La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

Il formaggio pecorino del Salento

di Massimo Vaglio

Nel paesaggio delle splendide e importanti produzioni casearie pugliesi la provincia di Lecce assume un po’ la posizione di fanalino di coda, ciononostante difende ancora il primato per quanto riguarda i formaggi pecorini, la cui produzione vanta una consolidata tradizione supportata da un ancora ingente patrimonio ovino.

La produzione è costituita da forme cilindriche del diametro di 20-30 cm con scalzo di 6-12 cm a piatti piani, crosta giallognola che vira al nocciola con la stagionatura, recante l’impronta della fiscella.

Nei primi decenni del secolo scorso nella classifica di gradimento e diffusione fra i pecorini italiani tipici, subito dopo il pecorino romano, il pecorino sardo tipo romano e il fiore sardo, veniva appunto il Maglie-Poggiardo ovvero il pecorino prodotto dalle fiorenti masserie di questo comprensorio, la cui produzione intraprendenti commercianti avevano con successo organizzato, provvedendo allo stoccaggio e alla commercializzazione; la stessa sorte seguivano i non meno validi pecorini d’Arneo anch’essi conosciuti e ricercati in tutti i più importanti mercati.

Ben diversa la situazione attuale. Dall’ultimo censimento dell’agricoltura risulta che nel territorio di Maglie insistono attualmente appena quattro allevamenti ovini, quattro a Scorrano e nessuno nel territorio di Poggiardo e tante antiche masserie, da lungo tempo abbandonate, versano ormai in rovina, tanto nel comprensorio di Maglie, quanto in quello dell’Arneo, ove comunque insistono ancora più di un centinaio di aziende.

Le mutate condizioni socio economiche, e tutta una pur giusta serie di adempimenti e di normative imposte dalla Comunità Europea, specialmente per quanto riguarda l’adeguamento alle norme sanitarie delle aziende, hanno disincentivato molti allevatori a proseguire questa millenaria attività.

Il pecorino di Maglie e il pecorino d’Arneo non presentano sostanziali differenze nella tecnica di produzione da quello prodotto nel resto della regione: il latte crudo di pecora, viene portato, a fuoco diretto, alla temperatura di 36‑37°C, quindi addizionato di caglio liquido di agnello. La coagulazione avviene in 30‑45 minuti e dopo 15 minuti circa di rassodamento, la cagliata viene rotta con uno spino di legno (rùetulu) fino alla dimensione di seme di pisello o poco più, lasciata riposare per qualche minuto, quindi estratta e trasferita in fiscelle di giunco che vengono lasciate spurgare e pressate manualmente per favorite lo spurgo del siero. Qui si rileva la prima differenza tecnica sostanziale: mentre nel resto della regione le forme vengono sottoposte a scottatura immergendole per qualche secondo nella scotta, ossia nel siero caldo a 80‑85°C, quindi sottoposte a salagione a secco e trasferite nei locali di stagionatura, nel nostro caso viene omessa la scottatura e le forme, dopo essere state sottoposte a salagione, invece di essere trasferite nei freschi locali di stagionatura vengono mantenute nel tepore dello stesso locale di lavorazione, detto “merce”, almeno sino al raggiungimento del cosiddetto stadio ceroso (ispessimento della crosta che vira dal bianco candido al giallo carico) evitando persino di tenere la porta aperta  più dello stretto necessario, ciò per evitare la cosiddetta intisciatura, termine mutuato dalla medicina popolare e che sta ad indicare la screpolatura delle forme, un po’ come avviene alle delicate mani dei bambini, se non adeguatamente protette, durante le fredde tramontane invernali.

Ciò che resta di un antico luogo di lavorazione dei formaggi, in una masseria salentina

Ma a conferire le particolari ben distinte e apprezzate caratteristiche organolettiche concorre anche l’inarrivabile sapidità dei pascoli salentini, sferzati dai salsi venti marini e soprattutto la specifica razza ovina.

Il Salento ha infatti una sua razza ovina autoctona, la Moscia Leccese, derivata dall’antico ceppo di razza asiatica, Siriana del Sanson, diffusa nei Balcani sino al Danubio. Le pecore di questa razza, distinguibili per la caratteristica faccia nera, sono di taglia piccola (30-40 kg.), poiché adattate da secoli alla povertà degli aridi pascoli salentini e a resistere all’intossicazione da fùmulu (Hypericum humifusum).

Hanno la caratteristica testa piccola dal muso allungato, mirabilmente adattato a brucare negli anfratti delle rocce, tra le pietre e soprattutto dagli irsuti cespi della gariga e della macchia mediterranea, da cui carni e latte traggono quel di più, indimenticabile, distinguibile anche da chi ha avuto la fortuna di assaporarli solo poche volte.

Queste pecore, riescono a sostentarsi persino brucando le distese di minuscole pratoline (Bellis perennis L.) che imbiancano in pieno inverno anche i più ingrati pascoli rocciosi del Salento, e a ricordarlo anche in questo caso è stato coniato un curioso adagio:

«Quandu esse lu fiuriceddhu,

no nd’hae male lu picurieddhu».

Oggi, purtroppo, le greggi costituite con ovini di questa pregiata razza sono molto poche (tanto che si teme per la sopravvivenza della razza) in quanto sostituite in modo improvvido e spesso ingiustificato con greggi di razza Sarda o Comisana e con greggi costituite da meticci ottenuti incrociando la Moscia con le pecore di razza Bergamasca, che hanno una mole molto maggiore e quindi una prevalente attitudine alla produzione di carne, Queste, sono di contro pessime lattifere e sono animali non ecocompatibili con il nostro ambiente e ovunque si pone lo sguardo, visitando la campagna salentina, sono visibili i danni provocati dalle fameliche fauci di queste bestie alle colture e all’ambiente.

su queste mensole poggiavano le assi di legno su cui si collocava il formaggio per la stagionaturapiano di lavoro per la preparazione del formaggio e mensole per l’appoggio delle assi di legno

Un settore, quello dello della zootecnia salentina, che sconta anni di diffuso disinteresse tanto della parte politica, quanto degli enti e delle associazioni di categoria, snobbato dall’imprenditoria locale che ha preferito esplorare modelli economici nuovi, privi di un retroterra culturale, anziché cavalcare le, collaudate, e perché no, prestigiose, antiche vocazioni agro pastorali del territorio. Con buon senso, si sarebbero potute richiedere le deroghe in materia sanitaria sulla scorta di quanto avvenuto in altri contesti o si sarebbe potuto pensare alla creazione di più razionali caseifici sociali. Quel che certo è che, nonostante tutto, quest’antica e nobile arte continua; ne scaturiscono comunque formaggi ricercati sia per le caratteristiche organolettiche sia per le nuove riconosciute proprietà nutrizionali proprie degli animali al pascolo quali: il basso contenuto di colesterolo, l’elevata presenza di principi antiossidanti e di acido linoleico coniugato, che nei derivati degli animali al pascolo è triplo rispetto a quello contenuto nei derivati degli animali tenuti in stalla.

ariete di proprietà dell’allevamento di Franco Cazzella (ph G. Tortorella)

E’ comunque anche vero che difficilmente potremo più gustare gli stessi formaggi di quando, arrivando per una strada polverosa alla masseria, sotto l’antico portico di conci a vista, si vedevano perfettamente allineate delle strane forme rinsecchite, simili a piccole otri, dall’aspetto repellente e inquietante, che venivano guardate dai visitatori occasionali con diffidenza. Erano gli abòmasi degli agnelli, salati e messi ad essiccare dagli stessi massari per produrre il caglio naturale, peraltro immortalati in un gustosissimo “cuntu” di Papa Cagliazzu.

Il pastore, rientrando con le greggi, portava una fascina di frasche selvatiche con cui alimentava il fuoco sotto il càccamo (caldaia di rame stagnata internamente che serviva per la cagliata). Il tutto avveniva in uno stesso ambiente, nella cosiddetta merce: preparazione, salatura con il sale marino, spesso raccolto direttamente dalle conche delle scogliere, e prima stagionatura sulle assi di legno imbiancate da decenni d’essudazioni saline; il tutto inalterato, come in un rituale che si ripete da centinaia d’anni.

In questi ambienti, di un candore abbacinante per le frequenti imbiancature a calce ma quasi asfittici, perché muniti spesso solo di anguste feritoie schermate da fitte reti, e sovente fumosi, i formaggi acquisivano un’ aroma particolare, forse anche una blanda affumicatura che conferiva quel di più, quel particolare…

E se è vero che le grandi specialità si ottengono con la riproduzione meticolosa di tanti piccoli dettagli, ho fondati motivi per ritenere che tali sapori appartengono purtroppo ormai inesorabilmente al passato.

 

 

 

 

 

I formaggi della pecora Moscia Leccese

 

gregge di Franco Cazzella (ph G. De Filippi)

 

di Franco Cazzella

Nel periodo dei Romani, a colazione si predilige la “melca”, cagliata leggera e fresca al palato, ricavata acidificando il latte con aceto e aromatizzata con salvia, cipolla e porro.
Diffusissimo il consumo di formaggi freschi crudi o impastati con erbe spontanee o con miele; quest’ultimo entra nella preparazione di crocchette dolci e torte rustiche diventando una sorta di lievito.
A chi accusa i primi sintomi di vecchiaia Plinio consiglia di cogliere fiori di pesco, malva, fragola, primula e vulneraria, di porli in una scodella e di condirli con due cucchiai di latte cagliato: un dessert che, mangiato tutti i giorni in primavera, rallenta l’invecchiamento del corpo e della mente.

Lo storico Girolamo Marciano (1571 – 1628) nel suo Descrizioni, origini e successi della Provincia d’Otranto, elenca già i formaggi che oggi sono prodotti come quei tempi: la marzotica, la ricotta forte  …detta volgarmente uschiante, per il sapore alquanto mordace che contrae nella confettura, che non si fa in altro luogo d’Italia...

Ne riporta con precisione il metodo di preparazione e gli utilizzi gastronomici e le riconosce persino proprietà terapeutiche: …giova molto allo stomaco, ed è gratissima al gusto, provoca l’appetito, reprime il vomito, e stringe il flusso del ventre, uccide grandemente i vermi, e posta sulle piaghe verminose, ne fa subito cadere i vermi, genera sangue e nutrisce molto.

La menzioneranno nei loro testi anche V. Corrado (1738 – 1836) e G.B. Gagliardo (1758 – 1826) che nel suo Catechismo Agrario (1793), dà anche alcune dritte sull’uso della ricotta fresca e sul modo di ricavarne da questa “la manteca”, ossia il burro di ricotta.
Per Carlo Salerni, fondatore insieme a G. Palmieri dell’Accademia degli Speculatori (Lecce, 1775 – 1783), fautore dello sviluppo economico e culturale di Terra d’Otranto:

…Ottimi sono i nostri latticini e quandocchè fussero ben apparecchiati, aver dovriano i formaggi al pari de’ più ricercati di Europa, eccellenti…

E’ assai pregiato il cacio del Capo detto di Maglie, e quello delle parti di Taranto chiamato cacio-ricotta è assai acconcio per condire i cibi. L’ottima qualità delle nostre ricotte salate, è soprattutto di quelle che, per essere fatte nel mese di marzo, diconsi marzotiche, son saporose e grasse a segno che non ci par di potersi desiderare cosa di meglio.
Nel dialetto salentino è proprio il verbo cuvernare, governare, avere cura, favorire la stagionatura, stropicciandolo col palmo della mano intrisa di aceto e sale e, di quando in quando, soffregandolo (friculare o stricare), con

La lana e le pelli della pecora moscia leccese

gregge di Franco Cazzella (ph G. De Filippi)


di Franco Cazzella

Vediamo in che modo si possono utilizzare le lane della pecora moscia leccese: nel settore dell’edilizia si potrebbe utilizzare come isolante termico ed acustico e le abitazioni potrebbero essere considerate ecologiche. Un altro modo potrebbero essere i progetti socio-solidali, ad esempio in collaborazione con Istituti Penitenziari femminili per fare prodotti come quelli di una volta tipo tappeti, borse, ecc.
Ho un’idea invece per le sue pelli unica ed esclusiva. Pensiamo al momento magico che sta attraversando il nostro Salento con il movimento culturale della Notte della Taranta: un attrezzo molto importante per la sua musica il tamburello salentino fatto in modo esclusivo di pelle di agnello di “Pecora Leccese” con impresso, oltre il marchio della Tarantola, anche quello della Pecora o del Consorzio di Tutela; un oggetto fatto in varie misure che diventa esclusivo e ottimo gadget pubblicitario rappresentativo del territorio.

In passato e per molti secoli la pelle venne utilizzata per produrre pergamena, conosciuta come cartapecora. Insostituibile supporto per tramandare ai posteri opere che altrimenti sarebbero destinate a svanire nel nulla. Obiettivo è quello di riproporla con stampe e oggetti proponendoli in esclusiva produzione Salentina.

Oltre l’Allevatore quante altre figure professionali coprirebbero il ciclo produttivo del suo allevamento?
Mettiamoci tutti insieme al lavoro uniti in un unico obiettivo, il suo recupero.
Tutti dobbiamo avere una sola passione: COSTRUIRE. Si costruisce prima con il pensiero, ma poi si deve andare oltre la filosofia. C’è un tempo per pensare e un tempo per costruire.

(estratto da BIODIVERSITA’ A RISCHIO DI ESTINZIONE. LA PECORA MOSCIA LECCESE. Futuro- Presente- Passato, Mario Adda Editore 2008)


vietata la riproduzione, tutti i diritti riservati all’Autore.
 

 

 

Ecco i prodotti ottenuti con il latte della pecora moscia leccese

di Franco Cazzella

La tipicità del cacio ricotta vanta un’origine più che centenaria.
Il periodo più adatto è quello che va da giugno a settembre quando le pecore, brucano le stoppie, restuccia, restucciu, contenente sali di potassio e, in ogni caso, prima che rimangano gravide.

Il Gorgoni afferma che è una varietà di cacio “ che si fa nell’estate allorchè le pecore, per essere gravide fanno poco latte. E’ un cacio tenero e molto gustoso, perchè fatto dal cagliato senza che sia separata la ricotta.”

Il latte depurato si versa nell’apposito recipiente adatto alla cottura sul fuoco; un tempo assolveva a questa funzione una caldaia cilindrica, caccavo (nelle varianti di càccavu, càccalu, càccamu), di rame stagnata internamente, mettendola sulla furneddhra, fornello alimentato dal fuoco.

L’accortezza richiesta è di mescolare spesso il latte per circa un’ora e mezza; tuttora si usa un bastone in legno “ruotolo” di fico o di ulivo, con la base simile ad una testa rotondeggiante.
Tolto dal fuoco il latte che abbia raggiunto i novanta gradi, si lascia raffreddare un po’ ad almeno 35 – 37 gradi e si aggiunge il presame cioè il caglio (quagghiu, quaju, quagliu, cagliu), elemento importantissimo senza il quale non si può ottenere il formaggio e che serve a condensare il latte, nonchè ad accelerare la separazione della materia caciosa dal siero. Nel dialetto cagliare il latte si dice quagghiare, quagliare; il cagliato, quagghiatu, quagliatu e casieddhru.
Il quaglio o caglio, scientificamente abomaso è un ventricolo che si trova nello stomaco degli agnelli lattanti; la mucosa possiede un enzima, la renina, dalla miracolosa proprietà coagulante. Molte massaie usano preparare il caglio da sè: puliscono il ventricolo, una sorta di sacchettino contenente pallottoline di latte coagulato, riempiendolo di latte di pecora fresco e di sale, lo legano e lo pongono in un piatto coprendolo con abbondante sale per che si dissecchi. Si usa la quantità desiderata.
Un tempo chi non aveva a disposizione il caglio animale ricorreva a sostanze ugualmente capaci di provocare l’effetto coagulante come il cardo selvatico, il fiore del cartamo e anche con il lattice di un ramo di fico o il picciolo del frutto, dotati di un umore viscoso simile al latte.


Dopo aver sciolto in acqua tiepida un pezzetto di caglio ed averlo colato, lo si aggiunge al latte contenuto nella caldaia, rimestando opportunamente col

Le caratteristiche salienti della pecora moscia del Salento

pecore “sarde” al pascolo tra gli ulivi

 

di Franco Cazzella

La sua storia pone la “Leccese” come pecora a triplice fattori di utilizzo: per il suo latte, per la sua carne e per la sua lana. Da poco ho avuto la conferma che invece il controllo per essere riconosciuta ed iscritta, si misura solo con il quantitativo di latte prodotto.
Secondo me tutto ciò è troppo riduttivo, e vediamo il perchè: nella mia indagine sugli allevamenti ovini in Provincia di Lecce e di Brindisi al di fuori degli allevamenti dell’Associazione Allevatori esiste una popolazione che ha la possibilità di essere recuperata per essere iscritta.

Intanto molti addetti parlano della Moscia Leccese suddivisa in tre taglie, la piccola, la media e la gigante. E’ un grosso errore perchè l’ultimo standard di razza approvato dal Ministero il 22-04-1987 su richiesta dell’Associazione Nazionale della Pastorizia dice: adulti maschi altezza media al garrese 73 cm con coefficiente di variabilità 5,3 %; per le femmine 66 cm con coefficiente di variabilità dello 3,6 %. Pertanto non si deve suddividere per taglie.
Il paragrafo 6) Indirizzo di miglioramento recita:
L’indirizzo produttivo è teso ad esaltare, in soggetti di discreta mole, costituzionalmente robusti, corretti nella morfologia, precoci nello sviluppo e buoni utilizzatori dei pascoli murgiosi, l’attitudine alla produzione del latte e, subordinatamente, della carne.
Il miglioramento, pertanto, è impostato sulla selezione mediante l’accertamento delle capacità funzionali delle pecore nei confronti

Per una storia della pastorizia pugliese. La pecora moscia leccese

 

Ariete di proprietà dell’ allevamento F.Cazzella (ph Giovanni Tortorella)

di Franco Cazzella

 

Basta dare uno sguardo al passato per rendersi conto dell’attenzione che lungo i secoli decine di studiosi hanno dedicato alle pecore e all’allevamento ovino. Questa non è indubbiamente la sede per ulteriori approfondimenti, ma ci corre l’obbligo di citare almeno, fra i tanti autori, Lucio Giunio Moderato Columella, poiché le indicazioni di questo agronomo vissuto ai tempi di Seneca (4 – 65 d. C.) sono per taluni aspetti di un’attualità sorprendente.
Di ovini Columella parla a lungo all’interno del suo monumentale “De re rustica”, un’opera articolata in 12 volumi, che affronta l’attività agricola sotto ogni aspetto. Alla cura del bestiame l’autore spagnolo dedica per la verità numerosi tomi (VI, VII, VIII e IX libro), ma è principalmente nel VII che il pastore diventa protagonista indiscusso della narrazione.
Le pecore – scrive Columella – vengono subito dopo il bestiame grosso, ma se si guardasse all’utile che esse generano, dovrebbero essere al primo posto. Ci offrono protezione ai rigori del freddo e sono la fonte principale di indumenti. E che dire poi dell’abbondante latte e del formaggio, alimenti che saziano non solo la gente di campagna, ma anche le delicate mense dei ricchi.
I consigli dell’Autore continuano a lungo, suggerendo, ai futuri allevatori, di acquistare solo i soggetti più adatti all’ambiente in cui si trova l’azienda. In pianura vanno bene le pecore alte, mentre in una regione non troppo ricca e collinosa (le zone marginali di oggi) occorrono pecore quadrate. Se invece il

Involtini al primitivo

di Pino de Luca

Re Noir.
Sembrerebbe la traduzione di Re Nero fatta da un approssimativo conoscitore del francese o un marchiano errore di stampa per indicare il nome del grande pittore Pierre Auguste.
Magari l’esecuzione di una particolare nota musicale dal timbro cupo. E invece è il nome di un vino, di un primitivo prodotto dalla Pliniana, storica cantina di Manduria. Vino scuro, denso e consistente che accompagna al corpo poderoso un gusto morbido e aromi fini e di grande eleganza.
 
Moscia Leccese.
Non so quanti degli ormai affezionati lettori sianio in grado di interpretare correttamente questa espressione. Non è una contumelia rivolta ad attempata signora del capoluogo salentino né la pronuncia di un bleso della città della Lupa. Si tratta di uno dei patrimoni più importanti da tutelare nell’anno della biodiversità.
La Moscia leccese è la pecora del Salento. Animale di origini antichissime, di poche pretese e grande generosità. Trivalente: buono per latte, lana e carne. Trovo di particolare pregio, per gusto intenso e delicato, le budella degli agnelli. La coratella con la quale si fanno degli straordinari turcinieddhri, gnemmarieddhri (con varie declinazioni) o ‘mboti che dir si voglia.
Papa Gianni, in una canzone molto celebre dei Sud dice: “eni a quai ca sciamu a ddhrai li turcinieddhri no nu li uei, ca nu li uei… “ perché ogni festa che si rispetti profuma l’aria con i turcinieddhri alla brace, tipico “cibo da strada” mediterròneo.
I turcinieddhri si possono coniugare in cucina in modo molto elegante ma anch’esso semplice e di grande effetto gustolfattivo.
Una padella larga, OEVO, alloro, aglio, peperoncino e primitivo di Manduria.
“appuntare” ogni involtino con una foglia di alloro, far soffriggere l’aglio nell’OEVO e levarlo quando è biondo. Mettere quindi a rosolare i turcinieddhri dalla parte scoperta per qualche minuto, quando prendono colore rivoltarli in modo che appoggino sulla foglia di alloro, aggiungere il peperoncino in polvere e regolare di sale, lasciar cuocere un paio di minuti (dipende dalle dimensioni dei turcinieddhri) e aggiungere una generosa dose di primitivo di Manduria (deve coprire le foglie di alloro), lasciar bollire fino a quando il vino non è ridotto ad un terzo.
Con l’apposita pinza prelevare i turcinieddhri e porli in un vassoio da portata sempre appoggiati  sulla foglia di alloro, mettere nella padella con il fondo rimasto una noce di burro e un cucchiaino di farina, amalgamare sul fuoco finché non s’addensa, condire i turcinieddhri con la salsa e servire caldissimo.
Contornare con cuori di sedano al pinzimonio e accompagnare con il Re Noir, che farebbe anche Renero. Come Martin, un caro amico che con i suoi colori racconta splendide storie di vento e di mare, di frammenti e di figure. Ma questa è un altra storia …

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