La petra ia (la pietra viva): breve racconto della sua lunghissima storia

di Armando Polito

Cominciamo dal secondo componente del nome, visto che il primo dialettale (petra) offre solo l’opportunità di far notare la conservazione dell’originaria forma latina (petra) rispetto alla corrispondente italiana (pietra). Per ia/viva, dopo aver notato che la forma dialettale ha comportato prima l’aferesi e poi la sincope di v (credo sia un record …) ci si chiede il perché di questa qualifica. La risposta più immediata nasce per contrasto, per cui tenderemmo a definire in prima battuta pietra viva una pietra che si contrappone per la sua notevole durezza (e la nostra ha questa caratteristica) ad un’altra che lo è molto meno e che per la sua friabilità potremmo virtualmente definire morta.

Se, però, cerchiamo il nesso in testi del passato questa certezza che appare, è il caso di dire …, granitica, incontra qualche dubbio. Per fare più presto e per evitare errori di trascrizione riporto i brani che ci interessano in formato immagine e lascio al lettore ogni conclusione.

Dizionario della lingua italiana, Fratelli Vignozzi e Nipote, Livorno, 1839; lemma VIVO:


Niccolò Tommaseo, Nuovo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Reina, Milano, 1852:

Vittorio di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Società l’unione Tipografico-Editrice, Torino, 1859:

Per poter rendere conto della serie di immagini proposta all’inizio debbo mettere in campo un sinonimo di pietra viva e questa volta, con buona pace dell’inglese spesso troppo frettolosamente privilegiato per una talora solo presunta maggiore sinteticità, si tratta di un’altra parola italiana: selce. A parte selciare e selciato, non sembrano esserci altri suoi figli, ma, se si pensa che selce è dal latino sìlice(m), appare come d’incanto una serie cospicua di parenti, che qui riporto in ordine alfabetico,cominciando dal capostipite (sìlice)

silice, siliceo, silicico, silicio, silicizzare, siliconare, silicone, siliconico, silicosi    

Lascio al lettore il compito di trovare, se lo vuole, il loro esatto significato su un vocabolario, e il loro nesso con le immagini proposte, tra le quali solo l’ultima ha bisogno di un’indicazione in più: è la prova radiografica di un caso di silicosi, mentre per la quartultima il marchio sul tubetto non compare per evitare qualsiasi forma di pubblicità occulta. A questo punto non mi meraviglierei di trovare prima o poi la mia email intasata di mirabolanti offerte di sigillanti e affini, non escludendo la possibilità che lo stesso marchio mi offra il sigillante per il bagno e la protesi per rifarmi il seno (che fa il pari con la proposta, pervenutami pochi giorni fa,  di conseguire privatamente  la laurea in lettere in tempi brevi e con un tutor a mia completa disposizione … ci mancava solo l’esame per teletrasporto).

Comunque, laddove il collegamento non dovesse risultare agevole, sono sempre ansiosamente pronto per ogni chiarimento: basta una semplice richiesta tramite lo spazio dedicato ai commenti.

Possiamo in conclusione ben dire che la pietra viva ci ha accompagnato costantemente nella nostra avventura storica sulla terra: dall’uomo della caverne ai pc, ai pannelli solari. Non vorrei però che qualcuno (questa volta il maschilismo grammaticale ancora imperante potrebbe far comodo e non schifo a qualche esponente del sesso cosiddetto gentile …) che non si rassegna al trascorrere inesorabile del tempo oppure è disposto a rinunciare alla propria, non sgradevole originalità fisica (per quella psichica, purtroppo per lui, non c’è niente da fare …) e nel contempo a correre il rischio abbastanza elevato  di risultati grotteschi, pensasse a questo punto che la protesi di silicone che gli hanno inserito nel seno o la stessa sostanza che gli hanno iniettato nelle labbra o in qualche altra parte del suo corpo sia, in fondo, viva, come la pietra che mi ha ispirato il post di oggi …

Per il resto rinvio a  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/13/la-chianca/.

Racconti salentini/ Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

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