutto il messaggio, ma in modo particolare la parte finale con la sua autoironia, ingrediente che nella vita per me è già sostanza ma che qui assume connotati ancora più profondi perché mi fa capire che qualcosa di buono, sia pure in quantità non industriale (anche se l’artigianato, almeno per me, è meglio dell’industria …), ho lasciato nell’esercizio della professione non … più antica, ma certamente più bella del mondo.

Confesso che pure a me era venuta immediatamente in mente l’idea della bella cavalla ma mi ero ripromesso di non parteciparla per non essere accusato di quel maschilismo al cui rischio mi esponeva  l’ultimo (in realtà il più importante) posto riservato nella trattazione alla regina leccese, per cui mi ero rifugiato nella dimestichezza col cavallo che dei Messapi le fonti ci hanno tramandato1. Prima della decisione definitiva, però, avevo fatto un’indagine in tal senso, i cui risultati, a questo punto, mi pare doveroso esporre.

Se Euippa non è di origine deaggettivale ma denominale bisognerebbe immaginare che l’avverbio εὖ (leggi eu) abbia assunto un valore aggettivale rispetto ad un sostantivo *ἵππα (leggi ippa) o *ἵππη (leggi ippe). Li ho scritti entrambi con l’asterisco perché in greco è attestato, come nome comune, solo ἵππος (leggi ippos), usato tanto per il maschile che per il femminile; unico segno distintivo l’articolo (leggi o) per il maschile (ὁ  ἵππος=il cavallo) e l’articolo (leggi e) per il femminile. Ci aspetteremmo, perciò, che ἡ ἵππος significasse la cavalla. Proprio questo, che dovrebbe essere il significato di partenza, non è attestato, cosa che non succede con i significati traslati: da quello collettivo (la cavalleria2), a quello dispregiativo (donna di facili costumi3), ad epiteto di Ecate, su cui debbo spendere qualche parola in più.

L’epiteto è attestato in Porfirio di Tiro (III-IV secolo d. C.), De abstinentia, IV, 16: Καὶ θεοὺς δὲ τούτους δημιουργοὺς οὕτω προσηγόρευσαν· τὴν μὲν Ἄρτεμιν λύκαιναν, τὸν δὲ Ἥλιον σαῦρον, λέοντα, δράκοντα, ἱέρακα, τὴν δ’Ἑκάτην ἵππον, ταῦρον, λέαιναν, κύνα (E hanno chiamato così questi dei creatori: Artemide lupa, il Sole lucertola, leone, serpente, sparviero, Ecate cavalla, toro, leonessa, cagna).

Dal contesto è indubbio che ogni epiteto divino è in relazione con i pregi di ciascun animale. Si sa, poi, che nel passaggio dal mondo pagano a quello cristiano molti di questi animali per lungo tempo nei bestiari medioevali ebbero una posizione ambigua (lo stesso animale poteva simboleggiare una virtù o un vizio), terreno che preparò, poi, fra l’altro, i significati legati alla sfera sessuale di vacca, lupa, cavalla, troia e chi più ne ha più ne metta. Ricordo che un altro epiteto di Ecate era Τριοδῖτις (leggi Triodìtis=venerata nei trivi) e che la sua omologa romana era Trivia (protettrice della prostituzione sacra). Nell’iconografia Ecate è spesso rappresentata con tre teste (cane, serpente e cavallo) e con una torcia in mano (era una divinità psicopompa e la torcia le serviva per accompagnare anche i vivi nel regno dei morti).

Detto questo, ritengo utile ribadire, nonostante alcuni si siano spinti, partendo dalla prostituzione rituale che veniva praticata in apposite edicole in prossimità di crocicchi, a tal punto da collegare la torcia con i moderni fuochi con cui le passeggiatrici cercano di mitigare il freddo della notte (!), che nulla autorizza ad attribuire a cavalla l’interpretazione maliziosa che trova il suo peggior acme maschilista nella locuzione correre la cavallina o nella voce neretina spuddhitrina, per la quale chi ne ha voglia può approfondire in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/22/il-centauro-e-la-spuddhitrina/.

Ho detto prima che ἵππα o ἵππη come nomi comuni non sono attestati, ma come nomi propri sì.

Antipatro di Sidone (II secolo a. C.), Antologia Palatina, VI, 276: Ἡ πολύϑριξ οὔλας ἀνεδήσατο παρϑένος Ἵππη/χαίτας, εὐώδη σμηκομένα κρόταφον·/ἤδη γάρ οἱ ἐπῆλθε γάμου τέλος· αἱ δ’ἐπὶ κουρῇ/μίτραι παρθενίας αἰνέομεν χάριτας./Ἄρτεμι, σῇ δ’ἰότητι γάμος θ’ἅμα καὶ γένος εἴη/τῇ Λυκομηδείου παιδὶ λιπαστραγάλῃ (La vergine Ippe dalla folta chioma ha legato i ricci capelli dopo essersi profumato le tempie; infatti  è giunto ormai il tempo delle nozze e noi bende poste sull’acconciatura lodiamo le grazie virginali. O Artemide, grazie a te ci siano nello stesso tempo nozze e prole per la figlia di Licomedido che ha finito di giocare con gli ossicini).

Detto che gli ossicini sono gli astragali, strumento dell’omonimo gioco (vedi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi pare che il brano sia un omaggio alla semplice grazia della ragazza, un tributo puro all’autentica bellezza (che si nutre sempre di qualcosa che travalica, pur non escludendola a priori, la semplice carnalità), che qui esclude totalmente qualsiasi implicazione di natura erotica.

Proclo (V secolo d. C.)  ) nel suo Commento al Timeo di Platone II, 124 C-D (cito dall’edizione a cura di Chr. Schneider, Trewendt, Bratislava, 1847, pp. 292-293): Ἡ γὰρ Ἵππα τοῦ παντὸς οὗσα ψυχὴ καὶ οὕτω κεκλημένη παρὰ τῷ θεολόγῳ τάχα μὲν ὅτι καὶ ἐν ἀκμαιοτάταις κινήσεσιν ἐννοήσεις αὐτῆς οὐσίωνται, τάχα  δὲ καὶ διὰ τὴν ὀξυτάτην τοῦ παντὸς ϕορὰν, ἧς ἐστίν αἰτία, λίκιον ἐπὶ τῆς κεφαλῆς θεμένη καὶ δράκωντι αὐτὸ περιστρέψασα τὸ κραδιαῖον ὑποδέχεται Διόνυσον (Ippa, che era l’anima di ogni cosa e che era chiamata così da chi degli dei se ne intendeva probabilmente perché i suoi pensieri si realizzano in opportunissimi movimenti, forse anche per la splendido movimento di tutto, di cui è causa, tenendo sulla testa una benda e dopo aver attorcigliato lo stesso ramo di fico ad un serpente, accoglie Dioniso).

Va detto che questo brano ci è giunto con un numero notevole di varianti e di probabili interpolazioni che, però, non intaccano minimamente la sostanza: Ippa è una ninfa e la doppia etimologia del nome fornita, sia pure in forma dubitativa, da Proclo esclude, secondo me, qualsiasi interpretazione maliziosa che pure, la devozione della ninfa a Dioniso, dio della sfrenatezza, avrebbe potuto propiziare.

Ritornando per l’ultima volta all’avverbio εὖ va detto che esso costantemente entra solo nella formazione di aggettivi, come in εὔπους (leggi èupus)=dal piede agile (e non piede agile). Attenzione a non farsi trarre in inganno da sostantivi come εὐθανασία (leggi euthanasia)=facile (o dolce) morte! Infatti questa voce non nasce dalla fusione di εὖ e di un θανασία che in greco non esiste, ma è derivato dall’aggettivo εὔθάνατος (leggi euthànatos)= di bella morte (e non bella morte), composto da εὖ e θάνατος=morte. Lo stesso processo costantemente si ripete in tutti i sostantivi che hanno εὖ come primo componente. Ne consegue che il nome della nostra eroina per significare bella cavalla  avrebbe dovuto sviluppare una probabile forma, (derivata dall’aggettivo εὔιπποςΕὐίππίη o Εὐίππία. D’altra parte, chi si sognerebbe di interpretare bel cavallo l’omerico Εὔιππος citato nel post madre?  

E, infine, un riferimento all’etimologia appena indicata è presente in Vicolo Cavallerizza, non a caso vicinissimo a Via Euippa.

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1 Ne approfitto per aggiungere altre testimonianze correlate omesse per brevità nel post-madre:

Polibio (II sec. a. C.), Historiae, II, 24, 10-12: Καταγραφαὶ δ᾽ ἀνηνέχθησαν᷾ Λατίνων μὲν ὀκτακισμύριοι πεζοί, πεντακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Σαυνιτῶν δὲ πεζοὶ μὲν ἑπτακισμύριοι, μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς ἑπτακισχίλιοι, καὶ μὴν Ἰαπύγων καὶ Μεσσαπίων συνάμφω πεζῶν μὲν πέντε μυριάδες, ἱππεῖς δὲ μύριοι σὺν ἑξακισχιλίοις, Λευκανῶν δὲ πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, τρισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Μαρσῶν δὲ καὶ Μαρρουκίνων καὶ Φερεντάνων, ἔτι δ᾽ Οὐεστίνων πεζοὶ μὲν δισμύριοι, τετρακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς (Furono redatte le liste: di Latini  ottantamila fanti e cinquemila cavalieri; di Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri; di Iapigi e Messapi  insieme cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri; di Lucani trentamila fanti e tremila cavalieri; di Marsi, Marrucini e Frentani e pure Vestini ventimila fanti e quattromila cavalieri).

Festo (II secolo d. C.), frammento del De verborum significatione tramandatoci nell’epitome che dell’opera fece Paolo Diacono nel secolo VIII  d. C.: Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et sallentini, apud quos Menzanae Iovi dicatus vivus conicitur in ignem (Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco).

2 Eschilo (VI-V secolo a. C.), Persiani, v. 302; Erodoto (V secolo a. C.), Storie, I, 80, 2; etc., etc.

3 Eliano (I-II secolo d. C.), De natura animalium, IV, 11: Μόνας ἀκούω τῶν τὰς ἵππους καὶ κυούσας ὑπομένειν τὴν τῶν ἀῤῥένων μίξιν· εἶναι γὰρ λαγνιστάτας· διὰ ταῦτα τοι καὶ τῶν γυναικῶν τὰς ἀκολάστους ὐπὸ τῶν σεμνοτέρως αὐτὰς εὐθυνόντων καλεῖσθαι ἵππους (Vengo a sapere che le cavalle sole tra gli animali anche se sono incinte accettano l’accoppiamento con i maschi e che sono infatti le più lascive; che certamente anche per questo le più dissolute delle donne sono chiamate cavalle da coloro che le biasimano in modo piuttosto delicato).

Lascio immaginare quali sarebbero gli epiteti meno delicati. Riporto cosa, a proposito di questo significato di ἡ ἵππος, quello che qualsiasi studente di liceo classico trova in un vocabolario greco antico-italiano, se ancora si usa e lo si sa usare. Nel Rocci si legge: “cavalla, donna scostumata”; nel Montanari: “fig. di donna dissoluta, vacca, troia”. Ho citato fedelmente, scelte grafiche dei caratteri comprese; il lettore noterà la maggiore crudezza di linguaggio del più recente Montanari, cosa che è nello stesso tempo spia dell’evoluzione del linguaggio ma anche dei costumi. C’è, infatti, una bella differenza tra donna scostumata da una parte e troia, vacca dall’altra, slittati nell’uso corrente dal significato di donna dissoluta a quello di prostituta. Ancora un passo ed anche chi è affetta da ninfomania verrà bollata come prostituta, nonostante non ci sia in ballo il denaro o un qualsiasi compenso e nonostante la prostituta, non sia tale per semplice piacere. Che sia un ragionamento maschilista credo sia fuor di dubbio e il brano di Eliano nel tratto finale con quel σεμνοτέρως (=in modo piuttosto delicato) dimostra pure quanto esso sia datato, anche se per trovare il limite estremo bisognerebbe, molto probabilmente, risalire ad Adamo …

Gallipoli. Tra i deserti del carparo, la “Mater Gratiae” di Daliano

                             L'affresco di Mater Gratiae                                                                                                                                           di di Piero Barrecchia

 

Esiste un luogo sacro, tra Gallipoli ed Alezio, da tempo immemorabile. Fino a qualche decennio addietro l’edificio era preannunciato da un maestoso Osanna, sormontato da una croce, al quale, defilato sulla destra, faceva compagnia un pozzo con paraste semplici, doppia coppia di colonne quadrate ed un arco a tutto sesto. L’invito all’edificio sacro, nelle sue semplici modanature, è interrotto da quell’unica nicchia che incorona l’ingresso principale, contenente una Madonna in pietra, monocromatica, di quel colore dell’alba che connota la pietra leccese, assisa su un tronetto biondo di carparo, di quel carparo estratto dalle vicine cave. Chiaro omaggio del luogo alla Vergine da cui prende il nome  “matercrazia”.

E’ un luogo di equilibrio tra la vita cittadina ed il riposo dello spirito. Lo fa intendere anche la sua posizione. In mediazione, tra i baratri delle “Tajate” e la rassicurante pianura su cui sorge da secoli. Luogo sacro,  prima inviolato, poi dimenticato e defraudato, infine recuperato.

In equilibrio, tra un passato troppo remoto, evanescente ed incerto ed un presente costellato da atti di donazione di opere, culto, fede e fatica. Equilibrio tra cripte oscure portate nell’intimo e santuari innalzati, spontanei, ispirati dall’affresco, bizantino, sulla parete di fondo, la “Mater Gratiae”.

Alla visione si può accedere dalle tre porte, segno evidente di una struttura importante. E’ facile intravedere tra le crepe della galatea calce un avanzo d’affresco, cosa che fa presuppore ad un intero ciclo pittorico che svela il suo apice nell’affresco centrale della Vergine con Bambino, fino ad innalzarsi oltre il mediano cornicione, sulla parete di fondo, che imprigiona un paradiso di Santi ossidati, ove solo la Trinità resiste nelle sue cromie.

Il tutto risulta equilibrato da scansione di archi ciechi, a tutto sesto, che convogliano le loro forze ritmate verso l’arco centrale sovrastante il presbiterio. Tutto è armonico, tra l’alternanza dei chiaro-scuro delle finestre, delle quali una funge da ingresso centrale alla luce ed irrompe sul prospetto principale. Tutto è unanime, persino gli ornamenti scolpiti del soffitto ed i cornicioni perimetrali, nel condurti a quello sguardo materno, con, sulle ginocchia, un Figlio benedicente, colorato da tempere tenui e da ricordi svaniti di pennellate staccate, non più recuperabili. Tutto risulta sobrio, ma non povero, armonico eppur barocco. Persino le memorie conducono a quell’unico affresco che ha attraversato i secoli e le strutture, rimanendo sempre e comunque, l’unico superstite.

Da ”Assunta dei Basiliani” a “Sancta Maria de Balneo”, da “Madonna Adigria o Odigria” a “S.Maria di Costantinopoli”, fino a “Santa Maria delle Grazie o di Daliano” all’attuale “Mater Gratiae”, dal periodo bizantino fino all’era contemporanea.

L’interno era ornato da due statue lignee di S.Lazzaro e S.Domenico, riposte nelle due nicchie laterali del presbiterio. Vi erano due dipinti rappresentanti S.Francesco e S.Andrea, che affiancavano l’affresco principale della Vergine, racchiuso in una lignea cornice, attualmente in restauro. Inoltre, impreziosivano l’interno, due tele, di notevole dimensione, sfondo alle due arcate adiacenti la zona presbiterale e rappresentanti l’una la “Presentazione della Vergine al Tempio” e l’altra la “Nascita del Redentore”. Memoria antica e storia gloriosa, si confondono con i vaghi ricordi.

Il tempo che ha consunto le opere e mani sacrileghe che hanno trafugato sculture e dipinti, non hanno potuto nulla per asportare una devozione mai interrotta e sempre viva. Nulla rimane degli antichi e preziosi omaggi a quella Madre che, per fortuna, da secoli, è riuscita a trattenere sulle sue ginocchia quel Figlio benedicente. L’amore spontaneo verso tale luogo ha, comunque sia, contribuito a restituire alla memoria collettiva l’importanza e la sacralità del sito.

Da ormai un decennio il culto è stato ripristinato ed anche l’aspetto del sito si è arricchito di recenti donazioni spontanee, tutte di fattura locale. All’esterno, nella nicchia sovrastante l’ingresso principale, è stata ricollocata una recente statua della Vergine.

Restituita l’Osanna, ai cui piedi campeggia una croce ferrea con i simboli della passione. Arricchito lo spazio esterno con un altare in carparo sovrastato da un crocifisso in pietra. Circondano l’opera le panche in cemento ed una via crucis in terracotta e carparo. Completano il decoro esterno un recinto ligneo che custodisce il simulacro di S.Pio da Pietralcina ed un basamento, in carparo, sovrastato dalla statua del Beato Giovanni Paolo II, figure moderne di spiritualità, festeggiate nelle loro rispettive memorie liturgiche.

La chiesa è aperta ogni sabato per le funzioni religiose e l’inglobato edificio monastico è  annualmente scenario di un suggestivo presepe vivente, oltre che della spettacolare accensione della “focaredda” in onore di S.Antonio Abate.

Prospetto principale della Chiesa
particolare del prospetto principale della chiesa

L’ingresso.  

L’ingresso al luogo di culto è stato arricchito da una bussola lignea. All’interno dell’aula liturgica sono stati collocati due confessionali ed una nicchia, lignea, finemente lavorata, proveniente dalla gallipolina chiesa di S.Francesco d’Assisi, che custodisce la statua, in cartapesta, della Madonna delle Grazie, dono della famiglia dei Cavamonti ed oggetto di venerazione nel terzo lunedì di Ottobre. Rifatte, in pietra locale, le acquasantiere che adornano i pilastri d’ingresso. Restaurato e riportato all’antico fascino l’affresco bizantino di “Mater Gratiae”, che negli ultimi anni del 1900 era stato picchettato e ridipinto. Le panche lignee sono un dono aletino. In restauro la fastosa cornice che circondava l’affresco. Una novella nicchia ospitante un bel simulacro di S.Antonio da Padova. All’interno dell’unica navata è appesa, sulla destra del centrale ingresso, una stampa oleografica del secolo scorso, rappresentante la Deposizione. Una nicchia lignea racchiude una statua del Cristo Risorto.

particolare dell'affresco absidale
particolare dell’affresco absidale

I pilastri sono scanditi da una moderna via crucis in gesso alabastrino, montata su supporti lignei. Le due porte laterali sono sovrastate da due dipinti, eseguiti e donati nel 2012, che hanno voluto restituire la memoria storica di quelli preesistenti, certo nel titolo, non nelle dimensioni, né nell’impostazione pittorica di quelli, di cui non rimane testimonianza, neppure fotografica.

A proposito delle attuali rappresentazioni, è necessario soffermarsi per spiegarne il contenuto, attinto dalla storia di questa chiesa-santuario. Quello sulla parete sinistra raffigura la “Presentazione della Vergine al Tempio”. Maria bambina è accolta dal sommo sacerdote, sul pronao di un ipotetico tempio, al vertice di una scalinata. Alle spalle delle scena principale, si apre un prospetto che coglie, in prima linea, i visi degli anziani genitori, i Santi Anna e Gioacchino, preludio all’orizzonte retrostante, composto dall’antica collina verde che discende dal sito di Daliano fino al centro storico di Gallipoli, assiso sul ceruleo mare. I riferimenti topografici fanno intravedere il percorso che va dalla Chiesa dei Cappuccini, detta “S.Anna”, sul colle S.Giusto, fino al Santuario di “Santa Maria del Canneto”. Il tutto è sovrastato da una scena cherubica.

L’altra tela rappresenta la “Nascita del Redentore” Le figure classiche del presepio sono  amalgamate con la tradizione locale. Il tutto si svolge in agro di Alezio, sublimato, sullo sfondo, dalla sagoma del Santuario di “Santa Maria dell’Alizza”, ospitante, nel suo pronao i quattro magi, come da tradizione locale. Mentre il riposo del dormiente trova collocazione ai piedi dell’osanna. La campagna distende i suoi sentieri ai locali pastori fino al luogo dell’evento, che per l’occasione si svolge in una cava. La Vergine è distesa, per ricordare un aneddoto aletino, secondo il quale, dopo aver salvato Alezio da un terremoto, la Madonna, stanca, si riposò in questa contrada. Ma, anche, per rendere omaggio al culto bizantino, che rappresenta usualmente, al momento del parto, Maria distesa nella mangiatoia, mentre il S.Giuseppe custodisce la divina maternità, ospitata in una cava di carparo ed annunziata dalla colomba dello Spirito Santo e dalla scena cherubica. Una popolana in primo piano, in offerente atto, porge un cesto ricolmo di olive. Chiara allusione alle passate fortune economiche della Città di Gallipoli, quando era dedita al commercio dell’olio lampante. Nella mano sinistra è visibile una corda, sulla quale è dipinta in vermiglio, la data “1544”. Tale data riporta ad un fatto storico avvenuto in quell’anno del quale, l’esito positivo venne attribuito all’intercessione della Vergine. In particolare, si tramanda che sull’acquasantiera alloggiata sul pilastro destro della chiesa, si conservava un pezzo di fune proveniente da una nave turca che fece naufragio, sulle coste gallipoline, determinando la salvezza di tutti gli ostaggi cristiani prelevati dalle scorrerie turche in terra salentina e calabrese.

Le due tele costituiscono, nel loro intento, un dittico che riproduce le due città limitrofe e che riporta, idealmente, gli eventi rappresentati, come se si svolgessero nel luogo di “Mater Gratiae”. I dipinti sono racchiusi da due artistiche cornici lignee, indorate. La premura della devozione antica, si fonde con il rinnovo contemporaneo e moderno, con l’estetica, l’architettura, la pittura, tra iniziative personali e corali, a volte riparatrici di gesti e di ingiurie, a volte, solo, piene di gratitudine. Sempre volontarie.

Non è opportuno tralasciare i luoghi intorno alla chiesa, pregni da alto valore artistico e naturalistico che si coordinano tra loro, lasciando un senso di equilibrio e di armonia nel visitatore. Per un invito alla conoscenza del luogo descritto, si rimanda ai paragrafi contenuti in recenti pubblicazioni, quali “Sulle orme di Maria” di Giuseppe Marino e “Gallipoli Sacra” di uno scrittore locale.

E’ indubbio il valore del lavoro monografico più rilevante, stilato da S. Bolognese, nel suo “La chiesa di S.Maria delle Grazie o di <<Taliano>> nel territorio di Gallipoli”,  pubblicato in “Contributi”, Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia, Anno V, n.1 marzo 1988, Ed. Congedo. Il testo ora citato, oltre ad offrire un contributo eccezionale e puntuale dal punto di vista storico ed artistico del sito, ci regala una foto d’altri tempi, che esprime tra le righe, una descrizione sulla vita quotidiana di allora in queste contrade, quando i “cavamonti”, invocavano la loro Vergine ed a lei si affidavano: (…)””a questa categoria si deve ancora oggi quella minima cura e la conservazione del rito con una festa che si tiene il giorno successivo alla seconda domenica di ottobre di ogni anno. (…) Il loro lavoro si svolgeva dall’alba al tramonto sotto le viscere della terra in enormi ed esotiche gallerie o vani a campana. Questo lavoro veniva sospeso soltanto per la consumazione di un frugale pasto composto da un pezzo di pane bagnato, cosparso, qualche volta, d’olio d’oliva con qualche pomodoro o peperoncino e per bevanda l’acqua che si raccoglieva in <<ombili>> o <<quartare>> (recipienti di terra cotta tipici del posto) lì dove la roccia lambiccava gocce d’acqua freatica che, attraverso il materasso freatico, filtrava e filtra ancora oggi. Alla Vergine  questa gente si è rivolta e continua a rivolgersi invocandone la protezione e rifugio (…)””. Questa piccola, grande oasi di “Mater Gratiae”, grazie ai custodi scrupolosi, che amorevolmente la curano, ha ricominciato a rifiorire, tra i deserti del carparo di Daliano.

8 agosto. Sant’Agata la buona e Gallipoli

GALLIPOLI, 8 AGOSTO 1126: “D.O.M TEMPLUM HOC QUOD PRIUS BEATO JOHANNI CHRISOSTOMO NUNC DIVAE AGATHAE MIRACULOSA  MAMMILLA INVENTIONE CALLIPOLIS GRATAE SERVITUTIS OSSEQUIUM D.D.D.”

Catania - i devoti

di Pietro Barrecchia

Era l’8 agosto 1126. Sì, ricordo bene, non perché c’ero! Ricordo bene come ricorda l’animo di Gallipoli, perché l’uno sussurra all’altro l’avvenuto. Ricordo anzitutto il  biennio del Ginnasio, frequentato in Nardò, quando,  un professore propinava le così dette lingue morte, che poi tanto morte non erano, visto che il chiarissimo docente, inculcava il gusto della ricerca dell’etimo e dimostrava, ostinatamente, che morto era colui che ignorava di parlare, in era contemporanea, il latino e il greco, con qualche trasformazione, ovvio!  Fu allora che iniziai a comprendere di aver sbagliato, fino ad allora, a deridere i miei anziani, che raccontavano di una leggenda e di una invenzione. Non era dunque un’ammissione di colpa,  ma  un’esattezza di idioma, se  solo avessi inteso l’invenzione narrata quale diretta discendente della latina “inventio”, rinvenimento, cioè.

E dovevo arrivare in quel di Nardò ed apprendere da un suo figlio, che i figli di Gallipoli avevano ragione da vendere,  affermando, in vero, che sulle spiagge del Cotriero, nel dì dell’8 agosto, del 1126, era avvenuto il passaggio di consegne della Città di Gallipoli, tra san Giovanni Crisostomo, antico patrono e la novella amazzone celeste, Agata, la buona.

Catania-Duomo-il-sarcofago-che-custodisce-le-sacre-reliquie-della-Martire-e-sullo-sfondo-le-sculture-che-narrano-del-suo-ritorno-a-Catania
Catania-Duomo-il-sarcofago-che-custodisce-le-sacre-reliquie-della-Martire-e-sullo-sfondo-le-sculture-che-narrano-del-suo-ritorno-a-Catania

Non solo gli anziani narrano, anche le tele seicentesche illustrano che quell’8 agosto un vascello dal nome familiare, “Gallipoli”, come nel migliore degli stili dell’epoca,  avrebbe sottratto, per legge di contrappasso, un corpo santo, dal costantinopolitano templio di S.Sofia, per riportarlo nella patria d’origine, Catania.

Sezionato e deposto in faretre, coperto da petali di fiori , quel corpo riprese il viaggio di ritorno per il riabbraccio con la sua Città, con i suoi cittadini, con quei luoghi che lo videro giovinetto, versare il sangue eroicamente ed affermare la sua fede.

Nocchiero di bordo e padrone del vascello è tal Goselmo, di Gallipoli e suo prode compagno, tale Gilberto, gallo, francese, ai quali sarebbero stati rimessi i peccati per il furto compiuto, dal presule catanese, che commissionò il reato, nell’agosto del 1126. Tanto più che la giovinetta martire era apparsa allo stesso Goselmo, presentandosi e richiedendogli un passaggio fino alla sua Città.

Non fu distante dalle coste di Costantinopoli quel corpo santo sottratto, quando i suoi abitanti percepirono la sua mancanza ed invano si precipitarono in mare per riprenderlo.

E quel mare fu provvidenziale, quando la sua brezza sospinse il vascello sulle coste di cui portava il nome, governato da quel Goselmo che lì aveva annunziato la sua nascita e conosceva quella costa come sua madre. Era il meriggio dell’8 agosto 1126.

Gallipoli, Duomo - tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa
Gallipoli, Duomo – tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa

Non poteva andare altrimenti, quando per patrio amore Goselmo stesso, a mio parere con precisa intenzione, lasciò cadere sull’arenaria costa, la reliquia più insigne, la parte sanata dal Principe degli Apostoli, che secoli prima, come altra leggenda narra, aveva calpestato proprio quel luogo, inaugurandovi la stagione cristiana, lì a pochi passi dal Cotriero, ai Samari, che avrebbe visto sorgere, per crociata mano, un luogo di culto dedicato a Pietro dei Samari.

Era l’8 agosto 1126, quando una donna, come la martirizzata, adempiva al suo dovere di madre, lavando i panni e forse, in un frangente, sfamando il suo infante, dal quale non si separava mai, se non fosse stato per quell’improvviso torpore che la assediò e, stanca, chiuse gli occhi al reale, per riposarsi un po’, come le madri meritano, sognando del futuro del suo bimbo. Una donna, giovinetta, gentile nell’aspetto, le apparve in sogno e conoscendo la sensibilità femminile, la avvisò di quel che le sarebbe avvenuto realmente. Non ancora era giunta su queste coste la fama di Agata e la donna non conosceva quel nome. La figura femminile si presentò e le prefigurò ciò che avrebbe visto al suo risveglio. Ma era un sogno, un brutto sogno da cancellare una volta sveglia, perché quel che le era stato prospettato non era certo bello. Al risveglio, avrebbe trovato il suo amato figlio disteso sull’arena, vicino ad un pozzo, nell’atto di succhiar latte da una mammella che non era quella materna e che era stata recisa. Quale madre avrebbe retto a tale scena? Cosa avrebbero fatto le nostre madri? Esattamente quel che fece la madre di quel figlio che allattava ad una mammella che non gli apparteneva. Terribile scena. La donna tentò e ritentò di strappare quella mammella dalla bocca del figlio, ma non ci fu verso. Quella rimase ancorata tra le purpuree  labbra dell’amato infante.

la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all'originario fusto argenteo custodito in Gallipoli
la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all’originario fusto argenteo custodito in Gallipoli

Male pensò, quella madre, che per la paura aveva già rimosso la prefigurante visione. Sortilegio. Opera terribile. E se l’umano non riesce ad intervenire, si corre dal divino, a chi ne fa le sue veci, per richiedere intercessione.

Corse dal Vescovo la madre, corse senza sosta, con affanno, verso quella Cattedra così lontana e chiese grazia al presule, il quale si recò sul posto, circondato dal clero ed attonito cedette all’orrendo spettacolo. Qui nulla potè l’umano e se l’opera non fu divina allora appartenne alla concorrenza ed allora, bisognava invocare con forza, bisognava esorcizzare, bisognava richiedere liberazione. Primo passo, richiedere l’intercessione ai Cortigiani dell’Empireo, a quelli reputati più potenti ed a quelli più conosciuti. Si iniziò, rigorosamente in latino, rigorosamente cantando. E sfilarono i nomi santi, per tre volte e seguirono gli “ora pro nobis”. Ma nulla. Incessante preghiera, ma ancora nulla. Da poco inserita nell’elenco degli invocati, il nome santo della catanese vergine e soprattutto martire, la giovinetta Agata, che a dispetto dell’età aveva saputo rispondere al tiranno che aveva ordinato di offenderla nella sua femminilità, recidendo le sue mammelle. Atroce pegno per aver confessato una religione nuova e pacifica. Agata rispose a chi sentenziò quell’ingiusto tormento “Non ti vergogni”, gli disse “ di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre? ”.  A chi pensare dopo quelle parole proferite secoli prima, assistendo alla scena di un bimbo che succhia da una mammella recisa, affiorante dalla sabbia? Certo!  Ad Agata!  Allora: “Sancta Aghata  – ora pro nobis!”, cantando per altre due volte, cantando e sperando “Sancta Aghata – ora pro nobis!” ed ancora “Sancta Aghata – ora pro nobis!” Si staccò quella mammella dalle purpuree labbra  del bimbo, accorse la madre che abbracciò suo figlio e raccolse con pietà e devozione la sacra mammella e rivolse un pensiero e la prece salì ad Agata, la Santa buona. Chi pensò al maleficio, dovette far varcare con i sommi onori quella mammella dalla patria porta, in processione, ringraziando Iddio che, con segni e portenti aveva stabilito le modalità dell’evento. E la padrona di quell’insigne reliquia subordinò il culto del Giovanni bocca d’oro, che, da gran cavaliere cedette il posto ad una vergine e martire. Peraltro i due e gli altri, come loro, non sono stati, non sono e non saranno mai in competizione, ma come gli è stato insegnato saranno strumenti verso l’Unico Fine, il Sommo Bene.

Quella mammella divenne il tesoro di Gallipoli, ingraziandosi la novella Patrona, alla quale si consacrò, successivamente la nuova Cattedrale. Tale reliquia divenne simbolo e stemma tra palme e tenaglia dello stesso clero ed il popolo, che aveva rimosso la mammella di Agata dalla bocca del piccolo miracolato, continuò e continua a succhiare la linfa vitale da quella martire insigne, alla quale si rivolge solennemente nel giorno del suo martirio, il 5 di febbraio con il canto del greco e del latino, lingue vive e ripete il rito nel giorno della tutela, l’8 di agosto. Anche se…… anche se, per volere non divino, con abuso di potere, Raimondello del Balzo Orsini, nel 1380, ordinò che la mammella fosse custodita in Galatina, presso la Basilica di S.Caterina Novella, asportandola dal seno di Gallipoli, dove superstite, rimase, come reliquia, quel fusto argenteo che la sorreggeva con le cesellate urbiche mura.  Da allora non vi è stato alcun gallipolino al pari di Goselmo!  Ma se la storia insegna allora è necessario dire l’evento è arido se non suscita effetto ed anche senza mammella, i gallipolini si sentono legati a Sant’Agata, la quale ha assicurato in tempo e modi la sua protezione alla sua seconda patria. L’inno dell’8 agosto ben ricorda la predilezione offerta  “Tu questo ciel purissimo e questo mar ceruleo, che il patrio lido abbraccia, un dì venisti a prendere in tua tutela amabile. Proteggi Tu Gallipoli, che ogn’or s’affida a Te!”.

Ad irrobustire la realtà del rinvenimento vi è il fatto che anche Catania festeggia il ritorno della sua Martire,  il 17 agosto, ricordando quello del 1126, quando sulla sicula sponda giunse, ad opera di Goselmo e Gilberto, quel sacro corpo, privo di una mammella, che da allora riposa nella sua patria, nel sacello del Duomo dedicatogli. Peraltro, non si conosce se Gilberto e Goselmo abbiano ricevuto la corona celeste. E’ certo che sono rappresentati, in un affresco e scolpiti sull’altare del Cappellone di Sant’Agata e furono eletti cittadini onorari della sua Città. Catania custodisce ancora quelle testimonianze storiche, nella Chiesa del Carcere, ove è tutelato il legno con cui fu trasportato il corpo della Martire. Ancora,  in prossimità della marina, vi è un tempietto con una scultura della Martire, al cui basamento, un’epigrafe ricorda il ritorno in patria di Agata, nel dì del 17 agosto 1126. In quel luogo accorsero i catanesi, avvisati notte tempo ritrovandosi in camicia da notte e papalina. In memoria di quell’evento, si mantiene ancora il tipico abito dei devoti: saio bianco, copricapo nero, con aggiunta di guanti bianchi e fazzoletto bianco per salutare Agata, la Santa. Coincidenze a distanza? A proposito di lingue vive, a me sembra che questa invenzione sia proprio un “inventione”!

Ti mando a Cocùmola!

di Pietro Barrecchia e Armando Polito

Ogni frase interiettiva può esprimere ammirazione (che bello!), disprezzo (che brutto!), disappunto (oh, no!), augurio (stammi bene!) o minaccia (ti faccio vedere io!). Appare evidente che quella del titolo contiene una minaccia, anche se definirne i contorni non è facile. C’è un riferimento all’isolamento e all’arretratezza in cui probabilmente il centro si trovava quando il detto nacque o c’è dell’altro?

È doveroso a questo punto lasciare in sospeso (e lo resterà fino alla fine …) quest’interrogativo  e informare l’ignaro lettore che a Pietro Barrecchia non sono dovute solo le splendide (lo dice Armando Polito) foto ma anche, in fondo, buona parte del testo appena passabile (lo dice sempre Armando) che da quelle, da Pietro condivise, ad Armando è stato ispirato.

 

Ora, però, per pura comodità formale da qui in poi Armando parlerà in prima persona (si salvi chi può!).

Un po’ per aiutarmi, un po’ perché ormai per deformazione exprofessionale e per consolidata struttura mentale diversamente non so fare, comincio dal toponimo. Esso fa venire in mente in primo luogo cùcuma (corrispondente, ma solo formalmente, all’italiano cùccuma) di cui potrebbe essere diminutivo. Cùcuma deriva dal latino cùcuma(m)  attestato in Petronio (I secolo d. C:) col significato di paiolo1 e in Marziale (I-II secolo d. C.) con quello di vaso da notte2.  Addirittura la variante cùccuma trova un ruolo da protagonista come arma impropria nel Digesto di Giustiniano: Il divino Adriano ha ribadito  che colui che ha ucciso un uomo, se non l’ha fatto con l’intenzione di uccidere, possa essere assolto e chi non ha ucciso un uomo ma l’abbia ferito con l’intenzione di uccidere debba essere condannato come se fosse un omicida. Da ciò deriva che se ha impugnato una spada e ha  sferrato un colpo lo ha fatto indubbiamente con l’intenzione di uccidere; ma se ha sferrato un colpo con una clava o con un paiolo nel corso di una rissa, sebbene abbia colpito con un ferro (qui evidentemente non si parla della clava di legno ma di ferro e del paiolo non di creta ma di rame o ferro) tuttavia l’ha fatto senza intenzione di uccidere e perciò dev’essere alleggerita la pena di colui che nel corso di una rissa più per caso che per volontà ha commesso un omicidio3.     

Cùcuma, a sua volta, è derivato dal verbo còquere=cucinare. La cùcuma  era in molti centri del Salento  un vaso di creta di forma cilindrica utilizzato per riporvi lo strutto, mentre a Galatina (e pure a Nardò) era la cioccolatiera o il recipiente di latta con cui si serviva il caffè. Nella stessa opera di Petronio un po’ più avanti rispetto al brano prima ricordato è attestato proprio un diminutivo cucùmula4.

Tutto chiaro (nel senso che il toponimo sarebbe legato alla produzione fittile o ad una vocazione culinaria)?

Magari! La variante Cucùmmula  usata a Poggiardo (c’è anche la forma dissimilata Cucùmbula  a Minervino) mi fa pensare al toscano cuccumella, nome del tumulo funerario etrusco per somiglianza di forma con il recipiente (in alcune ricostruzioni ha la forma di un imbuto capovolto).  Se è così ci potrebbe essere un’allusione generica alla relativa altitudine (105 m. sul livello del mare) oppure un più specifico collegamento con i dolmen ed i menhir o con i silos messapici a forma di imbuto capovolto esistenti.

 

E, infine, se Cocumola fosse legato, sempre in riferimento al deposito di grano e con raddoppiamento (espressivo?), al latino cùmulus=cumulo?

Lascio il dubbio ai filologi di professione e chiudo con un componimento di Vittorio Bodini tratto da La luna dei Borboni (Edizioni della Meridiana, Milano 1952 e 1987; in basso a destra l’edizione Besa, Nardò, 2006), in cui la prima ipotesi trova la sua celebrazione con quella profondità di cui solo la poesia è capace.

 

 

 

 

Il continuo alternarsi di elementi caratterizzanti non direttamente umani (paese, farina, portoncino, tabacco, pentole, brodo) e di altri che evocano la presenza dell’uomo (mani, uomini, donne) esprimono mirabilmente la compenetrazione tra i due mondi. E tra i verbi (a parte lo splendido isolamento nel secondo verso di è, che senza distrazioni anticipa la profondità dell’essere) spicca il neologismo cocumola, una terza persona singolare del presente indicativo di un cocumolare  creato là per là a condensare in un’unica radice un’identità unica ed irripetibile, insomma la figura del correlativo oggettivo tanto cara a Montale ma originale nella genesi del verbo dal toponimo e nella conseguente e consequenziale trasposizione-confusione.

 

 

 

Forse non sapremo mai l’origine dell’espressione del titolo, ma se io fossi un cocumolese non me la prenderei assolutamente e non solo perché, come diceva Oscar Wilde, bene o male, purché se ne parli. Se fossi, invece, una cocumolese rimpiangerei di non poter chiedere a Bodini che intendesse dire con quel pennute che lì per lì non ricorda solo le galline (vedi il brodo successivo) ma pure l’ipertricosi, anche se donna baffuta è sempre piaciuta e anche se donne pennute dovesse essere un sinonimo di bigotte, insomma un ricalco del montaliano (Le occasioni, Elegia di Pico Farnese, v. 33) donne barbute, più avanti nella stessa poesia nere cantafavole.

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1 Satyricon, CXXXV, 4: … cucumam ingentem foco adposuit … (mise sul fuoco un gran paiolo …).

2 Epigrammata, X, 79, 3-4: Torquatus nitidas  vario de marmore thermas exstruxit, cucumam fecit Otacilius  (Torquato ha realizzato  uno splendido bagno pubblico di marmo varipinto, Otacilio un vaso da notte).

Digesta seu pandectae  Iustiniani Augusti, 48, 8, 1: Divus Hadrianus rescripsit eum qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneraverit, ut occidat, pro homicida damnandum; et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse; sed si clavi percussit aut cuccuma in riza, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo leniendam  poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit.

4 Op. cit., CXXXVI, 2: Frangitur ergo cervix cucumulae … (Si rompe dunque la parte superiore del paioletto …).

Complimenti al mio ex allievo!

di Armando Polito

Nel commento ad un recente post di Marcello Gaballo sulla chiesetta di Santa Maria della Grotta1  Piero Barrecchia sottolineava la somiglianza di un affresco con uno del 1656, raffigurante S. Oronzo, opera di Andrea Coppola, presente nel Duomo di Lecce, giungendo alla conclusione che ne sarebbe una delle tante copie.

Siccome la foto del post originale non consente di cogliere i dettagli, ne ho qui ritagliato due da una foto che scattai una decina di anni fa, il che, credo, consente un agevole esame comparativo.

 

 

Leggermente diversa mi pare solo la postura della testa del santo.

 

Un’epigrafe2 presente nella chiesetta è datata 1640, per cui è ragionevole supporre che il dipinto ricalchi l’abituale schema iconografico ma non sia di derivazione coppoliana, a meno che non sia stato realizzato successivamente a tale data.  È certo, però, grazie alla segnalazione di Piero, che esso raffigura S. Oronzo.

Partendo da ciò si potrebbe ipotizzare che tutte le figure facciano parte di un unico ciclo e che quelle non individuate abbiano a che fare con San Giusto, San Fortunato e Santa Petronilla (nobile romana, e questo potrebbe giustificare la corona). Ma io da solo non ce la faccio …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/note-storiche-e-decrittive-della-chiesetta-di-santa-maria-della-grotta-in-agro-di-nardo/

2https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/

Gallipoli. Melodie, sapori e tradizioni, nell’attesa del Natale.

 

 

di Piero Barrecchia

Impossibile intraprendere il periplo delle mura antiche senza affacciarsi a quel balcone fantastico che è il connubio tra cielo e mare, tra natura e opera umana.

Nei tramonti si perde lo sguardo del visitatore.

Negli stessi tramonti trabocca il cuore del gallipolino che si fa prendere da nostalgie di profumi, suoni, pensieri e persone, che sono ancora nel ricordo vivo, che irrompe, come nelle narici, il vento della tramontana. In questo periodo di freddo e vento, in questo periodo caldo per il cuore, che si lascia intenerire da tradizioni sacre ed attese.

Antichi ricordi e tempi presenti, per nulla saturi di quella monotonia globalizzata.

Giorni, tra speranze e nostalgie, vissuti intensamente; giorni attesi.

I cinque Santi dell’Avvento gallipolino: Teresa “Madre”, il 15 ottobre, Cecilia, il 22 novembre, Andrea il “Pescatore”, il 30 novembre,  l’Immacolata, 8 dicembre e  Lucia, il 13 dicembre . Sono loro a scandire l’orologio dell’attesa.

Presenze discrete, che incedono lentamente tra le vie del centro storico, ondeggiando, “nnazzacando” al ritmo di una musica soave, fatta da strumenti popolari, che non varcano le soglie delle grancasse o dei teatri. Musica della pace interiore, note tradizionali ed anch’esse nostalgiche che per nulla possiedono il sangue bleu delle auliche sonate, anzi, ben si distinguono nel genere, chiamato “Pastorale”, il che è tutto dire!

Illuminate da fioche luci, le sacre statue notturne, che si affacciano per un attimo alle mura urbiche, quasi avvertissero anch’esse il vento fisico, riparando subito, virando nel labirinto delle vetuste vie.

Santi familiari da rispettare, ma che li porti perfino in tavola, perché è un giorno di festa ordinaria, un giorno di festa familiare, in cui si fa di tutto per accontentare il festeggiato preparando le sue pietanze preferite.

E’ così che il menù oscilla tra rape stufate ed il baccalà, tra i calamari appena pescati ed il decotto, tra il vino ancora novello e l’acredine delle olive incastonate nel pane delle “pucce”, tra gli aciduli capperi, le salate acciughe ed alici, un digiuno prefestivo per l’Immacolata e le immancabili “pittule” semplici o farcite con vari ingredienti, tutti previsti.

L’odore acre degli agrumi, il sapore dolce dei datteri di palma ed in preparazione gli “scajozzi” e li “purciaddruzzi”, si confonde con l’odore della colla di farina, fra mille pezzi di giornale, che le mani sapienti, modellano per preparare un posto dignitoso al Messia.

Sapori forti e vivi che collegano il gusto al cuore, mentre fuori dall’uscio tutto tace, nell’intermittenza fioca delle luci, nell’avvicinarsi e nell’allontanarsi della Pastorale, tra le “monzette” ed i “cappucci” svolazzanti dei confratelli, che, lenti incedono, recando i ceri votivi, la cui fiamma incerta tutelano con una mano. Visioni viventi dei quadri di Rembrant, tra luci profuse ed ombre non definite.

E lì, oltre il perimetro delle mura custodi, il mare circonda le isole del “Campo”, dei “Piccioni” e di “Sant’Andrea”, che nell’autonomia del suo faro, riproduce in proprio, la sua processione, nei riverberi della sua luce nelle acque marine, nel vento che ulula, nel suo stesso nome.

Lì, tra le sere del mare, dall’altura della “Serra”, si intravedono finte costellazioni, prodotte dalle imbarcazioni, mentre, i pescatori sono intenti alla cattura dei calamari, che le donne, saggiamente, sezioneranno per le “pittule”.

Giorni magici, di quella magia che ci fa riscoprire umani, mentre i presepi di cartapesta, si asciugano al vento della tramontana e prendono vita dai colori del sangue, del cobalto, del grano, della terra, della neve, del muschio.

Giorni dei semplici che donano una ricchezza interiore incomparabile.

Giorni nostri, tranquilli, di famiglia.

La Fondazione Terra d’Otranto sollecita il recupero della fontana di Gallipoli

Il 12 settembre 2012 la nostra Fondazione ha inoltrato una lettera al Sindaco di Gallipoli per sollecitare il recupero ed il ripristino della fontana di Gallipoli, un bene architettonico che fino a qualche anno addietro arricchiva ed impreziosiva l’ex mercato coperto, ma ancor prima era collocata all’ingresso della città, nelle immediate vicinanze dell’altra fontana, più celebre, nota come “fontana greca”. Una bellissima incisione la ritrae nel sito originario, da cui fu spostata non si sa quando, per essere ricollocata nel centro storico, quindi rimossa e abbandonata  alla periferia della Città, dove ancora si trova.

La segnalazione del nostro socio Pietro Barrecchia non poteva lasciarci indifferenti e quindi ci siamo attivati per inviare la lettera riportata in basso, che ci piace condividere con i lettori. Siamo certi che il Sindaco dr. D’Errico, che ha già espresso verbalmente la volontà di intervenire, riporterà il manufatto alle originarie condizioni, collocandolo in un sito idoneo.

“Vue du Port et de la ville de Gallipoli située sur le golf de Taranto”.
Di 219x147mm, fu disegnata dal pittore e architetto Jean Louis Desprez o Des Prez (Auxerre, 1743 – Stoccolma, 18 marzo 1804), fu incisa da Martini. E’ tratta dal terzo volume del “Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile” del collezionista Jean-Claude Richard abbé de Saint-Non, che pubblicò tra il 1781e il 1786 presso l’editore Clousier a Parigi. Il volume con la nostra veduta fu stampato nel 1783.
particolare della precedente veduta di L. J. Desprez (1783), con la fontana allora zampillante, collocata di fronte all’attuale chiesa di S. Maria del Canneto
ecco la fontana oggi, alla periferia della città
particolare con la targhetta in cui si riesce a leggere solo “Taranto” nella parte centrale. Dovrebbe trattarsi della Ditta che ha realizzato, rifatto o restaurato la fontana
foto di qualche mese fa
la fontana localizzata con Google Maps

Per ulteriori informazioni rimandiamo all’articolo di Pietro Barrecchia:

Gallipoli e la sua fonte abbandonata

Se ne è parlato anche in:

L’Antica Fontana abbandonata di Gallipoli

Al Signor Sindaco

della Città di Gallipoli

Oggetto: segnalazione e proposta di recupero dell’antica fontana bronzea

 

Cogliendo l’occasione per porgerle il migliore augurio a nome della Fondazione Terra d’Otranto per un proficuo lavoro nell’espletamento del suo recente incarico, conoscendo la sensibilità da Lei usata verso i beni artistici, architettonici e naturali che rendono la Città Bella unica nel suo genere, Le segnaliamo l’incresciosa situazione in cui versa un bene architettonico che fino a qualche anno addietro arricchiva ed impreziosiva l’ex mercato coperto, nel centro storico di Gallipoli.

A seguito dei lavori di restauro e revisione dell’antico stabile commerciale l’antica fontana bronzea è stata asportata ed attualmente è abbandonata in un terreno periferico, tra le sterpaglie, a ridosso della nuova struttura del Municipio.

La datazione esatta del manufatto è incerta e la targhetta apposta, ammesso che vi fosse indicata pure la data, è così corrosa da consentire di leggere solo TARANTO nella parte centrale.

La fontana, comunque, è certamente anteriore al 1783, anno in cui l’Abbé de Saint-Non pubblicò presso l’editore Clousier a Parigi il terzo volume del suo Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile (1781- 1786). Esso contiene una tavola che costituisce l’unica rappresentazione a noi nota della fontana. Alla presente si allegano alcune foto esplicative, oltre alla riproduzione integrale della tavola e il dettaglio che a nostro avviso rappresenta un punto imprescindibile di riferimento per qualsiasi intervento di ripristino che, in attesa di tempi migliori, si auspica possa seguire a quelli di recupero, provvisoria sistemazione protetta ed eventuale restauro di ciò che resta.

Atteso il nostro interessamento per tali opere e confidando nella sua sensibilità, oltreché in quella di primo cittadino, certi di non ostacolare la sua mansione ma collaborando e condividendo il medesimo obiettivo, tendente a far risplendere nuovamente la nostra Terra, Le chiediamo di voler restituire all’intera comunità l’antica fontana bronzea per ampliare il percorso turistico e culturale del territorio, magari collocandola a ridosso del moderno portico di Piazza Medaglie d’oro o in altra dignitosa sede che Lei riterrà opportuna.

Fiduciosi in un suo tempestivo e mirato intervento, in conformità con le nostre finalità statutarie al servizio della comunità di Terra d’Otranto, siamo ben lieti con la presente segnalazione di offrire il nostro contributo per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni artistici del territorio.

Che non appaia la presente richiesta un atto travalicante le nostre prerogative e competenze, ma sincero sostegno del bene comune, piccolo ma  doveroso gesto di amore e rispetto per quanto ci è stato tramandato e che abbiamo il dovere di trasmettere quanto più possibile integro a chi verrà dopo di noi.

 

 

Gallipoli e la sua fonte abbandonata

Quantcast

di Pietro Barrecchia

C’era una volta! C’era una volta una splendida piazza che incisa da un disegnatore francese, il Desprez, rappresentò Gallipoli tra le illustrazioni delle città del Regno di Napoli e delle due Sicilie. Era la piazza del Canneto.

Anticamente tale piazza era rinomata per una pregiata fiera di stoffe che si svolgeva dal 29 giugno al 2 luglio. Nell’illustrazione del Desprez è rappresentata l’antica fontana ellenistica sull’estrema destra, al centro una colonna ( non penso sia un osanna, atteso che non è raffigurato alcun segno religioso. Più probabilmente sarà stata una colonna delimitante la fine della via Traiana, come ad esempio, in Brindisi, per la via Appia), il Santuario della Vergine del Canneto sull’estrema sinistra e prospiciente la piazza, una fontana circolare, zampillante.

Poi tutto cambiò. La fiera si trasformò in festa della Madonna del Canneto, la colonna scomparve, la fontana greca rimase, ma della fontana in bronzo, rappresentata nel 1781, non ne rimase traccia. Poi, vi fu la costruzione dell’ottocentesco mercato coperto, a ridosso dell’antico maniero. E lì, tra le arcate del tempio commerciale, in un’abside improvvisata, si stagliava imponente l’antica fontana.

Ma, un giorno, si decise di ristrutturare il mercato coperto, di tagliare il cordone ombellicale che lo teneva ancora unito a quella madre di fattura angioina, sfondando la quinta di quell’abside e la fonte si dissolse dalla memoria cittadina. Che fine ha fatto? C’era una volta! No, no c’è ancora …. la fonte!

E’ la memoria collettiva che l’ha rimossa, ma lei resiste, anche senza la sua voce vitale. Dall’acqua all’arsura delle sterpaglie che ora la circondano. Dalla gloriosa posizione antica alla, quantomai, ingloriosa visione del Comune nuovo di via Pavia. Lì dimenticata e quasi invisibile, veglia sulle antiche grotte e si vergogna un pò di quel popolo che ha assetato e si circonda di rovi selvatici per non farsi più notare, perchè ha paura che se dovvesse essere ancora rinvenuta potrebbe fare una fine più ingloriosa di quella che sta subendo.

Ma la mia memoria non l’ha dimenticata e toccando le sensibili corde d’Euterpe che gli spigolatori usano suonare, oso parlare e provocare, all’ombra dei saggi, pregando loro che hanno narrato e difeso, riscoperto e vissuto, di tacere per una volta ed accogliere l’invito del fare.

Non abbandonate la mia antica fonte. Adottate il suo valore, ridatele dignità. Vorrei riveder vivere tale monumento con al fianco una targa commemorativa che ne descriva il fascino e rechi il ringraziamento agli spigolatori salentini, suoi salvatori.

Che dite si potrebbe ? E’ osare chiedervelo? Forse! Ma oso.

Grazie.

I Tafuri… senza peli sulla lingua!

antico stemma dei Tafuri

 

di Piero Barrecchia

 

Non di rado in terra salentina capita di imbattersi in brandelli del passato, in qualche cimelio di vita consumata tra meandri di palazzi ed alternanze di luci ed ombre di chiostri familiari, tra ruderi e restauri sapienti.

Non di rado in terra salentina, succede di far conoscenze con chiarissime casate nobiliari, colonizzatrici di questa penisola, quasi mai indigene.

Spesso in terra salentina, si è accolti da parenti desueti, di un aristocratico lignaggio, che t’accompagnano lungo il perimetro dei loro manieri, accostando gli usci per impedire la violenza della luce, svelandosi tara le ombre, in quella prorompente discrezionalità e riservatezza, incomprensibile ai più.

Ti esibiscono le loro facciate, tra casine, dimore di residenza e perpetui riposi, tra paraste sinuose o liscie pareti, a volte essenziali, in stile rinascimentale, a volte sorprendenti, in  tardo barocco, rococò o neogotico. Lasciano tracce ed al contempo fuggono dalla tua conoscenza. Tale è il D.N.A. tratto dal midollo storico ed architettonico della famiglia nobiliare dei Tafuri. E non se la prenda qualche discendente, che non ho il piacere di conoscere, ma i suoi antenati sono così schivi da non consentirmi la sua vicinanza, poiché nobili, letteralmente e formalmente nobili, di quella nobiltà ortodossa, inviolabile che non si concede e non permette che l’altrui sguardo varchi la soglia della blasonata casa, per non compromettere la discendenza della stirpe, per non consentire miscele sanguinee o intellettuali, se non a casati con pari requisiti.

E non fanno poi tanta fatica a nascondere la loro indole se tra le loro dimore visitate ho ben percepito, oltre all’eleganza usata e mai esagerata, una certa soggezione ed un certo disagio nel porgere anche e solo lo sguardo sui loro domicili.

Non vi è possibilità di penetrare nelle loro stanze e loro stessi mi avvertono di non attendermi un invito all’ingresso, uno zerbino con su scritto “Benvenuto”.

Il loro diniego ad un’estranea visita è esplicitato in parole, motti e figure.

Sembra volerlo ripetere un qualsiasi pertugio dei loro prospetti “Voi siete un’altrà realtà, qui è un altro mondo, un altro modo di esistere. Ammirateci pure dall’estrerno, ma non vi è concesso entrare nelle nostre viscere. Quel che nostro è nostro!”. Se l’Ade dantesca ostacola l’ingresso alla speranza, l’Eden dei Tafuri è inaccesibile ad anima e corpo. Sfido il visitartore a soffermarsi sul varco principale di una qualsiasi loro dimora e di trovar aperto un varco. Sfido il visitatore a voler percepire qualsiasi forma di benvenuto, nel second’ordine del piano nobiliare, racchiuso in perimetri di finestre serrate al pubblico. Sfido il visitatore a trovar ampie balconate nei loro prospetti. Risulteranno prettamente estetiche, assolutamente impraticabili, quasi un auto-impedimento, affinchè sia precluso ogni contatto tra i due mondi.  Sfido, ancora, lo stesso visitatore ad affermare che non sia stato avvertito, come nel costume dei nobili, con  una frase, con un mascherone apotropaico, con lo stemma stesso.  La pena è un duello subito da parte dell’intervenuto. Antico passo carrabile, divieto d’accesso vetusto, ma sempre e comunque da rispettarsi.

Gallipoli – Palazzo Tafuri, particolare dell’ingresso principale

Così, in Gallipoli, se lo stile rococò, esuberante, invita alla briosità della vita, lo scongiuro alla visita è  percepito dalle serrate imposte ed è amplificato ed esplicitato nell’astrusa capite ingiuriante, che sormonta l’ingresso.

E mentre Soleto si fregia, ora, dei natali del suo Matteo e dell’opera da lui consegnata all’intera comunità, poco o nulla gli interessa della casa natale dell’illustre figlio dei Tafuri. E così, la decadenza e l’incuria osano irrompere nella patrizia dimora, senza, tuttavia, dimostrare alcun coraggio nel contaminare il monito del geniale cittadino: “Humile so et hulmità me basta: Dragon diventarò se alcun me tasta”.

La guglia di Soleto

E gli scrigni residenziali e le ultime dimore dei Tafuri riecheggiano di tal monito in Lecce, Nardò, Galatina, Alezio ed in chissà quante altre località del Salento.

Se lo stemma estrinseca l’indole di una famiglia, allora, è ben esplicita l’araldica dei Tafuri nelle sue due varianti riscontrate.

La prima variante rappresenta una quercia, simbolo della famiglia, sormontata da un’aquila bicipite, spiegando la provenienza albanese della stirpe. Nella seconda variante, è presente la quercia sormontata da saette che, tuttavia, non la scalfiscono!

Gli impedimenti agli accessi nobiliari, come già detto, sono vari, ma esclusivo mi è sembrato l’ultimo ritrovato.

Un palazzo nobiliare seicentesco, la dimora dei Tafuri in Neviano.

Neviano- Palazzo Tafuri – particolare del quadrato

Scansione simmetrica di finestre rinascimentali, misurata eleganza, alcuna prorompenza estetica, asimmetria dell’ingresso principale alla dimora e centralità del sacro. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel mediano campanile a vela, che campeggia sul prospetto principale. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel finestrone curvilineo che apre uno spiraglio lì, sempre sulla facciata principale. Tutto, o quasi, lineare, anche nel bianco intonaco, se non fosse per quel quadrato lapideo, lì, sulla porta di un probabile luogo di culto, al quale si potrebbe accedere, se non fosse per quella porta chiusa, come nell’indole propria di questa famiglia. Tutto lineare, ma proprio tutto, se la tradizione dei moniti della famiglia Tafuri, anche qui non è smentita, proprio per quel quadrato lapideo, sul quale è incisa la scritta:“QUI NON SI GODE IMMUNITA’ ”.

Esecuzione tassativa a quanto disposto dal Sommo Pontefice Clemente XIII, nella sua “Pastoralis Officii”, nella quale si  elencano le fattispecie di illeciti criminali per i quali è interdetto ogni tipo di immunità e si specificano i luoghi ove godere di tale beneficio e, per il nostro caso, così recita:

 

“”(…) 3. Di immunità ecclesiastica invece non devono affatto godere: ” Le Cappelle, e gli Oratori esistenti nelle Case de’ Particolari, e Magnati, quantunque abbiano privilegio di Cappelle pubbliche, e l’adito in strada pubblica;(…)

4. Affinché queste Nostre sopraddette disposizioni raggiungano il loro effetto, imponiamo ed ordiniamo con la presente Lettera a Voi, Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che ognuno di Voi nelle sue rispettive città e in qualsiasi terra, paese e castello delle rispettive diocesi assegni ai rei e ai criminali che si trovano nelle chiese e nei luoghi immuni il tempo congruo, secondo il Vostro giudizio, e si affiggano i pubblici manifesti ed avvisi, informandoli che in avvenire, secondo la Nostra presente Disposizione, in alcune chiese e luoghi sopraddetti non debbano assolutamente godere dell’immunità ecclesiastica coloro che si trovano presentemente accusati di crimini commessi (…)

(…)  Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 21 marzo 1759, nel primo anno del Nostro Pontificato.””.

E’ ovvio, dunque, che presso la nobiliare dimora dei Tafuri non era prevista tutela dalla legge ordinaria, per ogni tipo di illecito commesso.

Non è invece ovvio ed è del tutto sorprendente e particolare che la disposizione papale, emanata per tutto il Regno, sia stata eseguita letteralmente e pedissequamente, con l’affissione del quadrato presente sul prospetto di Palazzo Tafuri di Neviano.

Non escludo che vi siano disseminati altri esemplari in Salento.

Tuttavia, è sintomatico che il divieto, ampliamente pubblicizzato su una delle dimore di proprietà dei Tafuri, declami la “chiarezza” della nobile famiglia, poiché, come si suol recitare, le cose “ non le manda, certo, a dire!”.

“la stella del Sud”, Elena Picciolo

 

L’ARTE PITTORICA: ELEGIA DEI COLORI IN TERRA SALENTINA, CON “LA STELLA DEL SUD”, ELENA PICCIOLO

 

di Piero Barrecchia

Tra i viaggi già compiuti in terra salentina, spesso ho indugiato dinanzi a vetuste opere architettoniche, molte volte ho contemplato, estatico, la volta celeste, il manto marino, le distese auree delle biade o quelle purpuree dei papaveri.

Sovente ho ritrovato il sacro nel profano e viceversa.

Non sempre, però, ho rallentato i miei passi dinanzi alle fucine dei colori di cui è disseminato il nostro territorio.

Non per farne una colpa all’antichità che sovrasta i miei interessi, ma per darle giusta importanza e parola, espressa nelle interpretazioni personali dei nostri pittori salentini, che leggono il paesaggio, lo interiorizzano, lo “intellegono”  e lo materializzano.

La loro missione è così ardua da intersecare i vari gusti, da interessarsi ai vari usi, da utilizzare vari materiali, da interrogare i progenitori, da tradurre i primigenii linguaggi nell’idioma corrente.

Donando, esclusivamente donando!

Tutto ciò con un pennello e la tavolozza dei colori nelle loro mani e l’ardente cuore nella loro mente!

Ho quindi deciso di porre rimedio a tale mia mancanza ed ogni volta che ne avrò l’occasione interrogherò le loro opere e sovente mi vedrete tra le righe dell’aratro

Gallipoli. La Santa, il cane, la stella

Gallipoli- Processione a mare della statua di Santa Cristina, Veduta del seno della Purità

GALLIPOLI:  LA  SANTA, IL CANE, LA  STELLA

 Libretto d’uso per l’interpretazione di tradizioni popolari, qualche supposizione e… una preghiera!

di Piero Barrecchia

Il popolo di Gallipoli, nel 1867, volle che il primato della tutela delle urbiche mura e dei suoi abitanti, già affidato ad Agata e Sebastiano, fosse condiviso da Cristina di Bolsena, Vergine e Martire. L’esplosione di gratitudine che si  ebbe ed ancora tributato, nei giorni del 23, 24 e 25 luglio, fu atto dovuto, per la speciale protezione accordata dal divino all’umano, con segni evidenti. Preghiere e suppliche, nel febbraio 1867, si elevarono a Santa Cristina, al fine di preservare la Città dal colera, che imperversava, in quell’anno, in ogni contrada del Regno Partenopeo. Nel terzo giorno di accorata petizione, la Santa intercesse per la sanità del popolo. Ed il morbo cessò! In quello stesso anno, dalle mani sapienti di Achille De Lucrezis, prese vita la sublime statua, rappresentante la Martire legata ad un tronco di sughero, con viso fiero, carico di pathos ed estatico al contempo, trafitta da due frecce, mentre, un putto incorona la sua eroica virtù  e la sua estrema testimonianza. La sua ferrea fedeltà al divino, si volle rappresentare con un cane, assiso ai piedi del simulacro, primo spettatore dell’evento.

Gallipoli- festa S.Cristina, luminarie

L’opera giunse in Gallipoli il 22 luglio 1867. Nulla tralasciarono i gallipolini, che subito amarono quella rappresentazione, riconoscendo lo sguardo protettore dell’eletta compatrona, condividendone lo struggente atteggiamento, immedesimandosi, totalmente, nell’atto incoronante dell’angelo ed adottando, persino, il cane ai piedi della Santa, caratteristico

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