Una solidale comunità: i copertinesi negli anni della Grande Guerra

di Pier Paolo Tarsi

Il gravoso tributo di vite e sacrifici versato dalla cittadinanza copertinese nel corso del primo conflitto mondiale si può intuire anche semplicemente dall’imponente numero dei soldati caduti. Nelle pagine che seguono proveremo tuttavia ad andare oltre quelle pur importanti cifre e i relativi avvenimenti militari, cercando di scorgere con l’ausilio delle fonti giornalistiche dell’epoca alcuni volti, le vicende personali e le imprese di quei copertinesi la cui vita fu drammaticamente segnata o spazzata via dal passaggio della grande storia. Questo pur succinto excursus nei fatti e nei protagonisti di quegli anni restituirà, come vedremo, lo spaccato immediato di una comunità altamente dignitosa, solidale e fraterna.

Il 13 Gennaio 1915, un mercoledì sera, i primi soldati copertinesi in partenza sfilarono in parata per le strade del paese, accompagnati da una partecipante folla di concittadini, parenti, amici e persone care che molti, purtroppo, non rivedranno mai più. Avevano tutti vent’anni, come si legge in un comunicato de “La Provincia di Lecce” pubblicato in data 15 gennaio:

«Mercoledì sera i soldati della classe 1895, che partiranno tra giorni, seguiti da una calca di popolo, improvvisarono una solenne manifestazione patriottica. L’assessore Salvatore Trono dalla balaustrata del Palazzo Municipale, disse poche parole inneggianti al valere della nostra armata e poi al Concerto Musicale con tutta la folla percorse le vie del paese tra entusiastiche acclamazioni. L’organizzatore principale della manifestazione, come sempre, il meccanico Vincenzo Raganato, infaticabile».

Quella prima partenza, accompagnata da un così vivace saluto, costituiva solo il preludio di una tragedia collettiva che da lì in poi avrebbe coinvolto per lunghi anni tanto coloro che in quei giorni e in seguito partirono, quanto coloro che restarono, sia gli uni che gli altri trascinati nel sacrificio comune dalla guerra. I tormenti della sorte di alcuni nostri concittadini si dovettero protrarre talmente a lungo che ancora il 2 marzo 1919 – a conflitto ormai da mesi terminato – sul quotidiano locale “La Provincia di Lecce” si pubblicavano comunicati come il seguente, “Per un soldato disperso”:

«Chiunque sappia notizie del soldato Cordella Rosario di Giovanni da Copertino del 115° fanteria 1. Comp. Prigioniero a Kriegsgefa u genenlager Ulm a. D. Germania è pregato di comunicarle alla nostra redazione. Tanto per quietare le ansie della famiglia».

impietosisce allora scoprire tra i documenti che quello stesso soldato, atteso con straziante ansia dalla propria famiglia, sarebbe morto proprio una settimana dopo quel disperato appello, esattamente il «9 marzo 1919, in prigionia per malattia».

La guerra che sconvolse il mondo intero chiamò dunque a raccolta diverse generazioni di copertinesi, intendendo con ciò non solo centinaia di combattenti – tra i quali molti seppero distinguersi con atti d’eroico valore – ma anche i tanti civili che si mobilitarono verso gli avamposti per servire la patria o che, restando in paese, offrirono da lì il contributo della loro preziosa opera. Sempre ne “La Provincia di Lecce” del 2 aprile 1916 leggiamo ad esempio che in quei giorni:

«[…] partirono per il medio e basso Isonzo circa cento operai copertinesi, che saranno adibiti a lavori d’indole militare. Nei luoghi del pericolo e della lotta […] sono corsi ad offrire anch’essi il contributo alla causa della Patria […]».

Su questi manovali inviati nelle zone di guerra non ci è purtroppo dato sapere molto altro, se non la notizia della morte di uno di loro. Più informazioni riusciamo invece a trarre dalle pagine dei giornali su quei concittadini che, instancabilmente, dalle strade del proprio paese contribuirono con sforzi quotidiani, slanci generosi e con impegno sociale al sostegno di quanti erano partiti e dei loro familiari. Animati da un profondo spirito di solidarietà e organizzati ad esempio intorno ad un “Comitato di Assistenza Civile” presieduto dall’avv. Francesco Giove, molti si adoperarono nell’attività di supporto per i nostri soldati. In data 19 novembre 1916 “La provincia di Lecce” informava che tale Comitato aveva deliberato «di abbonare alla Croce Rossa di Roma tre prigionieri al pane mensile che la nobile istituzione si obbliga di spedire dietro pagamento di L. 7.50 per ogni mese». I componenti si dichiaravano inoltre «[…] oltremodo lieti che questa forma di assistenza da noi propugnata nel giornale, cominci a farsi strada e dare i suoi benefici effetti», augurandosi «che l’esempio del Comitato Civile di Copertino, sia largamente imitato dai Comitati della provincia». Gli stessi copertinesi, esempio e sprone all’impegno sociale per la provincia intera, informavano infine nella medesima pagina «che parecchi altri cittadini hanno sottoscritto la loro quota che pagheranno ogni mese durante il periodo di guerra, e ci proponiamo […] di pubblicare i nomi di quanti hanno assunto il nobile impegno […]». Di fatto, solo alcuni giorni dopo, in data 3 dicembre 1916, sullo stesso giornale fu pubblicato un lungo elenco di nominativi di donatori e le relative offerte, il tutto preceduto dalle seguenti parole:

«Assolvendo una promessa fatta in una precedente corrispondenza, pubblichiamo un primo elenco, fornitoci dal solerte segretario del Comitato sig. Ferdinando Galbiati, di quanti hanno sottoscritto in favore dell’Assistenza Civile, lieti se potremo rubare molte altre volta ancora un po’ di spazio al giornale per consimili registrazioni».

Tali esempi mettono in luce la motivata partecipazione di una comunità operosa e impegnata in un sinergico sforzo condiviso di piena solidarietà per i propri uomini. Da un simile sfondo collettivo, possiamo talvolta provare a distinguere alcuni profili individuali, tratteggiandone fiocamente i contorni, intuendone le umane virtù o saggiandone il valore dei sacrifici personali compiuti. Così, semplicemente incrociando gli aridi dati a disposizione di chi voglia scrutare nelle tracce di quei frammenti del passato, possiamo talvolta riuscire a vivificarli, restituendo un nome, un volto o il calore di una storia vissuta all’umanità che è velata dalle cifre e dai freddi elenchi. Ad un simile sguardo non può allora sfuggire che, per citare un esempio, in quell’elenco di solidali benefattori sopra riportato compare un nome che ritroviamo anche in un più funereo e mesto elenco, quello dei nomi dei caduti: Luigi Moschettini. Da simili intrecci tra i residui della storia, riemerge allora da sé l’altezza d’animo di un giovane copertinese, figlio unico di una benestante famiglia dell’epoca, il quale non offrì solo il dono del proprio sostegno materiale alla sua gente, ma, come altri suoi valorosi coetanei, il sacrificio della sua stessa vita. All’appello delle armi, del resto, altri cittadini illustri dell’epoca non esitarono a rispondere, a partire dal prosindaco, destinato al fronte per circa quindici mesi; in un pezzo datato 13 giugno 1915, pubblicato sull’ormai consueto quotidiano, così veniva data notizia della sua partenza:

«Mercoledì scorso, salutato dai familiari e da pochi intimi amici, partì per il fronte, col grado di tenente medico, il dott. Tito De Martino, nostro prosindaco, destinato ad un ospedale da campo».

Di ogni ceto sociale ed età, sia uomini che donne, persone note oppure umilmente nascoste sotto la coltre difficilmente rimovibile del loro anonimato che non ne scalfisce il valore ma, al contrario, lo esalta, gran parte dei copertinesi furono dunque sottoposti alle medesime durezze e ai tremendi sacrifici cui la guerra chiamava. Provando a esplorare leggermente al di sotto di quel velo d’anonimato è in qualche caso possibile svelare altri interessanti profili umani meno noti ma non per questo meno valorosi e operosi nel sostegno della propria comunità. Ci riferiamo ad esempio alla commovente figura di Antonio Trono. Questi non era che un semplice impiegato municipale al quale la guerra aveva strappato via l’unico figlio, il giovane Trono Umberto Amedeo, classe 1896, disperso già nel 24 luglio 1915 sul Monte San Michele durante un combattimento. Antonio, nonostante la profonda ferita subita, dimostrò un’indefessa dedizione al proprio lavoro e al servizio della comunità, svolgendo, oltre ai compiti professionali spettanti e legati all’ordinaria amministrazione, un’ulteriore opera a sostegno delle vedove dei militari caduti per le quali, da solo, si curò di procurare le pensioni. La cittadinanza non mancò di esprimergli un breve ma sentito elogio attraverso la penna del giornalista Pantaleo Verdesca che il 3 dicembre 1916 firmava le seguenti parole su “La Provincia di Lecce”:

«Le varie chiamate alle armi, le concessioni dei soccorsi giornalieri, le innumerevoli informazioni richieste e date alle autorità militari nell’interesse delle famiglie dei richiamati, ha gravato questo ufficio comunale di un lavoro enorme e delicatissimo. Tuttavia nonostante tutto questo, non solo non si sono trascurati gli altri rami di amministrazione, ma con una encomiabile speditezza si è dato corso a ben 37 pratiche di pensione […] Noi sentiamo il dovere di esprimere una parola di vivissimo elogio all’impiegato sig. Antonio Trono, che da solo, si occupa di quanto concerne servizio militare e pratiche pensioni, senza tralasciare gli altri delicati rami assegnatagli dall’Amministrazione Comunale, che ha riposto in lui una grandissima fiducia meritata».

Ciò che quell’elogio omette è la particolare condizione esistenziale in cui quell’uomo, privato dell’unico figlio come evidenziato, si dovette prodigare così intensamente per il soccorso delle famiglie colpite dal lutto: simili elementi aggiuntivi costituiscono, crediamo, preziosi dettagli in grado di restituire le tonalità originarie ai volti sbiaditi di quanti, come il nostro impiegato, nel silenzio operoso del proprio anonimato furono i tanti valorosi seppur invisibili eroi della comunità copertinese in quei terribili anni.

Una domanda eterna: che cosa significa educare?

da freepik
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di Pierpaolo Tarsi

Prima o poi un insegnante o un genitore devono tentare di darsi una risposta delle tante possibili a questa domanda eterna: che cosa significa educare? Prendo spunto per dipanare il discorso da una bellissima frase di don Giussani riportata sulla sua bacheca da uno stimato concittadino, il prof. Luigi Marcelli, uno dei pochi che osa ancora usare facebook per stimolare il pensiero e che ringrazio per avermi offerto lo spunto. “L’educazione è introduzione alla realtà” recita quella frase.

Assolutamente condivisibile, per me, però, prima che introduzione alla realtà, l’educazione è qualcosa di più comprensivo, è introduzione alla libertà.

E’ infatti l’idea complessa di libertà che sta a mio avviso a fondamento di tutto il discorso educativo e pedagogico, come sviluppato nella nostra tradizione filosofica: “libertà da, libertà di, libertà per”.

Educarsi (ex-dux-azione), da questo punto di vista, vuol dire proprio imparare a condursi autonomamente, divenire guida (dux) di se stessi per godere di una buona e virtuosa vita, appropriandosi della propria libertà in tre sensi almeno.

Il primo senso è quello negativo e per certi versi più immediato che possiamo immaginare come il rompere delle catene: qui essere liberi vuol dire non soccombere a vincoli e istinti come quelli che spingono alla violenza con l’altro, non lasciarsi imprigionare da catene come quelle delle dipendenze, ecc. Il secondo senso è quello positivo e ulteriore di “libertà di”, quello per cui non è si solo liberi per sottrazione da qualche limite ma si è liberi di procedere oltre e camminare senza quelle catene, liberi cioè di fare, agire, essere, determinarsi, esprimersi, in breve di attuare delle possibilità che il mondo, la realtà e la società dispiegano di fronte ad ogni persona che va formandosi e va progettando e proiettandosi in un proprio percorso di vita.

In questa seconda accezione positiva di libertà, in cui educazione può essere intesa come introduzione alla realtà (come dice Giussani) e alle possibilità che questa introduzione permette, anche l’idea del limite va ricompresa e riformulata in un altro senso: laddove prima il limite si manifestava nella sua accezione negativa delle catene da rompere, ora il limite è la condizione positiva e abilitante, il vincolo che apre la possibilità stessa, ciò che rende capaci di manifestarsi in qualche dimensione come esseri liberi.

I vincoli quindi sono qui qualcosa di imprescindibile e utile (quello che le pedagogie sessantottine non hanno mai compreso!), non prigioni ma opportunità da introiettare nel processo formativo e fare nostre per imparare ad agire virtuosamente e costruire nel mondo e con gli altri! Per riprendere ancora l’immagine delle catene, qui dovremmo dire che per camminare non ci basta rompere quei lacci ma ci occorre ora saper sfruttare i vincoli che ci pone la realtà, in metafora la gravità e l’anatomia umana per esempio, usando i vincoli delle forze fisiche entro cui siamo inviluppati per muoverci secondo volontà, liberamente!

Può valere qui quanto Kant, proprio per farci comprendere il valore abilitante del vincolo, scriveva in un celebre passo della Critica della Ragion Pura a proposito del volo di una colomba, un’immagine che possiamo far nostra per evidenziare il senso costruttivo e non più negativo del limite. Se una colomba vola non è solo perché non ha vincoli o catene che le impediscano di spiccare il volo ma è anche perché quella si sa servire di altri vincoli reali- la resistenza dell’aria – per innalzarsi in cielo! Privata di questo limite la colomba non solo non volerebbe meglio ma non potrebbe farlo affatto! Allo stesso modo, per esprimermi non ho solo bisogno che determinati vincoli non mi imprigionino – la censura per esempio – ma ho bisogno di altri vincoli che la realtà e la cultura mi offrono a supporto formandomi: le regole del linguaggio per parlare e manifestare le mie opinioni e i miei pensieri ad esempio, o le tecniche elaborate dalla tradizione artistica se voglio dipingere, le norme della società per relazionarmi in certi contesti agli altri ecc.

È in vista di questo seconda accezione di libertà che a scuola trasmettiamo saperi e cerchiamo di far sviluppare competenze, ossia forniamo alle nuove generazioni gli strumenti, le pratiche, le conoscenze affinché ognuno si formi, si dia cioè una propria forma delimitante unica e irripetibile, si abiliti (o si renda capace) in altri termini alla manifestazione della propria libertà in qualche ambito dell’esistenza in cui il soggetto in formazione sia divenuto autonomamente capace.

La terza accezione di libertà, “libertà per”, “per me”, “per te”, “per questo valore, fine, scopo”, può essere infine invocata per richiamare il contesto sociale in cui la libertà dell’uomo, essere relazionale per definizione, può unicamente manifestarsi. È solo stando in società, con gli altri, che posso aprirmi a me stesso e far mie le varie possibilità che offre una cultura: i suoi valori, le sue conoscenze, le sue tecniche e i suoi strumenti in senso lato. Queste strutture culturali che scopro unicamente con gli altri e attraverso gli altri mi permettono di definirmi e concepirmi nel processo riflessivo dell’autocoscienza come essere capace e libero in rapporto con delle alterità nelle quali riconosco altri esseri liberi, individui come me ma separati da me, il cui dominio di libertà non posso calpestare (un altro limite che la realtà, umana in questo caso, mi pone!) nella reciprocità della relazione intersoggettiva compiuta. Ancora una volta incontriamo qui il senso abilitante, costruttivo e non banalmente coercitivo o annichilente del limite, il quale si concretizza e si incarna in questo caso nel volto dell’altro! Questo punto è particolarmente importante.

Riflessivamente, attraverso la richiesta dell’altro di cui non mi è dato disporre in totale arbitrio, mi approprio gradualmente della possibilità di tornare a me stesso e vedermi o affermarmi a mia volta come essere libero, come soggetto cioè che può reclamare per se stesso il medesimo spazio di autodeterminazione e il medesimo rispetto che mi domanda l’altro. Nella relazione intersoggettiva e sociale comprendo inoltre che posso conservarmi in questo dominio personale di libertà solo in funzione e in relazione al rispetto che mi impone al contempo lo spazio di libertà altrui: comprendo cioè che la mia libertà sussiste solo nella misura in cui partecipo e non mi sottraggo a questa dinamica di reciproco riconoscimento di autodeterminazione e di reciproca inviolabilità, di reciproca donazione di libertà, accettando, restando e rinnovando continuamente questo movimento dialettico per cui la mia libertà dipende necessariamente da quella dell’alter. Qui incontriamo la regola aurea che attraversa non a caso tutte le culture, non solo quella cristiana nella formula del “non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”. L’incontro autentico con l’altro e il limite che il suo sguardo mi pone è allora il punto di snodo e passaggio dall’arbitrio cieco e inconsapevole della bestia all’autentica e autocosciente libertà umana, quel limite abilitante che mi apre e mi disvela tanto la possibilità quanto i confini reali e tangibili della mia stessa libertà. Confini questi che scopro non poter varcare – ad esempio negando o tentando di sopprimere la libertà dell’altro – senza interrompere così la dinamica del riconoscimento reciproco, mettendo di conseguenza a repentaglio la mia stessa libertà, ad esempio esponendola alla possibilità dell’annientamento da parte dell’alter cui potrei soggiacere.

La mia sfera individuale di libertà e la consapevolezza stessa della mia libertà non devono essere allora concepiti come tratti naturali di un essere isolato e dall’arbitrio illimitato ma come conquista relazionale, effetto e portato di una dinamica sociale perennemente vincolante e riattivata. Non come soggetto isolato e astratto ma solo come essere in società e condizionato dagli altri posso unicamente riconoscere e appropriarmi riflessivamente del mio dominio di libertà personale, posso allora pretenderlo, reclamarlo per me e infine tutelarlo ed estenderlo, a condizione che al contempo lo riconosca, lo tuteli e lo ampli per chi ho di fronte. Tutto ciò, in parte oscurandone il complesso movimento genealogico e intersoggettivo visto, è quanto in genere sintetizziamo dicendo che la libertà di ognuno termina (ossia incontra un felice, salvifico e costruttivo limite) esattamente dove inizia quella dell’altro.

Queste tre declinazioni del concetto di libertà (libertà da, libertà di, libertà per) esplicitano il senso complesso della libertà che i saperi filosofici e pedagogici mettono in evidenza e pongono al centro della formazione della persona intesa nella sua interezza e totalità, ossia tanto negli aspetti cognitivi quanto in quelli affettivo-emozionali, relazionali e volitivi.

Praticare (e non solo pensare) una buona vita non vuol dire altro che aprirsi individualmente, nella totalità emotiva, razionale e volitiva che ogni persona è, alla virtù, educarsi e impratichirsi alla libertà in tutte le accezioni o sensi declinati sopra, nel coinvolgimento pieno di tutte le dimensioni psicologiche ed esistenziali della soggettività immersa nella relazione sociale. Per queste ragioni proprio della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani ad una vita virtuosa.

Nell’Emilio, capolavoro della letteratura pedagogica di tutti i tempi, evocando peraltro la riflessione etica di altri giganti del pensiero come Aristotele, così scriveva Rousseau per esplicitare questo profondo nesso tra una vita virtuosa e la libertà: “Che cosa è dunque l’uomo virtuoso? È quello che sa vincere i vincoli dei propri affetti […] D’ora in poi sii libero sul serio; impara a diventare padrone di te stesso; comanda al tuo cuore, oh Emilio, e sarai virtuoso”

Lu Torinu

illuminazione

di Pier Paolo Tarsi

Il giorno di San Pietro e Paolo era l’unico giorno dell’anno in cui vedevo questo anziano cugino di mio padre, lu Torino. L’omaccione si presentava alla porta verso l’imbrunire, scambiava due parole con i miei con quel suo vocione profondo, grosso e ruvido, dopo di che mi prendeva in braccio o per mano e mi portava nella sua macchina, una vecchia topolino. Per strada non diceva una parola ma fumava una nazionale dopo l’altro, rigorosamente senza filtro, ogni tanto si girava verso me e aggiungeva soltanto: “appostu Pietrupauluuu?”. Io annuivo e si procedeva così per qualche altro chilometro. Giunti a Galatina parcheggiava verso la stazione, tirava via la leva del cambio in legno (un sistema antifurto ante-litteram) e se la portava in una mano. Con l’altra mano trascinava me tra le bancarelle e le luminarie, fino alla piazza del paese, il centro della festa, dove a un angolo c’era il venditore di scapece. Appena ci vedeva sbucare, quello interrompeva ogni trattativa o vendita in corso e tirava fuori una bottiglia di vino con un pezzo di sedano che fuorisciva dal collo di vetro e tre fette di pane, una per me e le altre due per loro. Mangiavano la scapece accompagnandola con quel pane e si passavano la bottiglia, che ogni tanto finiva anche tra le mie mani, mentre parlavano forse di affari e altre faccende per me incomprensibili. La mia unica occupazione era tenere in mano la mia razione che puntualmente non riuscivo a mandare giù, fino a quando non trovavo il coraggio di dirlo a Torino. Lui allora borbottava qualcosa amaraggiato dal mio rifiuto, non riusciva proprio a capacitarsi che a qualcuno la scapece potesse non piacere; alla fine, sbuffando e alzando le spalle, accettava. Finito lui l’ultimo pezzo di pane, tornavamo alla topolino, infilava la leva del cambio al suo posto e ripartivamo. Sulla via del ritorno, tra una sigaretta e l’altra, la frase diventava “t’ha piaciuta la festa Pietrupauluuu”, io annuivo, e si procedeva così fino a casa. Sono passati più di trent’anni da quelle sere, ma io, ogni 29 di giugno, aspetto ancora che sbuchi la topolino di Torino da un momento all’altro.

 

I volti di carta di Raffaella Verdesca

volti-di-carta

di Paolo Vincenti

“Mi affascina il mistero delle vite  / che si dipanano lungo la scacchiera  / di giorni e strade, foto scolorite  / memoria di vent’anni o di una sera..” e ancora “Mi piace rovistare nei ricordi  di altre persone, inverni o primavere  / per perdere o trovare dei raccordi  / nell’apparente caos di un rigattiere:  / quadri per cui qualcuno è stato in posa,  / un cannocchiale che ha guardato un punto,  / un mappamondo, due bijou, una rosa,  / ciarpame un tempo bello e ora consunto,  / pensare chi può averli adoperati,  / cercare una risposta alla sciarada  / del perché sono stati abbandonati  / come un cane lasciato sulla strada.  / Oggetti che qualcuno ha forse amato  / ora giacciono lì, senza un padrone,  / senza funzione, senza storia o stato,  / nell’intreccio di caso o di ragione”.

Questi versi di Francesco Guccini (“Vite”)  mi vengono in mente leggendo il libro “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” (Albatros Il Filo 2012) di Raffaella Verdesca, che l’autrice mi ha donato, con una bellissima dedica, qualche giorno fa.

Si tratta di una serie di storie raccontate con perizia dalla Verdesca che hanno come protagoniste donne, vere o inventate, del nostro antico Salento. Ritratti di donne forti come le pietre salentine, coraggiose, abbarbicate con orgoglio e dignità a quella vita grama ma unica e quindi degna di essere vissuta fino in fondo.

Donne d’altri tempi, madri, sorelle, mogli, nonne, vissute in quell’arco temporale che è racchiuso fra le due guerre mondiali, quando la realtà “aspra e terragna” di un Salento contadino molto più povero di adesso, non aveva da offrire ai propri figli altro che sacrifici e sudore e lacrime per sbarcare il lunario, quando altri erano i valori su cui si fondava questa nostra società e

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