Carpignano Salentino. Il Santuario della Madonna della Grotta

Carpignano Salentino (Le), Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), veduta d’insieme del fianco sud-ovest rivolto verso il paese – (ph Sandro Montinaro)

Carpignano Salentino, 2 luglio 1568. Il Santuario della Madonna della Grotta, un prezioso scrigno di fede e di arte del Salento

 

di Sandro Montinaro

Se i primi di luglio vi capita di passare per Carpignano Salentino non perdete l’occasione per rendere omaggio alla Madonna della Grotta e visitare l’omonimo santuario, eretto nel XVI secolo, appena fuori paese, in contrada Cacorzo, sulla strada che porta a Borgagne.

La tradizione orale, trasmessa fino ai nostri giorni, vuole che il 2 luglio del 1568 al vecchio Frangisco Vincenti, detto Lo Pace – effettivamente vissuto – rifugiatosi per un temporale in una delle grotte presso Cacorzo, apparve in sogno una bella signora con un bambino in braccio che gli disse:

 Io sono la Madre di Dio e questo è il mio figlio diletto.

Qui in questa grotta, io voglio tempio ed altare, ove sia invocato il nome mio: prometto protezione.

Il giorno seguente fra le macerie della grotta, nei pressi fu ritrovata una raffigurazione bizantina della Vergine.

Il contesto in cui si inserisce il nostro santuario, pur se tipicamente salentino, è impreziosito dalla quattrocentesca torre colombaia e dalla presenza di numerose grotte, alcune delle quali trasformate nel corso del tempo nelle utilissime ma desuete neviere.

Sulla cripta, già dedicata a San Giovanni Battista, fu realizzato il nostro santuario per volontà di Annibale Di Capua († 2-IX-1595), allora abate, che una promettente carriera ecclesiastica avrebbe poi portato alla nomina di arcivescovo di Napoli (1579), quindi nunzio a Praga (1576), a Venezia (1577-1578) e in Polonia (1586).

Annibale era figlio di Vincenzo Di Capua, terzo duca di Termoli, e di Maria De Capua, sua nipote, figlia di Ferrante Di Capua e Antonicca Del Balzo (da questi ultimi due era nata anche Isabella, che dopo un matrimonio non consumato con Trainano Caracciolo sposò Ferrante Gonzaga figlio di Francesco II).

Annibale fu dunque amministratore e primo abate, come attesta la bolla di nomina del 1570 tuttora custodita nell’archivio diocesano di Otranto, rilasciata dallo zio Pietro Antonio Di Capua, arcivescovo di Otranto (1536-1578).

Il prelato fece realizzare la costruzione che ancora si vede e la ultimò nel 1575, come si legge sul fregio terminale della facciata principale, in stile rinascimentale, rivolta a nord-ovest. Ma i lavori non furono completati, perché un’altra data, questa volta sul bordo inferiore dell’architrave del portale, riporta 1585, quando finalmente il sacro edificio era stato concluso. Nel frattempo l’abate era diventato arcivescovo napoletano e il presule lo rammentò con l’iscrizione tuttora leggibile incisa sul portale verso sud-ovest:

[H]ANIBAL DE CAP(U)A ARCHIEP(ISCOPUS) NEAPOL(ITANUS) / SUB PON(TIFICE) GREG(ORIO) XIII1579”.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata sud-ovest con il portale barocco del 1579 – (ph Sandro Montinaro)

 

Sull’architrave del portale appose lo stemma personale con le insegne della potente famiglia Di Capua Del Balzo da cui discendeva, ornandolo con una nappa per lato e con il cappello prelatizio, come si addice allo stemma di uno del suo livello. La presenza, dunque, di entrambi gli stemmi è da ascrivere al fatto che il nonno materno, in seguito a questioni ereditarie, aveva ottenuto da Carlo V l’autorizzazione per sè e la discendenza a chiamarsi Di Capua Del Balzo.

Non è chiaro se le maestranze furono le stesse della fabbrica originaria, ma il risultato fu comunque soddisfacente e in stile con i gusti dell’epoca.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata nord-ovest (1575) con il portale del 1585 – (ph Sandro Montinaro)

 

La chiesa a croce latina, dalle linee severe ma eleganti, presenta tre entrate. Insolita la soluzione accanto all’austera facciata principale, con l’accesso al cortile interno sul quale si affacciano il lato della chiesa rivolto a nord-est, il portale d’accesso dalla strada per Borgagne con lo stemma Di Capua e il prospetto dell’abbazia, con un elegante loggiato del secondo ordine che risulterebbe assai vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

La facciata verso sud-ovest, ovvero quella di fronte alla colombaia e rivolta verso il paese, si presenta con particolari architettonici che spiccano dalla lineare e calda facciata: un rosone finemente decorato e un elegante portale barocco con due coppie di colonne sostenenti un architrave.

Nella lunetta superiore è dipinto un affresco ormai sbiadito raffigurante la Vergine con il Bambino.

L’interno non delude. Entrando dalla porta principale le statue in cartapesta di San Francesco d’Assisi e di San Luigi, conservate all’interno di due nicchie, ci accompagnano alla scoperta di questo solitario e prezioso scrigno d’arte che contiene opere di un certo rilievo.

Ai lati della navata, dove prima c’erano gli altari, possiamo ammirare le tele raffiguranti episodi della vita della Madonna, realizzate dal pittore Giuseppe De Donno di Maglie in occasione dei lavori di restauro eseguiti nel 1938; a sinistra: l’Annunciazione, la Visitazione, la Nascita della Vergine e la Presentazione di Gesù al tempio; a destra: l’Incoronazione della Vergine, l’Assunzione della Vergine, la Discesa dello Spirito Santo e Gesù tra i Dottori della Chiesa.

Santuario Madonna della Grotta (XVI sec.), cortile interno, stemma dei Di Capua – (ph Sandro Montinaro)

Degni di nota sono i cinque stemmi riprodotti nelle formelle poste sulle chiavi di volta del santuario.

Dalla porta maggiore il primo a comparire è lo stemma cittadino raffigurante un pino sradicato sormontato da una corona marchesale e affiancato dalle lettere C. P. (probabile abbreviazione di Carpiniani Populus). Non è più leggibile, perché abraso, il secondo stemma, verso il transetto; al centro, tra la volta del transetto e quella della navata principale, appare in bella mostra lo stemma dell’arcivescovo.  Infine, sul lato destro del transetto, vi è l’emblema della casa d’Aragona maldestramente ridipinto, mentre sul lato sinistro quello di Geronimo Bardaxy, governatore della Terra di Carpignano tra il 1560 e il 1570.

Nel transetto si trovano gli elementi più antichi della chiesa, la maggior parte dei quali fatti realizzare nel XVI secolo, come attestano gli stemmi del barone Giovanni Camillo Personè e della sua terza moglie Donata Antonia Paladini, genitori del celebre Diego che tanto risaltò nelle arti cavalleresche, nella poesia, filosofia e musica.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), braccio destro del transetto, affresco di Santa Caterina (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Nel braccio destro del transetto due piccole absidi sono affrescate con le figure di Santa Caterina di Alessandria e delle Sante Apollonia e Irene, mentre quelle diametralmente opposte, raffigurano Santa Giustina, Sant’Orsola e compagne. A sinistra si vede l’altare dell’Incoronazione di Maria Vergine sulle cui pareti laterali restano solo due affreschi di santi eremiti, dei quali uno individuabile come Sant’Onofrio. Più completa è la decorazione pittorica dell’altare opposto, con l’apparizione della Madonna Incoronata con il Bambino a San Giacinto di Polonia, verso i lati Sant’Antonio di Padova e San Diego d’Alcalà.

Rilevante, per fattura e dimensioni, è la tela posta sul fondo del coro, dipinta nel 1601 da Ippolito Borghese, esponente di spicco del manierismo napoletano. La tela raffigurala Madonna tra i Santi Francesco d’Assisi e Francesco di Paola e nella parte inferiore contiene un inserto con il Battesimo di Gesù nel Giordano, forse collegabile con l’originario culto di Giovanni Battista.

Ancora nel transetto due ingressi conducono alla cripta, ubicata sotto il presbiterio, e nei pressi di quello di sinistra una teca lignea (1937) contiene la statua in cartapesta della Madonna della Grotta (1917), che nella prima metà del Novecento i duchi Ghezzi qui trasferirono dal palazzo ducale.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), tela con i santi Pietro e Paolo (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Merita attenzione anche la tela secentesca dei Santi Pietro e Paolo, facilmente riconoscibili per gli elementi iconografici abituali che li accompagnano, oltre che per le quattro scene della vita e del martirio dei santi ritratte nella parte inferiore.

Nella cripta un grande architrave è sostenuto da quattro coppie di colonne doriche e al centro di esso, tra nubi e putti, si staglia ad altorilievo il Padre Eterno, a mezzo busto, con barba fluente, in atto di sostenere il globo terracqueo. Un piccolo altare, riccamente decorato, è anteposto alla miracolosa immagine della Madonna, affrescata su una stele di pietra e protetta da un grata, venerata dal popolo di Carpignano, ormai da 443 anni.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Cripta, Madonna con il Bambino – (ph Sandro Montinaro)

 

Suggestivo è l’incontro in piazza Duca d’Aosta delle statue di Sant’Antonio da Padova e della Madonna della Grotta, durante il quale avviene, in segno di devozione da parte di tutta la cittadinanza, la simbolica consegna delle “chiavi” del paese da parte del Sindaco. Il giorno dopo le cerimonie religiose del 2 luglio, ecco che Carpignano tiene i festeggiamenti civili con pittoresche luminarie e concerti bandistici.

 

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), statua in cartapesta della Madonna della Grotta, autore ignoto, (1917) – (Santino devozionale)

 

 

Bibliografia

E. BANDIERA – V. PELUSO, Guida di Carpignano e Serrano. Testimonianze del passato nella Grecia salentina, Galatina (Le), Mario Congedo Editore, collana “Guide verdi”, 2008.

C. CALÒ – S. MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Martina Franca (Ta), Mario Congedo Editore 2006.

L. COSI [a cura di], Diego Personè, La musica, la poesia, la spada, Lecce, Conte Editore, 1997.

E. BANDIERA, Carpignano Salentino. Centro, frazione, casali, Cavallino (Le), Capone Editore, 1980.

A. LAPORTA, Carpignano Salentino, in Paesi e figure del vecchio Salento, vol. II, Galatina (Le), Banca Popolare di Parabita, Mario Congedo Editore, 1980.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (6/6)

di Armando Polito

È giunto il momento di trarre le conclusioni: la mensola presa in esame simboleggia senz’ombra di dubbio l’Amicizia rivisitata in chiave moderna (vedi motti tradotti), con una raffigurazione sintetica dovuta a motivi tecnici: si fosse trattato di una cariatide e non di una semplice mensola, sarebbe stata certamente più fedele al modello antico.  Da questo punto fermo si dovrà partire qualora si voglia estendere l’indagine ai restanti componenti di questa serie allegorica. E anzitutto, secondo me, l’identificazione successiva dovrebbe riguardare il primo componente della coppia iniziale. Ad intuito direi che proprio questa disposizione a coppie potrebbe tradire una omogeneità tematica, per cui la prima mensola potrebbe anch’essa riferirsi al tema dell’amicizia ed entrambe celebrare l’accoppiata vite e olmo.

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E se la vite non può essere che la seconda figura, chiaramente femminile, la prima sarà l’olmo, chiaramente maschile; un indizio  potrebbe essere ravvisato in quel pezzo di ramo (che in un primo momento, interpretato come un randello, mi ha fatto pensare, in una lettura antitetica della coppia, all’Inimicizia), posato sul cartiglio, sul quale sembra aderire un tralcio che potrebbe essere, stilizzato, di vite, anche se le foglie mi sembrano più vicine proprio a quelle dell’olmo.

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Cosa non darei se fossi in grado di  trasformare tutti questi condizionali in indicativi! Cosa non darei per identificare le restanti figure, anche perché l’impresa appare disperata senza l’aiuto del motto, dettaglio in assenza del quale, onestamente, non sarei giunto alle conclusioni fin qui formulate e, credo, motivate. Eppure, non è azzardato ritenere che l’ingegnere Generoso De Maglie di Carpignano, che tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX trasformò il castello in residenza civile dei Personè (le foto d’epoca in basso, ritrovate nel mio archivio digitale e delle quali, purtroppo, non sono in grado di indicare la fonte, mostrano i lavori in avanzata fase di realizzazione), certamente tenne presente uno o più dei repertori simbologici ricordati. Se questo è accaduto, le ricerche ulteriori non saranno un giocare a mosca cieca …

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E così sono riuscito a chiudere, come avevo iniziato cinque puntate fa, con una banalità. Facile? Sì, ma non quando la cosa, forse, è ricercata …

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

 

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (5/6)

di Armando Polito

L’iconografia tradizionale si arricchisce di ulteriori riferimenti religiosi cristiani nell’immagine disegnata da Gottofr. Eichler junior facente parte della raccolta pubblicata da Giovanni Giorgio Hertel col titolo Historiae et allegoriae, Ausburg, 1758.

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L’Amicizia ricalca il Ripa (che a sua volta, come abbiamo visto, si era rifatto all’Alciato)  ma l’immagine complessiva conterrebbe secondo la didascalia allusioni alla pacificazione tra i fratelli Giacobbe ed Esaù (Genesi, 33). Io ci vedo pure il cieco ed il paralitico che si aiutano a vicenda (visibili a destra) e, nelle tavola in mano al bambino, le tre Grazie,  dettagli che corrispondono alla penultima ed all’ultima rappresentazione testuale dell’Amicizia nel testo del Ripa e la prima a quella iconografica dell’Alciato dal titolo Mutuum auxilium (Vicendevole aiuto) riprodotta di seguito dalla pag. 16 dell’edizione degli Emblemata, uscita a Parigi per i tipi di Christian Weckel nel 1534.

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Insomma, l’ultima immagine del 1758 sembra riassumere tutti i dettagli delle precedenti rappresentazioni; non manca nemmeno il cuore che aveva fatto la sua comparsa in un repertorio addirittura anteriore a quelli fin qui presi in considerazione: Emblemata di Giovanni Sambuco pubblicato ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantin nel 1564; ne riproduco di seguito  la pag. 16 contenente la scheda Vera amicitia.

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Nonostante questo labirinto di superfetazioni in cui è difficile, anche perché il riferimento alle fonti è piuttosto latitante, distinguere l’autenticodall’inventato1, son riuscito con Holcot ad andare a ritroso nel tempo con certezza fino al XIV secolo e, purtroppo senza riscontri,  al V-VI secolo con Fulgenzio da lui citato.  Per quanto riguarda le raffigurazioni antiche nulla ci è rimasto e per completezza, però, va detto che prima ancora che nel Ripa MORS ET VITA e LONGE ET PROPE sono ricordati anche dal Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, la cui prima edizione uscì a Firenze per i tipi di Torrentino nel 1550 (qui cito dall’edizione Giunti, Firenze, 1568, v. VI, pag. 347): Stravagantemente fu poi l’Amicizia, che dopo loro veniva figurata, percio che questa benche in forma di giovane donna, si vedeva havere di frondi di melagrano, & di Mortella, la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste in dosso, in cui si leggeva Mors et vita; & col petto aperto, si che scorgevisi entro il quore si poteva; in cui si vedeva similmente scritto LONGE ET PROPE; portando un secco Olmo in mano da una fresca, & feconda vite abbracciato.

E una conferma temporalmente più vicina a noi si ha pure in quanto si legge in Il Buonarroti, una serie di “quaderni” con articoli di vari autori pubblicati a Roma a cura di Benvenuto Gasparoni  per i tipi della Tipografia delle scienze matematiche e fisiche. Nel quaderno II del Febbraio 1866 in un articoletto a firma del curatore dal titolo La casa di Carlo Lambardo architetto (pagg. 51-53) si legge: … egli (Carlo Lambardo) si fabbricò (a Roma) alcune casette nel rione di Colonna, presso S. Maria in Via. Delle quali una, dove egli si riparava, è ancora in essere, e nell’architrave del portone, scolpito di lettere cave nel traverstino, si legge il suo nome –CAROLUS LAMBARDUS-. Questa, come che piccolina e con pochi ornamenti, sendovi ogni cosa accomodata con arte, e con giudicio, lasciasi guardare con piacere; ed ha due ordini di stanze sopra il basamento, dove da un lato s’apre il portoncino, che volgesi in arco, contrassegnato col n° 50. Sonovi in ciascuno ordine tre finestre, se non che quelle di mezzo sono finte; e nel quadro delle luci si vedono dipinte di buon fresco due figure, tenute in pregio da chi conosce di pittura. Delle quali quella di sotto è fatta per l’Amicizia, che ha nella mano destra un cuore, e si tiene abbracciata con la sinistra ad un albero, cui s’attortiglia una vite, ed una fettuccia le esce dal petto dove è scritto un motto che dice “Longe et prope”.

Lo stesso curatore ci fa sapere che l’architetto morì nel 1620 e, a scoraggiare l’eventuale tentazione che possa cogliere qualche lettore, magari romano,  di individuare questa casa, in nota 1 (la riporto integralmente perché contiene la denuncia di un fenomeno che continua ai nostri giorni) a pag. 53 ecco l’infausto presago messaggio:  Affrettisi chi volesse vedere questa casa del lambardo ancora in piedi, poiché fra pochi giorni sarà atterrata, a quanto si può fare giudicio dal vederla disabitata e lavorarvi dentro i muratori. O quando ci torremo noi questo vitupero da dosso, di distruggere quelle cose, che fanno il grido e la fama della città nostra? La quale non solo di storiche memorie va onorata e degna sopra molte, ma veramente si può dire che dal lato delle arti, sia la scuola e l’esempio del mondo. Se non che continuandoci in questo mal giuoco, non passeranno molte diecine di anni, che a così famos città, non rimarrà che il lustro del nome. Dove qui non mi posso ritenere di ricordare cosa, che mi ha fatto fremere di sdegno: dico del mal governo e del guato che di questi dì si è fatto del palazzetto Amici, già Strozzi, in Banchi Vecchi, delle più belle architetture di Jacopo Sansovino;  dove è stata appiccicata al primo piano una ribalda loggia che lo difforma, e scarpellato di oltre due dita, per racconciarlo, il bugnato rustico del basamento, che ne ha perduto di maestà e di bellezza tanto, che questo solo basterebbe a far testimonio della nostra ignoranza e della nostra ignavia. Ma non intendiamo con queste parole recar onta a quel nobile Signore  che lo fece ristaurare, e vi ebbe bonissima intenzione; se non ch’egli fu mal servito.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 Non a caso la prima edizione dell’opera del Ripa (1593), di cui si è sopra riprodotto il frontespizio, reca il titolo Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, mentre quello dell’edizione uscita a Roma nel 1603 per i tipi di Lepido Facii è Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità, & di propria inventione, trovate, et dichiarate da Cesare Ripa Perugino, Cavaliere dei Santi Mauritio & Lazaro

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (4/6)

di Armando Polito

Volendo andare a ritroso nel tempo va aggiunto che il Ripa nello scrivere la scheda relativa all’Amicizia si rifece pure a quanto aveva scritto Robert Holcot (XIV secolo) nel suo In librum sapientiae regis Salomonis praelectiones CCXIII (cito dall’edizione del 1586, s. e., s. l., pag. 731):

Pictura amoris sive amicitia MORALITAS XXVI. Narrat Fulgentius in quodam libro de gestis Romanorum: quòd Romani verum amorem sive veram amicitiam hoc modo descripserunt, scilicet: quod imago amoris vel amicitia depicta erat instar iuvenis cuisdam valdè pulchri, induti habitu viridi. Facies eius et caput discooperta erant sive nudata, et in fronte ipsius erat hoc scriptum: HYEMS ET AESTAS. Erat latus eius apertum, ita ut videretur cor, in quo scripta erant haec verba: LONGE ET PROPE. Et in fimbria vestimenti eius erat scriptum: MORS ET VITA. Similiter ista imago habebat pedes nudos, etc. SEQUITUR MYTHOLOGIAE EXPOSITIO. Ista imago quae depicta erat ad similitudinem hominis iuvenis, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & sincera amicitia senescere non debet, & per consequens in necessitate non deficere, sed semper iuvenescere, & aeque stabilis esse in principio & in fine. Ista imago habebat caput, & faciem discoopertam, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & amicus sincerus debet esse perseverans non solùm in vita praesenti, sed etiam in morte, quae per fimbriam designatur. Item vestis viridis indicat amicitiam semper debere esse recentem & suavem, nulla que temporis diuturnitate tepescentem, & instar hederae sempere virescere, etc. per omnia tempora & loca inseparabiliter amico adhaerere, etc.

Il testo presenta la ripetizione, probabilmente per errore nella trascrizione dal manoscritto, di un lungo periodo. Ne fornisco la traduzione fedele anche perché tale errore non comporta nessuna conseguenza ai fini della nostra ricerca: Rappresentazione dell’amore o amicizia MORALITÀ XXVI. Narra Fulgenzio in un libro sui fatti dei Romani che i Romani descrissero il vero amore o la vera amicizia in questo modo, cioè che l’immagine dell’amore o dell’amicizia era rappresentata a guisa di un giovene molto bello, che indossava una veste verde. Il suo volto e il capo erano scoperti o nudi e sulla sua fronte c’era questa scritta: HYEMS ET AESTAS. Il suo fianco era aperto così che si vedeva il cuore sul quale erano scritte queste parole: LONGE ET PROPE. E sull’orlo della sua veste era scritto: MORS ET VITA. Inoltre questa immagine aveva i piedi nudi, etc. SEGUE L’ESPOSIZIONE DELLA MITOLOGIA. Questa immagine che era rappresentata a somiglianza di giovane uomo simboleggiava che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si mostrano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non debbono invecchiare, e di conseguenza non venir meno nel bisogno ma sempre ringiovanire ed essere ugualmente stabile all’inizio e alla fine. Questa immagine aveva la testa e il volto scoperti a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si manifestano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e l’amico sincero devono essere perseveranti non solo nella vita presente ma anche nella morte, che è simboleggiata dall’orlo della veste. Inoltre la veste verde indica che l’amicizia deve essere sempre vigorosa e dolce, non intiepidita dal trascorre del tempo e sempre verdeggiante come l’edera e per ogni tempo e luogo essere unita inseparabilmente all’amico etc.

L’etc. che chiude il passo  di Holcot ci autorizza a supporre che lo scolastico dominicano inglese abbia, più che parafrasato, quasi citato (difficile dire se a memoria o meno) Fulgenzio. L’indicazione estremamente generica in quodam libro de gestis Romanorum e il tema trattato mi hanno fatto immediatamente pensare al Mythologiarum libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (V-VI secolo), ma un controllo ha evidenziato nel libro non solo l’assenza del brano in questione ma anche di qualsiasi trattazione del tema dell’amore o dell’amicizia.

E se, ad ogni modo, Holcot si rifece a Fulgenzio, per quanto riguarda la rappresentazione tutte le tavole successive al Ripa si mossero sulla sua scia. Ecco, per esempio, di seguito quella tratta da Jean Baptiste Boudard, Iconologie, Carmignani, Parma, 1759.

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Va pure detto che il motto HYEMS ET AESTAS, che in tutti gli autori fin qui citati è riferito all’amicizia, è un nesso già presente come simbolo dell’alternarsi delle stagioni della vita (perciò MORS ET VITA ne appare una sorta di integrazione) in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.), De lingua latina, V, 10: … omne corpus, ubi nimius ardor aut humor, aut interit aut, si manet, sterile. Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius ver expectat. Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua ( … ogni corpo quando c’è eccessivo calore o umidità o muore o, se sopravvive, è sterile. Ne sono prova l’estate e l’inverno, poiché nell’una l’aria è calda e la spiga si dissecca, nell’altro la natura non vuole lottare con la pioggia e con il freddo e aspetta piuttosto la primavera, Dunque duplice è la causa del nascere: il fuoco e l’acqua).

Andando ancora più a ritroso nel tempo esso è presente nel libro della Genesi, 8, 22, il cui testo nella vulgata suona così: Cunctis diebus terrae, sementis et messis,  frigus et aestus, aestas et hiems, dies et nox non requiescent (In tutti i giorni della Terra il freddo e il caldo, l’estate e l’inveno, la notte e il giorno non verranno meno). Mi ha sorpreso scoprire che a suo tempo la Chiesa respinse l’interpretazione teologica di Emanuel Swedemborg che in Arcana coelestia (1749-1756; la citazione che segue è tratta dall’edizione uscita a Tubingen nel 1833, v. I, pag. 392) scrive: Et aestas et hiems’: quod significent statum hominis regenerati quoad nova ejus voluntaria quorum vices se habent sicut aestas et hiems, constare potest ab illis quae de frigore et aestu dicta sunt; vices regenerandorum assimilantur frigori et aestui, sed vices regeneratorum aestati et hiemi: quod de regenerando ibi actum, hic autem de regenerato, constat inde quod ibi primo loco ‘frigus’ nominetur et secundo ‘aestus’; hic autem primo loco ‘aestas’ et secundo ‘hiems’; causa est quia homo qui regeneratur, incipit a frigore, hoc est, a nulla fide et charitate, at cum regeneratus est, tunc incipit a charitate (“Et aestas et hiems”: poiché significherebbero lo stato dell’uomo rigenerato finché è possibile che le nuove volontà il cui corso procede come l’estate e l’inverno risultino da ciò che è stato detto sul freddo e sul caldo; le vicende dei rigenerandi sono assimilate al freddo e al caldo, ma le vicende dei rigenerati all’estate e all’inverno: ciò che lì è avvenuto del rigenerando, qui (avviene) del rigenerato; risulta perciò che lì in primo luogo è nominato il freddo e in secondo il caldo, qui in primo luogo l’estate e in secondo l’inverno; la causa è che l’uomo che viene rigenerato comincia dal freddo, cioè da nessuna fede e carità, ma, quando si è rigenerato allora comincia dalla carità).

Mi viene il sospetto che quest’interpretazione non piacque per partito preso, dal momento che questo genio poliedrico (si cimentò con ottimi risultati nelle più svariate discipline: dalla matematica alla chimica, dall’anatomia alla filosofia, dalla musicologia all’omeopatia) fu uno dei precursori dello spiritismo …

 

(CONTINUA)

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1 L’atto concreto di cui parla Gregorio (Homiliarium in Evangelia, I, XX) è l’elemosina:  Sed etsi fructum proprium ulmus non habet, portare tamen vitem cum fructu solet, quia et saeculares viri intra sanctam Ecclesiam, quamvis spiritalium virtutum dona non habeant, dum tamen sanctos viros donis spiritalibus plenos sua largitate sustentant, quid aliud quam vitem cum botris portant? (Ma sebbene l’olmo non abbia un proprio frutto suole tuttavia reggere la vite col frutto, perché anche i laici nella santa Chiesa, sebbene non abbiano il dono delle virtù spirituali, mentre sostentano tuttavia con la loro generosità i santi uomini pieni di doni spirituali, che altro sorreggono se non la vite con i grappoli?).

È evidente che Gregorio si è rifatto alla seconda similitudine de Il pastore di Erma.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (3/6)

di Armando Polito

Quello del Ripa, come i repertori di ogni epoca, fu scritto utilizzando fonti che qui tenterò di individuare nello specifico iconografico e testuale.

Non poteva il Ripa non rifarsi al padre dei repertori di simboli, cioè all’Emblemata di Andrea Alciato, pubblicato senza autorizzazione la prima volta ad Augusta nel 1531 per i tipi di Heinrich Steyner, comprendente 104 emblemi; la prima edizione autorizzata uscì a Parigi per i tipi di Christian Wechel nel 1534 e contava 113 emblemi (in basso il frontespizio).

1

 

A pag. 16, in basso riprodotta, c’è la scheda relativa all’amicizia (a fronte la traduzione della parte testuale).

2

Il testo dell’Alciato ebbe, lui vivente, una serie sterminata di edizioni. In quella uscita a Lione per i tipi di Guglielmo Rovillio nel 1948, mentre il testo è identico a quello delle edizioni precedenti, cambia leggermente l’immagine dell’olmo e della vite (foto in basso), adottata anche nell’ultima edizione, lui vivente,  uscita a Lione, ancora per i tipi del Rovillio, nel 1550.

3

L’opera dell’Alciato continuò ad essere pubblicata dopo la sua morte avvenuta, come ho detto, nel 1550, con aggiunte ed integrazioni di altri irrilevanti ai fini di questa indagine.

Quello dell’olmo e della vite è un topos antico che è presente già in Catullo (I secolo a. C.), dove ricorre come metafora dell’amor coniugale1, mentre Orazio (I secolo a. C.) parla genericamente di arbores2 che traggono giovamento dall’accoppiamento con la vite. E questi stessi autori in altri passi ci danno indicazioni più precise sull’essenza allo scopo utilizzata, oltre l’olmo: il platano3 e il pioppo4. Columella (I secolo d. C.), poi, ci darà la graduatoria di tutti i potenziali mariti della vite togliendo dall’insieme delle essenze citate dagli altri il platano ed aggiungendo il frassino5.

Il Cristianesimo farà sua la metafora pagana nella seconda similitudine che Erma (II secolo) ci presenta nel Pastore, un testo che ebbe una fortuna tale che alcuni Padri della Chiesa lo tennero in considerazione come se facesse parte delle Sacre scritture: Mentre passeggiavo per il campo e osservavo un olmo e una vite e riflettevo  su di essi e sui loro frutti, il pastore mi appare e dice: –  Che cerchi in te stesso intorno all’olmo e alla vite? -. Dico: – Cerco di capire, signore,  perché  sono reciprocamente adatti -. Dice: – Questi due alberi costituiscono un simbolo per i servi di Dio-. Dico: – Vorrei conoscere il simbolo di questi alberi dei quali parli -. – Vedi l’olmo e la vite? -. Dico: – Li vedo, signore -.  Dice: – Questa vite porta il frutto, l’olmo, invece, è un albero senza frutto. Ma questa  vite se non sale sull’olmo  non può produrre  frutti in abbondanza mentre giace per terra e Il frutto che porta se non è sospesa all’olmo, lo porta marcio. Quando dunque la vite si attorciglia all’olmo  produce frutto per merito suo e per merito dell’olmo. Vedi dunque che l’olmo dà molto frutto, non meno della vite, anzi anche di più -. Dico: – Come, signore, di più? -. Dice: – Perché la vite sospesa all’olmo dà un frutto abbondante e bello; , giacendo per terra, invece, scarso  e marcio. Questa similitudine  si addice ai servi di Dio, al povero e al ricco -. Dico: – Fammelo sapere, signore, in che modo -. Dice: -Ascolta. Il ricco ha beni ma questi non valgono nulla davanti al Signore; tutto preso dalla sua ricchezza, rivolge pure al Signore un ringraziamento troppo piccolo  e una preghiera, quella che fa,  piccola e debole, non avente la forza di un uomo. Quando dunque il ricco va in aiuto del povero e gli fornisce il necessario, credendo che colui che si adopererà per il povero  potrà trovare la ricompensa da parte di Dio, che il povero è ricco nel ringraziamento e nella preghiera e la sua preghiera presso Dio ha una grande forza, il ricco dunque aiuta il povero in tutto senza titubanza. Il povero, aiutato dal ricco, intercede per lui presso Dio e lo ringrazia per il dono ricevuto; e l’altro ancora si preoccupa del povero perché non si abbandonato nella sua vita; infatti sa che la preghiera del povero è gradita e ricca per Dio. Entrambi dunque compiono un lavoro: il povero fa la preghiera in cui è ricco, quella che ha preso dal Signore e questa rende al Signore per chi lo aiuta e il ricco ugualmente offre senza titubanza al povero la ricchezza che ha preso dal Signore e quest’azione è grande e  gradita per Dio perché ha inteso bene la sua ricchezza e ha lavorato per il povero utilizzando i doni del Signore e ha compiuto correttamente il servizio al Signore. Presso gli uomini  dunque l’olmo sembra non portare frutto ed essi non sanno né comprendono che, se c’è siccità, l’olmo che ha acqua nutre la vite e la vite avendo incessantemente acquaproduce frutto doppio e per conto suo e per conto dell’olmo. Così anche i poveri intercedendo presso il Signore per i ricchi ricolmano la ricchezza di questi e a loro volta i ricchi provvedendo i poveri del necessario riempiono il loro animo. Diventano dunque entrambi partecipi dell’opera giusta. Chi dunque fa questo non sarà abbandonato da Dio ma sarà iscritto nei libri dei viventi. Beati coloro che posseggono e comprendono  che sono ricchi per opera di Dio.6

Probabilmente al Ripa non sfuggì quanto è contenuto nell’estratto di un’orazione tenuta nel 1587 da un certo Aldorfio pubblicata da Filippo Camerario in Operae horarum subcisivarum, sive meditationes historicae, Hoffmann, Francoforte, 1609,  pagg. 196-197: CAPUT LIII. Commendatio et typus amicitiae et concordiae, ac viceversa detestatio discordiae, excerpta ex oratione Aldorfii habita Anno 1587 postridie Petri et Pauli. Temporis et loci ratio praesens postulare, & me monere videtur, mihique materiam suppeditavit, ut amicitiae typum, utputa ingeniosum, & non vulgarem, veluti in tabula, ante oculos proponendum & explicandum, et hac ratione auditores commonere faciendum censuerim, ut diligenter perpendant, quantam vim & utilitatem vera amicitia contineat: econtra quam innumera mala, ea sublata, in locum eius succedat: ut recte Comicus dixerit: Neque falsum neque suave esse quicquam, ubi amor non admiscetur. Pictura autem apud Romanos amicitiae quam tamque Deam , quae a Graecis φιλία appellatur, gentiles inter sua numina collocavere, licet peculiares aras et templa, huic Deae dedicata fuisse, non reperiam antiquitus, talis fuit. Pingebatur puella iuvenis forma, detecto capite, quae erat tunica rudi induta, in cuius fimbria scriptum erat, MORS ET VITA. In fronte, AESTAS ET HYEMS. Latus habebat apertum vique ad cor, & brachium inclinatum, digito cor ostendens, ibi scriptum erat, LONGE ET PROPE. Huius ingeniosae picturae mysteria ita explicari possunt. Forma iuvenilis indicare videtur amicitiam semper recentem, vigore & alacritate florentem, nullaque temporis diuturnitate tepescentem. Nudum caput, ut omnibus pateat, & amicus, nullo unquam tempore, amicum publice suum fateri erubescat. Rude autem indumentum ostendit, ut amicus nulla ardua, extremamque inopiam pro amico subire non recuset: Vita & mors in vestimento scripta indicat, quod, qui vere diligit, usque ad mortem amat, imo etiam post mortem, ut epigramma quoddam monet “ … tales nos quaerere amicos/quos neque disiungat foedere summa dies”. Aestas et hyems, quia in prosperis & adversis aeque amicitia servanda; latus apertum habet usque ad cor, quia nihil amicum celat, sed cum eo omnia communia habet. Brachium inclinat, & digito cor ostendit, ut opus cordi, & cor verbis respondeat, nihilque fictum fucatumve admisceat. Longe & prope scriptum est, quia vera amicitia nullo tempore aboletur, nec locorum intercapedine disiungitur. Hanc statuam & descriptionem amicitiae ideo libentius introducere, & ante oculos proponere volui, cum ea germana soror Concordiae fingatur, eaeque ut coniunctissimae, & a Deo genitae, ut humanis mentibus utilissimae et integris iucundissimae sunt.

La mia traduzione che segue aiuterà il lettore a cogliere agevolmente la dipendenza del Ripa da Aldorfio o, quanto meno, da uno sviluppo, già diventato canonico, del tema7 : CAPITOLO LIII. Elogio ed immagine dell’amicizia e della concordia e, al contrario, condanna della discordia, estratte da un’orazione di Aldorfo tenuta nell’anno 1587 il giorno dopo quello di Pietro e Paolo. Motivi connessi col tempo e col luogo sembrano richiedere e ammonirmi, e me ne hanno fornito l’argomento, come l’immagine dell’amicizia, per esempio ingegnosa e non volgare come nella tavola, da proporre agli occhi e da spiegare, e per questo motivo credo che si debbano esortare gli uditori affinché diligentemente pensino quanta forza e utilità contenga l’amicizia e al contrario quanti mali, quando lei vien meno, subentrano al suo posto. Così giustamente avrebbe detto il Comico8: Non c’è niente di falso o di soave, dove l’amore non si mescoli. Tale fu poi presso i Romani la pittura dell’amicizia che i pagani collocarono tra i loro dei come una dea, quella che dai Greci è chiamata φιλία, sebbene non trovi che anticamente fossero state dedicati a questa dea particolari altari e templi: era dipinta come una fanciulla  giovane di aspetto, col capo scoperto, che era vestita di una rozza tunica sul cui orlo era scritto MORS ET VITA, in fronte AESTAS ET HYEMS. Aveva il fianco aperto e a forza fino al cuore, il braccio inclinato che mostrava col dito il cuore, dove era scritto LONGE ET PROPE. I misteri di questa ingegnosa pittura possono essere spiegati così. L’aspetto giovanile sembra indicare l’amicizia sempre fresca, fiorente di vigore ed energia, che non diventa tiepida per nessun trascorrere del tempo. La testa nuda affinchè a tutti si mostri e l’amico non arrossisca in nessun tempo mai di chiamare (un altro) pubblicamente amico. Mostra poi una rozza veste affinché l’amico non rifiuti di subire per l’amico qualche difficoltà e l’estrema povertà. Vita et mors sul vestito indica che chi ama veramente ama fino alla morte, anzi anche dopo la morte, come ammonisce un epigramma: “ … dobbiamo cercare amici tali che neppure l’ultimo giorno sciolga dal patto”9. Aestas et hiems perché l’amicizia dev’essere mantenuta egualmente nella prosperità e nell’avversità; ha il fianco aperto fino al cuore poiché nulla nasconde all’amico ma ha tutto in comune con lui. Inclina il braccio e mostra col dito il cuore affinché l’opera del cuore e il cuore corrispondano alle parole e non vi si mescoli nulla di artificioso o di affettato. È scritto longe et prope perché l’amicizia non è cancellata da nessun tempo né viene disgiunta dalla distanza dei luoghi. Piuttosto volentieri perciò volli introdurre questa statua dell’amicizia e proporla alla vista, essendo essa rappresentata come sorella germana della Concordia, ed esse come unitissime e generate da Dio, siccome sono giocondissime per le menti umane e integre.       

(CONTINUA)

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1 Carmina, LXII, 51-58: Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo/numquam se extollit, numquam mitem educat uvam/sed tenerum prono deflectens pondere corpus/iam iam contingit summum radice flagellum,/hanc nulli agricolae nulli coluere iuvenci,/ at si forte eadem est ulmo coniuncta marito/multi illam agricolae multi coluere iuvenci,/sic virgo … (Come la vite che nasce vedova nel nudo campo mai s’innalza, mai produce dolce uva ma piegando il tenero corpo per il peso che abbatte ormai con la radice tocca la punta del tralcio, ma se per caso essa è stata unita al marito olmo molti agricoltori l’hanno curata, molti giovenchi, così la vergine …).

2 Odi, IV, 5, v. 30: Et vitam ad viduas ducit arbores (E porta la vita agli alberi vedovi).

3 Carmina, LXIV, 290): non sine nutanti platano lentaque sorore (non senza l’oscillante platano e la flessibile sorella). Il platano è citato insieme con la vite in un’epigramma di Antipatro (Antologia palatina, IX, 231):  Ἆυον μὲ πλατάνιον ἐφερπύζουσα καλύπτει/ἄμπελος ὀθνείη δ’ἀπφιτέθηλα κόμη,/ἥ πρὶν ἐμοῖς θαλέθουσιν ἐνιτρέψασ’ὀροδάμνοις/βότρυας, ἥ ταύτης ὀυκ ἀπετηλοτέρε./Τοῖον μέντοι ἔπειτα τιθηνείσθω τὶς ἐταίριον,/ ἥ τις ἀμείψασθαι καὶ νέκυον οἷδε μόνη (Una vite procedendo a poco a poco nasconde me platano secco; con la chioma altrui mi son ricoperto di fiori io che prima con i miei rami in fiore avevo nutrito i grappoli, io che non meno di lei ero privo di foglie. A sua volta qualcuno nutra tale amica che da sola seppe ricambiare anche un morto).

4 Odi, II, 2, vv. 9-10: adulta vitium propagine/altat maritas populos (… e col tralcio adulto delle viti marita gli alti pioppi).

5 De agricultura, XVI: Vitem maxime populus alit, deinde ulmus, deinde fraxinus (Soprattutto il pioppo fa crescere la vite, poi l’olmo, poi il frassino).

6 Riporto il testo originale dall’edizione a cura di R. Auger, Weigel, Lipsia, 1856, pagine 55-56:

4 prima in nota

5 seconda in nota

 

7 E lo sarà anche dopo. Uno tra i tanti esempi, Francesco di Sales (XVI-XVII secolo); cito da Opere complete, Borroni e Scotti, Milano, 1845,  v. XII, pag. 53:  Voi sapete che l’amicizia è nemica mortale dell’oblio: onde gli antichi quando la dipingevano, mettevano per emblema sopra i suoi abiti: Aestas et hyems, procul et prope, mors et vita: d’estate e di verno, da vicino e da lontano, in vita e in morte; quasi volendo dire che mai non si dimenticava in alcun tempo o di prosperità o di avversità, né dappresso né da lontano, né in vita, né in morte l’affetto verso l’amico.

Da notare che Francesco ha sostituito longe col sinonimo procul.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (2/6)

di Armando Polito

Quando il soggetto da esaminare è come il nostro non si può prescindere da alcuni repertori antichi fondamentali per conoscere il valore simbolico di un’immagine.

Uno di questi è opera di Cesare Ripa (1555-1645): Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi. La prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

1

 

Alle pagine 10-11 leggo: AMICITIA Donna, vestita di bianco, ma rozzamente, mostri quasi la sinistra spalla, & il petto ignudo, con la destra mano mostri il core, nel quale vi sarà un motto in lettere d’oro così: LONGE, ET PROPE et nello estremo della veste vi sarà scritto MORS, ET VITA, sarà scapigliata, & in capo terrà una ghirlanda di mortella, & di fiori di pomi granati intrecciati insieme; nella fronte vi sarà scritto HIEMS, AESTAS. Sarà scalza , & co’l braccio sinistro terrà un olmo secco, il quale sarà circondato da una vite verde. Il vestimento bianco, & rozzo è la semplice candidezza dell’animo, onde il vero amore si scorge lontano da ogni sorte di fintioni, & di lisci artificiosi. Mostra la spalla sinistra, & il petto ignudo, additando il cuore, col motto Longe, & prope: perche il vero amico, ò presente, ò lontano, che sia dalla persona amata, co ‘l cuore non si separa giamai; &, benche i tempi, & la fortuna si mutino, egli è sempre il medesimo, preparato à vivere, & morire per l’interesse dell’amicitia. & questo significa il motto, che hà nel lembo della veste, & quello della fronte. Ma, se è finta, ad un minimo volgimento di fortuna, vedesi subitamente quasi sottilissima nebbia al Sole dileguare. L’essere scapigliata, & l’havere la ghirlanda di mirto con i fiori di pomi granati, mostra, che il frutto dell’amor concorde, & dell’unione interna sparge fuori l’odor soave degli essempij, & delle honorevoli attioni, & ciò senza vanità di pomposa apparenza, sotto la quale si nasconde bene spesso l’adulatione nemica di questa virtù. Dipingesi parimente scalza, per dimostrare sollecitudine, overo prestezza, & che per lo servigio dell’amico non si devono prezzare gli scommodi. Abbraccia finalmente un Olmo secco circondato da una vite verde, acciò che si conosca, che l’amicitia fatta nelle prosperità, deve durar sempre, & ne i maggiori bisogni deve essere più che mai amicitia, ricordandosi, che non è mai amico tanto inutile, che non sappia trovare strada in qualche modo di pagare gli oblighi dell’Amicitia.

Seguono altre tre rappresentazioni dell’Amicizia, tutte senza motto, che così riassumo: 1) una donna, sempre vestita di bianco, con un cagnolino sotto il braccio sinistro, nella destra un mazzo di fiori e sotto il piede destro una testa di morto; 2) le tre Grazie nude che si abbracciano una con una rosa in mano, l’altra con un dado, l’altra con un mazzo di mirto: 3) un cieco che reca sulle spalle un paralitico.

In questa prima edizione non vi sono figure. Di seguito il lettore potrà seguire l’evoluzione dell’immagine dell’amicizia che correderà il testo, sempre lo stesso, delle edizioni successive fino all’ultima vivente l’autore.

2

Riassumendo: i motti che compaiono nella parte iconografica delle varie edizioni del lavoro del Ripa sono LONGE ET PROPE (lontano e vicino) e MORS ET VITA (morte e vita); in quella testuale LONGE, ET PROPE; MORS, ET VITA; HIEMS, AESTAS (inverno, estate). I motti della nostra mensola erano ESTA’/E INVERNO e LA MORTE/E LA VITA. Anche se nelle tavole del Ripa non compare HIEMS, AESTAS e nel nostro dettaglio è assente un  LONTANO E VICINO che sarebbe stato la traduzione di LONGE ET PROPE, non è sufficiente quanto finora messo in luce per affermare che il dettaglio in esame del balcone del nostro castello rappresenta l’amicizia? E poi, l’assenza di un LONTANO E VICINO non è ampiamente giustificato dall’impossibilità di collocarlo a causa della mancanza di spazio che ha costretto l’artista a sintetizzare, con l’ellisse pure del cuore, il canone iconografico indicato (con la destra mano mostri il core, nel quale vi sarà un motto in lettere d’oro così: LONGE, ET PROPE)?

(CONTINUA)

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Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (1/6)

di Armando Polito

1

 

Non è, per fortuna, la segnalazione del degrado di un dettaglio ma la dimostrazione, ove ce ne fosse bisogno, che la lettura non è solo quella che facciamo grazie agli occhi: ne esiste una successiva, quella della mente, ed entrambe sono strettamente correlate: se non ci fosse quella sensoriale, l’altra non potrebbe esistere, ma senza quest’ultima la prima sarebbe un’operazione pressoché inutile, a meno che non si tratti del sottrarci ad una macchina che sta per investirci o ad un concio di tufo che sta per caderci in testa.

Vi pare questa un’affermazione originale e rivoluzionaria? E quest’altra, allora? Non abbandonate  la lettura perché oggi mi sento più in forma del solito a sparare banalità.

Ecco così io stesso mi sorprendo, dopo aver discettato tanto profondamente di lettura, ad affermare che testo nel suo significato più banale è semplicemente uno scritto, da un disegno di legge o un manifesto elettorale ad un trattato filosofico (chissà perché  mi son venuti in mente questi estremi …), da una dichiarazione di guerra ad una lettera d’amore. La parola, però, recupera tutto il suo spessore col significato etimologico [dal latino textu(m), participio passato di tèxere=tessere] per cui testo è tutto ciò che esibisce, più o meno palesemente, un intrico di reciproche dipendenze ed allusioni della cui trama l’arte in particolare e la bellezza e, in ultima analisi, l’intelligenza si giovano.

Tutto ciò che ci circonda, perciò, che sia manufatto dell’uomo (in gioventù l’avrei scritto con l’iniziale maiuscola …)  o creazione della Natura, è un testo alla cui lettura dovremmo sentirci stimolati, con quella umiltà che dovrebbe accompagnarci sempre, specialmente quando tentiamo di percorrere sentieri in cui per nostra formazione culturale non è agevole districarsi.

È ciò che mi accingo a fare col dettaglio nominato nel titolo ripetendo la procedura di ogni comune mortale, cioè leggendolo anzitutto sensorialmente  attraverso un progressivo avvicinamento fotografico (ne approfitto per ricordare che tutte le foto utilizzate allo scopo, meno le ultime due dell’ultima parte che sono, come a suo tempo si vedrà, chiaramente d’epoca, sono mie e risalgono al 2000).

2

 

Il balcone balaustrato è sorretto da otto mensole figurate disposte in coppie. La prima e la seconda coppia da una parte e la seconda e la terza sono equidistanti ma l’intervallo tra la seconda e la terza è leggermente superiore coincidendo con la luce maggiore del portale rispetto a quella delle due finestre. Il dettaglio che qui prendo in considerazione è, a partire da sinistra, la seconda mensola della prima coppia o, è lo stesso, la seconda della serie completa.

3

Chi mi legge a questo punto si starà chiedendo come mai ho concentrato la mia attenzione su questa seconda figura e non sulla prima o sulle altre. La risposta è molto semplice: è l’unica che presenta il motto, elemento di primaria importanza nel processo di identificazione. Esso nel nostro caso consta di due parti; la superiore: ESTA’/E INVERNO, l’inferiore: LA MORTE/E LA VITA.

La speranza è che questo testo sia il punto di partenza per comprendere quello più ampio rappresentato dalla figura e quello ancora più ampio (vogliamo chiamarlo contesto?) rappresentato dall’intera decorazione della facciata che cronologicamente si colloca tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo.

Non mi risulta che questa lettura sia stata tentata da altri e, comunque, chiedo scusa in anticipo per qualche svarione che dovesse suscitare la sacrosanta reazione di qualche addetto ai lavori, che fin da ora autorizzo, nel caso, ad usare pubblicamente tutti i titoli più offensivi a sua disposizione.

(CONTINUA)

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Su due dettagli della decorazione della facciata dell’attuale Municipio (Palazzo Personè) di Nardò

di Armando Polito

Prendo in considerazione per primo lo stemma dei Personè che non poteva mancare proprio su questa fabbrica.

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Esso appare più elaborato di analoghe rappresentazioni presenti in altre.

Ecco, in progressivo avvicinamento, quello sulla facciata di Villa Cristina, oggi Villa De Benedittis progettata  nel 1920 dallo stesso ingegnere, Generoso De Maglie, al quale si deve il rifacimento della facciata del palazzo tra la fine del secolo XIX e gli inizi del successivo.

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Eccone la descrizione: Spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello1.

Proprio il motto (ET PACE ET BELLO) ancora una volta (ma sarà, purtroppo, l’ultima, perché nessun altro dettaglio lo reca, oltre la seconda mensola figurata del balcone, della quale mi occuperò prossimamente) mi soccorre ad andare a ritroso nel tempo. La locuzione è piuttosto inflazionata nella letteratura classica ma, restringendo il campo alle attestazioni in cui non compare come generica determinazione temporale (in pace e in guerra)/strumentale (con la pace e con la guerra), le possibilità residue di derivazione sono due:

1)  da un passo relativo alla guerra tarentina di Lucio Anneo Floro (I-II secolo d. C.), Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo, (I, 13): Sed et bello et pace et foris et domi omnem in partem Romana virtus tum se adprobavit, nec alias magis quam Tarentina victoria ostendit populi Romani fortitudinem, senatus sapientiam, ducum magnanimitatem (Ma in pace e in guerra e fuori e in patria in ogni parte il valore romano allora diede prova di sé né altro che la vittoria tarentina mostrò la forza del popolo romano, la saggezza del senato, la generosità dei comandanti).

2) da un passo di Caio Silio Italico (I secolo d. C.), Punica, III, 134-137: Et pace et bello cunctis stat terminus aevi,/extremumque diem primus tulit: ire per ora/nomen in aeternum paucis mens ignea donat,/quos pater aethereis coelestum destinat oris (E in pace e in guerra per tutti incombe la fine della vita e il primo giorno porta l’ultimo: che il nome proceda in eterno sulle bocche un ardente coraggio lo concede a pochi, che il padre degli dei destina alle celesti contrade).

Essendo poco probabile per motivi temporali che il motto sia stato tratto da quello del recto di una medaglia di Enrico II risalente al 1522 (è la n. 1 della tavola XIII in Trésor de numismatique et de glyptique di M. P. Delaroche e M. C. Lenormant, Rittner e Goupil, Parigi, 1836), in basso riprodotta, ed escludendo l’ipotesi n. 2 per scarsa congruenza con la composizione dello stemma, rimarrebbe la n. 1.

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E i repertori antichi di simboli che tanto mi sono stati d’aiuto nella decifrazione della mensola figurata di cui ho detto prima, che recano? Purtroppo nulla e le uniche testimonianze iconografiche che son riuscito a trovare sono due.

La prima risale al XV secolo ed è contenuta nella carta 17 r di un manoscritto (n. 77 e codice iconografico 424 segnati sulla seconda carta) del XV secolo custodito nella Biblioteca Bavarese di Monaco.

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Qui i contendenti sono due leoni, direi in posizione neutra. Veri protagonisti sono la spada e il ramoscello d’olivo che la circonda.

La seconda immagine, molto più recente, è un’acquaforte di Stefano Della Bella (Firenze 1610 – 1664), irrilevante ai fini della mia ricerca, ma che ho riprodotto in basso per la sua bellezza. Fa parte della serie Divers desseins tant pour la Paix que pour la Guerre (n° 264 nel Stefano Della Bella Catalogue Raisonné,  New York 1971, di Devesme–Massar).

Immagine tratta da http://www.renzocampanini.it/file/opere/della%20bella%20-%20et%20pace%20et%20bello.jpg
Immagine tratta da http://www.renzocampanini.it/file/opere/della%20bella%20-%20et%20pace%20et%20bello.jpg

 

­­­­­­­Dopo questa buca iniziale  cercherò di rifarmi, spero almeno parzialmente, col dettaglio che costituisce la chiave dell’arco del portale.

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A meno che non abbia preso un abbaglio mi pare di riconoscere un arco legato alla faretra e ad una freccia.

Nei dettagli finora esaminati il motto era stata la chiave di volta per un tentativo lettura;  qui lo sarà proprio il dettaglio della chiave dell’arco del portale.

In soccorso, questa volta, mi è venuto il repertorio di simboli di Juan De Borja, Empresas morales, Foppens, Bruxelles, 1680, pagg. 118-119. Si tratta della seconda edizione; la prima era uscita a Praga, in latino per i tipi di Nigrin nel 1581.

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Anziché sobbarcarmi al compito di tradurre dallo spagnolo, preferisco farlo dal latino sfruttando un’edizione del 1697.

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Alla luce di quanto fin qui emerso mi pare di poter concludere dicendo che il simbolo del portale è in perfetta coerenza con il motto dello stemma; il che confermerebbe per quest’ultimo l’interpretazione suggerita dalla prima ipotesi inizialmente formulata, anche se ridimensionata nel suo significato bellico e calibrata su una più generica filosofia di vita.

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1 M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò nostra (edizione di 500 esemplari numerati fuori commercio), Nardò, 1996.

 

Note storiche sul castello aragonese di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente

Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò

di Paolo Giuri

Ricostruendo le vicende del restauro ottocentesco della cattedrale di Nardò sono emersi, contestualmente alle discussioni tecniche e metodologiche, momenti di intima religiosità che aiutano a focalizzare ulteriormente l’attività pastorale di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1888-1908).

Nel 1892 lo stato di conservazione della cattedrale neretina indusse il vescovo ad escludere qualsiasi ipotesi di conservazione a favore di una nuova costruzione su progetto di Filippo e Gennaro Bacile di Castiglione.

L’ultimo rilevante intervento, curato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice (1725) durante il vescovato del fratello Antonio (1708-1736), era stato finalizzato al consolidamento della navata principale, alla realizzazione della facciata e all’adeguamento stilistico dell’edificio, avendo cura di preservare rispettosamente la memoria architettonica[1].

Di fatto, nel corso dei lavori preparatori alla demolizione, su insistenza di Ricciardi e dell’ing. Antonio Tafuri, furono eseguiti alcuni saggi conoscitivi ed inaspettatamente apparvero tracce più antiche.

Ricciardi, persona dotata di una singolare coscienza conservativa[2], non esitò a richiedere l’intervento del competente Ministero della Pubblica Istruzione, nonostante la forte opposizione di alcune rappresentanze cittadine e del progettista. Avvenne cosi l’incontro tra il lungimirante prelato e Giacomo Boni[3], Ispettore presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, incaricato di recarsi a Nardò per esaminare e relazionare sulle inattese scoperte.

navata centrale della cattedrale di Nardò (ph P. Giuri)

Boni osservò accuratamente l’edificio e giudicò la Cattedrale come «l’anello di congiunzione tra le due forme di architettura, la greca e la saracena, che hanno popolato di monumenti le provincie meridionali; essa è pure un prezioso monumento, nobile e severo nella linea, grandiosamente semplice, dei suoi pilastri e delle sue arcate»[4], la cui alterazione non si poteva tollerare.

Con il consenso ministeriale si procedette all’eliminazione delle superfetazioni e lungo la navata maggiore vennero alla luce alcuni dipinti murali trecenteschi, i pilastri e semicolonne con archi a sesto acuto (lato nord) e a tutto sesto (lato sud), l’arco trionfale, le antiche finestre e il tetto a capriate, sino ad allora occultato dal soffitto a cassettoni voluto dal vescovo Orazio Fortunato (1678-1707).

L’ispettore ministeriale fu tra i primi ad osservare attentamente le trentaquattro incavallature e a rilevare le decorazioni policrome e le iscrizioni a grandi lettere gotiche sul lato di alcune travi-catene; i riferimenti espliciti al Principe di Taranto Roberto d’Angiò e all’abate Bartolomeo consentirono a Boni di datare la realizzazione tra il 1332 (anno in cui Roberto assunse il principato) e il 1351 (anno di morte dell’abate), periodo storico confermato anche dai caratteri dell’iscrizione[5].

L’importanza dei rinvenimenti indusse il vescovo ad accantonare il progetto Bacile e ad assegnare all’ing. Antonio Tafuri il compito di redigerne un altro, attenendosi alle prescrizioni di Boni filtrate dall’istituzione ministeriale.

Come azione preliminare, al fine di garantire la staticità architettonica, furono sostituiti i pilastri in pietra leccese a sostegno degli archi a tutto sesto (lato sud della navata maggiore), «schiacciati e deviati» rispetto ai corrispondenti in carparo «solidi e ben conservati» (lato nord)[6]. Seguirono numerosi altri lavori per i quali rimando alla specifica letteratura, ad eccezione dell’intervento per le capriate della navata maggiore, il cui rifacimento fu necessario soprattutto per il pessimo stato di conservazione delle catene, «guaste e tarlate nei punti di appoggio alla muratura»[7].

L’interesse per questa fase di lavori prescinde dalle disamine tecnico-costruttive e si sofferma sulla singolare valenza religiosa e devozionale documentata da una inedita cronaca. Boni, per conto del Ministero, acquistò da Venezia 127 metri cubi di legno di larice (243 travi di cui 190 nuove acquistate dalla ditta Lazzaris e 53 provenienti dai restauri del Palazzo Ducale veneziano), mentre da Taranto pervennero le trentaquattro travi-catene (di metri 10.20) di pick-pine fornite dalla ditta Luigi Blasi e C.

Rimosse le travi policrome[8], il 13 agosto del 1895 si procedette alla messa in opera e il vescovo Ricciardi, come riferisce il documento citato, «accompagnato dal suo Capitolo e Clero, si faceva ad inaugurare la copertura del tetto della nave maggiore della Chiesa con la Benedizione della prima capriata»[9].

Iniziò, dunque, una speciale funzione religiosa solennemente allietata:

«Difatti dopo il canto del Laudate pueri Dominum, del Nisi Dominus custodierit civitatem, del Lauda Jerusalem Dominum, s’intonò l’Ave Maris Stella e si benedisse la capriata dedicandola alla Vergine Santa Maria titolare Assunta in Cielo. E quando l’abile manovra dei carpentieri tarantini sollevava tutta armata ed intera la capriata, si sciolse il Cantico del Magnificat alla Vergine al suono di tutte le campane della Città.

Colla copertura del tempio si fanno voti affinché si abbrevi il tempo che priva la Città della sua Cattedrale, e che si inauguri al più presto la solenne sua destinazione al Culto colla Consacrazione.

Le altre capriate saranno dedicate con questo motto; la seconda: Sancte Michael Arcangele defende nos in praelio; la terza: Sancte pater Gregori esto memor nostra; la quarta: Sancte Antoni ora pro nobis; la quinta: Sancte Sebastiane ora pro nobis; la sesta Sancte Joseph a Cupertino ora pro nobis; la settima: Sancte Joannes Elemosynari ora; l’ottava: Sancte Roche ora; la nona: Sancte Georgi ora; la decima Sancte Quintine ora; l’undecima: Sancte Leuci Martyr ora; la duodecima: Sancte Paule Apostoli; la tredicesima: Sancte Nicolae ora; la quattordicesima: Sancte Martine; santi questi protettori della Città e luoghi della Diocesi.

Le altre venti capriate si avranno il nome delle famiglie benefattrici della Cattedrale, con i nomi celesti del principale di famiglia: quindi la decima quinta capriata avrà il nome: O Emmanuel Salvator noster; la decima sesta Sancta Marianna ora pro nobis; la decima settima Sancte Aloysi ora pro nobis; la decima ottava: Sancte Raymonde ora pro nobis; la decima nona Sancte Ferdinande ora pro nobis; i quali titoli o nomi celestiali corrispondono alle rispettive famiglie di questa cospicua e nobilissima Città di Nardò, cioè alle benemerite famiglie De Pandi-Dellabate, Tafuri, Vaglio, Personè.

Quando si salì la prima capriata, incominciando dall’ingresso maggiore a man destra, si pose una deca di piombo legata con fettuccia celeste, con suggello dall’impronta dello stemma di Monsig. Ricciardi contenente l’effigie del Sacro Cuore di Gesù, della Vergine Santa Immacolata, di S. Giuseppe Patriarca e S. Michele, di S. Benedetto e del Sommo Pontefice regnante Leone XIII.

La Vergine Santa come assistette Monsig. Ricciardi nel salvare dall’ultima rovina già decretata questo suo tempio normanno, così lo compisca a Suo onore e gloria»[10].

Il documento non è datato o firmato, ma quasi certamente il redattore fu testimone dell’evento e «al suono di tutte le campane della Città» condivise con i fedeli neretini la contentezza per l’approssimarsi della fine dei lavori poiché sin dal 1892 la chiesa era stata interdetta al culto e le lungaggini dovute alla scelta delle metodologie appropriate e alle difficoltà economiche avevano accresciuto il desiderio della riapertura.

annullo postale centenario della dedicazione della cattefrale di Nardò (coll. priv.)

La dedica alla Vergine Assunta, titolare della chiesa cattedrale sin dalla fondazione, rinsaldava la devozione della cittadinanza e del clero diocesano due giorni prima della celebrazione ufficiale (15 agosto)[11]; l’intitolazione al patrono civico e ai due compatroni s. Michele e s. Antonio da Padova[12] rinnovava l’invocazione alla santa protezione suggellata dalla presenza simbolica degli altri patroni diocesani riuniti sotto lo stesso cielo ligneo[13].

Con gli eponimi santi sarebbero stati ricordati ed onorati anche i rappresentanti delle famiglie benefattrici che sostennero il completamento del restauro: i fratelli De Pandi-Dell’Abate commissionarono il pavimento e il restauro della cappella di s. Marina, la nobildonna Clementina Personè offrì il nuovo organo e la famiglia Vaglio la balaustra del presbiterio[14].

La deposizione della teca con le sante figure è il documento tangibile a ricordo dell’evento e per una inaspettata similitudine riporta all’antica tradizione di riporre l’effige di un santo, quella del protettore cittadino o al quale si è votati, sulla sommità di un edificio al termine della costruzione come segno di ringraziamento e richiesta di protezione[15].

L’invocazione finale schiude al lettore l’intima preghiera del cronista affinché la santa intercessione, guida e sostegno spirituale per il vescovo, possa sostenere il compimento dell’opera, la cui riconsacrazione (27 maggio del 1900) culminò con la celebrazione pittorica del Maccari nel catino absidale[16].

La cerimonia rientra, dunque, nel processo di evangelizzazione avviato dal vescovo al fine di infondere una pratica religiosa ed una partecipazione cristiana «fortemente sentiti e vissuti senza cedimenti a manifestazioni formali ed esteriori che immiseriscano e svuotino di significato e contenuto spirituale il sentimento religioso»[17].

Non di rado l’intransigenza religiosa coincise con una azione di restaurazione culturale e di recupero della coscienza identitaria, quale presupposto indispensabile per una migliore cultura conservativa. L’acceso confronto sui temi della tutela e della conservazione che il vescovo Ricciardi promosse in città con il conforto di Giacomo Boni fu la conseguenza positiva del nuovo clima intellettuale a sostegno del recupero dei beni culturali[18].


[1] G.B. Tafuri, Dell’origine sito ed antichità della Città di Nardò. Libri due brevemente descritti da Gio. Bernardino Tafuri in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli 1848, 501-508, E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, Galatina 1982, 67-84; cfr. M.V. Mastrangelo, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”, in «Spicilegia sallentina», 2 (2007), 69-76. Per la storia della cattedrale si veda pure B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’Abazia Benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico critico, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1980, I, 199-254; C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già Chiesa Abbaziale di S. Maria Assunta). Nardò, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1985, II, 2, 433-440.

[2] Per il profilo biografico si veda G. Falconieri, Discorso commemorativo di S.E.Rev.ma Mons. Giuseppe Ricciardi per la traslazione della salma nella Cattedrale di Nardò, in «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò», 1 (1955), 61-74; O.P. Confessore, Zelo pastorale e attività civile di Mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1889-1908), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVI (1972), 436-471; C. Rizzo, L’Episcopato di Mons. Giuseppe Ricciardi (1888-1908), in A. Cappello, B. Lacerenza, a cura di, La Cattedrale di Nardò e l’Arte Sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001, 57-64.

[3] Per il profilo biografico si veda E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, Milano 1932, 2 voll.;E. Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), fasc. 1-2, 3-34, 193-224.

[4] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 204

[5] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 219-220.

[6] A. Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, 19.

[7] Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 30.

[8] Il vescovo e Boni si preoccuparono sin dai primi momenti della loro conservazione e fu proposto di impiegarle per la copertura di una sala dell’episcopio e poi per la sacrestia. Ma, nonostante l’approvazione dei progetti dell’arch. Ettore Bernich da parte del Consiglio Superiore di Belle Arti, l’intervento non fu eseguito ed ignota rimane la sorte delle antiche travi la cui esistenza è documentata nel 1936 quando furono ispezionate dai funzionari della Soprintendenza (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 13). Fortunatamente l’arch. Pier Olinto Armanini e il pittore Primo Panciroli copiarono in parte le decorazioni policrome per riprodurle sulle nuove travature (cf C. Boito, G. Ricciardi, G. Moretti, In memoria di P. O. Armanini. La Cattedrale di Nardò. La Cascina Pozzobonello in Milano, Milano 1898; P. Panciroli, Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò, Roma 1904).

Per lo studio iconografico e iconologico delle decorazioni si veda C. Gelao, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi,  «I quaderni dell’Amministrazione provinciale», n. 9, Bari, s.d.; M. Gaballo, Per Visibilia ad Invisibilia. Un bestiario sulle antiche travi, in M. Gaballo – F. Danieli, Il mistero dei segni, Galatina 2007, 21-63. Tuttora nella cattedrale neretina sono visibili solo dodici travi antiche che coprono la volta del presbiterio, mentre una è depositata presso il vicino Seminario (cf M.V. Mastrangelo, La distrutta travatura della Basilica Cattedrale di Nardò. Note tecniche, in Gaballo – Danieli, Il mistero dei segni, cit., 65-72).

[9] A.S.C.N. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Nardò), B. 14, s.d.

[10] Ivi.

[11] Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 508

[12] Sant’Antonio di Padova fu il primo protettore della città poi detronizzato in un periodo non definito da s. Michele Arcangelo. L’origine di questo patronato fu chiarita da G.B. Tafuri: «essendo decaduta la città dal diritto viver cristiano, un giorno verso il mezzodì oscurata l’aria, con tuoni e fulmini diedesi a divedere il cielo irato, e da certe nubi distaccavansi alcuni globi di fuoco, i quali facevan mostra di cascare sopra della città. Atterriti i Neretini di si spaventevole veduta invocaron con fiducia l’aiuto dell’Arcangelo S. Michele. Incontanente si vide quel potentissimo principe Angelico frapporsi fra quelle fiamme, e trattenerle, e dopo poco spazio di tempo il cielo si fece sereno».

I Neretini a ricordo dell’evento fecero coniare una moneta e lo dichiararono protettore della città (Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 346-347). Nel IX secolo il patronato civico passò a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono traslate a Nardò nella seconda metà del VIII sec.. Il coinvolgimento devozionale per il santo Illuminatore subì un forte rinnovamento con il processo di evangelizzazione post-tridentina (mons. Cesare Bovio curò la conservazione della reliquia del braccio in un teca d’argento) e proseguì con i vescovati di Luigi De Franchis (dichiarazione della festa dedicata al Santo il 1 ottobre), Girolamo de Franchis (dedicazione di un altare della cattedrale), Orazio Fortunato (la costruzione del cappellone di San Gregorio sul lato sud della cattedrale e il reliquiario d’argento dorato a braccio) e mons. Antonio Sanfelice (nel 1717 donò alla città il prezioso busto reliquiario). L’intervento salvifico dalla distruzione del terremoto del 20 febbraio del 1743, palesato dal movimento della statua del santo posta sul Sedile della piazza, rappresentò il definitivo suggello del forte legame tra il santo armeno e la città (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 118-120; M. R. Tamblè. Il culto di San Gregorio Armeno a Nardò, in 20 febbraio 1743-1993. 250° Anniversario, 10-14; B. Vetere, Il patronato civico di S. Gregorio Armeno, in «Neretum», 1 (2002), 7-16).

[13] Alliste: San Quintino; Aradeo: San Nicola di Myra; Casarano: San Giovanni Elemosiniere; Copertino: San Sebastiano (solo dall’Ottocento San Giuseppe da Copertino); Felline: San Leucio Martire; Galatone: San Sebastiano; Matino: San Giorgio (dal Novecento, compatrona Madonna del Carmine); Melissano: Sant’Antonio di Padova; Nardò: San Gregorio Armeno (compatroni San Michele Arcangelo e Sant’Antonio di Padova); Neviano: San Michele Arcangelo (compatrona Madonna della Neve); Parabita: San Sebastiano (compatrono San Rocco e solo dal Novecento patrona Madonna della Coltura); Racale: San Sebastiano; Seclì: San Paolo Apostolo; Taviano: San Martino di Tours (ringrazio don Francesco Danieli per le notizie sui santi patroni). Per la cronistoria della Diocesi di Nardò, di Gallipoli e poi di Nardò-Gallipoli (dal 1986) si veda F. Danieli, Nardò-Gallipoli, in S. Palese – L.M. de Palma (a cura di),  Storia delle Chiese di Puglia, Bari 2008, 251-270.

[14] Cf Falconieri, Discorso commemorativo, cit., 68-69; Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 98-111.

[15] Il rito si concludeva profanamente con il “capocanale”, un banchetto di ringraziamento per tutti gli operai che avevano partecipato all’impresa (M. Congedo, Il Capocanale, in «Apulia», IV (dicembre 2005).

[16] Cf A. Cappello – B. Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001.

[17] Confessore, Zelo pastorale e attività, cit., 443.

[18] P. Giuri, Alcuni contributi alla storia del restauro del patrimonio storico-artistico nel Salento, in R. Poso(a cura di), Riconoscere un patrimonio. Storia e critica dell’attività di conservazione del patrimonio storico-artistico in Italia meridionale (1750-1950), Atti del Seminario di studi (Lecce, 17-19 novembre 2006), Galatina 2007, 169.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Carpignano Salentino. Il Santuario della Madonna della Grotta

Carpignano Salentino (Le), Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), veduta d'insieme del fianco sud-ovest rivolto verso il paese - (ph Sandro Montinaro)

Carpignano Salentino, 2 luglio 1568.

Il Santuario della Madonna della Grotta, un prezioso scrigno di fede e di arte del Salento

di Sandro Montinaro

Se i primi di luglio vi capita di passare per Carpignano Salentino non perdete l’occasione per rendere omaggio alla Madonna della Grotta e visitare l’omonimo santuario, eretto nel XVI secolo, appena fuori paese, in contrada Cacorzo, sulla strada che porta a Borgagne.

La tradizione orale, trasmessa fino ai nostri giorni, vuole che il 2 luglio del 1568 al vecchio Frangisco Vincenti, detto Lo Pace – effettivamente vissuto – rifugiatosi per un temporale in una delle grotte presso Cacorzo, apparve in sogno una bella signora con un bambino in braccio che gli disse:

 Io sono la Madre di Dio e questo è il mio figlio diletto.

Qui in questa grotta, io voglio tempio ed altare, ove sia invocato il nome mio: prometto protezione.

Il giorno seguente fra le macerie della grotta, nei pressi fu ritrovata una raffigurazione bizantina della Vergine.

Il contesto in cui si inserisce il nostro santuario, pur se tipicamente salentino, è impreziosito dalla quattrocentesca torre colombaia e dalla presenza di numerose grotte, alcune delle quali trasformate nel corso del tempo nelle utilissime ma desuete neviere.

Sulla cripta, già dedicata a San Giovanni Battista, fu realizzato il nostro santuario per volontà di Annibale Di Capua († 2-IX-1595), allora abate, che una promettente carriera ecclesiastica avrebbe poi portato alla nomina di arcivescovo di Napoli (1579), quindi nunzio a Praga (1576), a Venezia (1577-1578) e in Polonia (1586).

Annibale, figlio di Vincenzo Di Capua, terzo duca di Termoli, e della nipote

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