Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

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1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

Tra i pesci del Salento: la salpa (seconda parte)

La salpa (da www.cielomareterra.org)
La salpa (da www.cielomareterra.org)

 

Ricette con le salpe

Carpaccio di salpa

Una salpa di grosse dimensioni, 50 g di sale, 20 g di zucchero, un cucchiaino di pepe bianco macinato. Per la salsa: 3-4 filetti d’acciuga, un cucchiaio di capperi sott’aceto, un cucchiaio di prezzemolo tritato, uno spicchio d’aglio, il succo di un limone, olio di frantoio, sale e pepe nero macinato.

Eviscerate e sfilettate le salpe ricavate due baffe lasciando la pelle. Mescolate il sale con il pepe bianco e lo zucchero e cospargete le baffe sistemate in una terrina. Lasciate marinare in frigo e dopo 5-6 ore risciacquateli sotto acqua corrente, asciugateli e affettateli a fette sottilissime come si fa per il carpaccio. Adagiate le fettine in un vassoio e cospargeteli con la salsa ricava frullando insieme tutti gli ingredienti e serviteli come antipasto.

 

Salpa ai pomodorini  

Ingr. 2-3 salpe del peso complessivo di 1 Kg. e ½, 1 Kg. di pomodorini, 1 dl di olio extravergine d’oliva, prezzemolo, aglio, pepe nero, sale.

Squamate ed eviscerate le salpe che devono essere freschissime. Quindi ponete sul fuoco, un tegame con l’olio, due-tre spicchi d’aglio schiacciati, i pomodorini pugliesi (possibilmente tipo fiaschetto)tagliuzzati e una presina di pepe nero appena macinato. Fate cuocere il tutto per una decina di minuti, e quando saranno trascorsi aggiungete un paio di bicchieri di acqua; riportate a bollore, aggiustate di sale e aggiungete una generosa manciata di prezzemolo appena tritato e infine le salpe. Una ventina di minuti saranno sufficienti ad ottenere la loro perfetta cottura. Il sugo ottenuto si potrà utilizzare per condire dei tubettini cotti al dente che servirete spolverizzati a piacere con altro pepe nero e cosparsi di prezzemolo tritato fresco.

 

Salpe alla marinara

Farcite la salpa con aglio prezzemolo e fettina di limone, mettetela in un tegame largo, preferibilmente con olio e aglio e fatela colorire da ambo i lati, aggiungete un bicchiere metà vino metà aceto, entrambi bianchi. Salate e fate cuocere fino alla quasi completa riduzione dei liquidi, servitela irrorandola con il fondo di cottura residuo .

 

Salpa al limone

Ingr. : 2 salpe, 2 spicchi di aglio, 1 cucchiaino di pepe, sale grosso, un limone, olio di frantoio.

Eviscerate le salpe, lavatele ed asciugatele. Pulite l’aglio, mettetelo in un frullatore, assieme al pepe ed a un po’ di sale grosso. Frullate il tutto . Versate un filo d’olio in un tegame, mettete un po’ del frullato di spezie nel ventre delle salpe, e versate nel tegame il rimanente, aggiungete il succo di mezzo limone. Fate scaldare il tutto, mettete il pesce nel tegame, e fatelo cuocere 4-5 minuti per lato. Servite il pesce con il suo sugo stemperato con alcune gocce di limone.

 

Polpette di Salpa

  Sfilettate un chilo e mezzo di Salpe, di medie dimensioni (ne ricaverete circa 800 g di filetti), fateli rosolare in olio di frantoio aromatizzato con uno spicchio d’aglio sfumate con del vino bianco secco, unite   una presa di prezzemolo tritato, una di pepe nero e salate. Una volta che i filetti saranno cotti, passateli al frulllatore. Quindi, unite 100 grammi di pangrattato, 80 g di formaggio semipiccate grattugiato impastate il tutto unendo 2-3 uova. Formate quindi le polpette passatele nel pan grattato e friggetele. Servitele subito ancora ben calde oppure ripassatele in un sughetto di pomodori freschi.

 

Pizzarieddhri con salpa e pomodori

Ingr. : 250 g di pizzarieddhri integrali 400 g di filetti di salpa, 400 g di pomodori polposi, sodi e maturi, 1 dl di vino bianco, olio extravergine d’oliva, aglio, prezzemolo, origano, sale. Fate dorare leggermente uno spicchio di aglio in una padella con un filo d’olio di frantoio, rosolate i filetti ridotti a cubetti pesce a fuoco vivo per un paio di minuti e sfumate con mezzo bicchiere di vino bianco secco. Unite i pomodori tagliati a cubetti, il prezzemolo tritato, l’origano e salate. Cuocete la pasta, unirla al condimento e servite subito.

 

Salpe a “sarsa”

Sviscerate infarinate e friggete in un buon olio da frittura le salpe di piccola taglia, salatele e sistematele a strati in una terrina intervallando qualche rametto di menta e qualche spicchio d’aglio affettato. Coprite il tutto con ottimo aceto bianco di vino e lasciate riposare in ambiente fresco per una settimana prima di consumarle.

 

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri equante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Ricette salentine con i fagioli

fagioli

di Massimo Vaglio

 

Pasùli cu li spunzali

Ingr. : 400 g di fagioli, 700 g di cipollotti, olio di frantoio, 5-6 pomodori maturi, una costa di sedano, 2-3 foglie di alloro, sale.

Tenete i fagioli a bagno in acqua salata per almeno sette-otto ore, quindi lavateli e metteteli a cuocere in una pignatta di terra cotta con abbondante acqua. Quando l’acqua inizia a bollire si schiuma si elimina un po’ d’acqua e si aggiungono un cipollotto, la costa di sedano, i pomodori spellati e privati dei semi e le foglie di alloro, si aggiunge dell’altra acqua calda sino a superare di un paio di dita il livello dei fagioli e si pone a cuocere, preferibilmente alla fiamma del fuoco di legna, tenendo la pignatta ad una distanza tale che il liquidi sobbolliscano adagio senza disfarsi. Mentre i fagioli cuociono, pulite gli sponzali, tagliateli a pezzetti e soffriggeteli in ottimo olio di frantoio sino a caramellizzarli, ovvero sino a quando non avranno acquisito un’invitante colorazione dorata. Unite gli sponzali ai fagioli e servite.

 

Pasùli cu le rape

Cuocete i fagioli in pignatta, seguendo il procedimento riportato nella ricetta precedente, uniteli ad un quantitativo più o meno uguale di broccoli di rape stufati (vedi ricetta: rape ‘nfucate),  scaldate il tutto in una casseruola, unendo a piacere un po’ di peperoncino e servite.

fagioli mangia

Pasùli cu la ricotta schianta

Cuocete i fagioli in pignatta, con i classici odori e una volta scodellati conditeteli con della ricotta forte, stemperata con un po’ del liquido di cottura dei fagioli.

 

Pasùli cull’uecchiu cu la pasta ‘mbiscata

Ingr. : 300 g di fagioli con l’occhio, 400 g di pasta mista, 1 dl d’olio di frantoio 5-6 pomodori maturi, un cipollotto, una costa di sedano, 2-3 foglie di alloro, sale.

Lasciate i fagioli con l’occhio a mollo per una notte. Il giorno seguente metteteli a cuocere in una pignatta di terra cotta o in una pentola di adeguate dimensioni con sola acqua. Quando l’acqua inizia a bollire schiumate eliminate un po’ d’acqua e aggiungete un cipollotto, la costa di sedano, i pomodori spellati e privati dei semi e le foglie di alloro, aggiungete dell’altra acqua calda sino a superare di un paio di dita il livello dei fagioli e si ponete nuovamente a cuocere. Quando saranno cotti, lessate molto al dente la pasta mista, scolatela e unitela ai fagioli, insaporite il tutto con un soffritto realizzato facendo colorire 2-3 spicchi d’aglio in olio di frantoio, mescolate diligentemente, riportate di nuovo il tutto a calore onde amalgamare meglio il tutto e servite. Allo stesso modo potete preparare la pasta con le lenticchie o la pasta con la cicerchia.

fagioli fiore

Pizzarieddhri con i fagiolini dall’occhio

Questa ricetta ha origini molto datate, infatti, oltre a questa versione, chiaramente rimaneggiata in tempi più recenti, in alcuni paesi del Salento ricadenti nella provincia di Taranto resistono alcune versioni che potrebbero certamente risalire ad epoca “precolombiana”, in quanto non contemplano l’uso del pomodoro.

Per prepararla occorrono dei fagiolini teneri e freschi che dovete lavare e privare di ambedue le estremità, quindi lessarli in abbondante acqua salata; quando questi sono quasi cotti unitevi i pizzarieddhri, ovvero i tipici maccheroncini di farina di grano duro cavati, e quando anche questi saranno cotti, scolate il tutto, disponete nei singoli piatti e condite con sugo fresco di pomodorini locali a fiaschetto aromatizzato al basilico e abbondante cacioricotta del Salento appena grattugiato. Un piatto genuino nel quale risalta tutta la freschezza della cucina salentina.

 

Fagiolini dall’occhio con i pomodori

Ingr. : 700 g di fagiolini dall’occhio, 10-12 pomodori maturi, olio dei frantoi salentini, 2-3 spicchi d’aglio, basilico, sale.

Eliminate le estremità ai fagiolini e lessateli in acqua salata badando che rimangano ben sodi. Fate imbiondire in una casseruola gli spicchi d’aglio in un filo d’ottimo olio di frantoio, eliminateli e unite i pomodori, preferibilmente dei fiaschetti salentini,  tagliati in quattro parti, salateli e lasciateli cuocere a fuoco lento, appena si saranno disfatti, unite i fagiolini precedentemente lessati, rimestate e completate la cottura aggiungendo all’ultimo momento una manciatina di foglie di basilico fresco grossolanamente tagliuzzate.

 

Fagiolini dall’occhio al sugo

Ingr. : 7-800 g di fagiolini dall’occhio, 7 dl di passata di pomodori freschi,  cacio ricotta, basilico, sale

Nettate i fagiolini eliminando le estremità, lavateli e poneteli a lessare in acqua bollente salata. Scolateli bene al dente e sistemateli in un tegame di terra cotta, intervallandoli a strati con sugo di pomodoro fresco, foglie di basilico e abbondante cacioricotta. Coprite il tegame e completate la cottura a fuoco moderato.

 

Fagiolini dall’occhio con la frittata

Ingr. : 1 kg di fagiolini dall’occhio, 10-12 pomodori freschi, cacio ricotta, basilico, sale. Per la frittata: 6-7 uova, 200 g di formaggio pecorino dolce grattugiato, 150 g di fagiolini lessati.

Nettate i fagiolini eliminando le estremità, lavateli e poneteli a lessare in acqua bollente salata. Scolateli bene al dente e poneteli a completare la cottura in una casseruola con un filo d’olio sul fondo aromatizzato facendo imbiondire due spicchi d’aglio, insieme ai pomodori privati dei semi e tagliati a pezzetti. A parte, con le uova, il formaggio e i fagiolini lessati preparate una classica frittata, a cottura ponetela su di un foglio di carta assorbente a cedere l’unto in eccesso. Una volta fredda, tagliatela a quadratini e unitela ai fagiolini, aggiungete delle foglie di basilico fresco, mescolate il tutto, spolverizzate di formaggio e servite.

Tre ricette salentine con i ricci di mare

ph Angelo Arcobelli
ph Angelo Arcobelli

di Massimo Vaglio

 

Spaghetti ai ricci 1

Prima di approntare questo piatto, bisogna tenere presente che per condire ogni porzione saranno necessari circa dodici ricci di buone dimensioni e soprattutto, con le gonadi ben sviluppate. Quindi, per condire mezzo chilogrammo di spaghetti occorreranno le gonadi di almeno cinque sei dozzine di ricci. La preparazione è semplicissima: aprite i ricci e serbatene le gonadi in una scodellina. In una capace padella mettete un filo di ottimo olio extravergine d’ oliva e due spicchi d’aglio contusi, fateli scaldare a fiamma bassa in modo che abbiano il tempo di cedere il proprio umore aromatizzando l’ olio e appena saranno imbionditi eliminateli e unite gli spaghetti appena scolati cotti al dente. Mescolate bene, spegnete la fiamma, aggiungete le gonadi dei ricci e, dopo aver mescolato accuratamente, servite subito, aggiungendo una spolveratina di pepe nero macinato al momento e il fatidico prezzemolo tritato.

Spaghetti ai ricci 2

Ingr.: 5-6 dozzine di ricci, ½ kg.di spaghetti, 250 grammi di pomodori, olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, pepe nero.

Aprite i ricci, mondateli accuratamente e recuperate le gonadi. Fate riscaldare l’olio con lo spicchi d’aglio contuso e prima che questo imbiondisca unite i pomodori triturati finemente, fate cuocere questa salsetta per una decina di minuti ed aggiungete i ricci. Riportate a calore, regolate di sale, quindi unite un pizzico di pepe nero e una manciatina di prezzemolo tritato. Condite gli spaghetti scolati al dente e servite subito.

Omelette ai ricci

Aprite tre dozzine di ricci, mondateli accuratamente, recuperate le gonadi e qualche cucchiaio dell’acqua salata che troverete al loro interno. Incorporate il tutto a quattro-cinque uova, aromatizzate il composto con del pepe nero e a piacere conditelo con del formaggio grana grattugiato. Versate il composto, un mestolo alla volta, in una padella con olio caldo o burro e realizzate normalmente delle omelette che avranno come si può immaginare, o forse no, un gusto decisamente straordinario

Le zucchine e i loro fiori nella cucina salentina

di Massimo Vaglio

Una volta tanto la giustamente avversata globalizzazione ha provocato un effetto collaterale positivo. Infatti, grazie all’acquisizione da parte delle giovani generazioni dell’americanissima festa di Halloween, è tornata un po’ in auge la coltivazione delle zucche, e si rileva anche la riscoperta di tante ricette dimenticate ed un rinnovato  interesse per questi, come vedremo, utilissimi quanto bistrattati ortaggi.

Prima, però occorre fare un po’ di chiarezza nella non sempre semplicissima materia botanica. Facile infatti dire zucca, ma bisogna sapere che sotto questa banale denominazione ricadono ben novanta distinti generi e un numero di specie stimato intorno al migliaio. Negli orti italiani, si coltivano numerose varietà di zucche e zucchette, di cui si utilizzano come ortaggio i frutti quando sono completamente maturi, ossia le zucche; oppure, quando sono ancora teneri e non del tutto ingrossati, ovvero le zucchette meglio note come zucchine.

Si tratta di varietà orticole derivate da alcune specie appartenenti al genere Cucurbita e alla famiglia delle Cucurbitaceae. Le varietà di zucca universalmente più diffuse sono quelle derivate dalla Cucurbita maxima. Si riconoscono per il portamento delle piante che sono sarmentose o rampicanti con frutti generalmente molto grossi, globosi, schiacciati ai poli, lisci, costoluti o bitorzoluti.

Altre zucche molto interessanti e saporite sono quelle derivate dalla Cucurbita moschata, queste sono ugualmente sarmentose e danno luogo all’emissione di frutti molto grandi, cilindrici, diritti o leggermente ricurvi e maggiormente ingrossati all’apice ove sono contenuti i semi.

Le zucchette, sono invece il prodotto della Cucurbita pepo, che si distingue facilmente dalle altre specie per il portamento cespuglioso e i frutti cilindrici e dai piccioli tipicamente quadrangolari che si raccolgono rigorosamente quando sono immaturi, lunghi al massimo 20-25 cm e di 2-4 cm di diametro.

Oggi nel Salento,  un po’ come dovunque, impera la coltivazione delle zucchette, effettuata sopratutto in coltura protetta ossia sotto piccoli tunnel di polietilene o in serra, quindi disponibili ormai tutto l’anno. Ciò, ha portato gradatamente i consumatori ad orientarsi pressoché esclusivamente verso il consumo degli sciapiti frutti di quest’ultima specie di cui sono state selezionate numerose varietà orticole, tutte ugualmente sciapite, indistintamente appellate zucchine anche se  distinguibili fra loro per la colorazione esterna dei frutti che può variare dal verde al grigio nerastro al bianco giallognolo. Una vera rivoluzione nelle abitudini alimentari dei salentini, che sino a qualche decennio addietro non conoscevano affatto le zucchette, ma consumavano in luogo di queste esclusivamente i saporiti frutti teneri della cosiddetta cucuzza te jernu o ‘ngìnuese (genovese), prodotti da antichi ecotipi locali derivati dalla su citata Cucurbita moschata. Questi erano disponibili però solo in estate; in inverno, seguendo i tempi della natura, si consumavano le grandi zucche mature della medesima specie  orticola.

Gli enormi frutti della Cucurbita maxima, l’altra specie tradizionalmente coltivata, erano denominati cucuzze te uei (zucche da buoi) e serbate, come ricorda Vittorio Bodini, sui cornicioni delle bianche case e delle masserie salentine, erano destinate pressoché esclusivamente all’alimentazione del bestiame.

Ma torniamo alle nostre ‘ngìnuesi. Di queste, equivalenti vegetali del proverbiale maiale, non si buttava via nulla: i tralci e i germogli teneri venivano consumati stufati alla stregua delle cime di rapa; i fiori, tanto quelli femminili, quanto quelli maschili (fiuri camaci), anch’essi stufati, in frittata o fritti in pastella. Numerosissimi, gli usi della polpa, ammannita nei più svariati modi compresi dolci e canditi; i semi, salati e tostati, costituivano lu passatiempu, uno snack gradito da grandi e bambini e persino la coriacea scorza veniva utilizzata per  preparare una sorta d’appetitosa scapece autarchica.

Vista la moltitudine di ricette tradizionali che la vedono protagonista, l’apprezzamento dei salentini per la zucca, sembrerebbe un amore storico e incondizionato, se insieme alle ricette non ci fossero pervenuti una serie di folcloristici detti e adagi tutti univocamente poco lusinghiero nei confronti della stessa, tra questi:

–         Ccònzala comu oi, sempre cucuzza rimane.

–         Cucinala comu oi, sempre cucuzza ete.

–         La cucuzza nu ttira e no ttuzza, e se no lla sai ccunzare, no se pote mangiare; ma se la cconzi bona, tira, tuzza e sona, però ci vene unu cu tuzza, no dire ca sta mangi cucuzza.

–         Puru cucuzza, ma ccunzata bbona.

–         La fatia si chiama cucuzza, a tie te fete e a mie me puzza.

La motivazione di quest’insolito sprezzo nei confronti di un così munifico ortaggio, risorsa a dir poco strategica nei magri inverni di una volta, trova giustificazione nel fatto che quando di apriva una grossa zucca, onde evitare che andasse a male, questa ritornava per più giorni sullo stesso desco e il suo sapore dolciastro, certamente grato, ma alla lunga stucchevole, finiva per stancare. Indubbiamente, un peccato d’irriconoscenza nei confronti di questi ortaggi, che offrono eccezionali quantità di carotenoidi, carboidrati complessi, potassio e vitamine de gruppo B. Come altri ortaggi ricchi di carotenoidi le zucche hanno dimostrato un elevato effetto protettivo nei confronti di molti tumori e in particolare di quello ai polmoni. Ma le proprietà salutari non si fermano qui, i semi di zucca infatti sono ricchissimi di elementi nutritivi e sono un’ottima fonte di acidi grassi essenziali, proteine e minerali. Ormai da tempo vengono usati dai naturopati per curare i disturbi della prostata grazie al loro contenuto di acidi grassi e di zinco, mentre la medicina popolare, li ha sempre usati come potenti antielmintici, efficacissimi per espellere i parassiti intestinali, specialmente elminti o vermi. Inoltre, dai semi zucca, e in particolare da quelli prodotti dalla zucca stiriana (Cucurbita pepo L. convar, citrullina var. styriaca), che ha la particolarità di produrre semi senza buccia, si ricava un olio molto interessante, contenente ca. l’80% di grassi insaturi, di cui il 50-60% polinsaturi.

Coltivata in tutto il mondo la zucca trova spesso impiego anche come oggetto divenendo: fiasca, borraccia, salvagente, ciotola, soprammobile, strumento musicale e addirittura spugna (zucca luffa).

E’ l’Italia il paese che rende ad essa maggior onore con una serie infinita di piatti ormai celeberrimi, come i cappellacci ferraresi e i tortelli mantovani che partiti dalle nebbiose valli padane, insieme ai risotti dai cromatismi solari, hanno via via conquistato i palati di mezzo mondo, insieme altre buone quanto misconosciute specialità quali i canditi di zucca, ingredienti insostituibili, della celeberrima cassata siciliana.

Il Salento, che in quanto a fantasia gastronomica non è sicuramente secondo a nessuno, si difende bene con un bel carnet di originali specialità fra le quali la cucuzzata, un gustoso, originalissimo pane condito.

Cucuzzata

Ingr. : 1 kgdi farina di grano duro, 500 g di zucca genovese o di zucchine della stessa varietà, cipolle, olive nere in concia, pomodorini,1 dl d’olio dei frantoi salentini, 2 cubetti di lievito di birra, peperoncino, origano acqua sale.

E’ una specialità originaria di Santa Cesarea Terme e dei paesini del suo interland, soprattutto di Vitigliano, che ogni anno in Agosto gli dedica un’affollata sagra. Preparate un trito con la zucca, le cipolle e i pomodorini, unitelo alla farina e impastate unendo l’olio, tutti gli altri ingredienti  e l’acqua sino ad ottenere un impasto piuttosto omogeneo. Lasciatelo riposare in ambiente tiepido e senza correnti d’aria. Trascorsa qualche ora, rimpastatelo sino a renderlo perfettamente liscio, omogeneo ed elastico. A questo punto staccate dei pezzi di pasta di due- trecento grammi, formate dei panetti e poneteli in forno a legna ben caldo per una ventina di minuti.

Cucuzza a scapece

Ingr. : zucca genovese, pane grattugiato, olio dei frantoi salentini, aceto, aglio e menta.

Nettate la zucca dalla scorza, tagliatela a fette spesse un dito e larghe due e lessatele in abbondante acqua salata. Una volta cotte, ma ancora sode si sgocciolano e sistemano in una terrina, cospargendole a strati con mollica di pane raffermo grattugiata, aglio e foglioline di menta. Lasciate macerare per almeno un paio di giorni prima di servire. Una seconda versione, decisamente meno soft, prevede che la zucca venga fritta invece che lessata.

Cucuzza cu la ricotta schianta

Ingr. : 1 kg di zucca, una manciata di olive Celline di Nardò in concia tradizionale, un pugnetto di capperi sott’aceto, una grossa cipolla,1 dld’olio dei frantoi salentini, tre quattro acciughe, ricotta forte q.b. , peperoncino, sale.

In una casseruola, con un filo d’olio sul fondo, fate  imbiondire leggermente la cipolla, unite la zucca (preferibilmente zucca genovese) nettata e ridotta a dadini, quando questa sarà quasi cotta unite le olive, i capperi e il peperoncino facendo stufare a fiamma bassa, a cottura unite qualche cucchiaino di ricotta forte stemperata in acqua calda, aggiustate di sale se c’è ne fosse bisogno e servitela ben calda.

Fiori di zucca fritti 

Ispezionate e lavate delicatamente i fiori di zucca, lasciateli scolare riponendoli all’ingiù in un colapasta, eliminate il peduncolo e il pistillo e calateli in una pastella preparata con uova e farina o più semplicemente con farina, acqua e lievito. Friggeteli in olio di frantoio bollente e serviteli ben caldi.

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Fiori di zucca e cozze fritti

Se volete preparare una leccornia buona quanto semplice nettate i fiori di zucca eliminando il peduncolo e il pistillo, calateli nella pastella insieme a delle cozze liberate a crudo dalle valve e spolverizzate di pepe nero macinato al momento e mescolate bene. Versate il preparato a cucchiaiate in olio d’oliva ben caldo sino a quando le frittelle non avranno ottenuto un’invitante colorazione dorata. Ponete le frittelle ottenute su della carta assorbente a cedere l’unto in eccesso e servitele ben calde.

Fiori di zucca farciti 

Scegliete dei fiori di zucca freschissimi e sani, sciacquateli uno ad uno ispezionando l’interno;  farciteli ognuno con una listarella di mortadella o prosciutto cotto e una listarella di caciocavallo o scamorza e friggeteli. Oppure sempre con mozzarella o scamorza insieme ad un filetto di pomodoro pelato condito con olio, sale e origano e un paio di capperi sott’aceto. Quindi immergeteli delicatamente nella pastella e friggeteli in olio vergine di frantoio. Poneteli su della carta assorbente a cedere l’unto e serviteli ancora caldi.

Zucca candita

Ingr. :2 kgdi polpa di zucca,1 kgdi zucchero, 1 lt d’acqua, 15 gr di sale.

Affettate la polpa di zucca ricavandone una decina di pezzi, ponetela cuocere in abbondante acqua.

Intanto, preparate uno sciroppo, mescolando insieme lo zucchero, il sale e l’acqua. Fate bollire lo sciroppo per 5 minuti, appena la zucca sarà cotta al dente, cacciatela dall’acqua di cottura e immergetela nello sciroppo caldo e fate sobbollire il tutto, adagio, in modo che la zucca completi la cottura e allo stesso tempo assorba più zucchero possibile. La zucca sarà pronta quando apparirà quasi trasparente. A questo punto levatela dal fuoco e lasciatela intiepidire nel suo stesso sciroppo. Quando è quasi fredda, togliete i pezzi dallo sciroppo e ponete questo sul fuoco a bollire ancora per qualche minuto. Levatelo nuovamente dal fuoco, unite i pezzi di zucca e lasciateveli raffreddare. Quando saranno freddi, toglieteli dallo sciroppo e fateli asciugare in un luogo arieggiato, per una giornata. Infine tagliate i pezzi di zucca a dadini, a losanghe o in altre forme a piacere e inzuccherateli. Conservate i canditi così ottenuti in vasi di vetro a chiusura ermetica.

 

Cucina del Salento, ricette di Giorgio Cretì

cucinadelsalento

di Paolo Rausa

Nella ‘Cucina del Salento’ Giorgio Cretì passa in rassegna il repertorio delle ricette salentine, non prima di aver definito il Salento o Terra d’Otranto coincidente grossomodo con la parte della provincia di Lecce posta a sud del capoluogo, la terra dei ‘Pòppiti’, suddivise in cumpanaggi, gli antipasti, le minestre e i sughi, i secondi di terra e di mare, – non dimentichiamo che la penisola italica, come dice Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, ‘apre il suo grembo da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari!’ – gli ortaggi, i legumi e le verdure agresti, e infine le coseduci, i dolci.

Ma prima di addentrarsi nelle pietanze, negli ingredienti e nella grammature l’autore sottolinea il fatto che il recupero della cultura contadina, espressa nei muretti a secco, nelle pagghiare, nelle aie, nei manufatti, nelle ceramiche e nell’uso della pietra leccese, passa anche attraverso la tutela del patrimonio popolare rappresentato dalla tradizione culinaria, tipica di chi lavorava in campagna dal mattino al sorgere del sole e che non aveva tempo e sostanze per una cucina che non prevedesse l’utilizzo dei prodotti della terra coltivata.

Anche dopo il lavoro, nei rari momenti di socialità trascorsi alla puteca de mieru, le cose non cambiavano molto, anche se qui si potevano gustare i pezzetti di cavallo, la matriata, i turcinieddi annaffiati da ucale di vino, che andavano e uscivano dalla cucina. Ed è lì che ci riporta questo ricettario di Giorgio Cretì con i termini rigorosamente in dialetto salentino, il cui significato si perderebbe nella notte dei tempi se non fossero indicati meticolosamente i nomi e le quantità delle materie prime, che siano erbe e legumi (ciceri e la pignata, fae e fogghe, sanapi e alici, cecore e fae, rape nfucate, ecc), pasta fatta in casa (maccaruni de uergiu cu la recotta scante, recchie cu le rape, tianu de risu pidate e cozze, ecc), pesce e raramente carne (pezzetti e gnemmarieddi o purpu a la pignata) e dolci (mustazzoli, cupeta, carteddate, ecc.).

Una rassegna succulenta che si sofferma di tanto in tanto a spiegare dal punto di vista antropologico i prestiti e le origini di certe pietanze oppure le usanze ex voto delle tavole di San Giuseppe. Ora non resta che mettersi a prepararle, così da gustare i sapori di un tempo perduto e ritrovato. Giorgio Cretì, Cucina del Salento, Capone Editore, Lecce, 2011, € 7,00.

Il prezioso carciofo salentino, nel quale si avvantaggiano equamente gusto e salute

di Massimo Vaglio

Il carciofo (Cynara scolimus L), è una specie botanica appartenente alla famiglia delle composite. E’ pianta perenne e si coltiva per la produzione delle infiorescenze che, costituiscono la parte primaria, commestibile della pianta. In Puglia, vengono inoltre consumati anche i polloni che la pianta emette in esubero, detti carducci. Questi, opportunamente selezionati, vengono avviati al consumo in quanto tradizionalmente adoperati alla stregua di come altrove si fa con i cardi propriamente detti, Cynara cardunculus.

La coltivazione del carciofo, derivato dal carciofo selvatico con abili operazioni d’ innesto, nasce, pare, intorno al XIII secolo in Medio Oriente, ma diverse fonti attribuiscono già nel XV secolo grandi meriti all’abilità degli orticoltori italiani, che già avevano selezionato numerose varietà, così descritte nel 1557da Andrea Mattioli: “Veggonsi a tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperochè di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano”.

Terra, particolarmente vocata per questa coltivazione, grazie al clima mite e alla presenza di vaste e fertili pianure alluvionali, la Puglia conta circa 20 mila ettari di carciofeti che la pongono al primo posto in Europa. La varietà maggiormente coltivata  è il Locale di Mola discendente  dal carciofo Catanese.

Nel Leccese, seppur a livello familiare, si coltiva una pregevole, antica varietà tardiva localmente molto apprezzata, distinguibile per la colorazione viola scuro e le brattee, divaricate all’apice, questi carciofi, sono molto ricercati e apprezzati per la loro delicatezza che li rende particolarmente idonei ad essere gustati crudi.

Raro trovare un prodotto che, come il carciofo, coniughi  le a dir poco straordinarie qualità organolettiche con altrettanto straordinarie proprietà nutrizionali e salutari. Digeribilissimo, privo di controindicazioni rilevabili in molti altri pur nobili ortaggi e dal gusto estremamente grato, il carciofo meriterebbe un’utilizzazione molto più ampia. D’altronde basterebbe ricordare la raccomandazione di Esculapio: siano gli alimenti i vostri farmaci, e quale alimento può concorrere per salubrità con il carciofo? Vera e propria farmacia della natura, quella che i tedeschi chiamano Apotheke Gottes (farmacia di Dio).

I carciofi, hanno pochissime calorie perché la maggior parte dei carboidrati è presente sotto forma di inulina, un polisaccaride che l’organismo non utilizza come gli altri zuccheri per la produzione dell’energia. Ciò rende i carciofi estremamente utili ai sofferenti di diabete, poiché l’ inulina, migliora il controllo dello zucchero nel sangue. La cinarina, un altro principio attivo presente nei carciofi ha una lunga tradizione nella terapia di molti disturbi del fegato che proteggono e rigenerano.

Inoltre, hanno effetti coleretici, vale a dire che stimolano il flusso della bile, favoriscono la decongestione nel fegato sofferente e abbassano i livelli di colesterolo e di trigliceridi nel sangue.

Infine, è stato accertato che consumando regolarmente carciofi freschi si rilevano sensibili miglioramenti  nei casi di artrite reumatoide, di azotemia, di anemia e di stipsi ostinata. Un ortaggio prezioso quindi, di cui si avvantaggiano equamente gusto e salute.

 

 

Carciofi fritti

Nettate i carciofi che devono essere molto freschi e teneri e divideteli in senso longitudinale in quattro otto spicchi e poneteli in acqua acidulata con succo di limone. Con acqua e farina 00 e sale q.b. approntate una pastella liscia ed omogenea, immergetevi quindi gli spicchi di carciofo e friggeteli in olio di frantoio ben caldo. Potete prepararli anche fritti dorati, passandoli prima nella farina 00 e poi nell’uovo sbattuto e salato.

 

Minestra di carciofi e fave verdi

Estraete le fave verdi dai baccelli, nettate i carciofi e i cipollotti, quindi ponete sul fuoco una casseruola con due dita d’ acqua, olio e sale; unite le verdure e lasciate cuocere a fuoco lento con la sola aggiunta di qualche fogliolina di menta. In ultimo aggiustate di sale se necessario e  servite. Questa minestra tipicamente primaverile può essere gustata anche fredda.

Parmigiana di carciofi

Nettate i carciofi, divideteli longitudinalmente in spicchi, e friggeteli. Preparate un sugo di pomodoro dalla consistenza piuttosto blanda, versatene un mestolo in un tegame e acconciatevi sopra ben serrati gli spicchi di carciofi fritti, copriteli con mozzarella fior di latte tagliata a fette, cospargete a piacere con parmigiano o con pecorino grattugiato e  infine con altro sugo e avendone la possibilità con qualche fogliolina di basilico fresco. Ripetete l’operazione una o più volte e terminate con sugo e formaggio grattugiato. Ponetela in forno caldo per circa un quarto duro e comunque il tempo sufficiente a rendere filante la mozzarella. Volendo, si può arricchire la farcitura aggiungendo delle polpettine di manzo fatte secondo la ricetta classica e delle uova sode affettate che però acquisiranno un’insolita colorazione.

Tortino di Carciofi al forno

È un piatto d’antica tradizione preparato con piccole varianti  in tutta la Puglia.

Ingr.: 8 carciofi, 400 grammi di mozzarella, 4 fette di pane casereccio, 100 grammi di pecorino dolce grattugiato o parmigiano, quattro uova, latte, olio extravergine d’oliva, burro, pane grattugiato, prezzemolo, sale, pepe nero q.b.

Bagnate nel latte le fette di pane casereccio e adagiatele in una teglia imburrata e cosparsa uniformemente di pane grattugiato. Distribuite su di queste la mozzarella tagliata a dadini e sopra i carciofi nettati lessati al dente e ridotti in spicchi o affettati. Versate sul tutto, le uova diligentemente battute e il formaggio. Cospargete con un composto di pangrattato, pepe nero macinato al momento e prezzemolo fresco tritato. Spruzzate la superficie con acqua e olio extravergine d’oliva e fate gratinare in forno per circa un quarto d’ora e comunque sino a quando la superficie avrà acquisito una bella colorazione dorata.

Carciofi ripieni

Nettate i carciofi, rasate i gambi in modo che possano rimanere ritti, accorciate le brattee e allargatele in modo da poter accogliere il ripieno. Preparate quindi il ripieno, unendo a delle uova, pangrattato, pecorino grattugiato, capperi, aglio finemente tritato (facoltativo), prezzemolo e pepe nero macinato al momento. Amalgamate diligentemente il tutto, riempite i carciofi, sistemateli ben serrati in un tegane e irrorateli con un filo d’ottimo olio extravergine d’ oliva. Versate acqua fredda sino a raggiungere la metà dell’altezza dei carciofi, ponete sul fornello e fate cuocere a fiamma bassa, sino a quando l’acqua non sarà quasi completamente consumata. Passateli quindi in forno caldo, sino a quando la loro superficie avrà assunto un’invitante colorazione dorata.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale. Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Carciofini sott’olio

Costituiscono una delle conserve tradizionalmente più diffuse in Puglia sia a livello familiare che industriale, la produzione dei carciofi qui  si protrae dall’autunno sino alla primavera inoltrata, periodo in cui le piante danno luogo all’emissione di un grande numero di capolini di piccole dimensioni che non hanno quindi le caratteristiche merceologiche per essere avviati al consumo diretto. Vengono perciò impiegati nella produzione di conserve,  in particolare nella produzione dei  carciofini sott’olio, particolarmente apprezzati come antipasto.

Preparazione:

Nettate i carciofi, accorciando loro le brattee ed eliminate completamente quelle più esterne, e ponetgeli man mano, onde evitare che anneriscano, in un recipiente contenente acqua acidulata con aceto o limone. Quindi, a seconda delle dimensioni; lasciateli interi, oppure divideteli a metà o a quarti, e metteteli a bollire in acqua salata e acidificata con aceto di vino, metà acqua e metà aceto. Una volta cotti al dente, scolateli, disponeteli in vasi di vetro intervallandoli a piacere con foglioline di menta  o prezzemolo e con rotelline di aglio. Ricopriteli infine, d’olio extravergine d’oliva e serbate i vasi ben sigillati in ambiente fresco e possibilmente buio.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale.

Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri e quante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine. I siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum (poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia).

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

Gastronomia salentina nel giorno di S. Giuseppe

I LAMPASCIUNI DI S. GIUSEPPE

di Rocco Boccadamo

Da queste parti, in occasione della festa di S. Giuseppe, il 19 marzo, vige la tradizione di servire a tavola, fra le altre rituali pietanze, anche i “lampasciuni”, ossia i bulbi globulosi dell’omonima pianta erbacea della famiglia delle Liliacee. I prodotti della terra in discorso crescono a 10 – 15 centimetri circa nel sottosuolo, si presentano simili a piccole cipolle dal sapore amarognolo e sono ricchi di sali minerali.

Nell’approssimarsi della ricorrenza, alcuni sono soliti portarsi in giro per campi, campicelli, colline e collinette, aree non sempre di proprietà, e con l’ausilio di una minuscola zappa  scavano in corrispondenza dell’infiorescenza della pianta, per cercare i “lampasciuni” proprio all’origine, nella loro dimora naturale.

Il raccolto è poi ripulito e lavato, sottoposto a bollitura e conservato sott’aceto o sott’olio.

Qualcun altro, per così dire meno “Cincinnato”, al fine di levarsi lo sfizio della leccornia di S. Giuseppe, si limita a recarsi al supermercato dove trova i “lampasciuni” già cotti e in olio al modico prezzo di € 22 al chilogrammo.

Suvvia, cosa sarà mai, l’importante è rispettare la tradizione, o no?

Ma cos’è un cuturùsciu?

 

di Franco Corlianò
Al solo sentire la parola “Cuturùsciu”, mi basta socchiudere gli occhi per ritornare bambino, per rivedermi correre scalzo e felice e sentire nell’aria i profumi della mia infanzia …
… che gioia all’apparire dei primi temporali d’autunno ! L’aria profumava di erba secca bagnata e noi bambini già pregustavamo i giochi da fare nelle pozzanghere e nei rigagnoli d’acqua piovana, non appena avesse smesso di piovere. Con dei vecchi fogli di giornale costruivamo le nostre barchette di carta e, scalzi e felici, guazzavamo nelle pozzanghere sognando oceani lontani. Posavamo delicatamente le nostre barchette nei rigagnoli d’acqua e queste partivano veloci, spinte dalla corrente e cariche dei nostri sogni e delle nostre speranze .
E poi, all’improvviso, interrompevamo i nostri giochi per seguire la scia di un dolce profumo che, come una farfalla, aveva sorvolato le nostre narici: odore di fumo di fascine d’ulivo misto al profumo di pane caldo, di fichi secchi appena sfornati, di focacce, di “cuturùsci” (ciambelline di pane all’olio e pepe) … Annusando l’aria, seguivamo quel profumo come i re Magi seguirono la cometa, camminavamo guardinghi per le viuzze del paese e poi, all’improvviso, ecco il forno! Eravamo giunti alla nostra Betlemme. Ci affrettavamo a spezzare un fuscello dalle fascine e a porgerlo al fornaio con fiduciosa speranza:
“ Ah, ci v’ha ccriàti … rrivàstive? Siti comu li musci! Beh! … Pe’ sta fiàta venìti qquài … nah!” (Ah, benedetto chi vi ha creati … siete arrivati? Siete come i gatti! Beh! … Per questa volta venite qua … to’) E così, ci arruffava i capelli sorridendo, infilava sul nostro fuscello un “cuturùsciu” e ci metteva in tasca qualche fico secco ancora caldo…


Ma cos’è un “cuturùsciu”? E’ una specie di ciambellina, un tarallino morbido che le donne calimeresi realizzavano recuperando la pasta che restava attaccata alla madia quando facevano il pane. Non si buttava via niente!

Una volta recuperati i residui di pasta ormai indurita, questa veniva fatta rinvenire aggiungendoci un po’ d’acqua e qualche filo d’olio d’oliva e, dopo averla insaporita con del sale grosso ed una manciata di pepe, si realizzavano queste ciambelline già pronte per essere infornate.

Cavallo in cucina ovvero la preistoria a tavola

di Massimo Vaglio

G.D. Ferretti (1692-1766), Arlecchino cuoco, olio su tela, Sarasota (Florida), The John & Mable Ringling Museum

E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.

Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.

Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana,

I ricci di mare, gustosissima pietanza del Salento

 

ricci di mare

 

di Massimo Vaglio

Nel Salento, ma pure in molte altre zone d’Italia, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da retaggio popolare, i commestibili sarebbero, il più delle volte, i ricci maschi, Ma per questa volta non è, come vedremo, una questione di becero maschilismo.
I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina,
deducendo per logica, tale circostanza dal fatto che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, si tratta di due specie ben distinte, rispettivamente Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale, badate bene, la parte che consumiamo, sono le gonadi di entrambi i sessi.

Ma come fare a non giustificare questo abbaglio popolare? L’Arbacia lixula, con i suoi aculei lunghi, nerissimi ed elegantissimi, è molto femminile, quasi sensuale, con un po’ di fantasia i suoi aculei rimandano alle lunghe ciglia bistrate delle vestali di un tempio di Venere, niente a che vedere con le fattezze decisamente maschie e più tozze del sedicente compagno edibile, il quale, oltre che irretire i golosi, riesce al massimo, con i suoi colori, a colpire l’estro di qualche pittore.

I Salentini di entrambe le sponde ne sono golosi estimatori e la loro passione è supportata dalla cospicua diffusione di questi Echinodermi su tutti i bassi fondali rocciosi, habitat abbastanza rappresentativo in questa subregione. Inoltre, in diverse zone d’Italia, i ricci in alcuni periodi dell’anno acquisiscono un poco gradevole sapore amarognolo, dovuto probabilmente alla proliferazione stagionale di particolari alghe di cui si pascono. Questo fenomeno è invece sconosciuto nelle acque salentine, dove i ricci sono pescati e consumati tutto l’anno, anche se è in primavera che si presentano nella forma migliore, ossia con le gonadi mature, quindi particolarmente sviluppate e spesso di un’invitante colorazione rosso fuoco.

E’ proprio quest’ultimo il requisito più ricercato ed apprezzato dagli intenditori e ciò non solo per un fattore estetico, ma perché risultano effettivamente più dolci e con un più intenso ed attraente profumo di iodio. Dagli intenditori sono particolarmente ricercati i ricci nati e pasciuti sui bassi fondali rocciosi colonizzati dalla “capezza”, appellativo con il quale nel Salento si indica la Cystoseira, una profumata alga bruna appartenente alla Classe delle Feoficee.

Ovunque, sino a qualche decennio addietro, ma ancora oggi in diverse località, la pesca viene praticata dalla barca con lo specchio e con alcuni rudimentali, ma efficaci attrezzi quali: la  vracioddha e la ranca.

Il primo attrezzo può essere utilizzato solo per pescare su fondali profondi non più di tre metri; consiste in un anello di ferro munito di dente, applicato a 90° all’estremità di un’asta di pick pine. Con il dente, viene staccato il riccio dalla roccia che con un rapido movimento dell’asta viene alloggiato sull’anello e velocemente recuperato salpando la stessa. La cosiddetta ranca, invece, consiste in un ferro ricurvo ed in un batuffolo di brandelli di rete, fissati all’estremità di un’asta. Con
il ferro si staccano i ricci dalla roccia, si fanno impigliare parecchi
per volta nella rete e si recuperano salpando l’asta. Innestando più
aste una sopra l’altra con questo attrezzo si riescono a pescare ricci
sino alla profondità di 12-13 metri.

Oggi, nelle acque salentine, a causa della pesca indiscriminata praticata con gli autorespiratori, la popolazione di ricci si è sensibilmente ridotta, tanto che da qualche anno il loro prelievo viene interdetto, per un certo periodo di tempo, attivando il cosiddetto fermo biologico, nella stagione riproduttiva.

Una caratteristica della zona, inoltre è rappresentata dall’esistenza in varie località marinare di appositi banchetti marmorei ove vengono serviti ricci  espresso, ovvero aperti al momento e serviti con accompagnamento di ottimo e fragrante pane pugliese. Solo a titolo di curiosità ricordiamo che in alcune località marinare, oltre al riccio
comune (Paracentrotus lividus), un tempo era ricercato anche il molto meno comune riccio di prateria (Sphaerechinus granularis), il quale pur avendo gonadi commestibili, anche se piccole e diafane, veniva pescato principalmente per il suo massiccio esoscheletro che essiccato, pestato ed addizionato con olio d’oliva o sego veniva utilizzato in farmacopea al posto dell’ittiolo nella cura di diverse dermatosi.

I ricci vanno gustati appena aperti, intingendovi pane appena sfornato, accompagnando il tutto con un buon Rosato del Salento. Da tempo, i ricci, vengono utilizzati anche nella ristorazione locale che ha saputo elaborare, diversi originali e gustosi piatti.

Spaghetti ai ricci 1
Prima di approntare questo piatto, bisogna tenere presente che per condire ogni porzione saranno necessari circa dodici ricci di buone dimensioni e soprattutto, con le gonadi ben sviluppate.
Quindi, per condire mezzo chilogrammo di spaghetti occorreranno le gonadi di almeno cinque sei dozzine di ricci. La preparazione è semplicissima: aprite i ricci e serbatene le gonadi in una scodellina.
In una capace padella mettete un filo di ottimo olio extravergine d’oliva e due spicchi d’aglio contusi, fateli scaldare a fiamma bassa in modo che abbiano il tempo di cedere il proprio umore aromatizzando l’olio e appena saranno imbionditi eliminateli e unite gli spaghetti appena scolati cotti al dente. Mescolate bene, spegnete la fiamma,
aggiungete le gonadi dei ricci e, dopo aver mescolato accuratamente, servite subito, aggiungendo una spolveratina di pepe nero macinato al momento e il fatidico prezzemolo tritato.

Spaghetti ai ricci 2
Ingr.: 5-6 dozzine di ricci, ½ kg.di spaghetti, 250 grammi di pomodori, olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, pepe nero.

Aprite i ricci, mondateli accuratamente e recuperate le gonadi. Fate
riscaldare l’olio con lo spicchi d’aglio contuso e prima che questo
imbiondisca unite i pomodori triturati finemente, fate cuocere questa
salsetta per una decina di minuti ed aggiungete i ricci. Riportate a
calore, regolate di sale, quindi unite un pizzico di pepe nero e una
manciatina di prezzemolo tritato. Condite gli spaghetti scolati al
dente e servite subito.

Omelette ai ricci
Aprite tre dozzine di ricci, mondateli accuratamente, recuperate le gonadi e qualche cucchiaio dell’acqua salata che troverete al loro interno. Incorporate il tutto a quattro-cinque uova, aromatizzate il composto con del pepe nero e a piacere conditelo con del formaggio grana grattugiato. Versate il composto, un mestolo alla volta, in una padella con olio caldo o burro e realizzate normalmente delle omelette che avranno come si può immaginare, o forse no, un gusto decisamente straordinario.

Tra le verdure più gustate dai Salentini: li paparine

LA PAPARÌNA (il papavero)

di Armando Polito

PRIMA PARTE: NOMENCLATURA ED ETIMOLOGIE

Un campo di papaveri costituisce ancora oggi, fortunatamente, almeno nel Salento, uno di quei fenomeni naturali che, al pari del sorriso di un bambino, della sensibilità di un animale, della bellezza di un tramonto e di una donna non ritoccata (ormai il come mamma l’ha fatta è stato soppiantato da come il chirurgo estetico l’ha trasformata e, in più di un caso, ridotta…), mi emozionano e mi commuovono.

Claude Monet, Musée d’Orsai, Parigi

Questo lavoro vuole essere, perciò, un omaggio a questo nostro compagno di avventura sulla Terra e solo alla sua varietà innocua, con tutto il rispetto per le altre (mi riferisco a quelle da oppio) che la perversione umana, in una delle sue innumerevoli contraddizioni (in cui, nonostante la loro da noi presunta inferiorità non incorrono le restanti specie animali) ha fatto assurgere da un lato a rimedio del dolore (e chi, meglio degli animali, conosce le proprietà terapeutiche delle piante?), dall’altro a folle evasione nel tentativo disperato di superare la propria debolezza. Se però, qualcuno conosce il caso di un solo animale non umano morto, dico morto, per aver abusato di qualche erba, me lo faccia sapere. Quella delle droghe è una piaga antica quanto l’uomo e tra le testimonianze del passato sulle innumerevoli varietà del papavero non è azzardato supporre che più di una faccia riferimento proprio a quelle con proprietà profondamente e in qualche caso irriversibilmente stupefacenti. Io mi limito solo a riportarle, lasciando a chi ha la preparazione scientifica, che io non ho,  il compito di riconoscerle.

nome  scientifico: Papaver rhoeas L.

famiglia: Papaveraceae

nome italiano: papavero rosso, rosolaccio

nome dialettale: paparìna

Papaver e rhoeas erano i due nomi usati dai Romani per indicare la nostra pianta (vedi più avanti le relative testimonianze).

Comincio dal primo. Papaver è troppo lungo perché non sia un nome

Un antico piatto salentino per la vigilia di Natale

LETTERATURA GASTRONOMICA  

IL BIANCO MANGIARE,

 antica ricetta salentina

 

Nel latte ricavato dalle mandorle, la vigilia di Natale, si cuocevano li  passaricchi di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.

collezione privata, ph Nino Pensabene (riproduzione vietata)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Venivano nei giorni precedenti il Natale, avvolte nei lunghi scialli e dondolando i fianchi, diventati enormi per via delle gonne arricciate. Arrivavano di prima mattina, ciarliere come le gazze, con un sorriso appena accennato sul viso cotto dal sole: Peppa, Cìa e Ssunta, le tre contadine che, nei periodi di maggiore lavoro, venivano ad aggiungersi alle due domestiche.

Appena arrivate, sgusciavano oltre il cortile, in una stanza grande dalla volta bassa sagomata a spigoli, tanto da sembrare una stella. Più che una stanza poteva dirsi un salone, anche se i lunghi tavoli appoggiati al muro e le vasche di pietra allineate al centro ne limitavano lo spazio.

“San Martino ti cresca il lavoro” si auguravano in dialetto  l’un l’altra prima di cominciare, e si segnavano col pugno chiuso, quasi per completare una cerimonia, un rito che per me, rimasta a curiosare sull’uscio, aveva un certo che di misterioso, un fascino che si sommava a quello del Natale vicino.

Rimanevo con loro, accoccolata su uno sgabello, con la bambola in grembo e gli occhi fissi al loro sfaccendare. Avevo poco più di cinque anni e non mi badavano mentre si raccontavano le loro pene. Parlavano in fretta, quasi a sincronizzare il suono delle parole con i colpi di martello, battuti con decisione sulla corteccia dura delle mandorle.

Quando i tavoli risultavano sommersi da una massa di mandorle schiacciate, si sospendeva il ticchettio, per separare il gheriglio dalla corteccia e versarlo, a larghe manate, nelle vasche di pietra. Poi, attinta l’acqua con le giare di coccio, colmavano le vasche, lasciando le mandorle a gonfiarsi.

collezione privata, ph Nino pensabene (riproduzione vietata)

Uscendo, chiudevano a chiave la porta, come a tutelare una congiura e, a fila indiana, si avviavano in cucina, dove un mucchietto di farina bianchissima era già pronta sulla piattaforma di marmo. Sistemata a cono, con un pozzetto nel centro a forma di cratere, mi dava l’idea di un vulcano pronto per l’eruzione ma, al posto della lava, scorreva acqua tiepida, mentre le mani di Cìa, a scatti nervosi, impastavano a lungo.

Ne veniva fuori una palla di pasta molto densa, dalla quale, con una lestezza invidiabile, a pizzicotti, le donne traevano dei pezzettini che, strofinati fra pollice e indice, assumevano la forma di sottilissimi pinoli. Una specie di chiodini che le donne chiamavano “passaricchi” e che disponevano in un grande staio per farli asciugare.

antiche lucerne, collezione privata, ph Nino pensabene (riproduzione vietata)

Dopo due giorni di sospensione si riprendeva il lavoro, togliendo le mandorle dalle vasche per sgusciarle. Dalla loro camicia marroncino saltavano fuori bianche, lucide, e ammucchiate davano l’idea di una risata aperta, incontenibile. Anche le donne apparivano meno addolorate e attendevano, con una specie di euforia, l’ingresso di Gaetano.

antica bilancia da tavolo, collezione privata, ph Nino Pensabene (riproduzione vietata)

Arrivava sul mezzogiorno, con il suo berretto da campagnolo e la giacca scura dei giorni segnati; se ne liberava subito, arrotolando le maniche della camicia a quadri e sistemando – operazione preliminare – il grande mortaio di marmo sul tavolo centrale. Con un peso di bronzo, si dava poi a pestare le mandorle sino a ridurle in poltiglia. E man mano che il lavoro andava avanti, le donne raccoglievano la poltiglia in sottili fazzoletti bianchi che immersi, così pieni, nell’acqua fresca e strizzati, davano fuori un latte bianchissimo.

In quel latte, la vigilia di Natale, si cuocevano i pinoli di pasta, aggiungendo zucchero e insaporendo, a cottura avvenuta, con molta cannella e manciate di canditi.

Ne veniva fuori un dolce cremoso, gustosissimo, che, certo per via del suo colore, si chiamava “Bianco mangiare”.

Se ne preparava in abbondanza, giacché era uso della famiglia riunire, la notte di Natale, contadini e giardinieri per il consueto cenone di mezzanotte.

Il ritrovo avveniva nella cantina più vasta, quella sottostante al salone delle feste, dove fra botti piene di malvasia e orci ribollenti di “aleatico” si preparava un tavolo lunghissimo, magicamente illuminato da lanterne.

I natali della mia infanzia sono rimasti caratterizzati da quella cena e dal “bianco mangiare”. Più volte, trascinata dal ricordo nostalgico, ho ridato vita alla vecchia ricetta, anche se la turbinosa realtà dell’oggi non consente lunghe soste in cucina.

L’ultima volta l’ho preparato per Peppa. Tornata nella mia terra salentina, me la vidi venire incontro con il viso incartapecorito e negli occhi la distaccata lontananza di chi sta per andarsene. Era la sola a portare ancora la lunga gonna arricciata e a vederla camminare tra lo sfrecciare dei motori e l’irrompere delle ragazze in minigonna, dava l’idea di un fantasma, risvegliato per il compimento di chi sa quale missione.

Mi abbracciò piangendo e continuò a piangere, mentre rivangava i natali del passato. “Vorrei riviverli”, ripeteva.

Non era Natale, ma io volli preparare ugualmente una scodella di “bianco mangiare”, con tanta cannella e tutto un ricamo di canditi.

“Cìa, Ssunta e Ccaitànu no nci sontu cchiùi” (“Lucia, Assunta e Gaetano non ci sono più”) diceva piano “sono morti e io, soltanto io sono rimasta…”!. E si annodava più forte il fazzoletto e si segnava, guardando il “Bianco mangiare” così come si guarda la foto dei propri morti.

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1970, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma).

Ecco i “dolci” natalizi del Salento!

A Natale il verbo preferire mia suocera lo usa così… e come si fa a darle torto?

 

di Armando Polito

La celebrazione dell’Immacolata costituisce il primo collaudo psico-fisico in vista delle grandi manovre culinarie del lungo periodo festivo immediatamente successivo e le pèttule1 ne sono l’immancabile bandiera.

Si tratta di un impasto di farina di forma tondeggiante, lasciato adeguatamente lievitare e poi cotto nell’olio bollente. Le forme più “ricche” prevedono l’inglobamento di cavolfiore o cicoria o capperi o baccalà o alici in salamoia o funghi.

La facilità (relativa all’esperienza…) di preparazione ha dato vita al detto E cce sso’, pèttule? per indicare qualcosa che non può essere fatta in breve tempo e che richiede un certo impegno. L’appiccicosità dell’impasto, poi, ha dato vita ad espressioni del tipo quìddhu ete nna pèttula riferito a chici sta insistentemente appresso o ci annoia (in questo secondo caso con un significato simile all’italiano che pizza!)

Per il Rholfs pèttula è diminutivo di pitta, un tipo di focaccia, fatto derivare dubitativamente dal greco pitta o pissa=pece1; per l’insigne studioso, inoltre, pèttula  per traslato ha dato vita alla identica voce che indicava uno dei due lembi posteriori della camicia di un tempo. Si può facilissimamente constatare come il greco pitta/pissa non potesse andar meglio dal punto di vista fonetico ma appare piuttosto traballante da quello semantico (anche se il pensiero vola subito alle olive nere, ingrediente fondamentale della nostra pitta rustica), da cui, credo, il dubbio dello stesso studioso tedesco2.

Dubbi, invece, non ha mia suocera (si chiama Concetta, 87 anni), formidabile forchetta dallo stomaco di amianto e dal fegato di acciaio, nonostante il diabete. L’8 scorso festeggiava il suo onomastico e davanti ad una tavolata di una trentina di persone (solo trenta, perché parecchi componenti della numerosa discendenza erano fuori sede, altrimenti saremmo stati almeno il doppio) alla domanda: “Nonna, quale pèttula preferisci?” ha fulmineamente risposto: “Preferiscu queddha a ssola e queddha cull’alice e queddha cu llu caulufiùru e queddha cu llu bbaccallà e queddha cu lli fungi, e queddha ssuppàta intr’a llu mele e queddha ssuppàta  intr’allu cuèttu e…sirà ca sta mmi ‘ndi scordu quarchetùna…”3. All’enunciato è seguita la pronta dimostrazione…

Il problema è che fa così con qualsiasi preparato abbia delle varianti più o meno significative, nonché quando sarebbe più opportuno per la salute gustare solo uno dei tre dolci natalizi di cui ora parlerò,  o tutti, ma in modica quantità o porzione ridotta: cartiddhàte, purciddhùzzi e scagliòzzi.

Le cartiddhàte sono strisce di pasta fritte e poi cosparse di miele.

Il nome secondo il Rohlfs deriva dal siciliano cartèddha=cesta, per la forma che rassomiglia ad un intreccio; cartèddha, aggiungo io, è dal greco

Tutte le ricette tradizionali per il lampascione, il re dei bulbi

di Massimo Vaglio

Lampascioni in insalata

Nettate i lampascioni, lessateli in acqua salata, fateli raffreddare, divideteli in due se sono grossi e conditeli con olio extra vergine, aceto, pepe e a piacere con menta o prezzemolo. Serviteli freddi. Una variante, consiste nel cuocerli nel modo anzi descritto e nel servirli accompagnati da rape di barbabietole lesse, condendo il tutto come sopra indicato. E’ bene che queste insalate per insaporirsi meglio vengano lasciate riposare qualche ora condite prima di essere servite.

I lampascioni costituiscono da tempo immemorabile, uno degli stuzzichini tradizionali dei pugliesi e dei salentini in particolare, per cui, forse non esiste “putea ti mieru”, così sono denominate le caratteristiche botteghe di vino con mescita nel Salento, ove non vi sia una brava coppa di “lampasciuni ccunzati”, (conditi cioè con olio, sale, pepe e aceto) a disposizione degli avventori, poiché si ritiene che il loro gusto dolce-amaro favorisca il consumo di vino.

Lampascioni cotti nella cenere calda

Questo è un piatto a dir poco primordiale, uno dei primi alimenti umani, insieme ai tuberi di asfodelo, sin dal Neolitico, ma l’uso di arrostire i lampascioni nella cenere, al contrario di quello dell’asfodelo, si è conservato sino ai nostri giorni. Quando gli “alàni” delle masserie pugliesi, ossia i bifolchi addetti all’aratura con muli o buoi, arando il terreno cavavano dei bulbi di lampascione, li raccoglievano e la sera, rientrati per la cena a base quasi

Straordinari carciofi!

di Massimo Vaglio

Il carciofo (Cynara scolimus L), è una specie botanica appartenente alla famiglia delle composite. E’ pianta perenne e si coltiva per la produzione delle infiorescenze che, costituiscono la parte primaria, commestibile della pianta. In Puglia, vengono inoltre consumati anche i polloni che la pianta emette in esubero, detti carducci. Questi, opportunamente selezionati, vengono avviati al consumo in quanto tradizionalmente adoperati alla stregua di come altrove si fa con i cardi propriamente detti, Cynara cardunculus.

La coltivazione del carciofo, derivato dal carciofo selvatico con abili operazioni d’ innesto, nasce, pare, intorno al XIII secolo in Medio Oriente, ma diverse fonti attribuiscono già nel XV secolo grandi meriti all’abilità degli orticoltori italiani, che già avevano selezionato numerose varietà, così descritte nel 1557da Andrea Mattioli: “Veggonsi a tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperochè di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano”.

Terra, particolarmente vocata per questa coltivazione, grazie al clima mite e alla presenza di vaste e fertili pianure alluvionali, la Puglia conta circa 20 mila ettari di carciofeti che la pongono al primo posto in Europa. La varietà maggiormente coltivata  è il Locale di Mola discendente  dal carciofo Catanese.

Nel Leccese, seppur a livello familiare, si coltiva una pregevole, antica varietà tardiva localmente molto apprezzata, distinguibile per la colorazione viola scuro e le brattee, divaricate all’apice, questi carciofi, sono molto ricercati e apprezzati per la loro delicatezza che li rende particolarmente idonei ad essere gustati crudi.

Raro trovare un prodotto che, come il carciofo, coniughi  le a dir poco straordinarie qualità organolettiche con altrettanto straordinarie proprietà nutrizionali e salutari. Digeribilissimo, privo di controindicazioni rilevabili in molti altri pur nobili ortaggi e dal gusto estremamente grato, il carciofo meriterebbe un’utilizzazione molto più ampia. D’altronde basterebbe ricordare la raccomandazione di Esculapio: siano gli alimenti i vostri farmaci, e quale alimento può concorrere per salubrità con il carciofo? Vera e propria farmacia della natura, quella che i tedeschi chiamano Apotheke Gottes (farmacia di Dio).

I carciofi, hanno pochissime calorie perché la maggior parte dei carboidrati è presente sotto forma di inulina, un polisaccaride che l’organismo non utilizza come gli altri zuccheri per la produzione dell’energia. Ciò rende i carciofi estremamente utili ai sofferenti di diabete, poiché l’ inulina, migliora il controllo dello zucchero nel sangue. La cinarina, un altro principio attivo presente nei carciofi ha una lunga tradizione nella terapia di molti disturbi del fegato che proteggono e rigenerano.

Inoltre, hanno effetti coleretici, vale a dire che stimolano il flusso della bile, favoriscono la decongestione nel fegato sofferente e abbassano i livelli di colesterolo e di trigliceridi nel sangue.

Infine, è stato accertato che consumando regolarmente carciofi freschi si rilevano sensibili miglioramenti  nei casi di artrite reumatoide, di azotemia, di anemia e di stipsi ostinata. Un ortaggio prezioso quindi, di cui si avvantaggiano equamente gusto e salute.

 

 

Carciofi fritti

Nettate i carciofi che devono essere molto freschi e teneri e divideteli in senso longitudinale in quattro otto spicchi e poneteli in acqua acidulata con succo di limone. Con acqua e farina 00 e sale q.b. approntate una pastella liscia ed omogenea, immergetevi quindi gli spicchi di carciofo e friggeteli in olio di frantoio ben caldo. Potete prepararli anche fritti dorati, passandoli prima nella farina 00 e poi nell’uovo sbattuto e salato.

 

Minestra di carciofi e fave verdi

Estraete le fave verdi dai baccelli, nettate i carciofi e i cipollotti, quindi ponete sul fuoco una casseruola con due dita d’ acqua, olio e sale; unite le verdure e lasciate cuocere a fuoco lento con la sola aggiunta di qualche fogliolina di menta. In ultimo aggiustate di sale se necessario e  servite. Questa minestra tipicamente primaverile può essere gustata anche fredda.

Parmigiana di carciofi

Nettate i carciofi, divideteli longitudinalmente in spicchi, e friggeteli. Preparate un sugo di pomodoro dalla consistenza piuttosto blanda, versatene un mestolo in un tegame e acconciatevi sopra ben serrati gli spicchi di carciofi fritti, copriteli con mozzarella fior di latte tagliata a fette, cospargete a piacere con parmigiano o con pecorino grattugiato e  infine con altro sugo e avendone la possibilità con qualche fogliolina di basilico fresco. Ripetete l’operazione una o più volte e terminate con sugo e formaggio grattugiato. Ponetela in forno caldo per circa un quarto duro e comunque il tempo sufficiente a rendere filante la mozzarella. Volendo, si può arricchire la farcitura aggiungendo delle polpettine di manzo fatte secondo la ricetta classica e delle uova sode affettate che però acquisiranno un’insolita colorazione.

Tortino di Carciofi al forno

È un piatto d’antica tradizione preparato con piccole varianti  in tutta la Puglia.

Ingr.: 8 carciofi, 400 grammi di mozzarella, 4 fette di pane casereccio, 100 grammi di pecorino dolce grattugiato o parmigiano, quattro uova, latte, olio extravergine d’oliva, burro, pane grattugiato, prezzemolo, sale, pepe nero q.b.

Bagnate nel latte le fette di pane casereccio e adagiatele in una teglia imburrata e cosparsa uniformemente di pane grattugiato. Distribuite su di queste la mozzarella tagliata a dadini e sopra i carciofi nettati lessati al dente e ridotti in spicchi o affettati. Versate sul tutto, le uova diligentemente battute e il formaggio. Cospargete con un composto di pangrattato, pepe nero macinato al momento e prezzemolo fresco tritato. Spruzzate la superficie con acqua e olio extravergine d’oliva e fate gratinare in forno per circa un quarto d’ora e comunque sino a quando la superficie avrà acquisito una bella colorazione dorata.

Carciofi ripieni

Nettate i carciofi, rasate i gambi in modo che possano rimanere ritti, accorciate le brattee e allargatele in modo da poter accogliere il ripieno. Preparate quindi il ripieno, unendo a delle uova, pangrattato, pecorino grattugiato, capperi, aglio finemente tritato (facoltativo), prezzemolo e pepe nero macinato al momento. Amalgamate diligentemente il tutto, riempite i carciofi, sistemateli ben serrati in un tegane e irrorateli con un filo d’ottimo olio extravergine d’ oliva. Versate acqua fredda sino a raggiungere la metà dell’altezza dei carciofi, ponete sul fornello e fate cuocere a fiamma bassa, sino a quando l’acqua non sarà quasi completamente consumata. Passateli quindi in forno caldo, sino a quando la loro superficie avrà assunto un’invitante colorazione dorata.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale. Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Carciofini sott’olio

Costituiscono una delle conserve tradizionalmente più diffuse in Puglia sia a livello familiare che industriale, la produzione dei carciofi qui  si protrae dall’autunno sino alla primavera inoltrata, periodo in cui le piante danno luogo all’emissione di un grande numero di capolini di piccole dimensioni che non hanno quindi le caratteristiche merceologiche per essere avviati al consumo diretto. Vengono perciò impiegati nella produzione di conserve,  in particolare nella produzione dei  carciofini sott’olio, particolarmente apprezzati come antipasto.

Preparazione:

Nettate i carciofi, accorciando loro le brattee ed eliminate completamente quelle più esterne, e ponetgeli man mano, onde evitare che anneriscano, in un recipiente contenente acqua acidulata con aceto o limone. Quindi, a seconda delle dimensioni; lasciateli interi, oppure divideteli a metà o a quarti, e metteteli a bollire in acqua salata e acidificata con aceto di vino, metà acqua e metà aceto. Una volta cotti al dente, scolateli, disponeteli in vasi di vetro intervallandoli a piacere con foglioline di menta  o prezzemolo e con rotelline di aglio. Ricopriteli infine, d’olio extravergine d’oliva e serbate i vasi ben sigillati in ambiente fresco e possibilmente buio.

Polpette di carciofi

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio vaccino grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale.

Amalgamate bene il composto, formate delle polpette e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

Tutto sull’origano e sui suoi utilizzi nella cucina salentina

di Massimo Vaglio

Sotto la generica denominazione di origano (Origanum spp L. 1753), si identificano delle piante appartenenti alla famiglia delle Labiate, il cui genere è costituito da una ventina di specie, quasi tutte aromatiche, alcune con caratteri erbaceo-perenni, altre costituite da arbusti sempreverdi o a foglie semi-permanenti.

I fiori sono allungati a forma di imbuto, generalmente riuniti in piccoli mazzetti e vanno a formare delle spighe; caratteristica del genere è anche la vistosa presenza di brattee che sovente accompagnano la fioritura, che avviene nella tarda primavera ed in autunno. Le foglie sono, quasi per tutte le specie, di forma ovale. L’altezza della pianta varia a seconda della specie; quelle arbustive possono raggiungere anche gli 80 centimetri di altezza, mentre quelle erbacee, sono generalmente alte dai 25 ai 50 centimetri.

Il nome Origanum, deriva dal greco oros” (monte) e gànàos” ( ornamento), alludendo al fatto che queste piccole labiate costituiscono un ornamento per le alture più aride e rocciose. Secondo alcune civiltà l’origano ha un’origine sacra; nell’Estremo Oriente era sacro a Shiva e Visnù e le sue piante caratterizzavano le adiacenze dei grandi templi buddisti. Come pure la presenza di un vaso di origano sulla soglia di un’abitazione era il segno che in

I gustosi mùgnuli degli ultimi fertili orti suburbani salentini

LU MUGNULU

di Massimo Vaglio

Il “mùgnulu” è una Brassicacea tipica del Salento, simile ai comuni cavoli broccoli verdi detti comunemente broccoli verdi (Brassica oleracea var.  botrytis virescens L. ) di cui, secondo recenti indagini genetiche, non ancora completate, potrebbe costituire il progenitore dal quale questi ultimi sono stati selezionati. Alcuni antichi ricercatori trattano il mùgnulu come una varietà a se stante identificandola come: Brassica oleracea asparagoide Pasq.; Brassica botriytis cimosa D.C. e ne codificano almeno tre ecotipi : praecox, major e serotino. Il primo viene comunemente appellato mugnulettu, ha sviluppo più contenuto e viene tradizionalmente coltivato in terreni leggeri tendenzialmente aridi e poco fertili, la cui produzione più precoce, è limitata, ma organoletticamente molto piacevole per cui molto ricercata. Gli ecotipi major e serotino, hanno sviluppo decisamente più esuberante, in particolare il secondo che è a ciclo più tardivo.

Esigono entrambi rigorosamente terreni pesanti o comunque, freschi e fertili, le loro folte piante, di un verde intensissimo, caratterizzano infatti, gli ultimi fertili orti suburbani scampati alla cementificazione, di molti paesi del Salento. Morfologicamente, il mùgnulu è un ortaggio molto vigoroso e rustico, caratteristica che traspare già da una superficiale ispezione, il fusto infatti, appare completamente lignificato sino alle branche ha limitate esigenge colturali ed è di rapida crescita; le piante hanno portamento eretto, ma si ramificano ben presto, le foglie sono oblunghe, fortemente lobate e di colore verde più scuro rispetto agli altri cavoli. Inoltre si distingue dal broccolo verde per l’infiorescenza più piccola e meno compatta; con i singoli fiori bianchi, più grandi e con brattee fiorali più ampie.

Anche le sue caratteristiche organolettiche sono peculiari e lo fanno localmente preferire al broccolo verde comune. Numerose sono le ricette

Tutto sulle zucche, zucchine e fiori di zucca

LE ZUCCHE, E NON SOLO PER HALLOWEEN

di Massimo Vaglio

Una volta tanto la giustamente avversata globalizzazione ha provocato un effetto collaterale positivo. Infatti, grazie all’acquisizione da parte delle giovani generazioni dell’americanissima festa di Halloween, è tornata un po’ in auge la coltivazione delle zucche, e si rileva anche la riscoperta di tante ricette dimenticate ed un rinnovato  interesse per questi, come vedremo, utilissimi quanto bistrattati ortaggi.

Prima, però occorre fare un po’ di chiarezza nella non sempre semplicissima materia botanica. Facile infatti dire zucca, ma bisogna sapere che sotto questa banale denominazione ricadono ben novanta distinti generi e un numero di specie stimato intorno al migliaio. Negli orti italiani, si coltivano numerose varietà di zucche e zucchette, di cui si utilizzano come ortaggio i frutti quando sono completamente maturi, ossia le zucche; oppure, quando sono ancora teneri e non del tutto ingrossati, ovvero le zucchette meglio note come zucchine.

Si tratta di varietà orticole derivate da alcune specie appartenenti al genere Cucurbita e alla famiglia delle Cucurbitaceae. Le varietà di zucca universalmente più diffuse sono quelle derivate dalla Cucurbita maxima. Si riconoscono per il portamento delle piante che sono sarmentose o rampicanti con frutti generalmente molto grossi, globosi, schiacciati ai poli, lisci, costoluti o bitorzoluti.

Altre zucche molto interessanti e saporite sono quelle derivate dalla Cucurbita moschata, queste sono ugualmente sarmentose e danno luogo all’emissione di frutti molto grandi, cilindrici, diritti o leggermente ricurvi e maggiormente ingrossati all’apice ove sono contenuti i semi.

Le zucchette, sono invece il prodotto della Cucurbita pepo, che si distingue facilmente dalle altre specie per il portamento cespuglioso e i frutti cilindrici e

Salento a tavola. La patata novella Sieglinde di Galatina

di Massimo Vaglio

La patata (Solanum tuberosum), benché introdotta in Europa dall’America nel XVI secolo, sarà per circa due secoli coltivata come curiosità botanica e a scopi medicinali, rigorosamente per uso esterno, come lenitivo per piaghe e scottature. Solo le carestie del Settecento, e la promozione effettuata dai governi dell’epoca, rimossero i gravi pregiudizi che la attorniavano, e questo strano tartufo bianco, come spesso veniva indicata, cominciò ad essere accolto nei campi e sulle mense. Sulla scorta delle rape venivano lessate e condite con olio, aceto e sale, oppure con olio, aglio, pepe, e prezzemolo.

Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione, ed al suo uso, venne dato dall’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, Il Cuoco Galante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane, mescolandola al 50% con la farina di grano; e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.

La patata novella Sieglinde di Galatina, è una pregiata varietà orticola di patata. Presenta tuberi di forma ovale allungata, del peso medio di 80-100 grammi, buccia di colore giallo intenso, brillante e pasta gialla. Nel Salento, e in particolare nella parte Sud Occidentale dello stesso caratterizzata dalla presenza della cosiddetta sinopia, ovvero, della terra rossa, ha trovato un ambiente particolarmente congeniale e sviluppa ineguagliabili caratteristiche

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine.  siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

Autunno, tempo di tordi

Alexandre-François Desportes (1661-1743)

di Massimo Vaglio

Devo premettere che discendo da una schiatta di provetti cacciatori ed io stesso sono stato cacciatore per molti anni. Tutta la mia infanzia e la mia giovinezza sono state fortissimamente legate a questa nobile arte, perché di arte, sino ad un certo momento, si è trattato. Si dovevano conoscere profondamente i venti, periodi, le lune; i preparativi erano più laboriosi, impegnativi e gratificanti dell’attività stessa.

Il rito iniziava recandosi in sobrie quanto gremite armerie a scambiare chiacchiere con gli altri cacciatori, spesso più anziani e ad acquistare l’occorrente per caricare le cartucce, anzi per ricaricarle, dato che venivano regolarmente riciclate almeno una o due volte. Una babele di nomi e sigle: Acapnia, Cordite, D.N., G.P., G.M.3., M.B., Balistite Compensata, Superbalistide, S4, Sipe, Star, Randite, Sport, Universal… e questo solo per quanto riguardava le polveri, poi c’erano i bossoli, rigorosamente di cartone, gli inneschi, le borre, i tacchetti, che ognuno utilizzava secondo sue personali convinzioni, ripetendo meticolosamente sempre le stesse operazioni e gli stessi dosaggi gelosamente custoditi in un quaderno segreto.

Il giorno seguente si usciva a caccia con le cartucce contate, giusto quelle contenute nella cartucciera e con un’altra manciata in tasca. I richiami erano anch’essi essenziali: i fischietti d’ottone e lo zirlo in legno e piombo; i risultati erano fortemente vincolati all’esperienza e alla bravura quando non condizionati dalle possibilità economiche.

Poi è arrivato un maggiore benessere, la tecnologia con le cartucce in plastica e a volontà, che la terra non riusciva più a metabolizzare, caricate con i contenitori anch’essi di plastica e con le chiusure stellari che consentivano tiri sino ad allora impensabili. Seguirono i richiami elettronici, le scellerate mattanze. Quella nobile arte si è trasformata in una delle più becere espressioni del consumismo.

Da qui il mio abbandono e la mia viscerale avversione verso quella che ormai considero un’ignobile pratica.

Quanto sopra, perché questo mio scritto non venga interpretato come un’anacronistica apologia della caccia, ma essendo purtroppo questa ancora legale e consentita, i tordi, le allodole e le quaglie, finché continueranno a sostare o transitare nella nostra penisola, finiranno impallinati e non potendo evitare che ciò accada, possiamo solo invitare i nostri lettori a rendere giusto onore alla fine di questi animali, se mai ne avessero occasione, con delle preparazioni genuine e prelibate che possano rimanere impresse per molto tempo nella mente dei loro commensali.

Non v’è bisogno di ricordare il Salento come terra d’ulivi, anzi, se volessimo, potremmo considerarla un’enorme foresta di ulivi con qualche radura. È normale, quindi, che in questa terra, già regolare linea di migrazione per numerose specie di uccelli, i tordi abbiano sempre trovato, approfittando di questo paradiso di fronde argentee e di olive turgide d’olio, il luogo ideale in cui svernare nei mesi invernali. Non sorprende, quindi, che i cacciatori locali si siano organizzati per far loro pagare il pedaggio e la sosta, specializzandosi in delle forme di caccia specifiche a questa specie, sia durante il passo (scise) che durante la sosta, con appostamenti nei luoghi di entrata ed uscita dai dormitori (’mmasunu), e organizzando delle redditizie cacce a rastrello (spase) appunto negli enormi oliveti.

Abbiamo riferito del Salento come rotta di migrazione per molte specie, ma anche in tempi in cui c’era l’imbarazzo nella scelta delle prede da insidiare, il tordo ha costituito sempre la preda d’elezione, per una motivazione molto semplice: il tordo è stato sempre considerato, gastronomicamente parlando, il miglior boccone tra i selvatici alati. Infatti, nelle interminabili disquisizioni dei cacciatori, oltre a parlare di luoghi di caccia, di polveri, di cani, il tutto naturalmente infarcito da spacconate, si parlava spesso di selvaggina in cucina e, quando usciva questo argomento, sovente entrava in scena il letterato di turno che declamava saccentemente la frase latina “Vulatiles turdus, quadrupedes lepores”, attribuendola a Virgilio e traducendola per gli astanti più incolti in questo modo: “In cucina il miglior uccello è il tordo e il miglior quadrupede è la lepre”, e aggiungendo che se lo diceva Virgilio, appellato dal grande Dante: maestro di color che sanno, il giudizio non poteva essere messo in discussione.

Il sottoscritto, non essendo un latinista e volendo riportare la frase su questo scritto meno maccheronicamente, l’ha ricercata certosinamente leggendo integralmente tutte le opere di Virgilio. Il piacere, naturalmente è stato grande, ma di giudizi gastronomici su tordi e lepri neppure l’ombra. Solo nelle Satire di Orazio, una citazione, in una descrizione di un viaggio nell’Italia meridionale ove descrive presso Benevento una scena in cui: “l’oste zelante mentre al fuoco girava magri tordi mancò poco che non bruciasse” (Orazio Satire, libro I  5, 72).

Un giorno però, a conferma che dietro a qualsiasi balla c’è sempre un fondo di verità, il mio sguardo si è posato su di un epigramma elogiativo di un altro grande poeta latino che di buona tavola e lieto vivere se ne intendeva, che così recitava:

“Inter aves turdus, si quid me judice certet;

inter quadrupedes mattea prima lepus”

(Marziale, Epigrammi, libro XIII, ep. 92)

cioè: “Se il mio giudizio ha qualche valore, dirò che il miglior boccone fra gli uccelli è il tordo, fra i quadrupedi è la lepre”.

Francamente, e con tutto il rispetto, non credo che il tordo abbia bisogno delle pur gratificanti referenze reali o presunte di questo o di altri grandi poeti. La grande versatilità gastronomica sarebbe già sufficiente a sancire questo primato; infatti questo è uno dei pochissimi uccelli selvatici che può essere preparato con ottimi risultatati praticamente in qualunque modo.

Sino a qualche anno addietro i tordi erano regolarmente venduti nelle macellerie, in cui si vedevano esposti appesi in scenografici mazzi, spesso inghirlandati con rami di mirto. Da qualche anno le cose sono cambiate: la legge vieta la vendita degli uccelli selvatici e limita fortemente il numero dei capi che si possono abbattere in una giornata. Ma ad allontanare dalle mense dei salentini i tordi, è stata sicuramente la loro forte diminuzione, le grandi mattanze degli anni passati, la forte antropizzazione del territorio e soprattutto il comportamento antisportivo di molti cacciatori che usano, contro legge, micidiali richiami elettronici; ciò ha minato seriamente la consistenza numerica della specie.

Fortunatamente, alla diminuzione dei tordi, sta seguendo una certa diminuzione del numero dei cacciatori, una volta tanto le regole della natura sul rapporto preda, predatore, coinvolgono anche l’uomo, in verità più predone che predatore.

Tordi con le olive  

Per preparare questa prelibata pietanza per sei persone dovete procurarvi dodici tordi che dovete spennare con cura, fiammeggiare e svuotare, avendo cura di recuperare i ventrigli. Disponete in una casseruola un filo d’olio extravergine d’oliva, fate soffriggere una manciata di olive piccole da olio, preferibilmente della cultivar ogliarola e ben mature, unitamente ad uno spicchio d’aglio, due foglie di alloro, sale e pepe. Appena le olive cederanno facendo uscire il nocciolo con una leggera pressione della forchetta, aggiungete i tordi ed i ventrigli, e quando saranno rosolati un buon bicchiere di vino rosato del Salento. Lasciate evaporare e continuate la cottura a fuoco bassissimo, aggiungendo un po’ d’acqua se ce ne fosse bisogno, sino alla loro completa cottura. Vanno serviti caldissimi.

Tordi al ragù

Con i tordi si può preparare un ottimo ragù che può essere utilizzato egregiamente per condire i maccheroni. I tordi, che con questa preparazione diventano tenerissimi, vanno serviti come secondo piatto. Per preparare il ragù seguire lo stesso procedimento della ricetta Maccheroni al ragù di carne. Per le dosi dovrete procurarvi non meno di due tordi per  commensale.

Tordi alla cacciatora  

Dopo aver predisposto i tordi per la cottura, fateli rosolare in una casseruola abbastanza larga in solo olio extravergine da tutte le parti, quindi salate, pepate e aggiungete un buon bicchiere di vino rosato, fate evaporare a fuoco vivo e togliete i tordi. Aggiungete all’intingolo una cipolla e due spicchi d’aglio tritati, un’ombra di rosmarino o meglio un rametto di mirto. Appena il trito sarà imbiondito, aggiungete qualche pomodoro tritato o meglio dei pomodorini freschi tagliuzzati in quantità tale che colorino leggermente la preparazione, fate amalgamare bene, aggiungendo se occorre un po’ d’acqua, rimettete i tordi e continuate la loro cottura a fuoco moderato per almeno 40 minuti. Quando il sughetto si sarà ben ritirato e l’olio comincerà a “slegarsi”, i tordi saranno pronti per essere serviti ben caldi.

Turdi allu suzzu

Tordi sotto vetro

Spennate, fiammeggiate diligentemente dei tordi freschissimi, eliminate la testa, oppure, come vuole la tradizione solo la parte superiore del cranio, lessateli in acqua salata aromatizzata con qualche foglia di alloro e semi di finocchio, badando che rimangano ben sodi, quindi fateli asciugare bene su dei canovacci puliti, disponeteli in vasi a chiusura ermetica frammezzati con qualche foglia di alloro e ricopriteli di vino bianco secco di buona gradazione alcolica. Sono pronti al consumo già dopo una decina di giorni anche, se così preparati, si conservano per diversi mesi. Possono essere gustati sia tali che cucinati in umido.

Allodole alla leccese

L’allodola, altro prelibato uccello, è un assiduo frequentatore delle grandi distese pianeggianti del Tavoliere nonché delle aride «fattizze» che circondano le antiche masserie del Salento. Data la sua estrema diffusione, nel periodo autunnale, questo piccolo migratore alimenta, anche se meno di qualche anno addietro, un discreto pendolarismo venatorio da altre regioni italiane. Cacciatori o meglio sparatori semiprofessionisti hanno per decenni perpetuato vere e proprie stragi di questi volatili che andavano ad alimentare il florido mercato Nord’Italiano degli uccelletti da polenta, nonché fatti oggetto di caccia tradizionale con l’uso di specchietti e zimbelli vivi, ora vietati dalla legge, anche se, invero, era già un po’ di anni che le allodole non si lasciavano più ammaliare facilmente da tali stratagemmi. Ora la tecnologia ha pensato di supplire con micidiali richiami ad ultrasuoni. Per le allodole consigliamo questa degnissima preparazione tipica:  spennate le allodole, fiammeggiatele, evisceratele e dopo averle lavate, trafiggetele con degli spiedini intervallandole con funghi cardoncelli (Pleurotus erjngii) e foglie di alloro. Ponete gli spiedini in una terrina,  salateli, pepateli e pennellateli con olio extravergine di oliva; quindi ponete la terrina in forno caldo, a metà cottura ritiratela e spolverate gli spiedini con pangrattato insaporito con sale, pepe e prezzemolo tritato. Irrorateli moderatamente con dell’olio e riponeteli nuovamente in forno a completare la cottura; ritirateli e quando gli stessi si presenteranno di un bel colore dorato serviteli caldissimi. Visto che le allodole e i cardoncelli condividono lo stesso habitat, i pascoli pietrosi della Puglia, è da pensare che questo abbinamento sia tutt’altro che casuale.

Curiosità: in alcune famiglie salentine, varie specie di piccoli uccelli, ma in particolare  le allodole, venivano tritate finemente con l’ausilio di un tritacarne, naturalmente con tutti gli ossi. Dal trito ottenuto venivano ricavate delle polpette metodo classico salentino che avevano, a dire dei testimoni intervistati dallo scrivente, un gusto eccezionale, per nulla penalizzato, anzi, a loro dire, migliorato dalla presenza degli ossicini triturati.

Gastronomia. La lectio di Massimo: tutto sulle frattaglie

Pieter Aertsen Butcher’s Stall with the Flight into Egypt; Oil on wood panel

FRATTAGLIE, RIGAGLIE & CO.

di Massimo Vaglio

Sono sempre più le persone che sentendo parlare di frattaglie arricciano il naso. Quasi sempre si tratta di un’antipatia preconcetta, completamente scollegata  da quelle che sono le caratteristiche organolettiche e nutrizionali delle stesse; un pregiudizio che, come spesso avviene, è originato da una scarsa conoscenza dei prodotti in questione e da una certamente scarsa cultura gastronomica. Ne è riprova la circostanza che vi sono frattaglie molto apprezzate in alcune località e ignorate o comunque poco consumate in altre. Può così capitare di trovarle in vendita, a seconda dei luoghi, a prezzi infimi o molto sostenuti.

Quello delle frattaglie è comunque un argomento molto ampio con implicazioni che vanno ben oltre la gastronomia, la loro valorizzazione rappresenta un virtuoso esempio di utilizzo razionale delle risorse messeci a disposizione dalla madre terra, un dovere morale, che asseconda il principio: utilizzare tutto, per nutrire tutti.

Oltre all’animalismo in senso stretto, la motivazione che spinge molte persone a diventare vegetariane è di carattere etico, in quanto, se si considera che un ettaro di terreno coltivato a cereali produce il quintuplo delle proteine di un ettaro utilizzato per la produzione di carne.

Che i legumi producano dieci volte quelle proteine e i vegetali a foglia quindici volte le proteine per ettaro di terreni di pari dimensioni destinati alla produzione di carne, si comprende come la produzione di carne sia la principale causa dell’ingiusta distribuzione delle risorse alimentari del

Alcune ricette salentine con la carne di cavallo

 

Il banco del macellaio di Pieter Aertszen, detto Pietro il Lungo (Amsterdam, 1508 circa – Amsterdam, 1575), pittore fiammingo

di Massimo Vaglio

Pezzetti alla “pignata”
In una casseruola fate imbiondire leggermente in olio di frantoio della cipolla tritata grossolanamente, aggiungete delle carote, delle coste di sedano a tocchetti, pepe macinato, meglio se pepe bianco, peperoncino, sale, un po’ d’acqua e conserva di pomodoro in quantità tale che non colori eccessivamente gli ortaggi. Lasciate stufare a fuoco lento in modo che tutti gli ingredienti cuociano perfettamente, ammorbidendosi e insaporendosi a vicenda, quindi passate diligentemente il tutto al passaverdure e tenetelo da parte. In una pentola, ponete la carne preventivamente tagliata a pezzetti della grandezza desiderata con qualche foglia di alloro, ricopritela di acqua, salate e portate ad ebollizione, schiumate ripetutamente, togliete dal fuoco, eliminate una parte di questo brodo e sostituitelo con il passato di ortaggi precedentemente preparato. Continuate la cottura a fuoco lento aggiustando di sale se necessario; appena la carne risulterà tenera e ben cotta e il sugo ben ristretto ed avrà acquisito il sapore della carne, si potrà
servire. Per questa tipicissima preparazione si possono adoperare sia carni bovine che equine; ma prevale nettamente l’uso di queste ultime, in questo caso il buon oste usa spesso inserire degli ossi di bovino o meglio degli ossi cartilaginosi presi dalla spalla o dal petto allo scopo di arrotondarne il gusto.

Carne di cavallo con i capperi
La carne tradizionalmente utilizzata per questa preparazione è quella “ferrata”, come in varie zone della Puglia (non è difficile capire il perché) viene indicata la carne equina. Originariamente si adoperava prevalentemente carne di asino,

Cavallo in cucina ovvero la preistoria a tavola

di Massimo Vaglio

G.D. Ferretti (1692-1766), Arlecchino cuoco, olio su tela, Sarasota (Florida), The John & Mable Ringling Museum

E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.

Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.

Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana,

La frisella.Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere

 
ph Angelo Arcobelli

L’Eccellenza sulla tavola dei salentini: la  friseddha

di Massimo Vaglio

Friseddhe, sarebbe questa l’esatta denominazione di questa sorta di pani biscottati, che in epoca più recente nella foga italianizzatrice del lessico sono stati riappellati anche frise e friselle. La prima delle due denominazioni posticce per quanto usata e abusata, è sicuramente una forzatura linguistica. Più giustificabile l’uso del termine frisella, che trova una ratio nel sollevare i non salentini dal difficile e spesso impossibile impegno di pronunciare il ddhr, suono cacuminale (invertito), caratteristico dell’idioma salentino, la cui  verifica di una perfetta pronuncia è più efficace di un test del D.N.A., infatti per pronunciare alla perfezione questo suono bisogna arcuare all’indietro la lingua ripiegandola su se stessa, un’operazione che richiede un allenamento sin dalla primissima infanzia. Oscura la loro origine, probabilmente erano il cibo dei navigatori e dei soldati, qualcuno le vuole originarie della Grecia da dove sarebbero giunte al seguito dei navigatori che pare le usassero come gallette. Sono delle ciambelle senza buco, di farina di grano, o di orzo, cotte intere, poi spaccate e lasciate biscottare nel forno a legna.

Se la loro origine è remota quanto incerta, la loro diffusione su larga scala è invece certa, ed è iniziata quando, meno di un secolo fa, con il declino del latifondo, fu incoraggiato nel Salento la costituzione di piccoli poderi dati in beneficio o a riscatto e detti appunto beneficati o binificati. Su questi spesso aridi poderi, i conduttori oltre a coltivare e creare frutteti e oliveti edificavano delle precarie costruzioni a secco trulliformi, i furnieddhi, con tipologie e grandezza variabili a seconda del numero dei componenti della famiglia e del materiale litico rinvenibile sul luogo. In queste costruzioni, i contadini passavano insieme al nucleo familiare, tutta la stagione estiva, lavorando spesso, per un’economia di stretta sopravvivenza e con l’ambito scopo di procacciare le provviste per l’inverno.

La lontananza dai paesi, la precarietà dei mezzi di trasporto e la carenza delle suppellettili e delle strutture necessarie per preparare e cuocere il pane, imposero presto la necessità di trovare un’alternativa, alternativa offerta appunto, dalle mai dimenticate friseddhe, che potevano essere preparate e conservate per mesi nelle “capàse”, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua.

Per le friselle di grano duro e di orzo viene tradizionalmente utilizzato il lievito madre, in ragione di 200-220 grammi per ogni chilo di farina, l’impasto viene allungato lavorandolo sul tavoliere quindi diviso in tratti ognuno dei quali viene a sua volta allungato e riunito a cerchio in modo da formare delle ciambelle senza buco dal diametro oscillante  tra gli 8  e i 15 cm.

Queste, dopo essere state lasciate a lievitare, vengono sottoposte ad una prima cottura in forno di pietra, alla pompeiana, alimentato, secondo tradizione  con ramaglia d’olivo. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale.

Questa operazione deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata, oggi i moderni panifici hanno a disposizione un’ingegnosa macchina appositamente brevettata. Un tempo, ed ancora oggi nella lavorazione casalinga o su piccola scala si effettua con l’ausilio di uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso, nei vecchi forni che cocevano le friselle conto terzi, sovente si utilizzava un filo di balla di paglia (non zincato) ben teso ai bordi di un canestro di canna.

Le friselle, una volta spaccate si differenziano in friseddhre te sutta e friseddhre te susu, immediatamente distinguibili fra loro poiché la prima appare più schiacciata e dura per il contatto avuto con la chianca del forno ovvero con il piano di cottura. La friseddhra te susu, invece, più bella esteticamente, conserva ancora una mezza forma toroidale.

Per una perfetta riuscita queste devono essere spaccate appena sfornate, e poste subito a biscottare, un eccessivo ritardo in questa sequenza provoca la riuscita di fiseddhe ‘mpitruddhate, dure, che si imbibiscono d’acqua con difficoltà e in modo non omogeneo o nnuticuse, cioè che si deglutiscono con difficoltà.

La biscottatura può essere effettuata direttamente nel forno, dopo ovviamente averlo lasciato scendere di temperatura, oppure, nel caso di forni, per così dire, più professionali in una sorta di duomo, ossia un’ampia camera realizzata sopra i forni medesimi.

Dalle friselle, in tempi più recenti, sono state derivate le cosiddette friselline, queste si realizzano utilizzando farina di grano tenero di tipo 0 o 00 e vengono lievitate con lievito di birra; spesso nell’impasto viene fatta rientrare anche una piccola quantità d’olio di frantoio che dona loro un piacevole sapore e un’invitante fragranza.

ph Marcello Gaballo

Uso delle friseddhe

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali ricchi di criddhu o riddhu, che sarebbero i semi ancora avvolti nella loro gelatinosa placenta, cospargerle di origano salentino (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Ciononostante, la riuscita non è sempre garantita poiché, sembrerà strano, ma anche nell’espletazione di queste semplicissime operazioni si possono commettere degli errori ottenendo un risultato insoddisfacente. Facile infatti dire bagnare, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua.

Tutte le metodiche elencate, ed altre che potrebbero aggiungersi sono implacabilmente errate e portano il più delle volte a portare in tavola un prodotto simile ad un pappone informe.

Vi dettiamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento. In questo modo la frisella si manterrà soda e consistente per tutto il tempo necessario a consumarla senza gonfiarsi, provare per credere.

Qualche volta vengono arricchite con altri condimenti come: rucola, peperoni, peperoncini, capperi, caruselle, finocchio marino sott’aceto…in questo caso, in alcuni paesi, vengono denominate friseddhe ’ncapunate.

Sull’argomento rimandiamo ad altri contributi pubblicati su questo sito:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/13/la-frisella-regina-delle-tavole-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/13/indovinello-neretino/

 

Acqua e sale, un fresco piatto salentino

di Massimo Vaglio

Acqua e sale, acquassale, ciallèdda, ciatèdda, cialatèdda, ciardèdda, sono queste alcune delle denominazioni con cui viene appellato un fresco piatto salentino. Si tratta di un’umile preparazione che al pari delle più aristocratiche friselle, costituisce un piatto quasi esclusivamente serale ed estivo, la risposta dei salentini alla canicola spesso insopportabile della loro terra.

A dispetto della sua, estrema semplicità, l’acqua e sale è un’opera d’ arte culinaria che riassume mirabilmente lo stile alimentare di questa subregione: preparare con pochi semplici ingredienti qualcosa di estremamente leggero e salutare, ma allo stesso tempo appagante e gustoso. Un piatto, che in mancanza di termini più appropriati, non ci resta che definire una zuppa rinfrescante, che estingue la sete e fornisce all’organismo sali minerali tanto necessari in climi così caldi.

Inutile dire, che oggi, nell’era del Gatorade, questo piatto ha perso la sua originaria funzione ed anche a causa della maggiore praticità d’uso delle friselle è in forte declino, tanto che rimane pressoché esclusivo appannaggio delle famiglie più tradizionaliste.

Qualche rigo sopra l’ho, giusto per esemplificare, definito una zuppa,
ma zuppa è esattamente la cosa che questo piatto, se ben preparato non
deve assolutamente diventare. Il pane infatti, che è l’ingrediente
base, attraverso un perfetto dosaggio dell’acqua e dell’olio deve, a
differenza del gazpacho andaluso (questo si una zuppa), conservare una
marcata consistenza e allo stesso tempo presentare una voluttuosa
morbidezza. Qualcuno obbietterà che le due caratteristiche sono in
antitesi e a me non resta che rispondere, come mi è capitato di fare
nel descrivere altre arcaiche semplici preparazioni contadine, che per
preparare questo piatto occorre possedere una buona dose di cromosomi
di: massaro, di alàno, di contadino, o di bracciante…  in mancanza di
questo peraltro non raro patrimonio genetico, non vi resta che farvelo
preparare da una brava massaia salentina che ne sia ben dotata e state
sicuri che constaterete le sopraccitate caratteristiche e ne serberete
a lungo il ricordo come un’esperienza gastronomica di non poco conto.
Facile ipotizzare, che questa preparazione, vista la somiglianza con il
gazpacho, sia di origine spagnola, frutto di una contaminazione
culturale avvenuta durante la secolare dominazione aragonese. Potrebbe
rafforzare questa ipotesi la presenza in Spagna della jeringuilla, un
tempo il pasto dei braccianti giornalieri andalusi che costituisce una
versione più semplice di gazpacho, ove gli ingredienti, invece di
essere ridotti in purea, vengono mischiati gli uni agli altri ottenendo
così un risultato molto vicino a quello della nostra acqua e
sale.

Ma torniamo decisamente all’acqua e sale nostrana. Per prepararla occorre il pane di grano duro esclusivo del Salento cotto in uno degli ancora numerosi forni di pietra alimentati con ramaglia di ulivo.
Questo, che deve essere ben raffermo, viene tagliato a cubetti di circa tre centimetri di lato e posto in un piatto reale (questa è la denominazione dei grandi piatti rustici salentini), deve essere irrorato copiosamente d’olio di frantoio e rigirato per bene, quindi bagnato abbondantemente con  acqua fresca che deve essere fatta defluire a filo da una brocca, condito strizzando sopra un bel po’ di pomodorini indigeni ricchi di semi e aggiungendo cipolla Barlettana cruda tagliuzzata, precedentemente messa qualche ora ad attutire l’
acredine in aceto di vino, origano e sale. Si rimesta quindi il tutto e
si serve. Si può completare con l’aggiunta di origano, capperi, rucola.
Come spesso avviene, esistono numerose versioni da quelle più arcaiche,
precolombiane, insaporite solo con cipolla e origano a quelle più
recenti, decisamente molto più ricche, ove possiamo trovarvi inseriti
peperoni cornetti verdi, peperoncini piccanti, meloncelle, finocchio di
mare o caruselle sottaceto, sott’oli e sott’aceti vari.

Una versione molto semplice si faceva in quasi tutte le famiglie in occasione della preparazione casalinga della salsa, e prevedeva come condimento solo lu
criddhru o riddhru, ossia i semi dei pomodori ancora avvolti nella loro
placenta, recuperati  durante una fase della preparazione della salsa.
Questi, venivano semplicemente conditi con olio, sale e aromatizzati
con spicchi d’aglio fresco contusi, quindi aggiunti copiosamente all’
acqua e sale. Come avrete notato, sono stato costretto a coniugare
quest’ultimo periodo al passato, infatti, la salsa nelle famiglie si fa
sempre di meno e ove la si continui a fare, i pomodori che vengono
utilizzati, meraviglia del progresso, non hanno più lu criddhru.

Comunque si andranno ad evolvere la società ed il gusto, ad immortalare
ad imperitura memoria l’acqua e sale, resteranno gli splendidi versi di
questo, grande poeta salentino:

L’acqua e sale
Ci si fita cu ffazza
l’acqua e sale
co queddhra ca facìa lu tata mia…!
parìa ’nu patre ca
sta cunsacrava
nu sacerdote ca messa ticìa:

spizzàa lu pane ’
mpruscinutu e tuestu
’ntra lu piattu minzanu lu punìa
poi ’nci spandìa
ti sobbra sale e prestu
l’acqua filandu ti lu qualu issìa;

russi li pummitori a ddhoi spaccava
stringìa lu criddhru e intra lu mintìa
cu lu tìscitu l’uegghiu mmisurava
quarche stizza ti citu puru scia.

Mo’ no’  ’ndi saggiu cchiù ti ddhri sapuri
no pare veru, ma ci vo pinsandu
scopru ca ddhr’acqua e sale mi sapìa
ti cuntintezza e di llavoru tantu
Elio Marra

l’acqua e sale

di Massimo Vaglio

Acqua e sale, acquassale, ciallèdda, ciatèdda, cialatèdda, ciardèdda, sono queste alcune delle denominazioni con cui viene appellato un fresco piatto salentino. Si tratta di un’umile preparazione che al pari delle più aristocratiche friselle, costituisce un piatto quasi esclusivamente serale ed estivo, la risposta dei salentini alla canicola spesso insopportabile della loro terra.

A dispetto della sua estrema semplicità l’acqua e sale è un’opera d’arte culinaria che riassume mirabilmente lo stile alimentare di questa subregione: preparare con pochi semplici ingredienti qualcosa di estremamente leggero e salutare, ma allo stesso tempo appagante e gustoso. Un piatto, che in mancanza di termini più appropriati, non ci resta che definire una zuppa rinfrescante, che estingue la sete e fornisce all’organismo sali minerali tanto necessari in climi così caldi. Inutile dire, che oggi nell’era del Gatorade, questo piatto ha perso la sua originaria funzione ed anche a causa della maggiore praticità d’uso delle friselle è in forte declino, tanto che rimane pressoché esclusivo appannaggio delle famiglie più tradizionaliste.

ph Angelo Arcobelli
ph Angelo Arcobelli

Qualche rigo sopra l’ho giusto, per esemplificare, definito una zuppa, ma zuppa è esattamente la cosa che questo piatto, se ben preparato non deve assolutamente diventare: il pane infatti, che è l’ingrediente base, attraverso un perfetto dosaggio dell’acqua e dell’olio deve, a differenza del gazpacho andaluso (questo si una zuppa), conservare una marcata consistenza e allo stesso tempo presentare una voluttuosa morbidezza. Qualcuno obbietterà che le due caratteristiche sono in antitesi e a me non resta che rispondere, come mi è capitato di fare nel descrivere altre arcaiche semplici preparazioni contadine, che per preparare questo piatto occorre possedere una buona dose di cromosomi di: massaro, di alàno, di contadino, o di bracciante…  in mancanza di questo peraltro non raro patrimonio genetico, non vi resta che farvelo preparare da una brava massaia salentina che ne sia ben dotata e state sicuri che constaterete le sopraccitate caratteristiche e ne serberete a lungo il ricordo come un’esperienza gastronomica di non poco conto. Facile ipotizzare, che questa preparazione, vista la somiglianza con il gazpacho, sia di origine spagnola, frutto di una contaminazione culturale avvenuta durante la secolare dominazione aragonese. Potrebbe rafforzare questa ipotesi la presenza in Spagna della jeringuilla, un tempo il pasto dei braccianti giornalieri andalusi che costituisce una versione più semplice di gazpacho, ove gli ingredienti, invece di essere ridotti in purea, vengono mischiati gli uni agli altri ottenendo così un risultato molto vicino a quello della nostra acqua e sale.

Ma torniamo decisamente all’acqua e sale nostrana, per prepararla occorre il pane di grano duro esclusivo del Salento cotto in uno degli ancora numerosi forni di pietra alimentati con ramaglia di ulivo.

Questo, che deve essere ben raffermo, viene tagliato a cubetti di circa tre centimetri di lato e posto in un piatto reale (questa è la denominazione dei grandi piatti rustici salentini), deve essere irrorato copiosamente d’olio di frantoio e rigirato per bene, quindi bagnato abbondantemente con  acqua fresca che deve essere fatta defluire a filo da una brocca, condito strizzando sopra un bel po’ di pomodorini indigeni ricchi di semi e aggiungendo cipolla Barlettana cruda tagliuzzata, precedentemente messa qualche ora ad attutire l’acredine in aceto di vino, origano e sale. Si rimesta quindi il tutto e si serve. Si può completare con l’aggiunta di origano, capperi, rucola.

Come spesso avviene, esistono numerose versioni da quelle più arcaiche, precolombiane, insaporite solo con cipolla e origano a quelle più recenti, decisamente molto più ricche, ove possiamo trovarvi inseriti peperoni cornetti verdi, peperoncini piccanti, meloncelle, finocchio di mare o caruselle sottaceto, sott’oli e sott’aceti vari.

Una versione molto semplice si faceva in quasi tutte le famiglie in occasione della preparazione casalinga della salsa, e prevedeva come condimento solo lu criddhru o riddhru, ossia i semi dei pomodori ancora avvolti nella loro placenta, recuperati  durante una fase della preparazione della salsa. Questi, venivano semplicemente conditi con olio, sale e aromatizzati con spicchi d’aglio fresco contusi, quindi aggiunti copiosamente all’acqua e sale. Come avrete notato, sono stato costretto a coniugare quest’ultimo periodo al passato, infatti, la salsa nelle famiglie si fa sempre di meno e ove la si continui a fare, i pomodori che vengono utilizzati, meraviglia del progresso, non hanno più lu criddhru.

Comunque si andranno ad evolvere la società ed il gusto, ad immortalare ad imperitura memoria l’acqua e sale, resteranno gli splendidi versi (che umilmente segnalo), di questo grande poeta salentino:

L’acqua e sale

Ci si fita cu ffazza l’acqua e sale

co queddhra ca facìa lu tata mia…!

parìa ’nu patre ca sta cunsacrava

nu sacerdote ca messa ticìa:

 

spizzàa lu pane ’mpruscinutu e tuestu

’ntra lu piattu minzanu lu punìa

poi ’nci spandìa ti sobbra sale e prestu

l’acqua filandu ti lu qualu issìa;

 

russi li pummitori a ddhoi spaccava

stringìa lu criddhru e intra lu mintìa

cu lu tìscitu l’uegghiu mmisurava

quarche stizza ti citu puru scia.

 

Mo’ no’ ’ndi saggiu cchiù ti ddhri sapuri

no pare veru, ma ci vo pinsandu

scopru ca ddhr’acqua e sale mi sapìa

ti cuntintezza e di llavoru tantu.

Elio Marra

 

Acquasali di http://www.danilomusci.com
danilomusci@gmail.com

La prova più difficile per un rosticciere salentino? arrostire i turcinieddhi

di Massimo Vaglio

 

I turcinieddhi, noti anche come “mboti, “mbuticatieddhi, “mboiacate, “nturtigghiati, gnummarieddhi, “mbrigghiatieddhri, “mbruscatizzi, ecc… si presentano sotto forma di matassine di budelline d’agnello o capretto che rinserrano le frattaglie dello stesso animale precedentemente tagliate in strisce, assortite e avvolte in un lembo di peritoneo.

Sono conditi semplicemente con sale, pepe nero macinato e prezzemolo; più raramente vi si fanno rientrare anche delle scaglie di formaggio piccante o di caciocavallo molto stagionato. Sono sicuramente una delle specialità più diffuse nel Salento e, seppure in sensibile declino, sono comunque davvero

Lumache e chiocciole


di Massimo Vaglio
Spesso ci è capitato di constatare come i salentini, spinti dalla necessità, abbiano con intelligenza imparato a sfruttare tutte le risorse che il territorio offriva loro, anche le più neglette, ricavando il più delle volte anche piatti molto gradevoli tanto che, anche quando sono venute meno le originarie motivazioni, molti di questi piatti si sono continuati a fare, e qualcuno di questi oggi è assurto perfino a prelibato piatto dei giorni di festa.Amplissimo il panorama dei prodotti spontanei sapientemente valorizzati dalla grande cultura gastronomica coniugata allo spiccato

Ricette salentine con le cipolle

 

di Massimo Vaglio

 

Cipolle Barlettane ripiene

Scegliete delle cipolle della varietà salentina appellata Barlettana di dimensioni piuttosto grosse e quanto più possibile omogenee, nettatele e cuocetele a metà cottura in acqua salata. Sgocciolate, fatele raffreddare, tagliatele nella parte apicale in modo da ottenere una specie di coperchio e vuotatele di una buona porzione di polpa evitando però di indebolire troppo la loro struttura. Tritate la polpa estratta e mescolatela con del formaggio grattugiato, pangrattato, uova, sale, pepe e olio. Con il composto ottenuto riempite le cipolle, ricopritele con il coperchio di cipolla, ponetele ben serrate in un tegame irroratele d’olio e mettetele a completare la cottura in forno. Volendo potete arricchire la farcitura aggiungendo al composto della carne trita rosolata col olio, sale e aromatizzata a piacere con della noce moscata.

Cipolle rustiche

Nettate delle cipolle Barlettane eliminando le tuniche esterne, praticate un taglio a croce sulla sommità di ognuna di esse onde agevolare la cottura e sistematele ben serrate in una teglia. Irroratele abbondantemente con olio di frantoio, spruzzatele d’aceto, cospargetele di sale e ponetele in forno a temperatura non molto elevata

Papaveri e… paparine

 

 


di Antonio Bruno
Non dirmi che non sai che cosa sono le paparine? Come mai, sei nato e cresciuto nel Salento leccese, le hai mangiate con le olive, le nere olive della cellina e dell’oliarola, e non sai che pianta è quella della paparina? Allora te lo dico io: è il papavero! Non lo sapevi vero? Noi del Salento leccese raccogliamo il papavero in pieno inverno, dicembre – gennaio, quando non ha ancora il fiore, gli tagliamo le radici , eliminiamo eventuali foglie secche, laviamo tutto (adesso mia moglie si arrabbia perchè sostiene che parlo come il Papa ma a fare tutto questo non

I ricci di mare, gustosissima pietanza del Salento

 

 

di Massimo Vaglio

Nel Salento, ma pure in molte altre zone d’Italia, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da retaggio popolare, i commestibili sarebbero, il più delle volte, i ricci maschi, Ma per questa volta non è, come vedremo, una questione di becero maschilismo.
I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina,
deducendo per logica, tale circostanza dal fatto che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, si tratta di due specie ben distinte, rispettivamente Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale, badate bene, la parte che consumiamo, sono

Peperoni ripieni

di Pino de Luca

Tutto comincia con una breve vacanza, può capitare a chiunque che decida di star fuori un giorno, poi gli piace e allunga. E i giorni diventano 4-5.

I tramezzini della partenza hanno lasciato residui … Il pane a cassetta è rimasto scoperto, i pezzettini di formaggio da tavola lasciati nel frigo senza protezione alcuna, i peperoni appena comprati rimasti nello scomparto delle verdure ….

Al ritorno il pane è diventato duro, i piccoli pezzi di formaggio hanno il bordo tagliente, i peperoni si sono ammosciati.

E la sera del ritorno un caro amico ti ha invitato ad una eccellente grigliata alla quale non puoi sottrarti. Ed eccoci, la mattina dopo con questi resti. Rifiuti? Ma nemmeno per sogno!!! Bastano  latte, uova e un po’ di fantasia.

Ritaglia e grattugia i bordi del pane mentre la mollica è a bagno nel latte. I formaggi grattugiali per bene e le uova sbattile. Strizza la mollica e uniscila alle uova e poi aggiungi anche il/i formaggi(o) grattugiati/o fino ad ottenere un bell’impasto sodo, aromatizza con una grattata di noce moscata e lascia da parte.

Adesso è arte. Un bel pennello e pittura l’interno dei peperoni privati di picciolo, semi e fili con una salsina fatta di OEVO, sale e polvere di peperoncino ben emulsionati.

Deposita sul fondo del peperone una foglia di basilico e qualcuna di prezzemolo e farcisci con l’impasto. Spolvera la parte superiore del peperone con le briciole delle croste e disponi in una teglia su carta da forno. Fai cuocere per una quarantina di minuti a duecento gradi. Servire tiepidi e appoggiati sulla parte gratinata.

In ragione della capsaicina presente nel peperone e, soprattutto, nella salsina con la quale hai spennellato l’interno del peperone va scelto il vino di

Papaveri e… paparine

 
ph R. Schirosi

Il Salento leccese “Papa – ver” e “Papa – rine”


di Antonio Bruno
Non dirmi che non sai che cosa sono le paparine? Come mai, sei nato e cresciuto nel Salento leccese, le hai mangiate con le olive, le nere olive della cellina e dell’oliarola, e non sai che pianta è quella della paparina? Allora te lo dico io: è il papavero! Non lo sapevi vero? Noi del Salento leccese raccogliamo il papavero in pieno inverno, dicembre – gennaio, quando non ha ancora il fiore, gli tagliamo le radici , eliminiamo eventuali foglie secche, laviamo tutto (adesso mia moglie si arrabbia perchè sostiene che parlo come il Papa ma a fare tutto questo non siamo noi, né io con il plurale maiestatis, ma lei al singolare) e mia moglie prepara! E come non ricordare quello che tutti abbiamo detto da piccoli: Mamma dammi la pappa; infatti il termine Papaver deriva dal latino papo (= pappa) o da una parola celtica con il medesimo significato.

Pare che il papavero rosso sia originario delle regioni medio – orientali e che sia comparso in Europa con l’introduzione delle colture di cereali.

Pasqua a tavola

di Paolo Vincenti

E dopo Carnevale, venne Quaresima. Iniziano, con il Mercoledì delle Ceneri, i lunghi quaranta giorni di penitenza e di preparazione alla Pasqua,  l’evento religioso più sentito dalla comunità dei fedeli e uno degli appuntamenti  più importanti del calendario cristiano.

E’ curioso come, in questo lungo periodo, che dovrebbe essere di purificazione e di “austerity”,  facciano invece la loro comparsa, nei bar e sulle tavole di casa, le più gustose leccornie, come gli agnelli di pasta di mandorla, le colombe e soprattutto le uova di cioccolato. Ma, a dire il vero, la presenza di queste specialità, che deliziano il palato di grandi e piccini, non è poi tanto strana, se si va a fondo per comprenderne le matrice simbolica e religiosa.

Gli agnelli di pasta di mandorla, infatti, richiamano proprio l’Agnus Dei,  l’Agnello di Dio della religione cristiana. Le colombe sono  un chiaro rimando allo Spirito Santo, rappresentato da sempre sotto forma del bianco uccello, simbolo di pace e di purezza.

All’inizio, le colombe erano solo di pasta di mandorla, ma poi è stata prodotta anche la colomba di cioccolato e farcita delle creme più varie.

Il nostro dolce pasquale più conosciuto, fino a qualche tempo fa, era in assoluto la “scarcella”, un pane fatto con zucchero, farina, uova e vaniglia, che assumeva le forme più disparate. Queste forme avevano tutte dei significati particolari, come un cesto, un animale, o come una bambola o un pupazzo per i bambini. A completare questo dolce, un uovo crudo, nel centro, fissato con una croce di pasta.

Un po’ più ampio il discorso che riguarda le uova pasquali.  L’uovo è un simbolo di fecondità; dall’uovo inizia la vita ed è chiaro il riferimento alla

Come cucinare il lampascione, il re dei bulbi

di Massimo Vaglio

L’estrema versatilità gastronomica, del lampascione, ma soprattutto la straordinaria combinazione fra le sue singolari peculiarità olfattive e le complesse ben dosate caratteristiche organolettiche, lo rendono, a dispetto della sua larga diffusione nei ceti più popolari e nei menù delle bettole paesane, un prodotto molto elegante.

Il loro gusto, che possiamo descrivere: dolceamaro con retrogusto erbaceo e dall’aroma vagamente muscarino, li rende dei bulbi ripetiamo organoletticamente eleganti ed estremamente interessanti e se, com’è auspicabile, incontreranno l’estro dei grandi cuochi, non potranno che assurgere a nuovi fasti divenendo dei protagonisti d’eccellenza della nostra gastronomia.

Nella quasi totalità dei casi i lampascioni, prima di essere sottoposti a cottura, devono essere nettati, privando i bulbi dell’apparato radicale, della parte aerea, se ancora presente, e delle tuniche più esterne. Devono essere quindi lavati diligentemente sotto l’acqua corrente e, per divenire commestibili, devono essere obbligatoriamente cotti.

Quasi tutte le ricette che li interessano prevedono una loro preventiva lessatura; questo fra i vari metodi di cottura, resta quello più consigliabile in quanto li rende più digeribili. Anche questa semplice operazione richiede però degli accorgimenti, anche se minimi.

I lampascioni, a seconda del terreno dal quale provengono, possono essere più o meno amari come pure più o meno teneri. Nel primo caso si potrà ovviare all’inconveniente ponendoli a bagno in acqua fredda dopo averli nettati e provvedendo a cambiare l’acqua almeno due volte al giorno per un periodo massimo di due giorni; di norma è sufficiente tenerli a bagno la nottata antecedente al giorno di cottura.

Nel caso invece ci si trovi davanti a lampascioni molto restii alla cottura, cosa che generalmente si verifica in lampascioni provenienti da terreni molto calcarei, un rimedio può essere quello di lessarli in acqua piovana, cosa che un tempo era facilissimo procurarsi, in quanto quasi tutte le abitazioni erano munite di una cisterna che la raccoglieva affidandone la potabilità ad una vorace e vigile anguilla cui era affidato il compito di divorare insetti, limacce e larve che fossero accidentalmente caduti dentro. Oggi, l’oggettiva difficoltà a procurarsi l’acqua piovana, impone, alla bisogna, il ricorso ad una punta di bicarbonato di sodio aggiunta all’acqua di cottura e il risultato è assicurato lo stesso, anche se potrebbe annullare alcuni principi vitaminici.

Comunque regola fissa rimane quella di sottoporre i lampascioni ad una lessatura non tumultuosa, ma regolando la fiamma al minimo appena l’acqua comincia a bollire, in questo modo i lampascioni cuoceranno prima, in modo completo e soprattutto rimarranno integri.

(continua)

 

 

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