Pasquetta e Pascareddha

di Armando Polito

* Traduzione dal gattese in dialetto neretino e da questo in italiano:

– Armeno osce pensa cu mmangi, cu bbivi e ccu ti stai cittu! –

– Almeno oggi pensa a mangiare, a bere e a startene zitto!

 

Si pensa sempre al cibo, tanto che, ormai, più che un rito comunitario, come l’antico simposio, sembra esser diventato un’ossessione con atteggiamenti contrasti e altalenanti, quando si è più o meno “normali” e neppure ancora obesi, tra atteggiamenti, pur non non patologici, anoressici e bulimici.

Una volta, inoltre, un pranzo o una cena sancivano l’inizio di un rapporto, meglio a lume di candela, nonostante quest’ultima fosse a doppio taglio, perché da un lato poteva rendere difficilmente visibile  nella donna (e in chi, sennò? …) qualche piccolo difetto che il trucco di allora non era in grado di compensare in modo soddisfacente, dall’altro perché i barbaglii di quella flebile luce creavano il seducente effetto del vedo-non vedo, considerato in questi nostri strani tempi quasi una perversione sessuale …

Oggi la colazione, il pranzo e la cena si sono inoltre arricchite dell’appendice di lavoro. Non avrei nulla da dire se molte di loro non fossero state e continuassero ad essere, come le cronache giudiziarie mostrano,  l’occasione per affaristi  intrallazzatori, corruttori, corrotti, millantatori compagni e camerati (per essere sintetico e non far torto a nessun partito …) di merende, insomma per  il cancro di questi paese , l’occasione per procurarsi lavoro per sé e per i loro compari sottraendolo alle persone oneste.

E tra i blog impazzano quelli che si occupano di gastronomia, mentre dalla mattina alla sera spuntano sullo schermo televisivo come funghi, , è il caso di dire, serie interamente dedicate all’argomento . Insomma, le feste pasquali sono finite, ma la festa (siamo in Italia …) continua. Auguriamoci solo che qualcuno di quei signori (il non virfolettato serve, paradossalmnte, ad accrescere il sarcasmo) prima nominati non ce faccia; perché potrebbe essere quella definitiva.

Chi si aspettava dal titolo qualche favoletta buonista e melensa sulla festa di oggi e melensa o, magari, una statistica provvisoria del tipo di panino di maggior successo consumato da qualche poveraccio o del ristorante che hanno fatto il pieno, sarà rimasto deluso. Se continua a leggermi perderà il suo tempo, perché ho intenzione di continuare sulla stessa cifra. Però, prima che decida di chiudere questa finestra e di aprire la porta del frigorifero …, gli chiedo se ha mai riflettuto sulla differenza tra le due parole Pasquetta e Pascareddha. Ammesso (in qualche caso per assurdo …) che voglia ancora dedicarmi un attimo della sua attenzione, mi dirà, risentito come colui che si sente calunniato, che Pascareddha è il corrispondente salentino dell’italiano Pasquetta e che sono diminutivi Pasquetta di Pasqua e Pascareddha di Pasca.  Già lo vedo involarsi verso il frigorifero prima ancora che io dica: – Già, ma se la corrispondenza fosse stata formalmente (sul significato non si discute) perfetta, Pasca avrebbe dovuto generare Paschetta -.

Mentre il grande filologo è tutto preso dall’imbarazzo della scelta per realizzare il suo spuntino, con i pochi rimasti a seguirmi proverò a soddisfare ben altro appetito.

Se, dunque, Pascaredha non è il perfetto corrispondente di Pasquetta, come starebbe la cosa? Il fatto è che la nostra voce dialettale ha seguito una diversa tecnica di formazione E questa è un’altra prova della creatività del dialetto. Pascareddha, infatti, è sì diminutivo, ma non direttamente, di Pasca, bensì di un intermediario aggettivale, *Pascale, secondo la trafila Pasca>*pascale>+pascaleddha>Pascareddha.

È la stessa trafila di fesca>*fescale>*fiscale>*fiscaleddha>fiscareddha (per i non salentini segnalo la nota 2 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/29/la-furficicchia-e-leuropa/).

E con fesca e fiscareddha mi accorgo di essere inciampato  anch’io in un sasso di quel campo alimentare che all’inizio avevo stigmatizzato senza pietà. Però, ho un’attenuante: impazzisco per i formaggi, odio la ricotta. Comunque sia, è un bene che a quest’ora il tizio del frigorifero sarà preda di una provvidenziale (per me) pennichella …

Pasquetta 2016: perché un ritorno al passato non guasterebbe

di Armando Polito

Le immagini in bianco e nero che seguono riproducono altrettante stampe antiche custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, dal cui sito le ho estratte. Esse rappresentano  l’incontro, continuato poi a tavola,  tra Cristo risorto e due discepoli ad Emmaus, poco distante da Gerusalemme  (Luca 24, 13-35). Da esso, secondo un’interpretazione, deriverebbe l’usanza della scampagnata (non per quelli per i quali la campagna coincide con le Seychelles …) che rappresenta il momento cruciale (mai aggettivo fu più indicato …) della Pasquetta.

1)

Jacques Callot (1592-1635), Les disciples d’ Emmaüs (I discepoli di Emmaus)

2)

Rembrandt (1634), Les disciples d’Emmaüs

3)

Rembrandt (1654), Les disciples d’Emmaüs

4)

Les disciples d’Emmaüs (1729), incisione di Claude De Fos (riproduzione di un dipinto di Paolo Veronese) che (l’incisione …) si trovava nella camera da letto del duca di Orleans). Segue l’originale del Veronese custodito nel Museo Boijmans Van Beuningen a Rotterdam.

5)

Les disciples d’Emaus, incisione del 1729 di Simon Thomassins (riproduzione, con inversione orizzontale, di un dipinto di Paolo Veronese), che (sempre l’incisione …) si trovava nella camera da letto del re. Segue l’originale del Veronese custodito nel Museo del Louvre a Parigi.

Il lettore avrà notato il rapporto direttamente proporzionale tra l’avanzamento cronologico e il progressivo passaggio della rappresentazione dalla semplicità dell’episodio biblico alla fastosità degna di una corte o quasi. Ai tre personaggi ed al cane della prima e della seconda stampa si aggiunge nella terza un quarto personaggio da interpretare probabilmente come l’oste. L’arricchimento dell’ambientazione e dei personaggi (già in atto nel Rembrandt del 1654 rispetto a quello di venti anni prima) prosegue nella quarta, dove anche il cane in braccio alla bimba non è quello piuttosto macilento e spelacchiato delle tavole precedenti. Questo crescendo celebra il suo trionfo nell’ultima tavola, nella quale, a parte i bambini diventati, come i cani, tre, una sorta di zoomata all’indietro rispetto alla precedente opera una ripresa, per usare il linguaggio fotografico, grandangolare, in cui la posizione centrale dei tre protagonisti dell’episodio biblico non riesce a prevalere sull’impressione di grandeur (per dirla alla francese, vista la collocazione originale dell’incisione) che emana la vista degli astanti, che hanno un atteggiamento non dissimile da quello di moderni spettatori che, per quanto rispettosi del loro idolo (da notare come l’aureola di Cristo, non a caso, si presenta progressivamente ridotta, in contraddizione con l’aumentato, dopo la resurrezione,  status divino) non vedono l’ora di farsi una foto di gruppo con lui …

Come non pensare, allora, e magari fosse questa  la tappa finale …, all’edonismo più o meno sfrenato, anche oltre le proprie possibilità e, sempre più spesso a danno degli altri (cioé, in ultima analisi, a danno della nostra credibilità di uomini prima ancora che di cristiani), che continua  a caratterizzare ancora oggi tante ricorrenze che, anziché propiziare una riflessione cui far seguire l’azione, fosse solo di protesta, sono solo occasioni per celebrare la nostra vanità che è pari solo alla nostra fatuità.

Certamente sarebbe utopistico, anzi da sognatore scemo, augurarsi un ritorno all’ingenuità, alla sincerità ed all’accorata partecipazione che contraddistinguono ogni nostro sentimento nel momento della sua nascita, se è vero che il tempo cura le ferite nonostante, in alcuni casi,non riesca a guarirle. Paradossalmente dovremmo, forse, dimenticare il meno possibile (il che non significa piangersi addosso) il nostro passato e quello dell’umanità e dare un senso concreto al nostro presente (nonostante da duemila anni Cicerone e il suo historia magistra vitae vengano puntualmente smentiti) e preparare un futuro veramente migliore, che, intendo dire, non sia, in ciò che veramente vale, l’immagine sbiadita  del nostro passato e quella squallida del nostro presente.

In tal senso auguro a tutti una Pasquetta felice, chiedendo scusa per quella che può sembrare una predica fatta, per giunta, da uno che non guarda certamente con simpatia a nessuna religione istituzionalizzata (lì sta l’inghippo …), che tenta di avere come punto di riferimento solo Cristo-uomo e che privilegia, per parecchi, forse, un po’ troppo, la ragione rispetto alla fede, quanto meno nel dubbio che inferno, purgatorio e paradiso siano proprio tra noi,  quaggiù …

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri equante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Cosimo De Giorgi, Pascareddha, lu riu, l’urteddha

di Maria Grazia Presicce

 

Il giorno dopo la santa Pasqua, nel giorno del Lunedì dell’Angelo, i salentini amano trascorrere una giornata all’insegna del divertimento e della baldoria. I paesi salentini, come ben sappiamo, sono tantissimi e, naturalmente, ogni luogo ha una sua tradizione riguardo questa ricorrenza che, comunque, al di là delle usanze culinarie e religiose, è sempre volta allo svago in compagnia.

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La Pasquetta, di solito, si trascorre in campagna o vicino al mare  e in quasi tutti i paesi si svolge  sempre il lunedì dopo la Pasqua. In alcune località, però, la Pasquetta si festeggia anche il  martedì e pare nel Capo si svolgesse anche il giovedì, in  un luogo prestabilito dove la gente ama radunarsi.  A Copertino si va alla Grottella, nei pressi del Santuario della Madonna  e perciò la pasquetta si chiama la Urteddha, a Lecce ci si raduna vicino alla chiesetta della Madonna di Loreto ( XII secolo, feudo di Surbo, vicinissima a Lecce) che i leccesi hanno sempre chiamato la chiesa della Madonna d’Aurìo[2], che in forma dialettale è divenuta lu riu dando così il nome alla giornata di festa.

La chiesa della Grottella a Copertino
La chiesa della Grottella a Copertino

Il progresso e la vita moderna hanno dato un’altra veste a questa ricorrenza e quindi la pasquetta o il giorno dopo adesso si svolgono all’insegna di varie manifestazione musicali popolari, di visite ai parchi e di pranzi  luculliani nei ristoranti. Comunque, non manca chi ancora predilige la semplice scampagnata all’aria aperta con amici e parenti portandosi da casa il pranzo da gustare sui prati o vicino al mare o vicino ai luoghi di tradizione religiosa..

Naturalmente, decenni fa, la gente trascorreva questa giornata in modo molto semplice  e lo stare insieme consisteva solo nel consumare quello che ogni partecipante preparava, il tutto accompagnato da un bicchiere di vino o…anche di più.  Tutto si risolveva, quindi in un pic-nic in compagnia e in allegria. Tutto ciò lo riscontriamo in questo articolo di Cosimo De Giorgi  riportato su “ La Democrazia” Lecce 9-10 Aprile 1904, anno VI n°3   e che restituisco ai lettori  grazie alla  “Fondazione Terra d’Otranto”

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Testata della” Democrazia” periodico politico amministrativo commerciale letterario del 1904

 

 

Lu riu

Ogni anno, il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ogni buon leccese non può fare a meno della solita scampagnata e, per conseguenza, della solita manciatina sull’erba fresca, profumata dai primi fiorellini. Dico ogni buon leccese, intendendo parlare di quasi tutti i paesi della Provincia, poiché l’usanza tradizionale si estende generalmente, e quasi sotto la medesima forma. Di consueto, poiché la stagione è fiorente, una gaia mattinata piena di sole invita ai campi e alle rive del mare.

E lì  si corre allegri, come ad una grande festa, dopo lunghi preparativi di pranzetti succulenti, portando l’immancabile pirettu del vino e spesso… la ozza.

“ Parbleu!, mi osserverà qualcuno, un’ozza piena? Possibile!”

Possibilissimo, signori miei; anzi vi aggiungo che è cosa mirabile osservare come quel giorno si vuotano i recipienti.

Basta dire che lu riu è tutta una festa consacrata all’epicureismo, e in ispecial modo a quel buon Iddio che è il Bacco.

E scommetterei tutti i miei cento milioni che forse l’unico santo che dal cielo può guardare con occhio benefico i buoni leccesi al ritorno dalla campagna è l’esilarante S. Martino!

Però, da parte gli scherzi, la festa de lu riu  regna da noi come il principio della stagione estiva, l’inizio dei divertimenti villerecci, la prima spinta alle scorrazzate pei campi, all’idillio, all’egloga passionale, al flirt estivo, in mezzo ad un boschetto di piante, dove ci è, forse, solo l’occhio di Dio che vede…

La chiesa di S. Maria d'Aurio
La chiesa di S. Maria d’Aurio

O rus, o rus! Se poteste parlare, casine biancheggianti e quiete ombre pagane; se poteste parlare, onde glauche dell’Adriatico!…

I leccesi, per lo più, usano festeggiare lu riu  nella campagna di Surbo, un paesello limitrofo; ma alcuni paesi, specialmente del Capo, hanno l’abitudine o il gusto di fare lu riu a mare.

Il giovedì dopo Pasqua, tre paeselli bianchi, perduti nel verde degli ulivi, e che, se non avessero la discordanza del dialetto, sarebbero come tre fiori d’un medesimo stelo, emigrano, starei per dire, per un sol giorno, e trapiantano le tende sull’amena spiaggia di Roca.

Per chi non lo sa, Roca, anticamente era un’allegra cittadella sull’Adriatico, fiorente di vita e di commercio. La distrussero i Turchi, che in quell’epoca infestavano quelle spiagge, ed ora Roca non è che un mucchio di macerie, dove il viandante, volentieri, resta un momento a meditare.

In un tempietto romito, parte intagliato nella roccia, una Madonnina bruna sorride e i fiori marini le fanno vaga corona.

I tre paeselli bianchi di Melendugno, Vernole e Calimera, ogni anno nel mese di Maggio fanno la festa a quella Madonna, ed è perciò che anche lu riu amano passarlo

Su quella spiaggia amena quasi come un anticipo dell’imminente festa maggiolina.

E corrono tutti lì, a Roca; e la bella spiaggia deserta sempre si ravviva e sembra quasi che un flutto di vita antica passi ancora sui ruderi della vecchia città.

E le memorie ritornano e la storia s’eterna e la poesia si riaccende!

E le forosette, vestite di festa, dai seni ricolmi e con le punte dei fazzoletti svolazzanti alla brezza marina, si rincorrono sull’erba fresca, rugiadosa, qua e là, a comitive allegre come numerose famiglie di passere.

L’idillio antico si rinnova, l’egloga si perpetua e l’eco ripete tra le rocce e le macerie le grida dei gaudenti e l’idioma neo-ellenico delle belle ragazze calimeresi.

Poi a sera ritorna la calma, l’abituale calma, sull’amena spiaggia, l’idillio e l’egloga passano e l’epopea rimane…

I tre paesi bianchi si ripopolano e la festa de lu riu è passata.

 


 

[2] Da google: wikipedia.org/wiki/Chiesa­ _di_Santa_Maria_d’Aurìo : Il toponimo d’Aurìo potrebbe derivare dalla voce greca Layrìon, ovvero piccolo cenobio. Laure si chiamavano infatti le cripte ipogee dove i basiliani veneravano i Santi.

Ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

di Gianna Greco

Lo devo proprio ammettere, durante le festività religiose sono sfiorata da un alone di languida malinconia, che non mi consente di goderne mai a pieno… un giorno o l’altro vi spiegherò, tra le righe, il perchè… ma ora vorrei parlarvi delle ricette per la Pasqua, la Pasquetta e “Lu Riu de li leccesi”.

Piatti importanti e ricchi per quei tempi andati, fatti di ristrettezze e sacrifici, che purtroppo si stanno ripresentando anche oggi!

Con molta cura veniva preparata la cuddhrura o puddhrica per il Sabato Santo, sempre di pane si trattava, ma, con le uova sode, bandite per tutto il periodo della Quaresima insieme a carne e formaggi,  confezionato con forme particolari intrise di significati religiosi o credenze popolari. Ricordo la pupa con un uovo per le bambine, simbolo di fecondità e l’addhruzzu per i bambini, con due uova come auspicio di virilità.

Non si poteva allestire, poi, il pranzo della Domenica di Pasqua senza l’immancabile pasta fatta in casa, le sagne ‘ncannulate o torte o ritorte (quelle preparate tanto lunghe da poterle avvolgere su se stesse per ben due volte) condite con il sugo di carne o di polpette e con la ricotta forte, sapore indescrivibile ed inimitabile.  In alternativa si preparava la pasta al forno non con le lasagne all’uovo precotte ma con ” zite o menze zite” o penne o rigatoni, con polpettine e mozzarella ma rigorosamente senza besciamella e…. “Peccè sta besciamella face male”… mi diceva la nonna.

Poi c’era l’agnello, il tanto discusso e bandito agnellino da latte, ucciso pochi giorni prima, di cui si mangiava praticamente tutto; le interiora con cuore, fegato e polmoni servivano a preparare turcinieddhri e ‘mboti, la capuzzeddhra  veniva divisa in due, cosparsa con una generosa spolverata di pangrattato e pecorino ed un poco di prezzemolo, veniva gratinata nel forno, le costolette e le parti avanzate invece venivano arrostite oppure preparate al forno con le patate, le mie preferite, o sempre al forno con i “pampasciuli” anche questi, che la mia pancia non riusciva proprio ad ignorare.

Dai grandi il tutto veniva generosamente bagnato con un, anche più di un, buon bicchiere di rosato dell’ultima vendemmia ed almeno portava un po’ di allegria.

Per fine pranzo il dolcissimo agnello di pasta di mandorla, farcito con cotognata e pan di spagna imbevuto nella Strega di Benevento, un liquore che, oltre al San Marzano Borsci, non mancava mai a casa mia.

Di uova al cioccolato non ne ricordo, prima dei miei dieci anni.

Il Lunedì dell’Angelo si faceva riposare lo stomaco con il classico brodo, in cui si tuffavano i triddhri sempre fatti in casa con un po’ di formaggio sopra, e si mangiavano gli avanzi del giorno prima.

Il Martedì, ovvero la Pasquetta dei leccesi, c’era la scampagnata vera e propria con tanto di pic nic e di giochi all’aperto, dal gioco del fazzoletto, a palla prigioniera, al gioco con i   tuddhri e quante ore passate a far saltare in aria quei cinque sassolini.

E favevano capolino sulle tovaglie scozzesi le fave con la ricotta marzotica e ancora il risotto alla prigioniera, alias sartù di riso e, cosa alquanto strana, con un accoppiamento che ancora oggi non mi spiego, fatto da fette di salame e uova sode (forse quelle avanzate dalle puddhriche). Una focaccia ricordo con l’acquolina in bocca, quella della nonna Francesca, non era la mia di nonna ma di due cugini, una nonna acquisita, diciamo, che aveva origini napoletane e preparava, tra le tante prelibatezze, questa ricca focaccia farcita con tre o quattro tipi di salumi, formaggio e tante uova sbattute….una delizia ancor più buona il giorno dopo, credo, non mi sembra fosse mai avanzata.

Per dolce si preparava la crostata con la marmellata o se si poteva un pan di spagna altissimo con crema pasticcera e la classica spolverata di zucchero a velo. Ho ancora negli occhi la scena che vedeva nella cucina della nonna, tre zie, le sorelle di mio padre, rimaste zitelle per ovvi motivi (sempre in una prossima puntata vi spieghierò) che con tanta vivacità ed energia sbattevano, a turno, le uova con lo zucchero nella ciotola con il solo ausilio di due forchette, prima dell’era dello sbattitore manuale e di quello  elettrico poi. Eppure vi posso garantire che il pan di spagna riusciva ogni volta alto e soffice come uscito dalla planetaria e la crema aveva sempre il profumo di limone per la scorza lasciata in infusione nel latte.

Ma di tutto ciò conservo un caro ricordo……

Spigolatura linguistica: lu Riu, pasquetta dei leccesi

La pasquetta dei leccesi è ben nota in tutto il Salento per tenersi il martedì dopo Pasqua e per la denominazione de “lu Riu”. Su questo termine sono state proposte svariate e talvolta azzardate ipotesi. Il  prof. Emilio Panarese chiarisce finalmente l’arcano. 

di Emilio Panarese

Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel).

L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina rusciara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto

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