Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri equante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri e quante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine. I siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum (poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia).

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

Dalle orecchiette alle ‘ncannulate. Salento, terra di trafilatori

di Massimo Vaglio

In più occasioni, abbiamo illustrato i formati caserecci di pasta della tradizione salentina, dalle fatidiche orecchiette, da sempre  l’emblema della cucina di questa regione, alle ormai parimenti famose sagne “ncannulate” o agli arcaici maccheroncini cavati. Tutti  formati che ormai vengono apprezzati anche fuori regione anche grazie all’opera di promozione svolta dalle tante dinamiche aziende produttrici.

Per quanto riguarda la preparazione casalinga di questi formati, ricordiamo che le farine vengono quasi sempre ricavate da grani duri coltivati localmente e moliti artigianalmente dai tanti piccoli molini sparsi un po’ in tutto il Salento, Non si tratta quindi di semole, ma di farine, con un vario grado di raffinazione a cui, spesso, chi preferisce un prodotto più rustico vi aggiunge ad arte una percentuale variabile di cruschello ricavato dall’abburattamento della farina dopo la separazione della crusca vera e propria.

Quella della preparazione casalinga della pasta è una pratica semplice che necessita principalmente di una buona materia prima, pochi rudimentali attrezzi e di una sicura manualità.

Il Salento, è però anche terra di rinomati opifici per la produzione industriale di pasta secca trafilata, un’attività che non scaturisce come si potrebbe pensare dall’evoluzione della preparazione casalinga della pasta. Enorme è infatti il divario tecnologico tra le due produzioni, che se si volesse fare un parallelo è come se si mettessero a confronto una carriola con una potente auto di ultima generazione. Un divario tecnologico che parte dalla produzione della semola, per produrre la quale occorrono macchinari imponenti, sofisticati e precisissimi quali i molini di alta macinazione. Piuttosto, la produzione industriale rappresenta il frutto della lenta evoluzione di un’attività che, iniziata

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine.  siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

 

 

La si ottiene mescolando semola di grano duro con uova e formaggio pecorino stagionato, fino ad ottenere un impasto friabile, che verrà ridotto in piccoli frammenti ottenuti dallo sfregamento tra le dita delle mani. Aspersi con semola asciutta per tenerli separati, vengono lasciati per un paio d’ore su di un telo perché asciughino, vengono cotti per circa quindici minuti in brodo di carne (di gallina un tempo, di vitello oggi). Un mestolo per piatto, con abbondante brodo e ulteriore spolverata di formaggio grattugiato.

Questi gli ingredienti per sei persone: 1 Kg di semola, 6 uova fresche, 200 g. di formaggio pecorino, una manciata di prezzemolo tritato, sale q.b., brodo di carne.
Il tradizionale piatto, notoriamente rapido nella preparazione, è tramandato da generazioni, senza poter risalire a chi lo abbia introdotto tra la popolazione. Massimo Montanari su Repubblica del 10 gennaio 2010 (p. 37) scrive delle “minestre di pasta” elencate da Paolo Zacchia, l’archiatra di Papa Innocenzo X, inserendo tra i cibi per il “vitto quaresimale” (1636) le pastine “piccole e tonde, come quelle che chiamano millefanti”. Il sospetto che il nostro piatto sia il medesimo è troppo forte, magari importato da uno dei monaci dei tanti conventi cittadini o da qualche alto prelato che abbia condotto i suoi studi nell’Urbe. Volendo andare ancor più indietro è inevitabile il richiamo al più noto ed antichissimo cuscus.

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