La donna nella saggezza popolare salentina

La donna nella saggezza popolare

LU DITTERIU

Il popolo, quando parla, sentenzia

di Piero Vinsper

Unde abii redeo: torno al punto di partenza, cioè riprendo a parlare dei ditteri galatinesi, di quei proverbi che riguardano le donne e mettono in luce le loro virtù, i loro pregi e soprattutto i loro difetti.

D’altra parte

Nuddhra lingua aggiu ‘mparatu

de nuddhra sacciu nienti

ma viddhra de lu tata

sta mi scioca ‘nthr’alli dienti

Non ho imparato nessuna lingua, di nessuna so niente, ma quella di mio padre, in dialetto, mi sta giocando e ballando in bocca tra i denti.

Fèmmana culimpizzata né pe mujere né pe cagnata

Bisogna stare alla larga, ammonisce il popolo, da donne dal sedere a punta, perché oltre ad essere maliziose, sono seminatrici di zizzanie e di calunnie.

Pe’ na bbona maritata né socra né cagnata

La suocera e la cognata spesso sono artefici del cattivo andamento in un matrimonio. Loro peccano di egoismo e non tollerano la presenza di una donna estranea, che considerano come un’intrusa nella loro casa. Perciò è necessario evitarle, rinunciando ad una compagnia, che, quasi sempre, è equivoca.

Fèmmana ca lu susu si pitta è segnu ca lu sotta ffitta

Un tempo si riteneva che la donna la quale si imbellettava il viso e passava il rossetto sulle labbra fosse una donna di malaffare e desse in affitto parte del suo corpo. Immaginate voi se, oggigiorno, avesse riscontro questo proverbio. In che mondo vivremmo?

Signore de li signuri, quante cose sapisti fare! Alla fèmmana la cunucchia, allu masculu lu mmargiale

Mio buon Padre, quante cose hai saputo fare tu! Hai donato alla donna la conocchia per torcere la lana e poi filarla, all’uomo il manico della zappa per dissodare il terreno. Fuor di metafora lascio ai lettori qualsiasi altra interpretazione di questo ditteriu.

L’ommu cu lla pala e la fèmmana cu lla cucchiara

Spesso succede che in una famiglia si invertano le parti: l’uomo vuol vestire la gonnella e la donna pretende di infilare i pantaloni. E’ un controsenso, dice il popolo. Lasciamo le cose come stanno. L’uomo è nato per lavorare e dare sostentamento alla famiglia, la donna è nata per fare la massaia e per attendere alle faccende e alle cure domestiche.

Donna onurata nunn esse mai de lu talaru

Il telaio è una delle più importanti e più assidue occupazioni della donna. Il popolo da questa occupazione fa risaltare l’onestà della donna. Infatti colei che ci tiene al suo onore, che vuol essere rispettata, non fa la pettegola con le altre donne, non prende parte a certi discorsi: bada solo ai fatti suoi. La sua famiglia è tutto, il lavoro è la sua unica occupazione.

Na fèmmana e ‘na pàpara paranu ‘na chiazza

L’oca, quando starnazza, fa un chiasso infernale. Il popolo la mette insieme con la donna; la donna, infatti, per indole, è chiacchierona e troppo loquace. Quindi, unendo l’una all’altra, esse hanno la forza di creare da sole tutto quel chiasso, fastidiosissimo, che tu puoi sentire in piazza nei giorni di mercato.

La fèmmana nasuta ede puntusa, pittècula e cannaruta

Un naso grosso, lungo, appuntito, un naso aquilino deturpa la bellezza del corpo di una donna. Però per rivalsa questa donna, dice il popolo, è puntigliosa, pettegola e golosa.

Fèmmane e sarde su’ bbone quando su’ piccicche

Le donne giovani e le sardine sono molto appetibili e appetitose, mentre la fèmmana de quarant’anni, mènala a mare cu tutti li panni. Questa è una vera cattiveria verso il gentil sesso; ma un tempo, quando la donna raggiungeva quest’età, incominciava a percorrere la parabola discendente verso il tramonto della vita. Le cause erano molteplici: mettere al mondo figli e allevarli, badare alle faccende domestiche, lavorare nei campi, tessere al telaio, scarso nutrimento. Ecco perché invecchiavano precocemente. Però buttarla a mare con tutti panni, in modo che perisca più presto, sarebbe un’infamia!

Fèmmana curta, maliziusa tutta.

Non so perché il popolo si ostini a concentrare tutta la malizia su una donna di bassa statura. Forse vuol compensare la scarsa altezza con una dose abbondante di malizia? Ma se già le donne, in generale, son tutte maliziose, tanto che un altro proverbio recita: la fèmmana la sape cchiù longa de lu diàvvulu! Quest’ultimo potrebbe anche rappresentare un elogio per la donna se si rapportasse alla virtù della prudenza, di cui, è bene confessarlo, spesso le donne sono abbastanza fornite. Si tentano tanti mezzi, anche segretamente, per commettere qualche marachella all’insaputa della donna; ma lei è tanta brava a investigare, è tanta brava a darsi da fare, che scopre tutti gli altarini, viene a conoscenza di tutto e il maschio si trova impigliato nella rete come un pesce, proprio nel momento in cui pensava di averla fatta franca.

Donna bbeddhra e pulita senza dote se mmarita

La bellezza e la pulizia sono le due meravigliose attrattive di una donna. Sia l’una che l’altra sprigionano un fascino e un profumo inebriante, che conquistano i cuori. Non ha importanza se la donna sia povera: essere bella e pulita vale più della ricchezza di questo mondo. I suoi genitori non le hanno dato nulla in dote per il matrimonio? Pazienza! La bellezza, la semplicità, i nobili sentimenti bastano e avanzano.

Né fèmmana né tela a lluce de candela

Non si può esaminare alla flebile luce di una candela la qualità e il colore di una tela; puoi constatarne la consistenza e la fortezza, mai il colore. Lo stesso dicasi di colui che, al buio del tumulto di una passione, voglia giudicare una donna. E la passione per la donna ha tale potenza sul cuore dell’uomo da accecarlo fino all’aberrazione nei suoi giudizi, che meglio si potrebbero definire capricci. Volesse il cielo che i giovani, prima di apprestarsi al matrimonio, studiassero attentamente questo proverbio! Auguro loro, soltanto che li guidi non la pallida e smorta candela della passione ma la vivida luce della ragione.

In conclusione dedico quest’ultimo ditteriu alle donne: La fèmmana ede comu la menta: quantu cchiù la friculi cchiù ndora.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Fedele Salacino, De princibbiu finca ‘ll’urtimu

domenico modugno
da “Come eravamo”

di Piero Vinsper

 

Per far quadrare il cerchio circa l’opera di Fedele Salacino, alias Cino de Portaluce, mancava  la conoscenza della sua prima pubblicazione. Ed eccola qua: trattasi di un libricino dalla copertina giallognola, contenente trenta sonetti, dal titolo De princibbiu finca ‘ll’urtimu, stampato per i tipi della tipografia Vergine di Galatina. Sono sonetti di contenuto amoroso, che tracciano giorno per giorno l’evolversi del corteggiamento dell’innamorato verso la donna amata.

Non si può stabilire l’anno della pubblicazione, perché non è riportato sul libretto. Però è certo che è avvenuta post nuptias con la tabella Giulia, come si evince dalla dedica dell’opera:

A Ciccillo, Narduccio, Paoluccio

Pietro e Antoniuccio

Totò, Donato e Beppino

Amicissimi

Questo libretto dedica

Fedele Salacino.

A Nina poi, Clorinda e Mariannina

Cetta, Concetta, Amelia e Rosalina

l’autore

Offre il libretto

Un saponetto

Una scatola di cipria

Una bottiglia di vainiglia

Un abbiglionè tanto gentile

per le civili feste

del trent’otto aprile

Chè se non fosse ammogliato

Oh che peccato

Oh che dolore

Offrirebbe

Un cento venti grammi del su’ core.

Già qui traspare un certo senso d’ironia che, continua, con malinconia, nella prefazione Tanto per intenderci:

il seguente libretto ch’è incompleto, è stato scritto soltanto con l’intenzione di pregustare e più o meno imitare la infinita canzone dilettevolissima del nostro popolo antico di Galatina. L’accoglimento che questa mia prima tiratura riceverà dal pubblico, deciderà s’io potrò rischiarmi a condurre il lettore verso la fine.

Intanto, avverto, che parecchie persone, l’opinione delle quali mi è di grande rincrescimento, m’ànno fatto osservare che per nulla i miei sonetti sembrano scritti in vernacolo. Del resto io ò la speranza che o, a ragione, o a torto delle dette persone, i lettori vorranno essermi compiacenti, giacché anche ad avere scritto corbellerie, ò lavorato, almeno undici giorni.

Chi siano stati i suoi denigratori non c’è dato di sapere; di sicuro sono state delle persone dalle idee politiche diametralmente opposte a quelle del nostro. D’altra parte il Salacino era un maestro di scuola elementare e non si può tacciarlo di non saper scrivere in dialetto. E poi il dialetto è la lingua dell’anima: ognuno può esprimersi come meglio crede, come meglio può, scevro da qualsiasi regola o canone che i buontemponi, figli di un’intellighentia nevrotica, bigotta e codina in seguito hanno stabilito.

E ancora, il Salacino frequentava i salotti dei De Marianis, delle D’Amico, delle Caputo e non lo si può considerare uno sprovveduto.

Putenza de la terra!.. C’è aggiu vistu?

E’ lu sole? la stella matutina?

È quiddha donna c’ave amatu Cristu?

è Santa Chiara? è Santa Rosulina?

 

Ma, ce mmaniera.. ma, ce modu è quistu?

Com’ede ca se trova a Galatina?

Le sante ‘n terra? Nu ssacciu ‘rrasistu

tocca ‘dumandu cinca se cumbina.

 

Nunni! nunni! iti vistu la madonna?

Iti vu’ visti santa Mmatalena?

Nun diciti ca ‘st’anima se sonna

 

Ca mi faciti probbiamente pena!

La vitti: iddh’era cuantu ‘na culonna

e rispiandia comu ‘na sirena!

E’ questo un inno alla bellezza della sua dona. E’ il sole, è la stella mattutina! E’ la donna che ha amato Cristo? Ma com’è che si trova a Galatina? E’ possibile che le sante stiano sulla terra? E’ necessario che lo chieda a chi ha più esperienza di me. Signori, signori, avete visto la Madonna? Avete visto la Maddalena? Non dite che stia sognando, perché mi fareste proprio pena! Io l’ho vista! Era alta e dritta come una colonna e risplendeva di luce come una sirena.

Il termine nunnu (gr. nunòs, nonnòs) significa padrino. Nel nostro dialetto, però, vale persona di cui non si conosce il nome; spesso accade anche che nunnu assuma un significato di riverenza, di ossequio e di rispetto verso persone anziane.

Lucisce finalmente la sciurnata

Me ddisciatu, me zzumpu de lu jettu,

me vestu ‘llampu e prestu ‘na marciata

sotta ‘la soa fanescia va’ mme mettu.

 

Ma la fanescia s’ave spalancata:

La beddha tene ‘mmanu nu sicchettu

e ‘ndacqua, queta queta, ‘nzuccarata,

li fiuri ‘ssuti tutti a ‘nu vasettu.

 

Azzu la capu, la cuardu ‘ncantatu;

me fazzu de curaggiu e, ccu ‘nna voce

ca ‘stenti ‘ssiu, li dissi frasturnatu:

 

Beddha, l’amore to’ tuttu me coce!

Menami ‘nu carrofalu nfiammatu,

nu giju biancu e nnu me lassi ‘n croce!..

Subito si fa giorno, mi sveglio e salto giù dal letto, mi vesto in un attimo e lesto lesto va ad appostarmi sotto la sua finestra. La finestra si è spalancata. La mia bella ha in mano un secchiello e innaffia calma e felice i fiori spuntati tutti in un piccolo vaso. Sollevo in alto la testa, la guardo estasiato, prendo coraggio e, con voce flebile, le dico frastornato: bella, l’amore che nutro nei tuoi confronti mi sta distruggendo. Buttami un garofano pieno del tuo amore, un giglio bianco in modo che non soffra più.

Si ppacciu tu, si stoticu o si mminchia!

cusì mi disse quiddhu lazzarone

e tu, razza de carne can u bbinchia,

a ddhu ‘a’ ‘mparatu tanta ducazzione?

 

cusì respundu tostu a ddhu pissinchia

ca crassu crassu comu caratone.

E’ de jeri ca fazzu trinchia trinchia;

cce bbai cercandu tu qua ‘stu puntone?

 

Nu spiccia de cantare sta canzone

la nervatura è già troppu stirata.

Me tiru ‘rretu e ccu nnu mustazzone

 

lu fazzu ‘sse sturtija a ‘na vutata

Azzu la capu pe’ combinazione:

ma la fanescia è tutta renzzarrata!

Sei pazzo, sei lunatico o sei stupido? Così mi rimbrottò quel lazzarone. E tu, specie di carne che non sazia, dove hai appreso sì grande educazione? Così rispondo fermamente a quel “vescica piena d’acqua”, che è grasso grasso come una grande botte. E’ da ieri che ti sto sopportando con molta pazienza; cosa stai cercando tu a quest’angolo di strada? Non finisce di dire questo e già i miei nervi sono a fior di pelle. Tiro un passo indietro e con un bel cazzotto lo faccio contorcere per terra in un baleno. Per caso sollevo lo sguardo in alto, ma la finestra (della mia bella) è chiusa.

Il Rohlfs fa derivare stòticu dall’unione delle radici di due aggettivi latini: st[ultus + idi]oticus; razza de carne ca nu bbinchia è la classica espressione galatinese che viene rivolta a persona insignificante, meschina. Pissinchia, invece, risulta formato da vissica o pissica più la terza persona del presente indicativo del verbo ‘nchire. Abbiamo in questo caso un termine latino e un termine greco: vesica o vessica + enchèo, verso nella vescica, riempio la vescica. E il riempire la vescica era un gioco da ragazzi. Si prendeva un pezzo di camera d’aria di bicicletta, si annodava un’estremità e si poneva l’altra al rubinetto di una fontanina, la famosa vedova, tenendola ben stretta in modo che non fuoriuscisse l’acqua. Man mano che si riempiva, la camera d’aria si dilatava e assumeva la forma di una grossa zucca. Bisognava, però, stare attenti a non vincere l’elasticità della gomma, altrimenti scoppiava. Il culmine del gioco era quando si lanciava in alto la vissica che, cadendo a terra, se schiattava, bagnando quei ragazzini sprovveduti che si erano avvicinati troppo al punto di caduta.

Seguono tre altri sonetti che sono un continuum del precedente, con i quali è spiegato il motivo della zuffa tra i due contendenti, il perché si erano frapposte delle persone che avevano invitato alla calma. Allora il giovane Salacino torna a casa, chiude la porta in modo che non entri nessuno, prende pinna, carta e calamaru e scrive una lettera alla sua ragazza.

Idulo del mio core, anima mia,

ti scrivo queste pocu mie palore

per farvi de sapere ca moria

se de lei nu ‘n’ia ‘vutu quello fiore

 

Tu non poi mai sapere cce llecria

provao ‘llora lo povero mio core,

ce comportu, ce gioia ca sentia

Tu siete la madonna dell’amore!

 

Io per te schiatto, crepo e moro,

per te lo mondo sta mi pare bello!

Lei è la mia vita, é tutto il mio trisoro!

 

I nanzi a te mi faccio un asinello

sino alla tomba con totto il mio coro!..

Un bagio del tuo servitore. Friello.

E qui traspare l’ironia, un’ironia tanto sottile che mi fa pensare ai suoi denigratori. Loro non sanno esprimersi in italiano, mescolano italiano e dialetto, suscitando l’ilarità di chi li ascolta, ed allora come possono giudicare se uno sappia scrivere bene o male in dialetto?

Poi l’innamorato, spossato dal suo grande amore, si distende sul letto, s’addormenta e sogna. Sogna ‘nu campu cupertu de fiuri… d’ogne specie e dde tutti li culuri…, ‘na funtanella d’acqua… e la beddha cc na vesta tutta seta ci cu llu sicchiu d’oro… venia cu ppija l’acqua, queta queta… La ragazza riempie il secchio e gli dice: vivi ‘st’acqua se ‘more ssta tte ‘sseta: bevi quest’acqua se l’amore ti arde la gola! E lui beve, beve a perdifiato, ma la sete lo attanaglia. Ogni sorso gli fa gonfiare il cuore. La sua bella lo guarda, ride ed esclama: “non bere più! È troppo il bene che mi vuoi!”, e incomincia a coprirlo di baci. Vitti ‘na cosa vianca ‘n celu ssire, ‘ntisi ‘nu sonu comu d’armunia, ‘nu presciu, ‘nu cuntentu, ‘nu ridire, la bbeddha mia ca ‘ll’aria sta ssalia.

Si sveglia di soprassalto e il sogno svanisce; con il palpito in cuore, pian piano, senza far rumore, prende la chitarra, socchiude la porta ed esce fuori all’aperto.

Mo’ ci ssta ddormi tie, tu beddha mia

mo’ ci se code bella la nuttata,

‘sta ccantu sulu mie, ‘mmienzu lla via,

de li bellizzi toi la serinata.

 

Beddha, beddha, la pace toa ccu ssia,

apri mo’ ddha fanescia ca ‘nzerrata

ca sta mmi vene la malinconia,

ca sta mmi sentu l’arma ndolurata.

 

Bella la luna de ‘stu masciu novu

a ‘n celu campaniscia ca ‘nnu ‘ncantu

Tie sula mmanchi, beddha, a ‘stu ritrovu.

 

Nu ffare cc uni vegna mo’ lu chiantu!

Ppe llu trumentu sulu ca sta pprovu,

sscarrassa la fanescia toa surtantu!

 Pubblicato da Il Filo di Aracne.

L’agnomen, il soprannome, ovvero la ‘ngiuria nel Salento

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di Piero Vinsper

 

Per risalire all’origine del soprannome bisogna andare indietro nel tempo. Nell’antica Roma i cittadini liberi perlopiù avevano il praenomen, il nomen e il cognomen.

Il praenomen corrispondeva, per così dire, al nostro nome di battesimo; il nomen indicava la gens, complesso di più famiglie, legate tra loro da comunanza di nome, origine, costumanze (specialmente religiose); il cognomen indicava la famiglia.

Le donne, invece, erano indicate solamente con il nome della gens: Julia, Cornelia, Caecilia, Octavia. Frequentemente era fra i Romani l’uso dell’adozione; colui che era adottato prendeva il nome dal padre adottivo, ma vi aggiungeva, trasformandolo in aggettivo terminante in anus, il nome della gens dalla quale proveniva. Così Ottavio, colui che sarebbe diventato il primo imperatore di Roma con il titolo di Augustus, essendo adottato da Gaio Giulio Cesare, si chiamò Gaius Julius Caesar Octavianus.

Però spesso accadeva che, al praenomen, nomen e cognomen, vi si aggiungeva l’agnomen, il soprannome, ovvero sia la ‘ngiuria. Così abbiamo Quintus Fabius Maximus Allobrogicus: Allobrogico per la vittoria riportata sugli Allobrogi nel 121 a.C.; Quintus Fabius Maximus Vernucosus Cunctator: Vernucoso perché aveva un’escrescenza carnosa sulle labbra, Temporeggiatore per la tattica usata in battaglia contro il nemico; Publius Cornelius Scipio Africanus: Africano per aver sbaragliato l’esercito dei Cartaginesi, comandato da Annibale, a Naraggara, presso Zama, ponendo fine alla seconda guerra punica; Publius Cornelius Scipio Nasica Serapion: Nasica, nasuto, dal naso sottile e adunco; Serapione, perché governatore dell’isola di Cipro.

Questi pochi esempi, ce ne stanno moltissimi, ci fanno capire come siano nati i soprannomi. L’agnomen è occasionale; nasce, presso il popolo, spontaneo e con arguzia; basta un semplice motivo, un atteggiamento diverso dall’uso comune, il non pronunciare bene una parola, l’avere una deformazione fisica, l’esercitare un mestiere, il coltivare alcuni determinati prodotti della terra, il proporsi in modo imperioso, il mostrarsi in maniera eccentrica e via di seguito.

Però spesso succede che certi cognomi, rispetto ad altri, siano predominanti, ed è difficile individuare la persona e quindi si ricorre alla ‘ngiuria.

Prendiamo a esempio i cognomi Congedo e Tundo.

Di Congedoabbiamo i Barchi, i Cacaove, i Fuggeddhra, gli Ùrsula, ‘u Purpetta, i Panta, i Parà, i Tatài, ‘u Sciancatu, i Minnella, i Runzettu, gli Scalureddhra, gli ‘Ndurroddhru.

Dei Tundo abbiamo: Piruzzu, Saresci, Cerasa, Rre, Turinu, Lasi, Pìchenu, Stortu, Cicchieddhri, Turicchiu, Lardu, Runzone.

E noi dal soprannome possiamo individuare, in maniera molto più sicura, le persone o la famiglia che hanno questo cognome.

Vero è che la ‘ngiuria sta quasi scomparendo, però ho potuto constatare personalmente che i giovani d’oggi hanno l’abitudine di chiamarsi per soprannome e questo mi torna a conforto, perché, consciamente o inconsciamente, mantengono in vita certe tradizioni popolari.

D’altra parte la ‘ngiuria non è da considerarsi come un termine spregiativo, anzi ci arricchisce di un bagaglio culturale, che ci apre una finestra di fronte a una realtà a volte nuda e cruda, ma spesso vera.

Ci sono soprannomi che si riferiscono ad animali: musu de paducchiu, paparotti, passaricchiu, pecureddhra, macacu, muscia, vorpe, miciu, vovana, ciola, caddhrineddhra, puddhrascia, taragnula, rèpule, sarda, cane rugnusu.

Altri ai numerali: thrìdici pili, tthre ccujiuni, tthre cculi, vintottu, tthre pidocchi, threnta carrini, vinticinquanni, tthre rane, tthre mazze, sette misi, thria, tthre nziddhre, quatthru rane, capidieci, threnta pili.

Spesso, come ho detto prima, i nomignoli richiamano dei difetti fisici: anca de giocculata, capiviancu, Cia zzoppa, Vata bbòmbana, manimuzza, picculinu, pappallollu, mbrìcate, nciarfetta, stortu, de le longhe, spinnatu, vàsciu, picozzu.

Le ‘ngiurie si rifanno a verdure, ortaggi e frutta: pastinaca, pasulu, padateddhra, tarece, don Sinapu, cucuzza, mmalavasia, cerasa, piricocu.

Però, quel che a me più interessa in questo contesto è analizzare i soprannomi che derivano dall’esercizio di arti e mestieri.

Chi esercitava un mestiere si portava dietro la croce del lavoro che svolgeva quotidianamente. Ed ecco le ‘ngiurie: pasteddhra, pescialuru, pethrujaru, peparussaru, portatavuti, pospararu, funaru, ‘mpajaseggie, mmulaforbici, vardaru, vindioju, vuttaru, sacristanu, scarparieddhru, settamattuni, caddararu, coppularu, casciaru, ccattabbindi, ccidiporci, cconzambrelli, cornularu, craparu, ferraru, fischiularu, fucaru, furnaru, fusaru, nuceddhraru, biccheraru, zzoccatore, quarnimentaru, nnettacumuni, cconzalimbi, giustacòfani.

Pasteddhra è il soprannome dato a una persona che spendeva la maggior parte della giornata a fare la pasta fatta in casa: maccheroni di grano, minchiarieddhri, maccheroncini con farina d’orzo e grano, e orecchiette. Vendeva questi prodotti a osterie e ristoranti o a persone che li richiedevano. Però lo spettacolo più interessante non era il vederla sfaccendare nel temperare la farina, ma guardare tutta una serie di compensati coperti da panni bianche di bucato e pieni di maccheroni e orecchiette, avvolti con tulle bianco, messi su una lunga balconata a essiccare, tanto da assomigliare a file di pannelli solari che, ohimè, deturpano da un po’ di tempo a questa parte il paesaggio del nostro Salento.

Chi andava in giro con la bicicletta, collegata dietro al portabagagli una latta di olio o di petrolio, era ‘u pethrujaru o lu viendioju. E ‘u pethrujaru per antonomasia era Cici Navone, esponente del PSIUP, quello, giusto per intenderci, che in un comizio elettorale se ne uscì con la frase “le breccioline che vanghino e venghino dalla via di Soleto”; uomo onesto e giusto che con la sua semplicità avrebbe voluto portare la classe operaia in Paradiso.

Ccidiporci, invece, è la ‘ngiuria data a una famiglia che possedeva delle botteghe idonee allo spaccio e alla vendita delle carni. Quelle sì che erano delle persone molto abili nel selezionare le parti delle carni, così come i Patutu, che sono stati bravi, scrupolosi e ottimi macellai.

Un discorso a parte merita Mesciu ‘Ntoni ferraru. Notaro di cognome, era molto esperto a ferrare i cavalli e a eseguire lavori in ferro battuto. Aveva, questi, un altro soprannome: fra giorni. Volete sapere perché? A chi gli chiedeva quando doveva passare a ritirare il lavoro ordinato, lui con una calma olimpica rispondeva sempre: fra giorni! E ciò ci riporta ai personaggi romani succitati che avevano anche doppio agnomen.

Pochi forse ricordano Mesciu ‘Ntoni vardaru e Mesciu ‘Esciu quarnimentaru. Dal mestiere esercitato avevano ereditato il soprannome. Per maggiore chiarezza espositiva devo aggiungere che c’è una bella differenza tra vardaru e quarnimentaru. Il primo è colui che fabbrica le selle, il secondo è chi, invece, s’interessa dei finimenti (briglie, cavezze ecc.) degli animali da soma.

Molti calcavano le piazze salentine durante i giorni di mercato per vendere i loro prodotti: ‘u coppularu, ‘u fusaru, ‘u fumaru, ‘u bicchieraru, ‘u fischiularu.

Caricavano tutte le loro mercanzie su lli sciarabba (chair à banc) e andavano a presentare i loro prodotti, coppole e cappelli, fusi, funi, zzuche, bicchieri, fìschiuli a possibili acquirenti.

Un tempo l’arte del fischiularu era fiorente a Galatina e procurava un sia pur lauto guadagno. Tu potevi osservare questi maestri lungo Via Luce, Via Gallipoli, Via Grotti a preparare i loro prodotti. A una estremità della via veniva situata una ruota; lungo la via, disteso per terra, il materiale che doveva essere intrecciato. Man mano che il maestro, indietreggiando, intrecciava le corde, l’operaio addetto alla ruota la faceva girare in modo che la corda, lu ‘nzartu, la zzuca, venisse raccolta con la dovuta torsione. Di qui nacque il vecchio adagio “Ve de retu a rretu comu lu Zzuccaru”. Anzi a noi bambini, che non ci comportavamo, a volte, bene, poiché avevamo commesso qualche marachella o che non avevamo voglia di studiare, i nostri genitori ci dicevano “Mo’ te mandu cu ggiri la rota de lu zzucaru”, che vuol significare “ti mando a fare un lavoro duro e dispendioso di forze per farti mettere giudizio”.

Caddararu era la ‘ngiuria appioppata a chi si occupava a riparare le pentole di rame: cazzalore, farsure, caddarotti e bbadelle varie. E questa persona sostituiva e aggiustava i manici sconnessi di questi utensili, batteva il rame se il recipiente presentava qualche gobba. Però la cosa più difficile era quando il recipiente presentava qualche foro. Allora subentrava la maestria de lu caddararu. Prendeva prima una pallina di rame e la batteva con un martello sino a renderla in una lamella molto sottile. Poi, resa incandescente su una forgia la parte da riparare, vi applicava quella lamella di rame e la batteva con tanta forza sino a che non si amalgamava il tutto otturando i buchi. Per rendere l’idea era come se si applicasse a una camera d’aria di gomma, forata, una pezza tip top. E da questo lavoro è scaturito presso il popolo il modo di dire: “Batti culettu ca la rame è ddoppia”.

Uno che volesse affilare forbici e coltelli si affidava allu mmulaforbici, che esercitava la “professione” in Via Cavazza, qui a Galatina, sull’entrata posteriore di Palazzo Tondi-Vignola di Via Garibaldi, laddove c’è una rientranza, rispetto alla via, di circa un metro e mezzo. Qui adagiava il suo “trabiccolo”, ossia la sua “macchina da lavoro”, consistente in una specie di scanno in legno a forma di tronco di piramide, alla cui destra era fissata una ruota, che, tramite una cinghia collegata agli ingranaggi di una piccola mola, premendo con il piede su di un pedale di legno posto alla base dello scanno, girava mettendo in movimento la mola. Sulla mola pendeva, a debita distanza, una minuta lattina di rame piena d’acqua, che, a seconda delle circostanze, gocciolava da un beccuccio sulla mola diminuendo così l’attrito con gli oggetti che dovevano essere affilati.

Un’altra figura caratteristica era quella persona che aveva il nomignolo di cconzambrelli. Andare in giro per il paese prestando la sua opera ad aggiustare gli ombrelli. Non si era ancora arrivati all’epoca dell’usa e getta e acquistare, allora, un ombrello nuovo significava togliere un pezzo di pane dalla bocca dei propri figli. I ferri del mestiere erano pochi: una tenaglia, una pinza, dei pezzi di ferro filato, alcuni raggi di cerchi di bicicletta, un martello, una forbice, tutti ben riposti in un piccolo contenitore di legno a forma di parallelepipedo che veniva portato a tracolla tramite una cinghia. Era un mestiere povero, che aiutava, in certi frangenti a sbarcare il lunario.

Ci sono poi delle ‘ngiurie di origine prettamente greca, come di derivazione greca sono molti cognomi galatinesi. A tempo debito ne parleremo; ora ne citerò un paio proprio per stuzzicare la curiosità di voi lettore: Nnai (gr. nai, sì) e Criu (gr. cryos, freddo).

 

Sull’argomento si veda anche, dello stesso Autore:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/23/cognomi-e-soprannomi-di-origine-greca/

 

 

La donna nella saggezza popolare salentina

La donna nella saggezza popolare

LU DITTERIU

Il popolo, quando parla, sentenzia

di Piero Vinsper

Unde abii redeo: torno al punto di partenza, cioè riprendo a parlare dei ditteri galatinesi, di quei proverbi che riguardano le donne e mettono in luce le loro virtù, i loro pregi e soprattutto i loro difetti.

D’altra parte

Nuddhra lingua aggiu ‘mparatu

de nuddhra sacciu nienti

ma viddhra de lu tata

sta mi scioca ‘nthr’alli dienti

Non ho imparato nessuna lingua, di nessuna so niente, ma quella di mio padre, in dialetto, mi sta giocando e ballando in bocca tra i denti.

Fèmmana culimpizzata né pe mujere né pe cagnata

Bisogna stare alla larga, ammonisce il popolo, da donne dal sedere a punta, perché oltre ad essere maliziose, sono seminatrici di zizzanie e di calunnie.

Pe’ na bbona maritata né socra né cagnata

La suocera e la cognata spesso sono artefici del cattivo andamento in un matrimonio. Loro peccano di egoismo e non tollerano la presenza di una donna estranea, che considerano come un’intrusa nella loro casa. Perciò è necessario evitarle, rinunciando ad una compagnia, che, quasi sempre, è equivoca.

Fèmmana ca lu susu si pitta è segnu ca lu sotta ffitta

Un tempo si riteneva che la donna la quale si imbellettava il viso e passava il rossetto sulle labbra fosse una donna di malaffare e desse in affitto parte del suo corpo. Immaginate voi se, oggigiorno, avesse riscontro questo proverbio. In che mondo vivremmo?

Signore de li signuri, quante cose sapisti fare! Alla fèmmana la cunucchia, allu masculu lu mmargiale

Mio buon Padre, quante cose hai saputo fare tu! Hai donato alla donna la conocchia per torcere la lana e poi filarla, all’uomo il manico della zappa per dissodare il terreno. Fuor di metafora lascio ai lettori qualsiasi altra interpretazione di questo ditteriu.

L’ommu cu lla pala e la fèmmana cu lla cucchiara

Spesso succede che in una famiglia si invertano le parti: l’uomo vuol vestire la gonnella e la donna pretende di infilare i pantaloni. E’ un controsenso, dice il popolo. Lasciamo le cose come stanno. L’uomo è nato per lavorare e dare sostentamento alla famiglia, la donna è nata per fare la massaia e per attendere alle faccende e alle cure domestiche.

Donna onurata nunn esse mai de lu talaru

Il telaio è una delle più importanti e più assidue occupazioni della donna. Il popolo da questa occupazione fa risaltare l’onestà della donna. Infatti colei che ci tiene al suo onore, che vuol essere rispettata, non fa la pettegola con le altre donne, non prende parte a certi discorsi: bada solo ai fatti suoi. La sua famiglia è tutto, il lavoro è la sua unica occupazione.

Na fèmmana e ‘na pàpara paranu ‘na chiazza

L’oca, quando starnazza, fa un chiasso infernale. Il popolo la mette insieme con la donna; la donna, infatti, per indole, è chiacchierona e troppo loquace. Quindi, unendo l’una all’altra, esse hanno la forza di creare da sole tutto quel chiasso, fastidiosissimo, che tu puoi sentire in piazza nei giorni di mercato.

La fèmmana nasuta ede puntusa, pittècula e cannaruta

Un naso grosso, lungo, appuntito, un naso aquilino deturpa la bellezza del corpo di una donna. Però per rivalsa questa donna, dice il popolo, è puntigliosa, pettegola e golosa.

Fèmmane e sarde su’ bbone quando su’ piccicche

Le donne giovani e le sardine sono molto appetibili e appetitose, mentre la fèmmana de quarant’anni, mènala a mare cu tutti li panni. Questa è una vera cattiveria verso il gentil sesso; ma un tempo, quando la donna raggiungeva quest’età, incominciava a percorrere la parabola discendente verso il tramonto della vita. Le cause erano molteplici: mettere al mondo figli e allevarli, badare alle faccende domestiche, lavorare nei campi, tessere al telaio, scarso nutrimento. Ecco perché invecchiavano precocemente. Però buttarla a mare con tutti panni, in modo che perisca più presto, sarebbe un’infamia!

Fèmmana curta, maliziusa tutta.

Non so perché il popolo si ostini a concentrare tutta la malizia su una donna di bassa statura. Forse vuol compensare la scarsa altezza con una dose abbondante di malizia? Ma se già le donne, in generale, son tutte maliziose, tanto che un altro proverbio recita: la fèmmana la sape cchiù longa de lu diàvvulu! Quest’ultimo potrebbe anche rappresentare un elogio per la donna se si rapportasse alla virtù della prudenza, di cui, è bene confessarlo, spesso le donne sono abbastanza fornite. Si tentano tanti mezzi, anche segretamente, per commettere qualche marachella all’insaputa della donna; ma lei è tanta brava a investigare, è tanta brava a darsi da fare, che scopre tutti gli altarini, viene a conoscenza di tutto e il maschio si trova impigliato nella rete come un pesce, proprio nel momento in cui pensava di averla fatta franca.

Donna bbeddhra e pulita senza dote se mmarita

La bellezza e la pulizia sono le due meravigliose attrattive di una donna. Sia l’una che l’altra sprigionano un fascino e un profumo inebriante, che conquistano i cuori. Non ha importanza se la donna sia povera: essere bella e pulita vale più della ricchezza di questo mondo. I suoi genitori non le hanno dato nulla in dote per il matrimonio? Pazienza! La bellezza, la semplicità, i nobili sentimenti bastano e avanzano.

Né fèmmana né tela a lluce de candela

Non si può esaminare alla flebile luce di una candela la qualità e il colore di una tela; puoi constatarne la consistenza e la fortezza, mai il colore. Lo stesso dicasi di colui che, al buio del tumulto di una passione, voglia giudicare una donna. E la passione per la donna ha tale potenza sul cuore dell’uomo da accecarlo fino all’aberrazione nei suoi giudizi, che meglio si potrebbero definire capricci. Volesse il cielo che i giovani, prima di apprestarsi al matrimonio, studiassero attentamente questo proverbio! Auguro loro, soltanto che li guidi non la pallida e smorta candela della passione ma la vivida luce della ragione.

In conclusione dedico quest’ultimo ditteriu alle donne: La fèmmana ede comu la menta: quantu cchiù la friculi cchiù ndora.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Modi di dire salentini

Ancora presenti nella vita di oggi

MODI DI DIRE

 

Espressioni semplici e colorite del linguaggio popolare

 

di Piero Vinsper

Con modo di dire o, più tecnicamente locuzione o espressione idiomatica, si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso a un significato non composizionale (Casadei, 1994: 61; Casadei, 1995: 335), cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Di conseguenza una definizione precisa di modo di dire, (e di espressione idiomatica) non è data né accettata in linguistica. E mi fermo qui e non vado oltre.

In altre occasioni, invece, ho sostenuto che i modi di dire rappresentano il senso realistico di un’espressione semplice, chiara, colorita, spesso arguta e a volte canzonatoria, che va aldilà di ogni metafora, di ogni traslato e di ogni similitudine, o di qualsiasi altra figura retorica.

Non vorrei che il nostro dialetto, dal momento che non è ben coltivato, diventi presto erba secca, arida, incomprensibile; altrimenti dovrei ripetere, così come in griko, ma con dovuta differenza, i glòssama, pedìmmu, ine fonì ine fonì monachà (la nostra lingua, figlio mio, è una voce, una lingua unica, oscura).

Noi tutti sappiamo che, un tempo, i bambini, i ragazzini si riunivano nelle corti a giocare. E lì accadeva di tutto: urla, schiamazzi, pianti, litigi. Però, quando si superava il livello di sopportazione, si presentava nel bel mezzo della corte una matrona e con dire imperioso esclamava: Oru, oru, ognunu a casa loru! Ora, ora, ognuno vada alla propria casa. E i ragazzini, scurnusi e alla spicciolata, abbandonavano la corte e si recavano alla propria dimora.

A volte succede che due persone s’incontrino per strada e, dopo i saluti convenevoli, si mettano a parlare della famiglia, dei figli, dei problemi che li assillano quotidianamente. Si trova a passare un terzo incomodo, si ferma ad ascoltare i loro discorsi, ma quando cerca di intervenire si sente spiattellare in faccia: Talìa, talìa, ca è longa la via! Via, via, perché lungo è il cammino. E’ un modo come un altro per dire: vattene, non è gradita la tua presenza!

Dato che all’inizio si è parlato di bambini, rimaniamo in tema. Una madre, dopo aver allattato il figlio, aspetta che questo faccia l’eruttino. Avvenuto ciò, esclama: Mele e manna e zzuccaru ‘n canna, miele e manna e zucchero in gola! E se c’è qualche altra persona presente senti dire: e a cci nu tt’ama fele!, cioè chi non vuol bene a questa creatura possa sempre avere in bocca l’amaro del fiele.

A un bambino cola il muco dal naso; non sa pulirsi oppure non ha un fazzoletto con il quale soffiarsi il naso. Che fa? Aspira dentro il muco in maniera costante e fastidiosa. Allora si ammonisce: rrufa (gr. rofò, aspirare) ‘Ronzo, ca te sazzi. Inspira Oronzo così ti sazi!

Se il bambino non sta fermo, è irrequieto, scorazza da una parte all’altra, va su e giù da una stanza all’altra, il popolo così si esprime: Tene l’artetica oppure l’have pizzacatu l’apu. Artetica (gr. arthriticòs) vale stare sempre in movimento, mentre quando uno è punto da un’ape scappa da una parte all’altra in cerca di un rimedio al dolore provocato dalla puntura.

Una donna è incinta; ha desiderio di qualcosa, ma per diversi motivi non ha la possibilità di soddisfare ciò. Sarà un frutto fuori stagione, sarà qualcosa che è impossibile trovare o comperare? Allora tòccate ‘n culu ca ti passa ‘u spilu: toccati il sedere, così ti passa la voglia. E’ un modo di dire eloquente che va al di là delle credenze popolari.

M’hai scalatu i fianchi è un modo di dire che spesso è rivolto a persone che ti scocciano, che ti infastidiscono, che sono petulanti e attaccaticce. Lo stesso dicasi di m’hai scurciatu ‘u piricocu (lat. persicus praecoquum) o m’hai scasciatu ‘u pasticciottu. Mi hai fatto scendere giù i fianchi può accostarsi al verso latino del grande Orazio: cum sudor ad imos manaret talos (Lib. I, Sat. 9, vv. 10-11), mentre il sudore mi scendeva giù sin sotto i talloni, cioè colavo sudore dalla testa ai piedi.

E prettamente di derivazione latina è stare una, stare d’accordo. Infatti una è avverbio latino e si traduce insieme; perciò esse una, essere insieme, stare d’accordo con qualcuno.

Nu’ stare una cu ciuviddhri (lat. qui velles ) è non sto d’accordo con nessuno.

Quando, invece, una persona si intromette in un discorso senza che le sia stato richiesto il proprio parere, oppure quando s’intrufola in un contesto sociale, senza essere stata invitata, il popolo dice: E’ thrasutu de spichettu, è entrato alla chetichella. Spichettu, a detta delle camiciaie, è il gherone, cioè un pezzo di tela, a forma triangolare, cucito in basso ai due lati da ambedue le parti della camicia da donna, per dare ad essa maggiore ampiezza.

Se un tizio è indifferente, non parla, sta zitto e non proferisce mai una parola è uno che Nu’ ppate, nu’ ccunta, nu’ mmùscia. Lo stesso discorso vale per ste ‘mpalato comu ‘nu sapale: sta lì impalato come un terrapieno. Sapale, infatti, deriva da saeps, saepis, siepe, quindi saepalis è un terrapieno a confine tra appezzamenti di terreno. E viene spontaneo qui citare il proverbio: li pariti tenenu ‘e ricche e li sapali l’occhi. Cioè uno può ascoltare anche se ci sta il muro divisorio quel che si dice nell’altra stanza e può vedere, senza esser visto, mantenendosi nascosto dietro monterozzoli di terra, ciò che succede tutt’intorno.

Un altro simpatico modo di dire galatinese è: è sciùtu ddèscia ‘a manu a ‘u mortu: è andato a dare la mano al morto. Naturalmente stringere la mano al morto è inconcepibile. Sta a significare, invece, che una persona si è recata al funerale per fare le condoglianze ai familiari del defunto.

L’inverno è alle porte; il freddo, presto, si farà sentire e qualcuno potrà affermare: sta mmi rrizzacanu ‘i carni. Rrizzacare (lat. arrigere) significa drizzare. Se il modo di dire è riferito al cambiamento della temperatura, vale sto rabbrividendo, i miei muscoli, le membra si rattrappiscono. Se, al contrario, riguarda un fatto di ineffabile crudeltà, di scelleratezza, si può spiegare con mi viene la pelle d’oca.

Anche il grande Pietro Cavoti è ricordato nei nostri modi di dire. A una persona che ha i capelli lunghi si dice: mi pari ‘nu Cavoti. Molto probabilmente il Cavoti aveva una capigliatura folta, cascante, non curata, arruffata, tipica dei grandi artisti, che non curano l’apparire ma il fare.

E per concludere, se all’opera segue l’azione, se si fa una cosa in quattro e quattr’otto, se un progetto si porta a termine nel più breve tempo possibile, si dice friscendu mangiandu

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Cognomi e soprannomi salentini di origine greca

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di Piero Vinsper

 

Parlare dell’origine dei cognomi è compito quanto mai arduo e difficile, e comporterebbe un discorso lungo. Molti studiosi hanno affrontato questo problema con zelo, ottenendo degli ottimi risultanti. Dirò solo, e in maniera semplice, che i cognomi derivano da nomi patronimici, matronimici, da qualità e difetti fisici, da animali domestici e selvatici, da insetti, dal nome di giorni e mesi, da numeri, da soprannomi, da sostantivi del sostrato greco, da luoghi, da città e nazioni, da arnesi dell’uso quotidiano, da mestieri e professioni, ecc. Aggiungo anzi che gli studiosi hanno stilato una certa statistica, e non sono le statistiche di stile berlusconiano: quelle sappiamo che vanno sempre nello stesso senso, attratte dall’ago di una politica scialba, vuota, patetica, inconcludente, meschina, retrograda, dannosa e per decoro personale mi fermo qui, basata, beato lui!, su quel vecchio adagio galatinese: “Articulu quintu, ci tene a mmano have vintu!”, strafottendosi delle istituzioni, della nazione e del popolo. Però vorrei ricordare a lui, e lo scrivo con la lettera minuscola, un altro dittèriu nostro: “nu’ bulare throppu ertu mo’ c’hai l’ale, ca sempre si’ suggettu a llu cadire!”.

Dicevo che gli studiosi sono giunti a questa conclusione: i cognomi derivano soprattutto da tre fonti: onomastica, toponomastica, soprannomi. Una piccola percentuale spetta a cognomi di derivazione straniera, un’altra, sparuta, costituisce un nome augurale, che la carità cristiana ha riservato ai trovatelli. Poi il Concilio di Trento del 1564 sancisce l’obbligo per i parroci di aver un registro per i battesimi, sul quale scrivere nome e cognome di una persona, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei.

Ebbene, quel che a noi interessa è cercare i cognomi e soprannomi galatinesi che abbiano un sostrato greco. E’ chiaro che prenderemo in considerazione quelli che sono ancora in voga tralasciando, invece, quelli che sono già estinti e quelli che non sono ormai sulla bocca di tutti.

Antonica e Antonaci son formati dall’unione di due sostantivi: anthos + nike e anthos + nake; sicché il primo significa fior di vittoria, il secondo fior di pelle lanosa, di pelliccia. Infatti il termine dialettale naca che deriva da nake o dal neogreco naka non è altro che la culla sospesa, formata di un vello di pecora.

Sambati e Sabato è la stessa cosa, solo che uno è al plurale, sambata (grico sabati) e l’altro al singolare (neogreco sabbata, sabati). Lo stesso si può dire di Stomaci e Stomeo; Stomaci da stomachi, stomaco, oppure dal diminutivo di stoma, stomaki, piccola bocca. Se invece facciamo riferimento al grico stoma, acciaio, come per Stomeo, allora Stomaci sta per piccola tempra di ferro e Stomeo per acciaio. E ciò che avvalora la seconda ipotesi e che la stirpe degli Stomaci erano abili “ferrari”, cioè ottimi maniscalchi.

Colazzo, Cudazzo, Codazzo, Cutazzo sono tutti uguali cognomi che traggono origine da Colazzo. Molto probabilmente, quando le persone si recavano all’ufficio anagrafe per dichiarare il nascituro, vuoi per la cattiva pronuncia del richiedente, vuoi per l’incompetenza dell’ufficiale dell’anagrafe, si incorreva a questi mutamenti di cognome. D’altra parte erano quelli periodi in cui la gente era in massima parte analfabeta, e perciò non poteva rendersi conto di ciò che c’era scritto sul certificato di nascita. Comunque questi cognomi derivano da colazo, io freno, e indica il freno dei guarnimenti da applicare alla coda degli animali da tiro o da soma.

Colaci è un vezzeggiativo di [Ni]kolakis, Nicolino. Però azzarderei un’altra ipotesi: potrebbe avere a che fare con il diminutivo di cholòs, cholàki, un po’ zoppo, claudicante.

Musarò da musaròs, sudicio, impuro, detestabile; Mauro da mauròs, nero. Nel primo caso si fa riferimento a persona trasandata, alla buona, nel secondo a persone dalla carnagione scura.

Spano da spanòs è un uomo privo di barba, sbarbato; Piscopo da [e]pìscopos significa vescovo; Sanzico da sàmpsicon si riferisce, forse, a persona che coltivava in campagna la maggiorana.

Papadia, derivando da papadìa, sta per moglie del prete; Patera, accostato a patèras, sta per padre, ma se lo facciamo discendere dal grico patèra, è il prete.

Ostace e Campa richiamano due simpatici animaletti: ostacòs è il granchio oppure il gambero, kampe è il bruco.

Onesimo si rifà a onèsimon, che si traduce cosa utile, vantaggiosa, benefica, buona. Il termine onèsimos si riscontra nelle opere di antichi scrittori greci: in Sofocle, Antigone v. 995, in Eschilo, Eumenidi v. 924, negli Inni omerici, Mercurio v. 30, e come nome di uomo nell’Antologia palatina. Prendo, così per caso, il verso 995 della tragedia Antigone di Sofocle. Chi parla è Creonte, rivolto a Tiresia: ècho peponthòs martureìn onèsima [posso riconoscere di aver avuto (da te) del bene].

Izzi è una desinenza di origine greca che ha la funzione di diminutivo. Quindi Stefanizzi viene da Stefanitsis, stèfanos + itsis, piccola corona, ghirlanda, oppure dal verbo stefanizo, incorono. Mutatis mutandi il significato è perlopiù identico.

Castriota, Kastriotis, è il signore del castello; Ciriani, Kyr’Jannis, signor Giovanni; Coroneo, da Koronaios, significa abitante di Corone, città del Peloponneso. Marti, Martios o dal grico Marti, è il mese di marzo.

Il cognome Moscara ha a che fare con moschàrion, vitellino; Calso con Kàltios, calzare; Misciali con Michàlis, Michele; Cretì con krytìs, giudice; Mairo con màgeiros, cuoco.

Nei soprannomi, invece, appare più chiaro il sostrato greco; il dialetto, infatti, conserva  la forma più antica del linguaggio.

Sciòi, da skiòeis (leggi sciòis), vale ombroso; pisino, da pisinòs, equivale a culo.

Scuddhrana, figlia de lu Scuddhru, rimarca skulos, codolo della zappa, della scure. E c’è un modo di dire galatinese, vutàmula de lu scuddhru, giriamola dalla parte del codolo, quando non si riesce a dare una spiegazione a qualcosa, oppure non si trova una via d’uscita a una situazione scabrosa.

Canzeddhra è il soprannome dato a una persona di bassa statura, ma nel nostro dialetto rappresenta il tavolo di lavoro del calzolaio. Infatti, kantòs significa cerchio esterno della ruota; ma potrebbe essere un diminutivo di kàmpsos, curvo. Comunque stiano le cose noi sappiamo che la canzeddhra è una specie di mobile molto basso che poggia su tre o quattro piedi. Il Tavolo di lavoro è a forma circolare, diviso in piccole parti, in cui vengono adagiate le semenzelle, le puntine, la tanaja, i capitieddhri, la tavoletta di pece, la ssùja, pezzi di cuoio, ecc. ecc. Lu scarparu, stando seduto può servirsi in maniera maneggevole e degli arnesi e del materiale per riparare le scarpe.

E a proposito di sutor mi torna in mente l’agnomen calopa. Calopa deriva da kalò + pous, forma per le scarpe, “piede di legno”. Quest’attrezzo usato dal calzolaio ha una forma sgraziata e il soprannome riferito a una donna denota trascuratezza nel vestire, impaccio nel portamento e nel camminare.

Panta da pas, pasa, pan, ogni cosa, tutto, sempre, e parà, preposizione greca, ora, mentre, accanto, presso, contro, sono nomignoli appioppati a due rami di una famiglia il cui cognome è molto diffuso qui da noi.

Cista, kiste, è la cesta, il paniere. Famoso a Galatina era Peppinu ‘u cista, gran venditore di ghiaccio. I lettori devono sapere che, un tempo, non esistevano frigoriferi; solo i nobili avevano in casa la ghiacciaia; la povera gente, nel periodo estivo, per far diventare fresca ‘na vucala d’acqua o ‘nu ‘rsulu di vino, possibilità permettendo, mandavano da Peppinu cista i bambini a comprare cinque o dieci lire di ghiaccio. E lui dall’aspetto portentoso e fiero, ma sempre con il sorriso sulle labbra, lasciava cadere un colpo di mannaia sul blocco di ghiaccio e te ne porgeva un pezzo. Poi con un fare bonario, tipico della gente salentina, raccoglieva i pezzettini di risulta e li aggiungeva al ghiaccio comprato esclamando: “Quistu è de cchiùi!”.

Thraca viene da trachùs, duro, violento; calieddhru da kalòs, bello; capasa da kapasa, grande vaso di creta, idoneo alla conservazione delle friselle; soprannome quest’ultimo dato a persona bassa di statura ma dalla pancia prominente.

Chetta deriva da chaite, criniera, chioma: soprannome dato a persona calva; cerasa da keràsion o dal neogreco keràsi, ciliegia; cuja da guion, membro, borsa dei testicoli; cuvizzi da kuix, bulboso.

Panaca da panàke, panacea, è l’agnomen dato, forse, a qualcuno che empiricamente trovava un rimedio per tutti i mali, così come murecca da murèpsos era l’unguentario.

Piricocu risale a berycoca. Alla lettera si traduce albicocca ma nel nostro dialetto equivale a pesca. ‘U piricocu per eccellenza a Galatina era un certo Alfieri, che con due altri amici, Picinera e Naticeddhru, aveva messo su il Carro di Tespi e insieme con loro andava in giro per le piazze a rappresentare il teatrino dei burattini.

Kalès diakopès e a risentirci a presto!

Trottole e antichi giochi di fanciulli salentini

Gioco di abilità e intelligenza

 LU CURUDDHRU

Anche i figli degli antichi romani mandavano il “turbo”

di Piero Vinsper

“Costruire delle casine, attaccare i topi ad un carrettino, giocare a pari e caffo, cavalcare una lunga canna” sono per Orazio i primi giochi infantili: giochi di ragazzi romani e giochi dei nostri.

A pari e caffo (par impar) si giocava così: uno teneva chiusi nel pugno alcuni sassolini (noci, ecc.) ed invitava il compagno a dire se erano in numero pari o dispari. Apriva poi la mano, e si vedeva se l’interrogato ci aveva dato giusto.

Si usava anche giocare capita et navia, cioè, come diciamo noi, “a testa e croce”, e nel dialetto galatinese “a capu e litthri”, gettando in alto una moneta e cercando di indovinare, prima che cadesse, se sarebbe rimasta in alto la parte con la testa o la parte con la nave.

E si giocava alla morra (digitis micare), si mandava la trottola (turbo) con lo spago o con la frusta, o il cerchio (orbis, trochus), servendosi di un bastoncino diritto o ricurvo (clavis).

Molto giocavano con le noci, tanto che Persio dice “lasciate le noci” volendo significare “passato il periodo dell’infanzia”.

Da allora ai nostri giorni il gioco non è cambiato affatto: si mettevano su delle capannelle con tre noci sotto e una sopra, e se uno riusciva a farle crollare, colpendole con il “bocco” (boccus = corpo rotondo, la nostra “paddhra”), le noci erano sue.

Va detto che, nel periodo posteriore all’invasione della cultura greca, tutti i giochi infantili greci divennero abituali in Roma: come, per esempio, l’altalena sospesa alle funi (αίώρα) o su di un’asse in bilico (πέταυρον),l’aquilone (άετóς) e il fare ad acchiappino (άποδιδρασκíνδα, il nostro zzaccarreste) e a mosca cieca.

Mosca cieca in greco si dice mosca di rame (χαλκή μυΐα); un ragazzo con gli occhi bendati brancolava cercando di afferrare uno dei suoi compagni e diceva:”Darò la caccia alla mosca di rame”; e i compagni, ronzandogli intorno con un bastoncino:”La caccerai e non l’acchiapperai”; e giù botte.

Ora prendiamo in esame il gioco del turbo latino, della trottola, cioè, nella nostra κοινή διάλεκτος, de lu curuddhru.

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Curuddhru deriva dalla forma tardo-latina currulus, che si rifà al verbo curro e sta a significare una cosa che corre, che scappa, che ti sfugge di mano.

Tre sono i tipi di curuddhri: curuddhru propriamente detto, mathrecòcula e pinnetta.

Lu curuddhru ha forma conica, la base del quale è sormontata da un cerchietto rotondo, la chìrica, il vertice termina con una punta d’acciaio.

Per far fitare (da φοιτάω: vado qua e là, su e giù, avanti e indietro, corro, giro, ecc.) lu curuddhru è necessario avvolgere, a partire dal vertice, intorno alla sua superficie, una cordicella; l’abilità del giocatore consiste, appunto, nel far aderire perfettamente questa corda in modo che, lanciandolo, e facendo presa sull’estremità della corda che si tiene in mano, si possa imprimere una forza tale da fargli acquistare un’accelerazione che duri un certo periodo di tempo.

La mathrecòcula è ‘nu curuddhru schiricatu, un po’ più panciuto, mentre la pinnetta, dalla forma più snella e slanciata, ha al vertice una punta d’acciaio ben più spessa.

Due sono i tipi di gioco cu llu curuddhru: sotta manu e a morte e si devono svolgere su terra battuta. Sia nell’uno che nell’altro gioco il numero dei partecipanti è illimitato; la differenza consiste nel modo di far fitare lu curuddhru.

Sotta manu: dopo aver avvolto intorno a llu curuddhru la corda, tenendo fra le dita il capo dell’altra estremità della corda e facendo attenzione che lu curuddhru che si ha in mano abbia il vertice rivolto verso l’alto, lo si lancia in senso orizzontale sulla superficie da gioco. Vince il giocatore che fa fitare lu curuddhru in un tempo maggiore rispetto agli altri.

A morte: sempre la solita operazione. Però in questo caso lu curuddhru viene lanciato a picco, in senso verticale, sul terreno da gioco.

La cosa si complica se subentra la mathrecòcula; e qui è messa a dura prova l’intelligenza del ragazzo, perché, in breve tempo, deve calcolare traiettoria, distanza, tempo e raggio d’azione per poter colpire il bersaglio.

Si traccia allora per terra un cerchio, ed il gioco diventa più difficile se il cerchio è più piccolo di diametro. Dapprima si fa fitare nel cerchio la mathrecòcula, poi ogni giocatore deve colpirla tirando a morte la pinnetta o lu curuddhru. Se l’una o l’altro riesce a colpire in pieno la mathrecòcula accade spesso che quest’ultima si spacchi in due.

Ed il momento più opportuno per cercare di centrare la mathrecòcula è quando questa rotea su se stessa con una velocità tale da sembrare che stia ferma. Naturalmente risulta vincitore chi colpisce la mathrecòcula.

(in “Il filo di Aracne”, n°1 – 2006)

(Lu curuddhru = la trottola)

Proverbi agricoli salentini tra gennaio e aprile

Saggezza contadina

LU DITTERIU

Il tempo, i mesi e le stagioni

di Piero Vinsper

L’agricoltura è stata sempre la forza trainante del nostro Salento. Si coltivavano l’ulivo, la vite, gli agrumi, gli ortaggi, il cotone, il tabacco, i cereali e via discorrendo. Qualsiasi tipo di coltura si adattava bene a questa terra, dotata di un clima abbastanza mite. Si esportava l’olio, il vino, la patata galatina, la cicoria galatina, il pomodoro galatina. Ogni pezzetto di terreno era coltivato e sfruttato dai nostri contadini; non vedevi, come puoi vedere tutt’oggi, vaste aree incolte e masserie dirute. Ogni zolla era dissodata anche tra i sassi, con il sudore dei contadini che scorreva lento lento tra le infinite rughe dei loro volti bruciati dal sole.

Erano i nostri contadini che dettavano i tempi della coltivazione, della preparazione dei semenzai, della semina e dei raccolti. Erano loro che, forti della loro esperienza, stabilivano se un terreno fosse idoneo a questa o a quell’altra coltura. Erano dei veri e propri “dottori in agraria” o, come li definisco io, i “filosofi della terra”.

Certo, non ci hanno lasciato scritto alcun trattato, ma ci hanno trasmesso, in eredità, la loro esperienza e ci hanno tramandato, di generazione in generazione, una miriade di dittèri, di proverbi, che manifestano la loro grandissima competenza in materia.

Scennaru siccu massaru riccu (Gennaio secco massaro ricco)

Se il mese di gennaio è secco e asciutto, cioè privo di piogge, il proprietario del terreno è quasi sicuro di un abbondante raccolto. Infatti, se il terreno è secco e asciutto, le piante non vegetano e non crescono in altezza, ma affondano le loro radici nella terra succhiando tutti gli umori e immagazzinandoli per il loro sviluppo durante i mesi successivi. D’altra parte si sa che la pioggia e l’umidità producono insetti e parassiti che danneggiano le piante. Se questi parassiti non si sviluppano nel mese di gennaio per lo spirare

Ninna Nanna delle mamme salentine…

Cottagers at Scheveningen, di Albert Neuhuys (1844-1914)

Un canto antico

LA NINNA NANNA

Una melodia “povera” per cullare e far dormire i piccoli

di Piero Vinsper

Con il termine di ninna nanna si indica quel genere di poesiole o di cantilene, che servono a far addormentare i bambini. Di queste si hanno esempi presso tutti i popoli della terra; si tratta per lo più di un componimento breve, concettualmente assai povero e privo di nessi logici. Il ritmo è monotono e cadenzato, quasi ad accompagnare il moto della culla.

In età molto remota la ninna nanna era una preghiera rivolta ad antichi dèi babilonesi e sumeri. Era una tradizione orale che si trasmetteva di generazione in generazione, nel cuore della famiglia, dai genitori ai bambini, dalla mamma ai suoi figli.

Bisogna aspettare il terzo secolo a. Ch. perché si abbia la prima ninna nanna scritta, per opera del poeta Teocrito di Siracusa in un dei suoi idilli.

Ebbene, essendo la ninna nanna di origine popolare, troveremo spesso concetti legati alla civiltà contadina e ci imbatteremo in termini dialettali non più d’uso comune. Però l’elemento che balza vivo in ogni ninna nanna è lo sviscerato amore materno: amore materno che si manifesta nella esaltazione della bellezza del proprio piccolo, nell’augurargli ogni sorta di felicità, di prosperità e, di conseguenza, un avvenire radioso.

Nanu nanu nanu

cce ccappau lu sacristanu:

sciu cu ssona le campane

e rrumase cu llu nsartu mmanu.

Lu nsartu (gr. ἐξάρτιον, grossa fune; lt. insertum (?), cosa intrecciata) è una grossa fune alla quale erano legate le campane. Caso volle che, quando il sagrestano andò a suonarle, la fune si spezzò e rimase con la corda in mano, cioè restò di stucco.

Nini nini nini

quant’è bbeddhru cu crisci fili

Se vai alla cista mòzzachi

se vai alla votte vivi

Crescere ed allevare figli è la cosa più bella di questo mondo. Però, per tirare a campare, è meglio che si stia vicino ad una cista (gr. κίστη, lt. cista, cesta) colma di pani o ad una botte piena di vino. Nel primo caso si ha la possibilità di mozzacare, cioè di mordere e di mettere qualcosa sotto i denti, nel secondo di bere un buon bicchiere di vino.

Ninu ninu ninu

menta, sànzicu e pethrusinu

La mamma sente la ndore

de luntanu e de vicinu

Sànzicu (gr. σάμψουκον, σάμψικον) è la maggiorana; pethrusinu (πετροσέλινον, πετροσέλινο; lt. petroselinum) è il prezzemolo. Come la madre riesce a distinguere il profumo di queste erbe aromatiche stando vicino o lontano, nella stessa maniera riesce a riconoscere il proprio figlio.

Ninìa ninìa ninìa

quant’è bbeddhra la fija mia

la dau a nnu signuru

cu ppalazzu e mmassaria

Mia figlia è molto bella, dice la mamma; perciò, quando sarà grande, la darò in sposa ad un ricco signore, che possiede palazzi e masserie.

Nanu nanu nanu

ci lu sèmana lu cranu?

Lu sèmana lu miu bbeddhru

cu lla chianta de la manu

Qui si augura al bambino che diventi un ottimo contadino, abile nel seminare il grano cu lla chianta (lt. planta), cioè con la pianta, della mano.

Ninu ninu ninu

ncannulamu e poi tessimu

Facimu nu toccu longu

sciamu a Napuli e llu vindimu

Mentre il figlio dorme al canto della ninna nanna, la madre si prodiga a ncannulare (riempire di cotone i cannelli per il telaio) il cotone e a tessere. Farà nu toccu (rotolo di tela tessuta, in casa, al telaio, della lunghezza che oscilla dai venti-trenta metri sino a sessanta circa) lungo e andrà a venderlo a Napoli. Con il ricavato, poi, potrà comprargli chissà quante cose.

Ninizzi ninizzi ninizzi

centu tùmani de bbeddhrizzi

La mamma l’have mmesurati

cento e ddoi have thruvati

Lu tùmanu, il tomolo, è una misura di superficie di ottantatre are circa. Se una madre calcola cento tomoli di bellezza, per suo figlio ne troverà centodue in virtù del suo grandissimo amore.

Ninìa ninìa ninìa

la mamma fèmmana vulìa

lu tata masculieddhru

cu llu juta a lla fatìa

Anticamente non esisteva l’ecografia per conoscere anticipatamente il sesso del nascituro: si andava a schiòvere, cioè ci si affidava al caso, alla sorte. Ecco perché la mamma desiderava una femmina, il padre un maschietto, affinché lo aiutasse nel suo lavoro.

Ninana ninana ninana

ci la tèmpara e ci la schiana

ci face mmaccarruni

ci ppende la caddara

E’ un richiamo alla vita quotidiana: c’è chi tempera la farina intridendola con acqua e sale, chi la scannella, chi fa i maccheroni e chi mette sul fuoco la caldaia.

Nia nia nia

quant’è bbeddhra la fija mia

a cci bbeddhra nu lli pare

santa Lucia llu pozza cecare

Lo sviscerato amore materno, a volte, fa perdere il ben dell’intelletto. Ed ecco che una madre prega santa Lucia che faccia perdere la vista a quella persona alla quale non sembra bella sua figlia.

Nanna nanna nanna

s’have persu la menzacanna

oramai nu sse mmesura

la villana cu lla signura

E’ un anelito all’uguaglianza delle persone, al livellamento delle classi sociali. La canna è un’antica misura lineare di tre metri; la menzacanna equivale ad un metro e mezzo. Si è persa l’unità di misura, si dice; perciò non si possono mettere a confronto una figlia di contadini ed una figlia di signori: son tutte e due uguali e non vale la pena misurarle.

Ninni ninni ninni

quantu s’àmanu li piccinni!

E percè s’àmanu tantu?

Ca ti cùstanu fatica e chiantu

Quanto bene si vuole ai neonati! Perché si amano tanto? Perché costano fatica e pianto.

Leopardi diceva: è  rischio di morte il nascimento; infatti durante il parto la madre rischia la vita, sopporta dolore, fatica e pianto; fatica e pianto sopporterà nell’allevarlo; fatica e pianto avrà come bagaglio durante la sua adolescenza, durante la sua età adulta, perché è radicato in lei, come nel padre, quel senso innato dell’amore, retaggio dell’antica civiltà greco-latina.

(in “Il filo di Aracne”, n° 5 – 2007)

 

 

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