Tutta la nostra fragile umanità in una foto, fresca fresca, di un mio ex allievo

di Armando Polito

Non sono un grande frequentatore di facebook e di solito neppure apro le sue notifiche pervenutemi nella mia posta elettronica. Da qualche tempo a questa parte, però, l’eccezione è d’obbligo, quando è coinvolto come protagonista Piero Barrecchia, un mio ex allievo con l’hobby della fotografia e con l’occhio del grande fotografo, quello che riesce a cogliere sempre il dettaglio più eloquente, destinato a trasmettere a chi guarda la foto l’esigenza di non limitarsi ad uno sguardo fugace ma, addirittura, di partecipare agli altri le sue emozioni filtrate dalla riflessione (non guasta mai …). Così ho pensato bene di rubare da https://www.facebook.com/groups/fralescrasce/permalink/838450959511782/ l’immagine di testa e le altre e di commentarle con riferimento non casuale al clima natalizio attualmente turbato (solo chi ci governa sembra non accorgersene pensando, fra l’altro, ad un futuro … olimpico mentre il presente è disperato) da una crisi, economica e morale, senza pari tra quelle vissute dalla mia generazione.

Risalta immediatamente l’assoluta simmetria degli elementi che compongono il dettaglio e che ne costituiscono l’anima: il portale, ai lati le nicchie con le immagini di soggetto religioso (quasi un larario esterno),

lari 2

in alto (che scoperta!…) la caditoia.

Tre elementi che simboleggiano la casa (intesa come rifugio, famiglia, ma anche accoglienza), la fede e il diritto alla difesa della propria vita e dei propri beni (il che presuppone l’esistenza di una controparte ostile per avidità, spirito di conquista o, semplicemente, stato di necessità). Nuovi simboli sono subentrati a rappresentare questi valori di una società totalmente cambiata e le stesse azioni si sono ribaltate insieme con i valori: così (per limitarmi all’ultimo, altrimenti il post richiederebbe un post…eggio) per la difesa di sé e delle proprie cose, conquistate queste ultime per lo più onestamente, dai malintenzionati violenti prima c’erano l’olio bollente, i proiettili infiammati  o le pietre da lanciare dalla caditoia, oggi per la difesa personale ci sono i gorilla e, agli alti (?) livelli, le scorte, per quella dei propri fondi neri non più olio bollente o pietre ma basta farli atterrare in uno dei tanti paradisi fiscali dove la Finanza, anche per carenze legislative non certamente involontarie,  non potrà mai mettere piede e così nessuno tra i pochi poveri e onesti sopravvissuti potrà lanciare quel grido entusiasta che inevitabilmente fremeva nelle sale cinematografiche della mia giovinezza  all’arrivo degli eroici rinforzi che decimavano quei fottuti indiani. Solo che fottuti, col passare degli anni e con la conoscenza della storia, ha acquistato ai miei occhi un significato diametralmente opposto e che oggi mi spingerebbe a trasformare l’usuale arrivano i nostri! in arrivano gli infami e genocidi!. Il primo significato di fottuti, però, magra consolazione, rimane valido per gli evasori ma anche la magra consolazione va a farsi fottere quando pensiamo che, in ultima analisi, sono gli onesti a restare fottuti …

La foto mi ha evocato tutto questo; e pure lo stato di degrado (anche se non rilevabile dal dettaglio) e, credo, di abbandono dell’intera fabbrica rappresentano una metafora del nostro passaggio terreno, ma nello stesso tempo, attraverso i pensieri di comparazione attualizzante che il dettaglio ha suscitato in me, un monito a voler cambiare una rotta ormai millenaria che ci sta portando al naufragio non solo del corpo ma, cosa ancor più grave, di quell’animo (lascio perdere l’anima che è stata, chiedo scusa a chi ci crede, l’alibi per nefandezze di ogni tipo …) la cui esistenza, insieme con la ragione, presuntuosamente neghiamo negli altri animali che, però, non si comportano come noi …

 

Dall’Accademia degli Affumati di Bologna al Collegio Argento di Lecce. Bernardino Realino

chiave civica di Lecce 

di Piero Barrecchia

Lecce gentile, imponente, cinta dalle sue mura urbiche che si possono, ora, notare a scorci. Lecce, capitale di Terra d’Otranto, briosa, come il suo barocco. Lecce archeologica, restaurata, nobile e popolare, conservatrice. Lecce, antica, innovata e innovatrice. Lecce, Città aperta, invitante ed ospitale, che accoglie nel suo ventre gli innumerevoli visitatori dai suoi varchi più famosi: porta Rudiae, porta S.Biagio e porta S.Giusto (più nota, ora, come porta Napoli).

Da quest’ultima fece il suo ingresso un uomo, al volgere del 1500, la cui fama aveva preceduto la sua venuta ed al quale i leccesi sarebbero rimasti legati, consegnandogli la chiave di quegli accessi e dell’intera Città.

Giace, quella chiave in una tomba, ai piedi del patrono dimenticato.

No, non parlo del trio agostano: Oronzo, Giusto e Fortunato, né della precedente gestione, affidata ad Irene! Per tutti questi elencati vi è la consegna della Città a seguito di interventi attribuiti “post mortem”. Parlo della consegna delle sorti cittadine ad un uomo, in quel tempo vivente, capace di intendere e di volere, non ancora canonizzato. Insomma, una consegna a corpo presente! Parlo di un dialogo tra vivi, anche se uno lo sarà ancora per pochi giorni, al quale gli viene riconosciuto lo sconvolgimento positivo della Città, da quando è arrivato in zona, da quando ha abbattuto ogni tipo di barriera, da quando è presente tra quella gente. A lui, per la Città, il signor sindaco chiede la tutela, gratuita da vivo e promessa da morto!

Un patrono, ora, dimenticato, che, però, è l’unico a detenere la chiave lupiense.

Si chiama Bernardino Realino, padre gesuita. Lui, non ha i natali in queste contrade, viene dal territorio modenese, da Carpi, ma, è  a Lecce che il suo sapiente spirito crea. La sua formazione culturale ed umana lo vide, prima, membro dell’Accademia degli Affumati in Bologna e successivamente, socio della Compagnia di Gesù, che lo destinò al nostro territorio, dove non conobbe limiti nel dialogare, comprendere, studiare e costruire.

lapide commemorativa

Un gran personaggio che andrebbe riscoperto nella fede e soprattutto, nella cultura, che da sempre connota il suo ordine e per quella missionarietà,  peculiare dei gesuiti, che conquistano terre con il sapere (non sempre, ma questo è il caso!), compreso questo lembo salentino.

A Lecce, Bernardino, sovrintende alla costruzione della magnifica Chiesa del Gesù (e del Buon Consiglio) e dell’attiguo istituto, a tutti, successivamente, noto come collegio “Argento”. Non mi dilungherò narrando di biografia ed agiografia, né mi soffermerò sulla fenomenologia del soprannaturale che accompagnarono le vicende del Nostro. Basti pensare al sol fatto che Bernardino operò una scelta fondamentale per la sua vita. Tra i fasti della sua brillante carriera amministrativo-giudiziaria, predilesse la strada che lo condusse alla sequela di Ignazio di Loyola, nella Compagnia di Gesù, che non contemplava, nello statuto, la ricerca di alcuna autorità. Venne, dunque,  a Lecce, che mai più lascerà fino alla morte. Anche se più volte, gli alti vertici stabilirono il suo trasferimento, per la sua chiara fama, un Vertice, ancor più alto, impedì ogni suo spostamento dall’ospitale Città, lacerandolo con febbri improvvise, misteriosamente annullate con la revoca dei provvedimenti.

Tuttavia, consiglio  una sbirciata ad una delle sue tante biografie che non lascerà indifferente il lettore, donandogli, oltre alla narrazione della vita del Nostro, uno spaccato storico di Lecce agli albori del barocco, alla sua conformazione geografica e politica. Ed in quel contesto, la figura carismatica del nostro Bernardino, di levatura spirituale e culturale fuori dal comune. Passa il tempo e gli stili.

operaio è fuori dalle mura di città, intento a terminare il suo operato quotidiano, magari, chinato sulla rubra terra che dissoda, in quel meriggio afoso. unica sua compagnia. Nelle urbiche mura, in uno stabile alle spalle del Gesù, in una galatea stanza, un crocefisso, in cartapesta, riceve gli ultimi sguardi di un moribondo che gli fa da ombra distesa, sul penultimo giaciglio, come fuori fa il sole, calante sulle spighe.

Bernardino riceve le ultime, illustri visite. Sigismondo Rapana, sindaco della Città, accompagnato da alcuni notabili, si reca presso quel corpo, non ancora esanime, per aver il tempo di porgere l’ultimo saluto ad un uomo che tanto ha fatto per Lecce, per tutta quella popolazione. E’ un uomo fortunato, Bernardino! Oltre alle quotidiane e comuni fatiche e dolori, in fondo, a lui non è andata poi così male. Anzi, la sua posizione di riconosciuta integrità, non ha dovuto combattere tanto, contro i poveri diavoli locali e sorprendentemente, mentre altrove si bruciano libri e si stagliano duelli, Bernardino, nella sua umiltà, ha trasformato gli animi. Tutti gli vogliono bene. Può andar via soddisfatto!

cappella con la richiesta del patronato

Si allungano le ombre delle dimore ed un mascherone barocco, apotropaico, cangia il suo aspetto, mentre la luce sfiora il suo profilo e proietta la sua grigia ombra sul pavimento della stanza, preludio alla notte. Ma ancora, in questo tenue bagliore, si intrattengono gli ospiti di Bernardino, forse silenziosi. Mentre il signor Sindaco, implora dal morente la futura protezione sulla Città, così come ha dimostrato da vivo. Un rantolo, un conato assale Bernardino, che, vorrebbe dar risposta certa ma, stenta a parlare quel predicatore di una vita! Allora, con tutta la forza che un agonizzante può avere e con un luccichio negli occhi anziani, che hanno visto anche questa, Bernardino dà la sua rassicurazione! La mano, tremula sul petto, appena sollevata, batte più volte sul cuore! Un sorriso accennato ed appagante; poi, un breve cenno del capo, che a fatica si discosta da quel cuscino ed a stento, si percepiscono alcune parole : “…Signori, ….sì!”.

In quel modo, Bernardino diviene, ufficialmente, figlio onorario e padre dell’amata città di Lecce. Vibra, l’ultimo dardo, il disco infuocato e cala la sera. Torna a casa il forese ed anche il sindaco ed i notabili. Tutti un po’ più soli, attendendo l’estremo e sicuro verdetto, contando le ore che li separano da quella promessa strappata in tempo. Tutti un po’ più soli, tranne Bernardino che, solo in quella stanza, nell’estrema ora, ha tutti i leccesi al suo fianco. Lecce, 1616, vespro del due luglio. Un altro sole tramonta su Lecce. Ormai giace, quel corpo esanime nella sua chiesa del Gesù, tra la sua gente, nel giorno della Visitazione e dell’annuale ricorrenza della traslazione delle reliquie di Irene, patrona, alla quale Bernardino, da non ancora santo, farà compagnia, fino al rinnovato culto oronziano.

Il 22 giugno del 1947, in occasione della canonizzazione, così Pio XII, ufficializzò il forte legame che unì Bernardino Realino e Lecce : “Onore e incoraggiamento si spande anche sopra di voi, cari pellegrini di Carpi, di Modena, di Napoli, e soprattutto figli di quella « nobilissima, devotissima e cortesissima città di Lecce », come il Realino si compiacque di chiamarla. (…) siate ben sicuri che, se egli accolse da vivo la domanda di essere vostro patrono, nella gloria celeste non mancherà di dimostrarsi quello che promise e volle essere, grande intercessore” (ACTA PII PR XII IN SOLLEMNI CANONIZATIONE BEATORUM  IOANNIS DE BRITTO MARTYRIS, BERNARDINI REALINO ET  IOSEPHI CAFASSO  CONFESSORUM  DIE XXII MENSIS IUNII A. MDCCCCXXXXVII IN VATICANA BASILICA PERACTA).

Non si poteva scegliere di meglio. Bernardino Realino, tra un patrono e l’altro, lui sta nel mezzo ed è l’unico a detenere la civica chiave, che, come è sicuro il ritorno dell’alba, ancora è lì, in un’urna, ai piedi di una cornice barocca, immortalante la scena familiare della consegna di Lecce al suo patrocinio, nella sua Chiesa del Gesù, dove i leccesi farebbero bene a tornare, anche per rispolverare un po’ della loro storia, a conoscere quell’instancabile benefattore di Lecce ed a vedere che fine abbia fatto la chiave della loro Città!

Preciso, che, per concordanza delle fonti, non vi è dubbio che la richiesta del patronato sia coeva ai fatti narrati. Non la stessa sicurezza, si può ostentare per quel che concerne la vicenda della chiave. Infatti, i testi consultati, così doviziosi di particolari nelle scene e nella descrizione delle suppellettili, ci privano della visione della chiave.

L’unica testimonianza che ci riporta alla consegna dell’urbica chiave è una memoria marmorea che risale, al 1937.

Peraltro le fonti parlano di un monumento funebre a Bernardino, ma non accennano alla visibilità dei suoi resti mortali, come si possono scorgere adesso. Non si fa menzione inoltre, del simulacro ligneo, ai cui piedi è adagiata, su un cuscino recante lo stemma civico lupiense, la chiave urbica. Tale urna, contenente il simulacro, è anteprima a quella retrostante, contenente i sacri resti, così ricomposti nell’ultima ricognizione del 22.10.1894. In ogni caso, nessun torto a nessuno, se la Città gode di più protettori ed il suo stemma civico è assegnato a tutti!

E mentre Oronzo scruta dall’alto la Lupa ed il Leccio, Irene, a breve distanza , li reca scolpiti sul frontespizio teatino e a chiare lettere ne reclama il patronato, Bernardino, privilegiato nell’essere stato eletto patrono da vivo,  custodisce il civico simbolo forgiato sulla chiave urbica. In questa celeste competizione, appaiono considerazioni molto più umane. Infatti, si può, senza dubbio, affermare che Lecce sia la città sperimentale della “par condicio”, che i leccesi, sapientemente, colgono tutte le occasioni possibili, strappando anche i patronati, che io non abbia mai visto, in qualsiasi parco nazionale, tante lupe e lecci più di quanti ve ne siano in Città e che, infine, Lecce sia un regno dei cieli visto dalla terra!

 

Per ulteriori approfondimenti, segnalo, tra gli altri, i seguenti siti:

https://archive.org/details/storiadellavita00ventgoog

http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-bernardino-realino_(Dizionario-Biografico)/.

http://books.google.it/books?id=k65cAAAAcAAJ&pg=PA3&lpg=PA3&dq=sacra+congregatio+rituum+bernardino+realino

http://www.forgottenbooks.org/readbook_text/Storia_Della_Vita_del_Beato_Bernardino_Realino_1300023583/413

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie

Gallipoli, 18 aprile 1948: una scrutatrice d’eccezione!

manifesto di propaganda elettorale tratto dal sito www.cronologia.leonardo.it

di Piero Barrecchia

1948– Da circa cento anni, un simulacro aveva preso possesso della devozione dei gallipolini. Da circa cento anni, confidenzialmente, quel popolo invocava, nel mese di maggio, “l’augustissima Regina dè Fiori” e si deliziava nell’elencare le più disparate specie florensi, in una nenia incessante, cingendo idealmente il capo, il seno, la chioma, le mani, i piedi e le vesti, della “bella Figlia di Gioacchino” e puntualmente, dopo aver posato quel fiore, sul posto recitato, non contento, quello stesso popolo diceva :“…ma il fiore a Te più grato è l’Ave Maria!”.

Così, all’infinito, dall’inizio!

Da quando il presule dell’epoca, Mons. La Scala, volle quel simulacro, di fattura romana, ispirato alla Madonna di Francia. Ma, se già i danteschi versi : “… qual vuol grazia ed a Te non ricorre sua disianza vuol volar senz’ali” anticiparono la potenza di Maria, non si conosceva, fino al 1948 la sua influenza politica. Quella statua, tra le navate della Cattedrale gallipolina, assisteva ogni giorno al via vai dei fedeli ed ascoltava dal popolo, oltre alle preghiere rivoltele, le considerazioni sulle imminenti elezioni, tra un’Ave Maria ed un’altra!

Quella statua fu anche testimone della preoccupazione di un Pastore, che non riusciva proprio a concepire la sostituzione del simbolo sturziano, con una falce ed un martello. Ci sarebbe stato questo rischio, da scongiurare a botta di preci, intronizzando anticipatamente quel magnifico simulacro, al quale il popolo si rivolgeva, concludendo le sue preghiere con la provvidenziale frase “… i fiori della campagna Ti salutano…”.

Ed a chi ci si poteva rivolgere, allora, se non a chi di campagna si intendeva? Certamente, la prece non precisava di qual tipo di campagna si trattasse e proprio l’imprecisione delle iniziali ispirazioni, non poteva escludere la Campagna elettorale!

il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli
il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli

Fu allora che la Regina della campagna (elettorale) non disdegnò di farsi presente, di confortare il preoccupato presule (all’epoca del fatto Mons. Nicola Margiotta) e di guardare, con pietà, quei poveri figli, combattuti tra il simbolo dello spirito e quello riportante arnesi di lavoro, contrastati sul come portare a casa quel necessario pane quotidiano.  E miracolo fu!

Gli occhi del simulacro si mossero, più volte, alla vigilia del 18 aprile 1948 e ne fu testimone tanta gente, mentre Togliatti, da Milano, si scagliava contro il vescovo di Gallipoli, che a suo dire, tra le litanie, inseriva gli elogi sull’onorevole Codacci-Pisanelli. Inutile soffermarmi sull’esito (scontato) tra divino ed umano.

Né entrerò nel merito del soprannaturale. Anzi, 66 anni dopo il primo sacro intervento, alla vigilia di nuove elezioni, in presenza di tanti fiori di Campo, apparendo la scelta più difficoltosa, sarebbe auspicabile un vero miracolo!!!

Il degrado consuma il portale su via Antonio Galateo a Lecce

testi e foto di Giovanna Falco

portale via Galateo fotografato nel 2010

Nei giorni passati Piero Barrecchia ha apportato un interessante contributo all’articolo pubblicato da Spigolature Salentine il 17 dicembre 2010 Lecce – S.O.S. per un portale a firma di Giovanna Falco: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/17/lecce-s-o-s-per-un-portale/.

Piero ha proposto una serie di interessanti considerazioni atte a decifrarne l’iconografia.

Nell’articolo del 2010, oltre a segnalare la situazione di questo delizioso gruppo scultoreo, abbandonato al degrado in via Antonio Galateo a Lecce, si è cercato di abbozzarne la ricostruzione storica e svelarne la valenza simbolica, nella speranza che qualche giovane ricercatore lo studiasse approfonditamente, per poterlo riqualificare, perlomeno, dal punto di vista

Il luogo e la leggenda… Papa Cajazzu e lu Crucifissu te lu Feu

Gallipoli – Crucifissu te lu Feu – prospetto principale ed Osanna


testo e foto di Piero Barrecchia

 

E’ facile ritrovarsi tra le rughe di un ritratto in bianco e nero, appeso tra le polveri del tempo, in quel di Lucugnano. Non c’è salentino che, incrociando le sue gesta, non si ritrovi in qualche sua geniale “trovata”. C’è una lezione per tutti. E’ l’animo della gente semplice ed al contempo arguta. E’ un illuminista sacro, l’Esopo di questa terra, da cui trarre una morale tutta pratica. Sagace, irriverente a volte, falso ignorante, filosofo del pratico. Di chi sto parlando? Ma certo lo ricorderete. E’ lui, don Galeazzo, l’arciprete di Lucugnano, per tutti papa Cajazzu! Le sue gesta non sono fatte a caso; le sue storie sono racconti spensierati, coloriti dal sole del Sud, adombrati da un ulivo, da pareti mediterranee, da luoghi sacri. Cartoline d’epoca spedite a noi, moderni, che  spesso non sappiamo risolvere i problemi della vita quotidiana. Ma, si può far affidamento alla sua morale: soluzione pratica a tutto, con il sorriso sulle labbra. E non solo. Se si vuol seguire un corso di geografia, di toponomastica o di archeologia salentina, ecco venirci incontro la sua figura che, mentre è intenzionata a sferrare il colpo finale alla dotta ignoranza, rappresentata spesso da un suo superiore diretto, non disdegna di regalare, al lettore divertito, una fotografia del luogo ove avviene il “misfatto”.

Non si può certo ignorare che il prete bontempone è dovizioso nei riferimenti dei luoghi visitati, facendo trapelare la sua puntuale conoscenza della terra salentina, fino ai più intimi anfratti.

Tra gli altri, vi è il caso del “Crucifissu te lu Feu”, in agro di Gallipoli. Una chiesa nascosta tra macchia mediterranea ed ulivi secolari, della quale sono incerti i natali e le vicissitudini e che solo il buon narratore non ha abbandonato all’anonimato, facendone scena prima di una lezione del tutto singolare. Una questione di sopravvivenza, per sopravvivere in pace, senza imprevisti. Fate voi, ma a me diverte l’idea di notare, il nostrano prelato approfittare del nostro parlar comune e della spicciola arguzia, per dare lezioni di materie del trivio e del quadrivio!

Gallipoli- Crucifissu te lu Feu- altare nella chiesetta

Così, si narra che il vescovo di Gallipoli, non avendo la possibilità di far celebrare messa in giorno festivo nella piccola chiesa di campagna del “Crucifissu te lu Feu”, invocò soccorso al vescovo di Alessano. Poco ci volle per l’esimio prelato alessanese, pensare ad un suo dipendente, dal quale aveva ricevuto qualche lezione e che proprio mal sopportava, per la sua manifesta tracotanza, espressa nei suoi confronti. Più volte, infatti, era stato spogliato, metaforicamente, dalle vesti paonazze ed era stata messa a nudo la sua umanità che lo accomunava alle altre creature, non superiore, certo, per quel potere rivestito. Più volte, era stato messo in crisi dal quel tal prete, in pubblico e soprattutto in privato. Non ci furono esitazioni. Affidò l’incarico all’arciprete di Lucugnano, don Galeazzo!

Implicitamente il presule di Alessano, accordando un favore al suo collega di Gallipoli, avrà certamente pensato ad un suo tornaconto personale. Che sollievo togliersi dai piedi, almeno per un po’, la sua spina nel fianco! Il povero don Galeazzo, avrebbe dovuto sopportare, a malincuore e con fatica fisica, il peso dell’ordine superiore ed obbedì.

Arrivò in quella contrada, di domenica, lontano dalla sua Lucugnano, celebrò la messa ed impartì la benedizione ad un popolo che non era il suo e poi ripartì. Lungo il tragitto, polverosa la via,con l’unico compagno di viaggio il suo pensiero, la sua ossessione su come ben servire il suo vescovo, come evitare il suo scomodo ordine… senza subirne conseguenze! Poco tempo ci volle, alla sua mente già allenata, per partorire la soluzione. Semplice, efficace!

Decise perciò di non presentarsi più presso quella chiesa. Infausto fu il giorno in cui l’ira del vescovo di Alessano si manifestò all’arciprete. Le sue gote ben si abbinavano al colore del suo abito! Che brutta figura gli aveva procurato quel prete, osando disertare il suo ordine! Ma il nostro prete aveva già pensato alla soluzione! E certo, il suo superiore si sarebbe calmato, ascoltando nefandezze ben più gravi del suo atteggiamento. Il suo superiore e lui, seduto l’uno, in piedi l’altro, di fronte, quasi in un duello, in casa dello sfidato! Ma, il nostro don Galeazzo non si perse d’animo e dopo aver ascoltato l’attesa “predica” del suo superiore, si limitò a riferire che non avrebbe più messo piede in quel di Gallipoli, poichè i frequentatori della chiesa de “ lu Crucifissu te lu Feu”, erano, per natura, assuefatti bestemmiatori e non abbandonavano le loro bestemmie sulla soglia della chiesa, anzi usavano quelle come saluto, all’ingresso del luogo! Il superiore ritirò la sua ira ed avvisò il vescovo di Gallipoli e, per essere sicuri di quanto aveva raccontato l’arciprete, entrambe organizzarono un blitz dell’epoca! Escogitarono, quindi, di far ritornare papa Cajazzu in quel luogo, per fargli celebrare messa. Nel contempo i due presuli si sarebbero nascosti nei confessionali ed avrebbero accertato la veridicità di quanto riferito dall’arciprete. Fu così che i due vescovi, inorriditi, dietro le quinte, ascoltarono le innumerevoli bestemmie e le abbondanti imprecazioni che, a titolo gratuito, erano elargite al cielo, non appena quei volgari ed immorali intervenuti intingevano le loro dita nelle acquasantiere, varcando l’uscio del luogo sacro. Il provvedimento fu istantaneo! Le autorità ecclesiastiche si scatenarono contro quel luogo ed i suoi frequentatori. Lanciarono anatemi contro gli infedeli e sconsacrarono la chiesa del “Crucifissu te lu Feu”! Ed il buon papa Cajazzu, ritenuto il defensor ecclesiae, ritornò nella sua cara Lucugnano. Obiettivo raggiunto!

Gallipoli- Crucifissu te lu Feu- nicchia con statua in cartapesta del Risorto

Ma non tutto appare com’è… e neanche in questo caso! Se, infatti, i due alti prelati avessero indagato sulla causa di tanto sfacelo ed avessero intinto, anche loro, la mano nell’acquasantiera, avrebbero avvertito anch’essi il dolore fisico che provocava cotante imprecazioni e forse poco sarebbe mancato che anche loro…forse, no!… Ma questa è un’altra storia! Comunque sia, se avessero indagato, si sarebbero accorti che l’acqua lustrale era stata sostituita con olio bollente! Se avessero indagato, avrebbero forse attenuato la loro ira verso quella popolazione ed avrebbero compreso anche l’autore della provvidenziale sostituzione. Provvidenziale per papa Cajazzu, non certo per il luogo sconsacrato, che con un atto riparatore, ancora vive nella memoria collettiva grazie all’aneddoto raccontato. Perché il luogo non è leggendario, esiste veramente!  E’ lu Crucifissu te lu Feu, in agro di Gallipoli.

Gallipoli- Crucifissu te lu Feu- acquasantiera sulla parete destra della chiesetta

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