Seclì: il suo abitante si chiama “seclioto”?

di Armando Polito

 

Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.

Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.

Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.

Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.

Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).     

Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …,  è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).

Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.

Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?

A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.

Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.

È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.

Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate  e corrette alternative.

Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù

Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν  (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo Syllabus Graecarum membranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.

Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro. 

Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).  

Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.

Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).

Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.

Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.

L’area archeologica dell’antica Vereto finalmente soggetta a salvaguardia e conservazione paesaggistica

Il Consiglio Comunale di Patù con Deliberazione n. 2 del 11.04.2023 ha disposto la TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO.

TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO E DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO

Si rende noto che il Consiglio Comunale di Patù ha approvato la Deliberazione n. 2 del 11.04.2023, pubblicata all’Albo Pretorio il 13.04.2023, avente ad oggetto “TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO. DETERMINAZIONI”, con la quale ha stabilito di attivare la procedura prevista dall’ articolo 104 delle Norme Tecniche di Attuazione del PPTR al fine di inserire la perimetrazione dell’area archeologica Abitato antico di Vereto nella cartografia del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) negli “Ulteriori contesti riguardanti le componenti culturali e insediative Testimonianze della Stratificazione Insediativa” attivando, così, la specifica normativa di salvaguardia e di conservazione paesaggistica del PPTR prevista per dette aree.

La delibera e i relativi allegati sono depositati presso l’Ufficio Tecnico Comunale e pubblicati sul sito istituzionale dell’Ente www.comune.patu.le.it.

 

Per tutti gli gli approfondimenti:

dal sito del Comune di Patù:

Mangiare piemontese… A Patù, ovviamente

 

Le Centopietre di Patù (ph M. Gaballo)
Le Centopietre di Patù

di Gianni Ferraris

La strada scorre fra Lecce e Patù.

Là ci stanno le cento pietre, è un monumento funerario utilizzato come mausoleo sepolcrale per Geminario, il generale, uomo di pace, trucidato dai saraceni. Costruita con cento blocchi di roccia presi dalla vicina Vereto, città messapica, divenne poi chiesa. È strano, pensavo, come gli uomini di pace possano morire trucidati da quelli di guerra. Pare una storia infinita.

La strada scorreva ma non siamo andati a vedere le cento pietre, già la conoscevamo. In realtà non abbiamo visto nulla quel sabato sera. Arrivati in piazza c’erano ragazzi che giocavano, alcuni stavano seduti a raccontarsela, come succede in primavera nei paesini, d’estate saranno di più, e ci saranno signore sedute qua e là a raccontarsela. Illuminazione gialla, come si conviene ai centri storici. Pavimentazione in basoli. Il silenzio è quello dei paesi tranquilli del basso Salento, pochissime auto, voci dei ragazzi, voci di noi che parlottiamo aspettando di finire la sigaretta prima di entrare dove dovevamo andare.

“Vieni a Patù? Cucina piemontese” mi ha detto l’amico al telefono. Come rinunciare alla cucina piemontese nel basso Salento?

La Rua De Li Travaj si chiama il locale (la strada del lavoro)  Immediato il pensiero corre ad un antico detto piemontese “scapa travaj ca riv” (scappa lavoro che arrivo io), ovviamente dedicato agli scansafatiche. Il locale è trattoria, la dicitura è “cucina tipica salentina”. Però c’è la signora Fiorina che arriva dritta da Alba, città del tartufo bianco fra Asti e Cuneo. Terra di Langhe e Roero, un tempo poverissima, ne dice Nuto Revelli nel “Il mondo dei vinti” il libro che nessun piemontese dovrebbe ignorare, soprattutto quelli che lanciano strali contro gli immigrati. Intervistò contadini, Nuto, li fece parlare e loro dicevano parole di emigrazione in Francia e non solo. Della povertà e dei pasti fatti di castagne e castagne, polenta e polenta con castagne. Il mito del tartufo sarebbe arrivato dopo. Allora c’erano le ragazze che vendevano i loro lunghi capelli a chi li trasformava in parrucche per signore nobili, ricche, belle.

Città di origine preromane, divenne Alba romana, poi passò attraverso la storia, il Medio Evo, con le sue mura fortificate dalle “cento torri”, divenne giacobina dopo la rivoluzione francese. Poi accolse Napoleone in trionfo. Lui, anticipando altri governi del secolo XXI°, chiese un contributo per le spese militari pari a 123.000 lire dell’epoca. Assurdo, ingiusto, esoso. Alba inviò due ambasciatori a Parigi per trattare una cifra più equa, uno solo tornò, l’altro venne fucilato e divenne eroe (suo malgrado). Inutile dire che dovettero pagare.

Fino ad arrivare alla Resistenza, l’effimera Repubblica di Alba venne raccontata da Fenoglio (I 23 giorni della città di Alba), poi fu medaglia d’oro per il prezioso contributo alla liberazione dal nazi fascismo. Altre libere Repubbliche in altre terre echeggiano, Nardò insegna!

Oggi è famosissima per il miglior tartufo bianco al mondo e per i vini d’eccellenza, nelle sue terre si bevono vini DOC (Barbera, Dolcetto, Nebbiolo) e DOCG (Barbaresco e Moscato). Tradizioni culinarie eccellenti: bagna caoda, Bolliti e bagnet, Agnolotti, Fritto misto piemontese, Bonet, Insalata russa, Brasato e via dicendo.

Fiorina a Patù si è portata tutto il suo patrimonio e si è lasciata contaminare da quello che ha trovato qui. Ha cucinato per noi ottima bagna caoda, agnolotti, bolliti con bagnetto verde, brasato (al negramaro) e bonet. Un tripudio. Tutto mangiato sotto gli occhi attenti di Felice Cavallotti che ci guardava da una foto, e dalle fotografie in bianco e nero appese ai muri, tempi andati di quando c’erano tabacchine e andare da Patù a Lecce era viaggio vero, ci voleva un sacco di tempo.

Il prezzo è stato in linea con la quantità e qualità del cibo, tenendo conto che non è cucina usuale.

Poi di nuovo in strada, di nuovo verso Lecce, con profumi e sapori da ricordare. Pensando senza troppo livore ai casi della vita, ai non salentini che contaminano Salento con le loro conoscenze, la loro musica, le loro parole scritte, volatili, affabili, dure come sassi, o con il loro cibo. Ed il Salento accoglie e guarda, insegna e impara. Abbiamo cenato ed io pensavo ai casi della vita, l’amico medico in Salento per lavoro, campano di nascita e formazione, piemontese con i tentacoli della sua famiglia, il nonno lo era. Io piemontese, per caso in Salento. Altri amici di Lecce Lecce (come si diceva qui per indicare i cittadini), Lecce austera e fiera che diceva “Poppeti” indicando chi arrivava da fuori città, dal Capo forse. E pensavo a Pavese, Fenoglio, a Davide Lajolo, scrittore e parlamentare del PCI, che nel 1977 pubblicò lo stupendo “Vedere l’erba dalla parte delle radici” in cui raccontava di quella notte in cui venne colto da infarto e gli passò davanti tutta la sua vita. Sopravvisse, ne scrisse.

Tutti langaroli e monferrini, figli di quelle terre fatte di colline dolci, sinuose, ora piene di filari, un tempo anche di ulivi in qualche parte. Terra dalla quale si vede l’arco alpino dove il sole tramonta. Campi e lavoro duro. Storia e storie.

Come in Salento, in fondo. E pensavo a chi veniva fin quaggiù a comprare uva per rendere più corposo l’ottimo vino di Langa e Monferrato, agli scambi culturali. Mani che si stringono a distanza di mille Km, occhi che si guardano e imparano a osservare. Profumi di mosto e di finocchio selvatico. E pensavo che è bello, in fondo, conoscere il sapore delle cime di rapa e della bagna caoda, mischiarli nella memoria con i ricordi. Ed è bello bere negramaro con agnolotti piemontesi che fondono due culture. Anche alla faccia dei puristi che forse sapranno di cucina dotta e colta, ma rischiano di scordare l’emozione del lasciarsi contaminare.

Patù (Lecce). Veretum e il finis-terrae

di Stefano Todisco
 
 

Estremità dell’Italia, ultimo porto della Puglia meridionale, Finis Terrae così la chiamavano gli antichi: il confine della terra. Santa Maria di Leuca ed in particolare il santuario ivi fondato rappresenta il sommo limite di un promontorio che si getta tra due mari, l’Adriatico e lo Ionio, l’angolo di roccia che accoglie le onde da oriente e da occidente.

Il promontorio Iapigio detto Finis Terrae
Il promontorio Iapigio detto Finis Terrae

 

Un santuario messapico rupestre e l’inesplorato santuario di Minerva

Questo luogo, secoli prima di Cristo, divenne il posto ideale per ospitare un santuario marittimo, ricovero per i marinai che si spingevano avanti e indietro tra la Messapia (l’antico nome del Salento) e le coste italiche e greche. Sul capo di Leuca si trova Punta Ristola, sede di una grotta (la Porcinara) dove in tempi remoti si svolgevano riti in onore del dio Batas, nume maschile portatore della saetta. (1)

Il promontorio Meliso protegge un fianco della grotta ed accoglie, sulla propria sommità, i ruderi di un muraglione, unico indizio dell’antico insediamento dell’età del Bronzo. Suggestivo accesso alla Porcinara era un piccolo sentiero che tagliava il percorso di un’altra caverna, la Grotta del Diavolo, ove sono stati trovati vasi offerti alle divinità ctonie e marittime; da qui infatti si sente il rumore dei marosi sugli scogli. Superato questo antro si saliva la scalinata, intagliata nella roccia della grotta Porcinara, che permetteva di raggiungere l’acropoli attraversando l’area sacra. Il nome Batas (saettatore) è inciso sulla roccia ed è associato agli ex voto dei naviganti antichi.

L’equivalente di Zeus per i messapi era Zis ma l’aggettivo Batas potrebbe comunque riferirsi alla principale delle divinità, la cui caratteristica era quella di folgorare i nemici.

I fedeli appartenevano a più etnie: in base alla foggia dei vasi rinvenuti, gli attendenti erano indigeni messapi ma anche marinai greci che dedicarono vasi attici pregiati. Su una di queste offerte era incisa la parola “anetheke” (egli ha dedicato). (2)

Altre dediche a Leucotea e a Fortuna sono state rinvenute sulle pareti della grotta. (3)

Spesso si sente parlare del santuario della dea Minerva, costruito nel luogo ove ora è il santuario della Madonna de Finibus Terrae: la notizia, screditata dalle ricerche archeologiche, trova consensi grazie ad un reperto importante e ad una antica notizia.

Il primo è un’ara romana, custodita nella chiesa cristiana e che porta la scritta postuma:

“UBI OLIM MINERVAE SACRI
FICIA OFFEREBANTUR
HODIE OBLATIONES DEIPARAE RECIPIVNTUR”

(Traduzione: “Dove una volta si offrivano sacrifici a Minerva oggi si accettano offerte per la madre di Dio”)

Il secondo è un passo della Geografia di Strabone che cita:

“…dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi; presso di loro si trova il Santuario di Atena,
che un tempo era noto per la sua ricchezza, e lo scoglioso promontorio che chiamano Capo Iapigio,
il quale si protende per lungo tratto sul mare in direzione dell’Oriente invernale,
volgendosi poi in direzione del capo Lacinio…” (3)

Coi dati in nostro possesso è possibile identificare il santuario di Atena con quello di Minerva (stessa divinità, una con nome greco, l’altra in latino) ma non collocabile sotto l’attuale santuario. I greci chiamavano “Akra Iapygia” (estremità, capo, promontorio Iapigio) il capo di Santa Maria di Leuca e la descrizione di Strabone sembra collimare con la geografia dei luoghi in questione.

Il prof. D’Andria ipotizza, nel suo volume “Castrum Minervae”, che il famoso santuario sia da collocare tra Melendugno (fraz. Roca Vecchia) e Otranto (fraz. Porto Badisco), dove la natura dei luoghi potrebbe adattarsi alla descrizione dello storico greco d’età augustea.

 

Patù, l’antica Veretum messapica

Percorrendo per due km la strada che da Santa Maria di Leuca si dirige verso nord, a Patù, è possibile addentrarsi nei piccoli sentieri tra uliveti e vitigni per incappare nei ruderi dell’antico abitato messapico-romano di Veretum, poco noto e di scarso livello dal punto di vista architettonico-artistico ma di un certo interesse archeologico.

Citato sulla Tabula Peutingeriana, compare come estrema località del Salento a dieci miglia da Ugento e a dodici da Castra Minervae.

Veretum - Patù sulla tabula Peutingeriana
Veretum – Patù sulla tabula Peutingeriana

Distrutto nel IX secolo dai pirati saraceni giunti a razziare le coste italiane, Veretum conserva pochissime evidenze antiche ma di chiara matrice insediativa: un pavimento sul banco roccioso mostra alcuni buchi per l’inserimento dei pali di un edificio.

pavimento antico a Veretum
Pavimento antico a Veretum

La chiesetta medievale di San Giovanni Battista è il silenzioso testimone della desolazione del luogo insieme al ben più noto monumento chiamato “Le Centopietre”: si tratta di un piccolo edificio, alto 2,6 metri e misurante 7,2 x 5,5 metri di lato, realizzato con pietre rettangolari riutilizzate dagli edifici dell’abitato pre-cristiano. (4)

Centopietre, esterno
Centopietre, esterno

Centopietre, interno
Centopietre, interno

Centopietre, interno
Centopietre, interno

Centopietre, interno
Interno della Cripta del Crocefisso a Ugento

Si è incerti, ancora oggi, sulla funzione della struttura: monumento funerario messapico o tomba di un cavaliere cristiano? Infatti un tale Geminiano, secondo una leggenda, fu araldo delle milizie cristiane accorse per ricacciare i saraceni e da questi ucciso, contrariamente alle leggi dell’ambasceria.

Sempre secondo il mito, in seguito allo scontro armato che ebbe luogo nell’877 ai piedi della collina di Patù, detta Campo Re, le forze cristiane riuscirono a sconfiggere gli invasori riprendendo il corpo del cavaliere per la sepoltura che avvenne in questo piccolo santuario litico.

Unico indizio certo sono gli affreschi che labilmente si vedono sulle pareti interne, datati al periodo bizantino (XI-XIV secolo).

Entrando nella chiesa di San Giovanni Battista è possibile vedere un cippo con l’iscrizione latina:

M. FADIO M.F.
FAB. VALERIANO
POST MORTEM
FADIVS VALERIANVS PATER
ET MINA VALERIANA MATER
L.D.D.D. (LOCVM DATVM DECRETVM DECURIONVM)

[Traduzione: Fadio Valeriano padre e Mina Valeriana madre, dopo la morte, (lasciarono) il possedimento concesso tramite decreto dei decurioni, a Marco Fadio figlio di Marco e a Fabio Valeriano.]

stele dei Fadii da Veretum
Stele dei Fadii da Veretum

La sua datazione oscilla tra I e II secolo d.C. ed è un ulteriore indizio della vivacità di un centro abitato fino all’età romana, momento in cui fu elevato a livello di municipium. È plausibile pensare che l’acropoli dell’antico borgo sia concentrata nella zona sotto l’attuale chiesetta della Madonna di Vereto, punto apicale della collina che ospita il sito in questione. (5)

Quanto al nome potrebbe collegarsi al greco (6) patos (= suolo, terreno) e non a pathos (= passione, sofferenza) come vuole la leggenda.

Qualche rudere dell’antica cinta muraria si incontra tra la vegetazione che avvolge il luogo. Il modesto successo turistico di questo centro messapico deve il fatto alla mancanza di una metodica ricerca archeologica.

muri a secco a Veretum
M
uri a secco a Veretum

 

Note

  • (1) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, p. 39.
  • (2) ibidem, pp.39, 40.
  • (3) E. GRECO, Magna Grecia, p. 204.
  • (3) STRABONE, Geografia VI, 3, 5-6.
  • (4) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 113.
  • (5) C. DAQUINO, I Messapi e Vereto, pp. 256-257.
  • (6) G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. p. 563.

Bibliografia

  • M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, Novara, 2009.
  • F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, Fasano, 2000.
  • F. D’ANDRIA, Castrum Minervae, 2009.
  • C. DAQUINO, I Messapi e Vereto, Cavallino, 1991.
  • G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. Torino, 1990.
  • E. GRECO, Magna Grecia, Bari, 1980.
  • STRABONE, Geografia, VI, 3.

 

Foto e crediti

Tutte le foto sono state da me scattate, ad eccezione di quelle delle Centopietre e della stele dei Fadii.

Per le fotografie di Veretum:
http://www.lameta.net/blogsalento/?p=294

Per le fotografie de Le Centopietre:
http://www.torrevado.info/salento/cento-pietre.asp
http://www.lameta.net/blogsalento/?p=406

Info

Per raggiungere Le Centopietre e la chiesa di San Giovanni Battista si tenga come riferimento l’area tra via Rigno e via Aldo Moro.

Note dell’autore

chi scrive ha visitato il luogo nell’agosto del 2007. Purtroppo, un po’ a causa della mancanza di segnaletica, un po’ per la scarsità di fruizione turistica del luogo, questo sito non può ancora conoscere la notorietà che meriterebbe, in virtù dell’amenità del luogo e dell’antichità che qui si respira.

Patù, il paese delle 100 meraviglie

Le Centopietre di Patù (ph M. Gaballo)
Le Centopietre di Patù (ph M. Gaballo)

di Paolo Vincenti

A Patù si respira un fermento culturale particolarmente stimolante, sia per i cittadini locali sia per tutti gli amici della città dei patusci (come simpaticamente vengono soprannominati i patuensi).

Patù il paese delle 100 meraviglie è il titolo di un opuscolo in distribuzione gratuita, realizzato dalle due associazioni di via dei commercianti di Patù e della marina San Gregorio. L’obbiettivo, come spiegano Giovanni Spano, Presidente dell’ “Associazione di Via Centro Storico Patù”  e Antonio De Marco, Presidente dell’ “Associazione di Via San Gregorio”, è quello di unire gli sforzi per rivitalizzare un paese che ha tanto da offrire a tutti coloro che lo vanno a visitare, creando una sinergia fra turismo, artigianato e

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