Aldo de Bernart. In memoria

                            

di Paolo Vincenti

In questi dieci anni di assenza del maestro Aldo de Bernart, una serie di manifestazioni e poi scritti e celebrazioni hanno contribuito a serbarne vivo il ricordo. Immediatamente dopo la morte, nel numero di marzo 2013 della rivista «Presenza Taurisanese», il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino dedica a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”[1].

Non poteva mancare un omaggio della rivista «NuovAlba» con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda Il nobiluomo dal cuore grande[2], e un articolo di Ortensio Seclì, Non è più con noi, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su «NuovAlba», dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012[3]. Su un numero di aprile 2013 della rivista a diffusione locale «Piazza Salento», compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione…”[4].

Sulla rivista «Il Galatino» di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato[5]. Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, viene presentato il numero XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, «Note di Storia e Cultura Salentina». Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, è presente il saggio di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina[6], già pubblicato da Vincenti col titolo La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia) in Di Parabita e di Parabitani del 2008[7].

A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. Infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B. M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si tiene un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, a cura di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano e con il patrocinio del Comune, si tiene una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero lo storico, giornalista e operatore culturale Pietro Marti, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte.

Dopo gli interventi dell’allora Sindaco Carlo Russo e di Orlando D’urso, Alessandro Laporta ed Ermanno Inguscio, Paolo Vincenti legge un intervento di Aldo de Bernart tratto da una delle sue ultime plaquette: Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, perché del Marti de Bernart era stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart fa da leit motiv fra i vari interventi della serata[8].  Sul numero 63 della rivista gallipolina «Anxa News» (maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart[9].

Ancora, nel numero del luglio 2013 della rivista «NuovAlba», un altro scritto di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria. Vincenti, che apre il pezzo con una citazione dal libro Cuore di Edmondo De Amicis (“Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo”), scrive: “Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più lontani, mi chiede incredulo: -ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?-. È passato qualche mese dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile…Gli amici e tutti i collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Ida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana di così alto nobile esempio.

Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, bensì manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo”[10].

Nell’ambito dell’annuale rassegna “Identità Salentina” organizzata dall’associazione Italia Nostra sezione Sud Salento, che si tiene dal 27 settembre al 6 ottobre 2013 a Parabita, in Piazzetta degli Uffici, nel corso della serata inaugurale viene ricordato Aldo de Bernart con interventi di Alessandro Laporta, Mario Cazzato e Gigi Montonato, presenti i figli dello scomparso. Della serata dà notizia il periodico «Presenza Taurisanese» nel numero di novembre 2013. Ancora, su «Presenza Taurisanese» del marzo 2014 compare un toccante articolo di Vittorio Zacchino (“Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa), il quale scrive: “Fino quasi all’ultimo, Aldo ci ha riservato le sue nitide ed accattivanti plaquettes, i suoi profili di uomini illustri, nobili, patrioti, artisti, letterati, Pirro Castriota, Francesco Valentini, Raffaele Viva, Saverio Lillo, Antonio Bortone, Pietro Marti… Al povero Aldo, al di là della mestizia rievocativa, il grazie infinito per averci insegnato ad alleggerire la narrazione storica, a renderla accessibile ad ogni fascia di lettori, con l’ausilio di qualche verso, di un aneddoto, di un sorriso”[11].

Il 2 giugno 2014, è da segnalare una serata a Palazzo Ferrari di Parabita, “Ricordando Aldo de Bernart”, organizzata dal centro di cultura Il Laboratorio-Archivio Storico Parabitano, con Aldo D’Antico e gli interventi di Alessandro Laporta, Paolo Vincenti e dell’allora Sindaco Alfredo Cacciapaglia.

Nel 2015 l’operazione più importante ed il più compiuto omaggio al maestro de Bernart prende corpo editoriale grazie all’impegno della famiglia e della Società Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce: un corposo volume, più di 550 pagine, intitolato Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, uno dei titoli più belli dell’intera collana “I quaderni de L’Idomeneo” nella quale è ospitato. I curatori sono Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio[12]. In copertina uno scorcio della terra di Ruffano in una elaborazione grafica di Donato Minonni. Dopo la Prefazione di Mario Spedicato, nella prima parte del libro, L’uomo e l’intellettuale, si fa un focus sulla figura e sulle opere di de Bernart, con un profilo bio-bibliografico del maestro, curato da Paolo Vincenti, e poi vari contributi che lumeggiano la sua multiforme attività culturale che spaziava dal campo dell’arte a quello della critica letteraria, da quello più prettamente storiografico a quello musicale, fino all’aspetto religioso del culto dei santi e dell’arte sacra.

La storia moderna è l’oggetto privilegiato dell’indagine di de Bernart, dal Cinquecento fino all’Ottocento, con rari sconfinamenti nel Novecento, sempre con riconosciuta competenza e un’acribia che ne facevano un erudito nel senso più pieno del termine. Dunque, le testimonianze di affetto per l’amico, il collega, lo studioso, il concittadino, nelle parole di Gigi Montonato, Gigino Bardoscia, Mario Cazzato, Giulio Cazzella, Gianpaolo Cionini, Stefano Ciurlia, Gino De Vitis, Enzo Fasano, Mario Marti, Maria Rosaria Palumbo, Gemma Preite, Mario Stefanò, Vincenzo Vetruccio. Un numero elevatissimo di testimonianze perviene in occasione del libro. “Nella cittadina natia di Pietro Marti e Antonio Bortone, che il direttore ha scelto quale sua residenza elettiva”, scrive Mario Spedicato nella Prefazione, “per buona parte della sua vicenda esistenziale, egli ha saputo riunire un gruppo di appassionati con i quali è rimasto in contatto fino agli ultimi giorni di vita, mostrandosi sempre disponibile all’ascolto, interessato a quel mondo esterno che non poteva più frequentare direttamente e prodigo di consigli a chi gliene faceva richiesta”[13].

Nella seconda sezione, L’eredità della ricerca, compaiono contributi che seguono da vicino l’area degli interessi del commemorato, con saggi di Maria Antonietta Bondanese, Ermanno Inguscio, Andrè Jacob, Alessandro Laporta, Antonio Romano, Ortensio Seclì, Vincenzo Vetruccio, Vittorio Zacchino. La sezione terza, Arte, storia, cultura del Mezzogiorno, è incentrata invece sulla storia del territorio, secondo la linea della prestigiosa associazione culturale che patrocina la pubblicazione, quindi con una maggiore curvatura scientifica nei saggi di P. Giovan Battista Mancarella, Pietro De Leo, Angelo D’Ambrosio, Maria Antonia Nocco, Maria Antonietta Epifani, Roberto Orlando, Sergio Fracasso, Arcangelo Salinaro, Stefano Zammit, Giacomo Filippo Cerfeda, Alberto Tanturri, Giancarlo Vallone, Antonio Brigante, Francesca Cannella, Carlo Crudo, Oronzina Greco[14]. Il libro viene presentato a Ruffano, presso il Teatro di via Paisiello (Istituto Comprensivo Statale), sabato 20 giugno 2015, davanti a un pubblico numeroso ed interessato. Dopo i saluti del Sindaco Carlo Russo e della Dirigente Scolastica Madrilena Papalato, gli interventi di Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Gigi Montonato, Hervé A. Cavallera.

Le Conclusioni sono di Mario Spedicato. La presentazione si ripete a Parabita, presso il Teatro Comunale “Carducci”, il 29 febbraio 2016. Coordinati da Flora Della Rocca, dell’Associazione “Progetto Parabita”, che organizza l’incontro, dopo i saluti del Sindaco Alfredo Cacciapaglia e dell’Assessore Sonia Cataldo, intervengono Alessandro Laporta, Vittorio Zacchino, Aldo D’Antico e Ortensio Seclì. Mario Spedicato conclude i lavori.

E veniamo al 2020 e al volume Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta. Nel contributo pubblicato all’interno di questo libro, Alessandro Laporta si occupa di un’opera poco nota di de Bernart, per quanto censita nella più volte citata Bibliografia degli scritti del maestro. Si tratta di L’epopea otrantina del 1480, una importante pagina di storia locale, che de Bernart pubblicò nei “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, nel 1968[15]. Questa “chicca” si rivela una ghiotta occasione per Laporta di rispolverare uno scritto “minore”, cioè poco conosciuto dell’illustre parente, ma anche di dare allo stesso la migliore destinazione possibile, ovvero quella di un libro dedicato a Mons. Quintino Gianfreda che dell’epopea d Otranto degli ottocento beati martiri ha fatto l’oggetto privilegiato dei suoi studi[16]. Sempre nel 2020 si tiene la prima edizione del premio letterario intitolato a de Bernart, organizzato dall’Associazione Culturale “Diciottesimomeridiano” di Ruffano, con il patrocinio del Comune di Ruffano e del Comune di Parabita e con una Commissione esaminatrice di tutto rispetto, composta da Carlo Alberto Augeri, Alessandro Laporta e Daniele Sannipoli. Le premiazioni, per i settori narrativa, poesia e saggistica, avvengono il 28 dicembre 2020, in teleconferenza a causa della pandemia da covid[17]. Il nome di de Bernart continua a circolare fra gli addetti ai lavori e resta vivo nella mente e nel cuore di chi lo ha frequentato; le iniziative messe in campo in quest’anno 2023, in occasione del decennale della scomparsa, sono a confermarlo. “Nessuno muore per sempre”, e rinverdire il ricordo allevia l’assenza.

 

     [1] G. Montonato, Aldo de Bernart. Scomparso a 88 anni. Un signore della cultura, storico e poeta raffinato, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n. 254, marzo 2013, p. 5.

     [2] S. Laterza, Il nobiluomo dal cuore grande Omaggio all’amico-maestro, in «Nuovalba», Parabita, a. XIII, n.1, marzo 2013, p.1.

     [3]O. Seclì, Non è più con noi, Ivi, p. 2.

     [4] A. D’Antico, Ricordo di Aldo de Bernart, in «Piazza Salento», Alezio, 4-7 aprile 2013, p. 4.

     [5] P. Vincenti, Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato, in «Il Galatino», Galatina, 26 aprile 2013, p. 3.

     [6] Idem, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina, in «Note di Storia e Cultura Salentina. Miscellanea di studi “Mons Grazio Gianfreda”», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, Lecce, Edizioni Grifo, 2013, pp. 9-14.

     [7] Idem, La figura e le opere di Aldo de Bernart- per il suo 82esimo compleanno, in Idem, Di Parabita e di Parabitani, Parabita, Il Laboratorio Editore, 2008, p. 124-138.

     [8] A. de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, agosto 2012.

     [9] A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, in «Anxa News», Gallipoli, n.63, maggio-giugno 2013, pp. 6-9.

     [10] P. Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria, in «NuovAlba», Parabita, a. XIII, n.2, luglio 2013, pp. 11-12.

     [11] V. Zacchino, “Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n.262, marzo 2014, p.10.

     [12]  Aa. Vv., Luoghi della cultura e cultura dei luoghi. In memoria di Aldo de Bernart, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, “I quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2015.

     [13] M. Spedicato, Prefazione, in Luoghi della cultura, cit., pp. 7-8.

     [14] Una puntuale recensione del libro a cura di M. A. Bondanese, in «Il Nostro Giornale», Supersano, n. 83, dicembre 2015, pp. 14.15.

     [15] A. de Bernart, L’epopea otrantina del 1480, in “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, n.1, Taurisano, 1968.

     [16] A. Laporta, Aldo de Bernart. L’epopea otrantina in una plaquette di 50 anni fa, in Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Lecce, Edizioni Grifo, 2020, pp. 85-91.

     [17] M. Zezza, Nel segno di Aldo de Bernart. Un Premio per ricordare il valore della cultura, in «Il Nostro Giornale» Supersano, luglio 2021, pp. 62-63.

 

Pubblicato in Tra Scuola, Ricerca e Memoria. Aldo de Bernart dieci anni dopo (2013-2023), a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti, Società Storia Patria puglia-Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2023

Aldo D’Antico e la sua Parabita

 

a cura di Gabriele Federico

Oggi, 31 gennaio 2024, Parabita piange la scomparsa del maestro Aldo D’Antico, illustre studioso di questa terra, dove era anche nato.

Figlio di braccianti agricoli, Aldo D’Antico nasce a Parabita nel gennaio 1947 e, dopo aver conseguito il diploma magistrale, svolge il ruolo di insegnante elementare in diversi comuni salentini.

Già componente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, è fondatore del Centro di Cultura “Tommaso Fiore” e della casa editrice “Il Laboratorio”.

Curioso e accanito ricercatore di notizie sulla sua amata cittadina e delle sue dinamiche storiche e culturali, è stato punto di riferimento per intere generazioni di ragazzi, che si sono formati nella sua biblioteca privata sita all’interno di Palazzo Ferrari, contenente più di 25.000 libri e l’Archivio Storico Parabitano.

 

Tra Fede e Tradizione le confraternite della Diocesi di Nardò- Gallipoli: un lavoro corale

 

di Antonio Epifani

 

“L’originalità del volume è che i curatori si muovono con la delicatezza dell’ape sul fiore, con passione e profondità perchè vivono dentro le confraternite e possono perciò descriverne luoghi e tradizioni con competenza

(dalla presentazione del Vescovo Mons. Fernando Filograna).

 

Interessantissima risulta la recente pubblicazione del testo dal titolo Tra fede e tradizione le Confraternite della Diocesi di Nardò – Gallipoli (Claudio Grenzi editore-Foggia), curato con maestria e in maniera attenta, approfondita e impeccabile da Marcello Gaballo e da Fabio Cavallo. L’opera presenta una varietà tematica stimolante che ha come punto focale la vita, la testimonianza scritta e verbale, le attività delle varie confraternite che da secoli hanno operato e operano sul territorio dell’intera diocesi, forgiando in maniera attenta la vita spirituale e sociale non soltanto dei confrati ma dell’intero territorio su cui manifestano il loro impegno.

L’opera, dopo la presentazione del Vescovo, del Vicario generale e dell’Assistente diocesano per le confraternite, è introdotta dal diacono Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Confraternite dicoesane. Segue un’interessante e approfondita ricerca sul fenomeno confraternale, redatta da Marco Carratta, che ripercorre già a partire dall’Alto Medioevo la storia di queste associazioni che nascono per iniziativa dei religiosi o di singoli individui, con lo scopo di svolgere attività caritatevoli, di amministrare il culto, ma soprattutto per combattere la Riforma Protestante e promuovere gli ideali che nasceranno da una chiesa post – tridentina. Nel secondo saggio, sempre di Carratta, emerge invece la componente politica che in maniera attiva partecipava alla vita della confraternita. Il re quando necessario oltre a dare approvazione ai capitoli che regolavano la vita della confraternita concedeva anche l’assenso alla sua fondazione. E a tal proposito ci propone l’esempio della Confraternita della Ss. Annunziata di Nardò, che nel settembre del 1777 ottenne dal re il regio assenso sulle regole e sulla fondazione.

Significativo risulta il patrimonio architettonico e i beni mobili di grande valore conservati nelle varie chiese confraternali, in massima parte inedito, che è possibile gustare e ammirare attraverso il ricchissimo corredo fotografico che il volume ci propone.

 

Il lavoro di stesura, che ha visto coinvolti tantissimi autori delle singole schede, molti dei quali priori o confratelli, interessa ogni paese della diocesi di Nardò-Gallipoli ed è arricchito anche da alcune significative pagine che tracciano la storia e le vicende delle confraternite ormai estinte, con adeguata e ricca bibliografia. Caso emblematico l’assenza dei sodalizi nella città di Copertino e nel piccolo centro di Seclì. A tal proposito risulta significativa e molto gradita dalla piccola comunità di Seclì, la scelta dell’immagine di copertina (foto Lino Rosponi), che ha come raffigurazione una parte della preziosa tela dell’Allegoria del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente conosciuta con il titolo di SS. Sacramento. La parte raffigurata mostra i confrati incappucciati in adorazione che seguono la Croce e  il vessillo dell’omonimo sodalizio agli inizi del XVII sec.  Una tela di Donato Antonio D’Orlando, celebre artista neretino. Sulla quarta di copertina una recente foto, anche questa emblematica, di alcuni confratelli incappucciati che escono in processione da una chiesa di Gallipoli (foto Massimiliano De Giorgi).

 

Tra le tante sorprese che riserva il volume di circa 650 pagine, mi preme sottolineare l’esistenza di una pergamena miniata policroma della Confraternita del Ss. Sacramento di Parabita, con stemma civico e del feudatario dell’epoca, dalla quale si apprende che il cardinale De Cupis, già amministratore apostolico e poi vescovo della diocesi di Nardò, fa trascrivere al notaio Mario Capoccinus la copia legale della lettera apostolica in cui si parla delle indulgenze che papa Paolo III concesse alla Cofraternita del Ss. Sacramento di Roma, e quindi l’estensione dei privilegi al locale sodalizio parabitano. Il culto all’Eucarestia risulta quindi attestato a Parabita, così come in altri paesi della diocesi, soprattutto nel XVI sec.

Dalla lettura il testo appare come uno scrigno che custodisce gelosamente i suoi tesori che vengono rivelati al lettore, che ha il compito di leggere in maniera attenta le varie vicende passate e presenti che hanno caratterizzato la vita delle tante confraternite. Il volume inoltre può essere considerato come un vero e proprio manuale sulla storia dei vari sodalizi e come punto di partenza per ulteriori approfondimenti e studi che vadano ad arricchire il già vasto patrimonio che siamo chiamati a custodire e trasmettere alle generazioni future.

In ultimo è importante sottolineare l’attenzione che i curatori e l’Ufficio Diocesano per le Confraternite hanno avuto nell’elaborare due edizioni, una con copertina cartonata e l’altra con copertina flessibile. di maggiori dimensioni e minor costo, distribuita da pochi giorni da Amazon.

Libri| Parabita dal biennio rosso alla Repubblica

Lo storico e giornalista parabitano Daniele Greco ha pubblicato un nuovo lavoro di ricerca, frutto di una ormai ultratrentennale passione per la scrittura.
 In “1920-1946 – Parabita dal biennio rosso alla Repubblica“, Greco ripercorre un viaggio lungo quasi un secolo nella storia parabitana, condensato in 232 pagine ed oltre 80 fotografie.
Scopriremo cosa è accaduto a Palazzo e nella vita sociale del paese dal 1920 al 1946, partendo dal governo rosso dei socialisti di Raffaele Pisanello per giungere a quello della Liberazione e della Repubblica di Alfredo Pisanello, dopo aver attraversato il ventennio in camicia nera dei podestà Giuseppe Vinci e Bartolomeo Ravenna.
Al corpo principale del libro si associano un interessante Preambolo (del quale qui pubblichiamo l’introduzione), per raccontare cronaca e vicende politiche parabitane dall’Unità d’Italia fino all’avvento dei “rossi”, ed una Appendice con l’elenco dei sindaci e dei consigli comunali che hanno governato il paese dal 1861 al 1946.
Un lavoro certosino e puntuale di ricerca che attraverso documenti inediti dell’archivio storico del Comune e le cronache dei giornali dell’epoca consegna uno spaccato di storia, di vita collettiva, politica e sociale di Parabita.
Preambolo
Prima di addentrarci nei capitoli e nei paragrafi che argomentano il titolo ed il presente lavoro, è opportuno tracciare, seppur brevemente, il percorso amministrativo e sociale che Parabita ha compiuto sin dalle origini della storia politica cittadina “moderna”, partendo dall’Unità d’Italia per giungere a ridosso del 1920.
A cavallo tra i due secoli, si inserisce un periodo di alti e bassi, caratterizzato dalle gesta di assidui inquilini e nuovi frequentatori del Palazzo. Più di mezzo secolo di vita collettiva, che è oltremodo importante riassumere negli eventi principali, per creare l’antefatto, il preambolo appunto.
Non sono mancate crisi amministrative sorte dal nulla e di colpo ricomposte e momenti di pura esaltazione sociale che soprattutto sul finire dell’Ottocento hanno segnato indelebilmente su più fronti lo sviluppo e la crescita di Parabita. Un paese capace di istituire ben due banche, la Popolare e la Agricola Commerciale; di dare alle stampe un rinomato giornale, l’Alba, che è anche strumento di lotta politica; di far nascere laboriose industrie; di fondare una Scuola di Disegno applicata alle Arti; di costruire una nuova chiesa da dedicare alla sua protettrice e monumenti di pregiato valore artistico ed architettonico; di garantire lo sviluppo urbanistico e territoriale dettato dai tempi e dalle esigenze che cambiano.
È grazie alla operosità, all’intelligenza ed alla lungimiranza di coloro che in questo arco di tempo hanno governato, che Parabita, dal tramonto dell’Ottocento all’alba del Novecento, è diventata una cittadina opulenta, socialmente e culturalmente attiva, tanto da essere unanimemente considerata tra le più importanti dell’intera Terra d’Otranto.

Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa

di Paolo Vincenti

La 24esima Edizione di “Identità Salentina”, organizzata dalla sezione Sud Salento di Italia Nostra, quest’anno è stata dedicata a Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa. “Ricordando Rocco Ricercando l’arte per la bellezza del territorio”: questo il titolo della manifestazione, voluta dal professor Marcello Seclì, già presidente della sezione Sud Salento di Italia Nostra.

La rassegna, che si svolge a Parabita, è partita il 17 settembre e si protrarrà fino al 16 ottobre, ed è patrocinata da: Comune di Parabita, Provincia di Lecce, Consiglio Regione Puglia, Camera di Commercio di Lecce, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Istituto Superiore “Giannelli” di Parabita, Confartigianato Imprese Lecce e Banca Popolare Pugliese.

Rocco Coronese è un parabitano illustre ed è per questo che la sua città natale ha voluto rendergli omaggio. Rocco Coronese era nato a Parabita, nel 1931. Aveva iniziato la sua attività come pittore, frequentando, negli anni Cinquanta, gli ambienti artistici romani. Dalla fine degli anni Sessanta, aveva iniziato l’attività di scultore che lo aveva portato ad esporre nelle maggiori città italiane. Sono numerose le manifestazioni organizzate da Coronese in spazi aperti, come a Roma, Lecce, Parabita, seguendo l’innovativo progetto di valorizzare, attraverso questi eventi artistici, anche i luoghi che li ospitavano e la loro storia. Parallelamente all’attività artistica egli portò avanti l’attività didattica: insegnante di grafica pubblicitaria all’Accademia di Belle Arti di Lecce e, in seguito, di Plastica ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, di cui era anche Direttore. Tenne prestigiose collaborazioni con la Rai, con il Coni, con il Comune di Roma, dove ha vissuto per molti anni, e con diversi Enti Pubblici. Realizzò marchi per importanti aziende, tra cui la nostra Banca Popolare Pugliese.

A Roma fece molte amicizie, come quella con Vittorio Bodini, quella con Cesare Zavattini. Coronese è morto nel 2002 a Frosinone ed è sepolto nel cimitero di Parabita.

Un sentito omaggio all’arte del creativo, venne reso con il libro Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole, pubblicato dal Comitato “Gli amici di Rocco Coronese”, già nel 2012, in occasione del decennale della scomparsa. Patrocinato dal Comune di Parabita, da Provincia di Lecce, Presidenza Giunta Regionale, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Liceo Artistico “Giannelli” di Parabita, e sostenuto finanziariamente da Banca Popolare Pugliese, il libro, curato da Marcello Seclì, con l’Introduzione del professore Luigi Scorrano, ripercorreva la carriera del Maestro attraverso la pubblicazione dei cataloghi delle sue mostre. Ora il ventennale della morte offre una nuova occasione di approfondire la figura di Rocco Coronese come artista ed operatore culturale, con particolare riferimento alla sua città dove ha lasciato testimonianze importanti ed indelebili.

La rassegna dedicata a Coronese da Italia Nostra prevede una serie di mostre, convegni, incontri, in un programma molto articolato di cui si dà notizia sui pieghevoli di presentazione e nei manifesti e nelle locandine affissi e distribuiti per la città.

Nella inaugurazione di sabato 17 settembre, coordinati dallo studioso Paolo Vincenti, hanno preso la parola Mario Fiorella, presidente di Italia Nostra Sud Salento, l’organizzatore Marcello Seclì, già allievo e amico di Rocco Coronese, la studiosa Federica Coi, laureata in Beni Culturali, che ha parlato del nuovo volume edito da Italia Nostra, Rocco Coronese. Ricerche e mostre in memoria di un maestro, che si basa proprio sullo studio condotto dalla dottoressa Coi nelle sue attività di ricerca sul percorso artistico di Coronese.

È seguito poi l’intervento del professore Massimo Guastella, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università del Salento, che si è soffermato sulla figura e sulla carriera di Coronese. Le iniziative collocate in questa edizione di Identità Salentina, come scrive Marcello Seclì nella brochure di presentazione, “non hanno alcuna ritualità commemorativa, ma sono dettate dalla volontà di perseguire nel solco che Rocco ha tracciato quegli obiettivi di crescita culturale e di tutela del territorio attraverso percorsi pedagogici e creativi dell’arte”.

La manifestazione si articola in due mostre. “In memoria di Rocco Coronese. 20 artisti per il ventennale”, che si tiene nei locali di Via Piave, vede la partecipazione di venti artisti salentini che hanno conosciuto personalmente o hanno collaborato con Coronese e che hanno accolto l’invito di Italia Nostra ad omaggiare il maestro con una loro opera; essi sono: Franco Contini, Antonio De Salve, Enzo Fasano, Marcello Gennari, Antonio Greco, Sandro Greco, Giuseppe Lisi, Laura Manieri, Giusy Palma, Carmelo Piccinno, Cesare Piscopo, Vito Russo, Marcello Seclì, Luigi Sergi, Fernando Schiavano, Francesco Spada, Salvatore Spedicato, Cosimo Damiano Tondo, Rita Tondo, Franco Ventura.

La seconda mostra è “Manifesti per l’Arte. L’arte nei manifesti”, che si svolge a Villa Colomba, riprende l’iniziativa del 2002 e si rifà alla grande passione del maestro Coronese per l’arte del manifesto. L’idea di raccogliere dei manifesti e di creare uno spazio apposito per contenerli era venuta a Rocco sul finire degli anni Settanta e, nel 1982, aveva realizzato questo ambizioso ed innovativo progetto, con l’apertura del Centro di attività per la comunicazione-Museo del Manifesto a Parabita che, oggi, conta più di 70.000 pezzi. Purtroppo l’attività del Museo, a Parabita, si arrestò nel 1987, a causa di problemi logistici, ma Coronese continuò ad organizzare eventi nel parallelo Museo del Manifesto di Ferentino, in provincia di Frosinone, la città in cui egli risiedeva.

Nel 2002, l’Amministrazione di Parabita destinò al Museo un’ala di Palazzo Ferrari e da giugno a settembre di quell’ anno, si è tenne la 1° Mostra tematica, “L’Arte nei Manifesti”, ma ancora una volta le attività del centro si arrestarono. La sezione Sud Salento di Italia Nostra però ha continuato a raccogliere materiale delle più svariate provenienze e ad oggi la collezione consta di oltre 5000 pezzi italiani e stranieri. Ed ora questa ulteriore raccolta di manifesti viene resa pubblica. Gli orari delle mostre sono: 10-12.30 e 16.30-19, escluso il lunedi mattina. Nella serata del 17 settembre, era purtroppo assente il critico d’arte Toti Carpentieri, che avrebbe proprio dovuto illustrare la nuova raccolta di manifesti.  Durante la serata, Marcello Seclì ha poi omaggiato tutti i presenti di una plaquette nella quale è riportato un disegno di Coronese, “Un albero per il Salento”, dedicato ad Italia Nostra, associazione di cui era membro, ed una significativa poesia intitolata “Verde”, già pubblicata in un volume del 1992, Noi, il tempo, le immagini – Album di vita parabitana, edito dal Centro di Solidarietà Madonna della Coltura e Italia Nostra. Sabato 8 ottobre 2022 si terrà a Villa Colomba la tavola rotonda “Forme e funzioni dell’opera d’arte nel XXI secolo”.

Sabato 15 ottobre invece presso il Teatro Carducci, sempre a Parabita, si svolgerà il convegno “L’istruzione artistica e il suo ruolo per la bellezza del territorio”. Interverranno varie personalità del mondo dell’arte, della formazione, delle istituzioni e della cultura in genere. Domenica 16 ottobre la serata conclusiva della manifestazione, presso il Teatro Carducci, “Il polo delle arti nel Sud Salento”, con proiezione di docufilm, interventi di esperti e concerto degli studenti del Liceo musicale “Giannelli”.

Scrivono gli amici, nel volume del 2012 Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole: “semplice e diretto Rocco Coronese sapeva coinvolgere, sapeva dare e domandare il giusto per nobili fini. Egli riusciva ad affascinare con la sua capacità di stare fra la gente, semplicemente. Pur essendo mancato per alcuni anni, ad ogni suo ritorno si sentiva a casa più di tanti che erano rimasti. Di fatto non si era mai allontanato da quella cultura orgogliosamente sua, suo punto di forza. Parabita ed il Salento, dunque, origine e fine. Grande comunicatore e promotore culturale, Rocco Coronese, nella sua straordinaria esperienza di artista e creativo, ha utilizzato vari linguaggi che ora vogliamo riproporre in alcune iniziative culturali per quanto è nelle nostre possibilità. Con l’auspicio che questo territorio sappia apprezzare e valorizzare le sue opere più di quanto non abbia fatto fino ad oggi…”. L’artista intesseva un dialogo continuo, serrato, con l’arte, cercando nella varietà delle soluzioni, la risposta alle proprie domande. Egli era anche convinto della funzione sociale dell’arte. “L’apertura verso gli altri è totale”, scrive Luigi Scorrano “Coronese esercita, si può dire, un’azione di affrancamento dal pregiudizio e dalla asfitticità di posizioni separanti. Percepisce la novità”.

Il nuovo volume dedicato a Coronese è disponibile presso la sede di Italia Nostra a Parabita. L’intera rassegna, è il caso di segnalarlo, è finanziata con fondi privati ovvero grazie all’intervento degli sponsor che l’hanno sostenuta.  Sempre nel segno di Rocco Coronese.

 

Libri| La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti

 

 

Il volume di recente pubblicazione: La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti di Annunziata Piccinno[1], che si avvale della presentazione del parroco della stessa chiesa, don Santino Bove Balestra, offre una lettura archetipico-simbolica e storico-letteraria dei dipinti settecenteschi che decorano la volta della sacrestia della chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista, collocata nel cuore della città di Parabita.

Il tema trattato costituisce una sorta di guida-base, per un ulteriore approfondimento, che seguirà parallelamente all’opera di restauro conservativo dell’edificio sacro, alla quale anche i preziosi e suggestivi dipinti saranno, a breve, sottoposti.

Il prezioso sussidio è utile a interpretare la simbologia della decorazione pittorica della piccola sacrestia: un’aula di forma rettangolare alla quale si accede dalla porta posta a nord, entrando dalla chiesa. La volta, le lunette e le vele di questo locale sono arricchite da dipinti in stile baroccheggiante. La volta a padiglione a schifo lunettata mette in evidenza il dipinto raffigurante lo stemma di mon. Orazio Fortunato, collocato al centro e contenuto in una cornice rettangolare. Tutto intorno vi sono elementi vegetali, floreali e putti che l’autrice suddivide in 8 gruppi distinti.

Al di sotto della volta in piccole vele sono raffigurati dei putti accanto ad animali ed elementi vegetali. In otto lunette sono effigiate otto marine salentine, delle quali una rimane ignota, caratterizzata solo da una torre costiera.

Ammirare le decorazioni della volta della sacrestia parabitana è emozionate, in quanto tutto quello che passa sotto lo sguardo dell’osservatore suscita molteplici interrogativi. Siamo al centro di una volta in stile barocco veramente singolare, in cui putti in varie pose si susseguono mostrando vari simboli sotto forma di animali, frutta, fiori e ortaggi, tanto da far sussultare e interrogare lo spettatore sul loro effettivo significato. Sono elementi posti lì casualmente oppure essi sono emblema di un qualcosa di “altro” che, ormai lontano nel tempo, oggi riusciamo difficilmente a decifrare?
L’autrice, attraverso lo studio di testi antichi, ne analizza le molteplici simbologie. Appare evidente che il frescante abbia voluto omaggiare il vescovo del tempo: mons. Orazio Fortunato, cui si rifanno anche le otto marine, inserite nelle lunette.

Solo un’attenta lettura del testo permette di valorizzare questi dipinti, per la maggior parte degli studiosi e degli stessi salentini ancora sconosciuti.

 

 

[1] Annunziata Piccinno nata ad Aradeo (LE), laurea in Lettere Moderne (1999)- Università di Lecce; Laurea Triennale e Magistrale in Scienze Religiose, presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce. È autrice di: Gli Altari del ‘600-‘700 a Nardò, in Nardò NostraStudi in memoria di don Salvatore Leonardo, Congedo, 2000; Tra etnologia e folclore in Carmine diario di un emigrante a c. di A. Piccinno, Manduria, 2013; Cuore mente attesa speranza. La Parola di Dio negli scritti biblico pastorali di don Giuseppe Sacino (2018) e Viaggio nell’antica diocesi di Nardò: Gli altari dal XVII al XVIII secolo (2021).

 

Parabita, San Rocco e il colera del 1867

Antonio Maccagnani, San Rocco, statua in cartapesta conservata nella parrocchia matrice di S. Giovanni Battista a Parabita (1868) (foto Matteo Milelli)

 

di Matteo Milelli

Il chirografo, datato 30 agosto 1923, è conservato presso l’archivio storico della parrocchia “San Giovanni Battista” di Parabita. Tale documento, caduto nell’oblio, per puro caso è stato rinvenuto nei giorni dell’epidemia del coronavirus, durante dei lavori di inventariazione dell’archivio, in preparazione alla visita pastorale del Vescovo. Trattasi di un segnale da parte del santo di Montpellier per ricordare ai propri devoti che lui protegge la città? O, per i più diffidenti, un richiamo a guardare al passato per affrontare la presente epidemia?

Certo è che nell’ultimo periodo il culto verso san Rocco è andato via via affievolendosi… Non esiste più una processione, né un triduo. Il parroco e pochi fedeli si ritrovano il 16 agosto di ogni anno per fare memoria del santo invocato contro la peste. L’unico momento solenne riservato a questo santo è quello della festa patronale della Madonna della coltura quando, nella rievocazione storica del ritrovamento del monolito, scorta la Regina dei Santi, insieme al compatrono san Sebastiano.

                                                                                                           Parabita, 30 agosto 1923

Carissimo don Gaetano[1],

eccovi le poche notizie intorno alla devozione dei parabitani verso san Rocco.

In una triste giornata dell’indimenticabile giugno 1867, quando Parabita al pari di altri Comuni veniva funestata dal colera, mio padre entrava in un pubblico caffè con l’idea di risvegliare nel nostro popolo la devozione verso san Rocco, da cui soltanto sperava un pronto sollievo.

Per terrorizzarli non parlava che delle gesta del morbo, rivolse delle domande per sapersi le notizie ultime di cronaca circa qualche possibile progresso della scienza atto a fermare la violenza della epidemia.

Rispose che l’Igiene non manca mai di suggerire salutari consigli, ma disgraziatamente rimanevano inascoltati per l’ignoranza del popolo, altrimenti non mancherebbe un po’ di sollievo.

D’altronde non c’era da scoraggiarsi, chè un po’ di fede ha compiuto in ogni tempo grandi miracoli.

I nostri antenati riposero ogni loro fiducia in san Rocco, cui si attestano dei Santi benefici delle nostre mura, e la dotarono di rendite in beni rustici che, incamerati, conservano tuttora il nome del Santo. Mio padre si dichiarò prontissimo a risvegliare tra i parabitani l’antica devozione sopita, insieme a qualche buon volenteroso.

Ed ecco già che il proprietario di quel caffè mette un tavolo fuori della bottega, in piazza, esponendo a vista una microscopica e sozza statua di creta, raffigurante il Santo, con accanto un piatto per ricevere l’obolo dai passanti, i quali già comprendono il bel pensiero, e senza esitazione corrono a dar la loro moneta.

Una Messa solenne, in onore del Santo, con la precedenza del triduo viene celebrata, e la Chiesa è gremita di popolo implorante pietà.

Il Santo non è sordo, e per la sua intercessione l’epidemia d’un tratto s’arresta.

In segno di riconoscenza, intanto, fu decretata l’erezione d’una Statua; e, detto fatto, si corre a Lecce, si contratta con l’artista Antonio Maccagnani, il quale sa mettere tutta la migliore attenzione, perché il lavoro ricerca magnificenza.

Il 14 novembre del detto anno 1867, si leva la statua ed è portata a spalla e depositata nella Cappella della Coltura, dove benedetta il dì seguente col concorso del Capitolo e del popolo riconoscente, è portata processionalmente alla Chiesa Parrocchiale. Nella stessa giornata vien deliberata la festa preceduta dal Triduo per il 16 agosto, dal 1868 in poi.

La spesa della statua ammonta a £ 425 =.

La ricca corona d’argento, avuta il 25 marzo del ’68 da un’artista napoletano costa £ 184 =.

La reliquia è un regalo ricevuto da un padre in compenso dei suoi lavori. Essa perviene al sottoscritto per eredità, e sarà sempre disponibile come nel paragrafo per la sua esposizione in Chiesa, in riconoscenza della festa e delle calamità.

Mio padre seguì ad occuparsi della devozione del santo fino alla sua decrepitezza. E fino ad oggi non mancano i buoni volenterosi di seguire il suo esempio, segno questo di grande gratitudine di un popolo per i tanti benefici ricevuti.

Questo è quanto posso dirvi dietro vostra richiesta.

Aggiungo che la Cappella di San Rocco, a memoria di mio padre, trovavasi ov’è oggi la Farmacia Ferrari. Abbandonata e cadente fu demolito in un momento quando l’esigenza della edilizia lo richiesero per una più moderna disposizione demaniale di Parabita.

Gratitudine ai sensi della mia più espressa stima, unita ai più cordiali saluti.

                                                                                                                Dino F. Serino

[1] Don Gaetano Fagiani, allora arciprete di Parabita.

Richiesta di intercessione a S. Rocco (Parabita, marzo 2020, foto Comitato Feste patronali)
Parabita, festa patronale con le statue della Vergine e dei Santi Rocco e Sebastiano portate in processione (foto Matteo Milelli)

Gli altari dell’Addolorata e della Natività nella matrice di Parabita.Storia di due tele andate perdute

di Giuseppe Fai

La chiesa Madre di Parabita è ricca di storia e di numerose opere d’arte, ma non tutte sono pervenute a noi oggi, a causa dei continui rimaneggiamenti che si sono succeduti nei secoli scorsi, oppure a causa di fenomeni di dispersione.

Il caso più eclatante è, senza dubbio, legato alla grande pala d’altare, realizzata da Teresa Palomba e custodita, fino al XIX secolo, nella cappella della Madonna Addolorata, raffigurante la titolare dell’altare.

Ripercorriamo, dunque, in breve, la storia di quest’altare e dell’opera un tempo lì custodita, su cui molto si è discusso e scritto.

foto 1 (ph Salvatore Leopizzi)

 

L’altare della Madonna Addolorata (Foto 1) fu eretto, insieme all’omonima cappella, nel 1745, dopo l’abbattimento dell’antico altare della Madonna del Monte Carmelo[1], su commissione di don Paolo Ferrari, le cui spoglie sono ancora oggi lì custodite.

Dopo la morte della duchessa di Parabita Lucia La Greca, tutto il patrimonio della famiglia Ferrari passò alla figlia della duchessa, Maria Antonia, ultima erede dei Ferrari, la quale, a sua volta, donò il feudo di Parabita al notaio Raffaele Elia di Ceglie Messapica[2]: il patronato dell’altare dell’Addolorata, dunque, passò alla famiglia Elia.

Quando poi Tommaso Ravenna (1866 – 1947)[3] sposò Anna Elia, sorella ed erede di Raffaele Elia Junior[4], il giuspatronato dell’altare dell’Addolorata venne unificato con quello della Natività, già dei Ravenna. Questo spiegherebbe perché l’arciprete Fagiani, nel 1942, in un questionario informativo per la diocesi, avrebbe scritto che a detenere il giuspatronato di questo altare era la famiglia Ravenna – Elia[5].

Il primo a parlare della tela commissionata da don Paolo Ferrari e del nome della sua autrice è Cosimo De Giorgi, il quale, nei suoi Bozzetti di viaggio, scrive che la tela custodita presso l’altare della Madonna Addolorata è opera di Teresa Palomba, datata 1746, “di mediocre fattura”[6].

Per quanto riguarda Teresa Palomba è interessante il recente studio condotto da Ugo Di  Furia nel terzo numero de  Il delfino e la mezzaluna, il quale mette in discussione sia la sua origine parabitana sia la paternità della tela dell’Addolorata, custodita nella casa canonica della matrice.

Di Furia ritiene infatti, che l’origine parabitana della Palomba sia dovuta a un’errata interpretazione dello studioso salentino Pietro Marti[7], considerando anche che Giuseppe Serino, nelle sue Memorie[8], non cita nessuna pittrice Teresa Palomba tra i personaggi illustri di Parabita.

Riguardo invece l’opera custodita nella casa canonica, che molte personalità locali hanno attribuito alla Palomba, secondo Di Furia potrebbe essere un’opera di Aniello Letizia[9].

A supporto di questa ipotesi bisogna considerare il fatto che le pale d’altare, rimosse nel corso del Novecento nella chiesa matrice, dalle loro originarie collocazioni, non hanno subito alcuna alterazione, diversamente da quello che, secondo alcuni, sarebbe accaduto a questa.

Sta di fatto che ad oggi, l’opera che è possibile ammirare presso l’altare dell’Addolorata non è più quella della Palomba ed è firmata G. Giorgino – Lecce, probabilmente risalente alla prima metà del Novecento (Foto 2).

foto 2 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Che fine avrà fatto un’opera così importante?

Un’ipotesi di ricerca potrebbe essere ricavata dal confronto con un’altra opera scomparsa dalla nostra chiesa e che, a mio avviso, potrebbe essere ancora presente a Parabita, legata all’attuale altare della Sacra Famiglia, un tempo dedicato alla Natività di Gesù.

Un altare denominato della “Natività di Nostro Signore Gesù Cristo” compare, già a partire dal 1659, nella visita pastorale del vescovo di Nardò Girolamo De Choris[10], dove si specifica che l’altare fu commissionato da don Ottavio Castriota, sebbene l’arciprete Vincenzo Maria Ferrari, nel 1792[11], ne indichi erroneamente l’erezione nel 1661.

Per avere nuove notizie riguardo l’altare bisognerà attendere il 1827, quando, nelle notizie richieste dal vescovo Salvatore Lettieri per la Visita pastorale[12], si legge che l’altare della Natività si mantiene grazie a don Bartolo Ravenna (1761 – 1837)[13], il famoso storico gallipolino, il quale aveva acquistato i beni della famiglia che, fino a quel momento, aveva provveduto al mantenimento, cioè quella dei Castriota.

Un’altra notizia viene fornita da Giuseppe Serino, il quale scrive che a seguito dei lavori di ampliamento del corpo di fabbrica della chiesa, conclusisi nel 1853, Giovanni Ravenna (1812 – 1870)[14] aveva predisposto l’edificazione di un nuovo altare, dedicato anch’esso alla Natività di Gesù[15](Foto 3).

foto 3 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Il 18 gennaio 1922 l’arciprete di Parabita chiede alla Sacra Penitenzieria Apostolica il privilegio per i defunti per l’altare di Gesù Bambino[16]: c’è da supporre, dunque, che intorno a questa data il titolo dell’altare cambi, mutando da Natività di Gesù a Gesù bambino, probabilmente a seguito del cambio della tela. Il soggetto ritratto è infatti  Gesù Bambino tra Maria e Giuseppe ed il dipinto è firmato da Luigi Scorrano (Foto 4).

foto 4 (ph Salvatore Leopizzi)

 

Il 15 febbraio 1929 lo stesso privilegio viene prorogato per altri sette anni e nella parte posteriore del foglio di richiesta della proroga viene annotato che essa è riferita all’altare della famiglia Ravenna[17].

Nel già citato questionario, compilato nel 1942 dall’arciprete Fagiani, inoltre, si può leggere che, in quell’anno, la famiglia Ravenna – Elia deteneva il giuspatronato non solo sull’altare dell’Addolorata, ma anche su quello della Natività[18].

Della tela originariamente posta sull’altare, raffigurante la Natività, come di quella della Palomba, si sono perse le tracce.

Tuttavia, un’ipotesi di ricerca, che vorrei qui esporre, riguarda una tela, collocata nella cappella di un palazzo, a Parabita, appartenente alla famiglia Ravenna, che potrebbe corrispondere alla perduta tela della Natività.

A farmi avanzare quest’ipotesi, sono essenzialmente tre elementi: la famiglia che custodisce questa tela è la diretta discendente della stessa famiglia Ravenna che, già nell’Ottocento, aveva ottenuto il giuspatronato dell’altare dalla famiglia Castriota; la forma della tela sembra combaciare con la cornice dell’attuale pala d’altare della Sacra Famiglia; la data riportata sulla tela, 1853, coincide con la data di edificazione del nuovo altare, voluto da Giovanni Ravenna, durante i lavori di ampliamento della chiesa parrocchiale.

Questa tela, inoltre, nell’angolo in basso a sinistra, reca la firma del pittore, un tale Andrea Stefanelli, forse un artista locale, e rappresenta la nascita di Gesù, con tre angeli e altre tre figure, un suonatore di flauto, una donna anziana e una giovane donna (Foto 5).

foto 5. Per gentile concessione della famiglia Ravenna di Parabita (ph Salvatore Leopizzi)

 

Qualora questa ipotesi fosse confermata comporterebbe che agli inizi del Novecento la tela della Natività sia stata sostituita con quella della Sacra Famiglia dello Scorrano, diventando di proprietà della famiglia che deteneva il giuspatronato dell’altare in questione.

Considerando la testimonianza dell’arciprete Fagiani, la commissione delle due nuove tele, del Giorgino e dello Scorrano, potrebbe essere della stessa famiglia Ravenna – Elia, che nel 1942 provvedeva ancora al mantenimento dell’altare.

Pertanto bisognerebbe chiedersi se anche la tela della Palomba, sostituita con quella del Giorgino, abbia subito la stessa sorte della Natività dello Stefanelli.

Naturalmente ci troviamo di fronte ad un’ipotesi di ricerca, poiché al momento nessuna fonte che ho avuto modo di consultare fa riferimento esplicito a questo avvicendamento di tele avvenuto nel ‘900 nella matrice di Parabita.

 

Note

[1] Stato delle Chiese e luoghi Pii della Terra di Parabita descritto dal Rev. Sign. Arcip.te D. Vincenzo M.a Ferrari della stessa Terra in esecuzione delli ordini e a tenore delle istruzzioni date in Santa Visita a IX.obre 1792 da Monsig.re Illmo D. Carmine Fimiani Vescovo di Nardò, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1792.

[2] A. De Bernart (a cura di), Paesi e figure del vecchio Salento, Barra, Congedo Editore, 1980, Volume I, pp. 66-67.

[3] O. Seclì, Parabita. Origini storia genealogie di novantanove cognomi, Parabita, Tipolitografia Martignano, 1992, p. 173.

[4] A. De Bernart, op. cit., p. 67.

[5] Questionario per la parrocchia in generale, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1942.

[6] C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Galatina, Congedo Editore, 1975, p. 242.

[7] U. Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici, in “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, a. III n°3, , p. 108.

[8] G. Serino, Memorie sulla Terra di Parabita e sue antichità, 1855, in A. D’Antico (a cura di), Parabita. Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, Alezio, Tipografia Corsano, 1998.

[9] U. Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici, op. cit., pp. 108-109.

[10] Visita Pastorale di Geronimo De Coris, Archivio Storico Diocesano “Mons. Domenico Caliandro”, Nardò, 1659.

[11] Stato delle Chiese e luoghi Pii della Terra di Parabita descritto dal Rev. Sign. Arcip.te D. Vincenzo M.a Ferrari della stessa Terra in esecuzione delli ordini e a tenore delle istruzzioni date in Santa Visita a IX.obre 1792 da Monsig.re Illmo D. Carmine Fimiani Vescovo di Nardò, cit.

[12] Notizie volute da Monsignor Vescovo D. Salvatore Lettieri per la Santa Visita. Parabita, Archivio Storico Diocesano “Mons. Domenico Caliandro”, Nardò, 1827.

[13] O. Seclì, op. cit., p. 173.

[14] Ibidem.

[15] G. Serino, op. cit., p. 28.

[16] Privilegi e altari, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1922.

[17] Privilegi e altari, Archivio Storico, Parrocchia San Giovanni Battista, Parabita, 1929.

[18] Questionario per la parrocchia in generale, cit.

L’oratorio perduto del Santissimo Crocifisso a Parabita

di Giuseppe Fai

Di recente, nella chiesa Madre di Parabita è stato restaurato il Crocifisso ligneo posto sull’altare maggiore e la scoperta di ciò che, fino ad oggi, era stato celato dallo strato di copertura in cartapesta ha posto numerosi interrogativi sulla sua origine e sulla sua collocazione originaria.

La storia di questo Crocifisso sembra, infatti, intersecarsi con quella di una struttura sacra, oggi scomparsa, che faceva parte della sagrestia della chiesa matrice e che meriterebbe di essere riportata alla luce.

Per comprendere questo collegamento, bisogna partire prendendo in considerazione ciò che l’arciprete don Vincenzo Ferrari (1774[1]-1828), il 18 ottobre 1792, scrive al vescovo della Diocesi di Nardò, Carmine Fimiani (1792-1800[2]), in merito allo “Stato delle Chiese e luoghi Pii della Terra di Parabita”, a seguito della visita pastorale di quest’ultimo, avvenuta pochi giorni prima, il 9 ottobre.

L’arciprete parla di “…un picciolo Altare nell’Oratorio attaccato alla Sagrestia per li Sacerdoti infermi e Vecchi impotenti sotto l’Invocazione di un grande Crocefisso di Legno…”, passando, poi, in rassegna gli altri altari situati in chiesa.

Un altro riferimento è riscontrabile, trentatré anni dopo, quando il viceparroco don Donato Marzano, facendo le veci dell’infermo arciprete Ferrari, su sollecitazione del nuovo vescovo Salvatore Lettieri (1825-1839[3]), nelle “Risposte alle dietro scritte dimande”, menziona “…undici altari, incluso l’altare Maggiore, e quello dell’Oratorio dentro la Sagrestia…[4].

Due anni dopo, in risposta alle notizie richieste sempre dal vescovo Lettieri, in preparazione alla visita pastorale che avverrà di lì a breve, a Parabita, il 6 marzo 1827, la descrizione dell’oratorio è la medesima formulata nel 1792 da don Vincenzo Ferrari. E nel documento relativo alla visita, datato 9 marzo, si legge che “…Passò quindi il Monsignore Illustrissimo nella Sagrestia, e visitò il Luogo in cui si apparecchiano i Sacerdoti prima della celebrazione, dove esiste un Altare dedicato al SS. Crocifisso, con Tabernacolo, in cui si ripone la Pisside nei tre giorni della Settimana Santa, ed ogni cosa ritrovò decente…[5].

Dopo questi documenti, dell’oratorio sembrerebbero perdersi le tracce e, allo stato attuale, si può tentare di ricostruirne la storia grazie all’importante testimonianza fornita dal signor Luigi Tornesello, che è stato sagrestano della Chiesa Matrice dagli anni ’40 agli anni ’90 del secolo scorso.

Il signor Tornesello racconta che, dove oggi sorge lo studio del parroco, c’era una diversa struttura, in cui si trovava un Cristo crocifisso ligneo e, davanti a questo, l’affresco della Deposizione di Cristo (Foto)[6], ancora oggi conservato nello studio.

Sulla volta di questa struttura, “una specie di volta a stella”, erano dipinti quattro rosoni e altri affreschi, raffiguranti degli angeli con motivi vegetali. Il Cristo crocifisso era privo della croce, ma aveva una cornice affrescata e, ai suoi piedi, solo una piccola mensola. In questa struttura non c’erano finestre, ma due entrate: una la metteva in comunicazione con la sagrestia e l’altra, poi murata, si affacciava su via san Nicola ed era dotata, inoltre, di una scala, in corrispondenza dell’attuale finestra dello studio.

Il signor Tornesello ricorda che, durante il mandato del parroco don Giuseppe Ferenderes (1961-1994), nel periodo in cui i Padri Redentoristi svolsero la loro missione a Parabita, a causa dell’umidità e della scarsa manutenzione, si verificò il crollo della volta e pezzi degli affreschi furono usati per riempire i locali sottostanti il salone parrocchiale in fase di costruzione. Il Crocifisso si salvò, ma riportò dei danni, mentre l’affresco della Deposizione rimase intatto. Furono, così, avviati dei lavori che portarono alla realizzazione dell’attuale studio del parroco così come lo vediamo oggi.

Prima della testimonianza del 1792 di don Vincenzo Ferrari, nelle visite pastorali l’oratorio del Crocifisso sembra comparire una sola volta, in quella del 1744, durante l’episcopato del vescovo Francesco Carafa (1736-1754), in cui si parla di una visita ad un altare del SS. Crocifisso nell’oratorio.

La storia di questa antica struttura può essere ricostruita anche attraverso le opere artistiche a noi pervenute, come già detto: il Cristo crocifisso ligneo, l’affresco della Deposizione di Cristo e alcuni affreschi ritrovati anni fa.

Il recente restauro del Crocifisso ha evidenziato come, tra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, all’opera lignea sia stato aggiunto uno strato di gesso e cartapesta ricavata da “sacchi di cemento”, sotto cui si celavano seri danni, come, per esempio, il distacco di un piede dal resto della gamba e di alcune dita delle mani e dei piedi[7].

Tenendo, quindi, in considerazione la testimonianza del signor Tornesello, è possibile pensare che il Crocifisso sia lo stesso di cui parlano nelle loro relazioni i sacerdoti Ferrari e Marzano e il vescovo Lettieri e a cui era dedicato il piccolo altare dotato di un tabernacolo.

E’ probabile, dunque, che, negli anni ‘60, con il crollo della volta, il Crocifisso, salvatosi miracolosamente e già privo della Croce, abbia riportato i danni emersi durante il restauro e che il parroco dell’epoca, don Giuseppe Ferenderes, con un intervento approssimativo, abbia fatto realizzare lo strato in cartapesta e una nuova croce per salvare l’opera, decidendo, da quel momento, la sua nuova collocazione, presso l’altare maggiore.

Considerando, inoltre, che la missione dei Padri Redentoristi, come indicato dalla piccola edicola sulla facciata della canonica, si è svolta nel 1967, si può notare che le informazioni dedotte dal restauro del Crocifisso giunto sino a noi coincidono perfettamente con le vicissitudini occorse al Crocifisso che si trovava nell’oratorio.

La datazione del Crocifisso, risalente, presumibilmente, al XVII secolo, e forse riconducibile alla figura dello scultore gallipolino Vespasiano Genuino, risulta, inoltre, compatibile con il probabile periodo di costruzione dell’oratorio, il Seicento.

L’altra opera artistica, fondamentale per una possibile datazione di questa struttura sacra, è l’affresco della Deposizione di Cristo, salvatosi dal crollo della volta e recante, nell’angolo in basso a sinistra, una data, 1688, che potrebbe essere la data di realizzazione degli affreschi presenti nell’oratorio.

Questa Deposizione ritrae, oltre alle consuete figure, la Madonna, san Giovanni e Maria Maddalena, anche san Francesco d’Assisi e, forse, santa Chiara d’Assisi: il che potrebbe essere un indizio riguardo a chi abbia realizzato gli affreschi, forse un autore legato all’ambito francescano pugliese.

Le ultime tracce dell’oratorio potrebbero, in conclusione, essere gli affreschi, ritrovati durante i lavori eseguiti nei locali parrocchiali alcuni anni fa, gli unici che, ricomposti, potrebbero un giorno dirci di più sul ciclo pittorico di questo oratorio andato perduto.

Considerando la presenza del Crocifisso ligneo e della Deposizione, potremmo essere, quindi, di fronte a un tema iconografico ben preciso, cioè quello della Passione di Cristo, insieme a putti con decorazioni a tema vegetale.

Dando credito agli scritti del sacerdote Donato Marzano e del vescovo Salvatore Lettieri, questo oratorio era il luogo più sacro all’interno della sagrestia, il cui attuale ambiente, affrescato con temi profani, come quello delle marine salentine, pertanto, precedeva quello che era l’ambiente affrescato, invece, con immagini sacre.

Il ciclo di affreschi dell’attuale sagrestia, datato 18 gennaio 1700, e quelli dell’oratorio, dunque, potrebbero essere stati realizzati durante l’episcopato di Orazio Fortunato, vescovo della Diocesi di Nardò dal 1678 al 1707[8].

Questa struttura, comunque, stando alle visite pastorali, non ha un’intitolazione ben precisa, anche se è sempre collegata alla presenza del Crocifisso ligneo.

Nell’oratorio, non solo celebravano la messa quei sacerdoti che, a causa dell’età avanzata o di un’infermità fisica, non potevano più svolgere in chiesa le loro funzioni sacre, ma era anche quel luogo dove i sacerdoti indossavano i paramenti sacri prima di entrare in chiesa. Probabilmente, dunque, l’oratorio era in comunicazione con l’attuale sagrestia.

Nel Novecento, con ogni probabilità, la struttura perse la sua funzione di oratorio sacro, per divenire uno studio per l’arciprete; nella seconda metà degli anni ‘60, poi, ormai in pessimo stato conservativo, crollò, forse durante i lavori di costruzione del salone parrocchiale, e questo spiegherebbe come mai siano stati utilizzati proprio gli affreschi dell’oratorio come materiale di risulta.

Grazie alla testimonianza del signor Tornesello, quindi, e con l’aiuto delle fonti e dei resti dell’oratorio, ho provato a ricostruire un piccolo tassello della storia della Chiesa Madre di Parabita, dimenticato da anni e sconosciuto a molti. I risultati dell’indagine su questa antica struttura, dunque, potrebbe essere determinanti per ulteriori studi sull’attuale sagrestia, vista la stretta correlazione che sembra intercorrere tra questi due ambienti.

[1] O. Seclì, Parabita nel ‘700 – Dinamiche storiche di un secolo, Parabita, Martignano Litografia, 2002

[2] https://www.diocesinardogallipoli.org/diocesi-nardo-gallipoli/cronotassi-dei-vescovi-della-diocesi-di-nardo/

[3] Idem

[4] Archivio Storico Diocesano “Mons. Domenico Caliandro” – Nardò

[5] Idem

[6] Questa e le altre due foto sono di Foto di Salvatore Leopizzi

[7] “Relazione intervento di restauro del SS. Crocefisso di proprietà della Parrocchia Matrice di Parabita” eseguita da don Marcello Spada e Maurizio Specchia

[8] https://www.diocesinardogallipoli.org/diocesi-nardo-gallipoli/cronotassi-dei-vescovi-della-diocesi-di-nardo/

Pubblicato su nuovAlba, anno XVIII – numero 1 – maggio 2018, a cura dell’Associazione “Progetto Parabita”

Parabita. Un insolito dipinto raffigurante Sant’Emidio nella chiesa matrice

Sant'Oronzo

di Giuseppe Fai

Siamo nella Chiesa Matrice di Parabita, nella navata sinistra, presso il terzo altare, dedicato a Sant’Oronzo (figura in alto): qui si trova una piccola tela, che sovrasta la pala raffigurante il titolare dell’altare e che raffigura un Santo Vescovo nell’atto di fermare il crollo di un edificio.

La tela, purtroppo, risulta annerita dal tempo e non è possibile osservarla nei dettagli, considerata anche la collocazione in alto, priva di una fonte di luce naturale.

Parabita, chiesa madre, dipinto di Sant'Emidio
Parabita, chiesa madre, dipinto di Sant’Emidio

 

Nel corso degli anni sono state avanzate due ipotesi circa l’identità del santo raffigurato: la prima intravedeva i santi Giusto e Fortunato, la seconda san Gregorio Armeno.

La prima fu probabilmente concepita collegandola al santo titolare dell’altare: Giusto e Fortunato, infatti, erano, secondo la tradizione, rispettivamente il discepolo di San Paolo che consacrò Sant’Oronzo come primo vescovo di Lecce e il nipote di quest’utimo.

La seconda ipotesi, avanzata pochi anni fa, invece, è certamente collegata all’intercessione del santo armeno durante il terremoto che sconvolse il Salento il 20 febbraio 1743.

Entrambe le ipotesi, tuttavia, sono i contrasto con l’iconografia del santo in questione: i santi Giusto e Fortunato non sono mai raffigurati nell’atto di sostenere il crollo di un edificio, mentre San Gregorio Armeno viene comunemente rappresentato con la barba e con paramenti liturgici orientali.

Il Santo Vescovo qui raffigurato, invece, è imberbe e indossa paramenti legati al rito latino. Per tali ragioni, ci troviamo sicuramente di fronte ad una tela raffigurante Sant’Emidio da Ascoli.

L’iconografia è coincidente con una stampa conservata presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno (figura in basso) e può essere, con essa, raffrontata specularmente.

Sant'Emifdio

Queste stampe commerciali erano molto diffuse tra ‘700 e ‘800 ed erano state realizzate su disegno del pittore romano Luigi Agricola (1750 – 1821) per conto dello stampatore Agapito Franzetti.

Tuttavia, se la tela fosse stata realizzata in riferimento ad un evento sismico, il culto di Sant’Emidio a Parabita risulterebbe alquanto anomalo. Il panorama religioso del tempo offriva, infatti, ben altri intercessori, legati al territorio in questione, primo fra tutti lo stesso San Gregorio Armeno. Questi è ancora oggi protettore della città e della diocesi di Nardò – Gallipoli e Parabita faceva, appunto, parte dell’antica diocesi neretina, che è stata, in un secondo momento, accorpata a quella gallipolina.

Un altro santo invocato era Sant’Oronzo, il cui culto era ben radicato e forte a Parabita già a partire dalla metà del ‘600, il quale, come testimonia una tela conservata presso la Basilica di Santa Croce a Lecce, era stato indicato come intercessore nel terremoto del 1743.

Non esistono notizie dirette in merito alla nostra tela, tuttavia, attraverso le Visite Pastorali dal XVII al XIX secolo, è possibile riscostruire le vicende dell’altare presso cui è custodita.

L’altare di Sant’Oronzo, con questa intitolazione, attestato per la prima volta nella Chiesa Madre di Parabita, nel 1659 apparteneva al Reverendo Capitolo dei sacerdoti di Parabita ed era mantenuto dal medesimo Capitolo e dai devoti; nel 1775 subì un restauro per devozione di un sacerdote del Capitolo, un tale don Silvestro Martignano, che, a sue spese, fece eseguire i lavori.

C’è da chiedersi pertanto se la tela di Sant’Emidio sia stata collocata sull’altare proprio in questo periodo e se la sua committenza possa essere riconducibile al medesimo sacerdote, che potrebbe averla fatta realizzare per semplice devozione personale, per una grazia ricevuta, oppure perché proveniva da una realtà dove c’era una devozione per il santo di Ascoli. Non è neppure da escludere la possibilità che la committenza della tela possa essere attribuita a qualche famiglia del posto, anche se mancano prove al riguardo.

Sta di fatto che nel corso del ‘900 la memoria legata alla tela sembra fosse già venuta meno, perché nessuno ricordava più chi fosse il Santo Vescovo raffigurato.

Occorre comunque menzionare che non lontano da Parabita, a Gallipoli, vi è traccia del culto di Sant’Emidio e sono ancora in corso delle verifiche per accertarne la presenza anche ad Alezio e Seclì. Si tratta dunque di un’area ben circoscritta in cui questo culto sembra essere attecchito, se consideriamo che nel resto della provincia di Lecce non sono al giorno d’oggi segnalati altri casi e Parabita resta, pertanto, l’unica a conservare una raffigurazione su tela del santo di Ascoli.

Naturalmente tutto ciò non vuole escludere ulteriori ipotesi di ricerca, successive ad altre ricerche documentarie o a un restauro, di cui la tela avrebbe bisogno, elementi, questi, che potrebbero definire il preciso periodo di realizzazione e l’autore.

Anche l’altare in cui essa è custodita ha subìto nel corso del tempo delle ridipinture che ne hanno alterato l’aspetto originario, come dimostrano alcuni saggi effettuati, con cui si è verificato che esso doveva avere un effetto marmoreo.

La riscoperta di questo santo, dimenticato e male interpretato nel corso degli anni, è sicuramente una traccia preziosa della storia di questa città e delle sue realtà religiose.

 

Bibliografia

 

Giuseppe Fai, Ipotesi di antichi culti a Parabita, in Progetto Parabita, NuovAlba, anno XVII – numero 2 – Dicembre 2017, Parabita.

Giuseppe Fai, La devozione Mariana nel Salento: il culto della Madonna della Coltura a Parabita (XIV – XIX), 2017, Università del Salento, tesi di laurea.

Siti web  

https://santemidionelmondo.wordpress.com/

 

 

La biblioteca degli Alcantarini di Parabita

“Un bene storico di particolare rilevanza” è stato riconosciuto il fondo librario parabitano dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica della Puglia e Basilicata, e lo dice entusiasta il parroco della chiesa matrice don Santino Bove Balestra.

Il nucleo originario proviene dai frati Alcantarini, presenti per circa 150 anni e poi soppressi nella cittadina nel 1861, salvato dall’arciprete Gaetano Fagiani negli anni 30 del secolo scorso.

Fu il monsignore a volerlo custodire presso la casa canonica della parrocchia San Giovanni Battista, dove ancora esiste, con una consistenza di 570 volumi editi tra il 1491 e il 1830 (un incunabolo, 19 cinquecentine, 78 seicentine, 433 settecentine e 40 ottocentine).

Il fondo fu studiato, e analiticamente catalogato, da Laura Stefanelli, che pubblicò le risultanze nel volume “La biblioteca degli Alcantarini di Parabita” (Congedo editore).

Ora c’è da sperare che possa essere incrementato e reso fruibile.

 

Si legga inoltre:

http://www.piazzasalento.it/parabita-la-soprintendenza-riconosce-la-rilevanza-storica-della-biblioteca-degli-alcantarini-89032

 

 

Sopravvive parte degli affreschi di S. Maria dell’Umiltà in Parabita

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di Marcello Gaballo

Sempre il 28 dicembre prossimo (ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, in piazza Pio XI, di fronte alla Cattedrale di Nardò), tra le opere “ritrovate”, dallo storico dell’arte Dott. Paolo Giuri saranno presentati al pubblico gli affreschi di gran pregio recuperati dalla Soprintendenza negli anni ’50 del secolo scorso e provenienti dalla chiesa domenicana del Rosario in Parabita, già esposti nella sede di rappresentanza della Regione Puglia nella Capitale.

Non sono note le vicende della predetta chiesa, annessa al convento di Santa Maria dell’Umiltà, che si ritiene fondato agli inizi del XV secolo, per poi essere soppresso con le leggi eversive agli inizi del XIX secolo, quando fu acquisito dal Comune, che poi lo destinò a sede dei Regi Carabinieri, del Giudicato e della Cancelleria Comunale[1].

Gli inevitabili rimaneggiamenti hanno snaturato il complesso, sino a cancellare l’originario impianto, che si sviluppava anche su un piano superiore, adibito a dormitorio della fraternità, con il coro “di notte”.

L’antica chiesa che ospitò gli affreschi fu invece ceduta negli anni 30 del Novecento alla parrocchia di San Giovanni Battista, che nel 1954 la riadattò parzialmente per attività ricreative, con danni irreparabili e distruzione dei diversi cicli di affreschi, di gran parte degli elementi architettonici, tra cui ben dieci altari, sedici cenotafi[2] ed un fonte battesimale lapideo, probabilmente realizzati verso la metà del ‘500, essendo barone e feudatario Pirro Granai Castriota[3].

La mancanza di adeguata descrizione dell’importante complesso in qualificate pubblicazioni e le scarse notizie documentarie finora reperite impediscono di cogliere le varie espressioni artistiche che erano senz’altro presenti nell’unico ambiente chiesastico, le cui vicende forse potrebbero essere chiarite da uno studio attento su quanto è sopravvissuto sino ai nostri giorni. Non resta traccia del suo soffitto ligneo a cassettoni, di cui si tramanda il solo ricordo, mentre avanzano la facciata con il caratteristico rosone e le sculture raffiguranti la Crocifissione e una Annunciazione.

Pur trattandosi di frammenti, tuttavia quelli che saranno ospitati nel museo sono ben identificabili in alcune delle figure rappresentate: la Madonna della Coltura, un S. Antonio abate e due santi vescovi, forse realizzati da differenti frescanti ed inseriti in più cicli di epoche diverse.

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Di essi senz’altro merita maggiore attenzione quello della Vergine con il Figlio, se non altro per essere attualmente (e sin dal 1847) la Protettrice di Parabita (da compatrone che era insieme a San Sebastiano e San Giovanni Battista).

In attesa di conoscere le valutazioni del Dott. Giuri, non è peregrino ipotizzare per questa una datazione intorno alla metà del ‘400[4]. Di lì a poco, nel 1456, la nostra chiesa sembra costituisse una delle tappe da raggiungere prima di concludere il pellegrinaggio sino a Finibus Terrae disposto dal re di Napoli Alfonso d’Aragona, che “mandao certi penitentiali, vestiti di bianco per tutte le perdonancie fieni (fino) a Santa Maria de Leuche per applicare (sedare) l’ira di Dio”[5].

Il nostro affresco della Madonna della Coltura sembra esser la copia dell’omonima immagine del celebre monolito parabitano (oggi nel santuario), copia di quella Madonna del tipo dell’Eleousa rappresentata nella basilica orsiniana di S. Caterina in Galatina (1435-1445) e nella chiesa di Santo Stefano a Soleto[6].

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[1] A. D’Antico (a cura di), Parabita. Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, Il Laboratorio, Alezio 1998, p. 33.

[2] O. Seclì, Parabita nel ‘700. Dinamiche storiche di un secolo, Il Laboratorio, Parabita 2002, p. 93.

[3] Cfr. O. Seclì, Note e documenti sul culto della Madonna della Cultura, Il Laboratorio, Parabita 1992, p. 4.

[4] O. Seclì, Note e documenti sul culto della Madonna della Cultura, cit., p. 19.

[5] A. De Bernart, Iconografia della Madonna della Cultura nella storia di Parabita, Galatina 1998, p.19.

[6] Idem, p.19; AA.VV., Il santuario della Coltura e l’Ordine dei Frati Predicatori, Bari 1982, p.125.

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Libri. Un romanzo storico in quel di Parabita

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di Paolo Vincenti

 

L’amore per la piccola patria può avere diverse sfaccettature e portare  uno storico a farsi romanziere. Così l’erudito Ortensio Seclì  lascia le ricerche e la saggistica e profonde la sua abilità scrittoria nell’invenzione narrativa.  E dopo “Il giardino grande” (2012), pubblica, sempre con l’editore Il Laboratorio di Parabita, “Per amore…solo per amore” (2014). A dire il vero,  la commistione dei generi non è trovata di poco momento e lo sanno bene gli appassionati lettori dei romanzi storici.

In questo genere letterario di gran successo infatti si colloca il libro di Seclì, che unisce alla piacevolezza della fiction, la precisione del dato storico,  in un impianto narrativo solido cui fa da basamento la pluridecennale esperienza letteraria dell’autore.

La complessa vita sociale, politica e religiosa  parabitana fa da sfondo alla narrazione e si intreccia alle varie love stories raccontate. Nell’ordine:  quella sfortunata e senza prole fra il duchino Giovanni e l’ aristocratica napoletana Olimpia, che monopolizza la prima parte del libro e la cui sfortuna viene attribuita da un lato alla fama da jettatore che il nobiluomo Della Valle, padre di Olimpia si porta dietro, e dall’altro alla “maledizione di Rosaria”, vale a dire la protagonista della storia d’amore del precedente libro di Seclì, la quale, a detta di Lucia la Greca, madre di Giovannino, dopo aver disonorato la famiglia dei Ferrari in vita, a causa del matrimonio fra lei, popolana, e l’altolocato Don Saverio, continuava a portar sfortuna anche dopo morta. Poi la storia d’amore, pure molto tormentata, fra Vincenzo Ferrari, figlio di quella stessa Rosaria Cataldo, e Lucia Nicolazzo, che occupa la parte centrale del libro;  l’amore di Andrea Giannelli, noto esponente liberale del risorgimento salentino, e Agnese, una dei tre figli di Vincenzo e Lucia; la storia d’amore, complice Giuseppe Ferrari, fra l’umile falegname Gaetano e la bella Concetta;  e infine la storia d’amore fra lo stesso Giuseppe, terzo figlio dei signori Vincenzo e Lucia, anche Sindaco di Parabita dal 1857 e il 1860, ed una esponente del popolo, tanto povera quanto onesta e timorata di Dio, Nunziata.

Il libro dunque si caratterizza come una saga famigliare, e a fare da trade union fra le vicende narrate è proprio l’amore che impasta le vite dei protagonisti, dà sale alla storia globale raccontata, a partire dal titolo del libro che richiama quello di un film del 1993, “Per amore solo per amore”, tratto dall’omonimo romanzo di Pasquale Festa Campanile, ed anche il refrain di una bellissima canzone di Roberto Vecchioni (“Per amore mio”).  Ma le biografie dei personaggi e l’orizzonte temporale dell’Ottocento parabitano preso in esame, si presentano complementari, in quanto le vicende personali sono sempre gravide di conseguenze che riguardano la collettività e le scelte individuali o famigliari degli aristocratici Ferrari si riflettono gioco forza sui destini della comunità, ancora all’epoca asservita ai ricchi feudatari. Una nota di merito alla scrittura di Seclì che scorre piana, limpida, adamantina per tutto il libro.  Molto bella la copertina opera del pittore-poeta Giuseppe, Pippi, Greco, mentre la progettazione grafica è di Sandra Greco.

Già recensendo suoi precedenti lavori, ho scritto che Ortensio Seclì è fedele metodologicamente  alla scuola storica degli Annales, quella dei vari Bloch, Lefebvre, Braduel, che cioè considerava la storia non solo, crocianamente, sotto il profilo etico-politico, ma anche nei suoi interessi  economici, sociali, antropologici, psicologici. Georges Lefebvre infatti affermava che “la storia non è scritta una volta per sempre, non è composta di una specie di materia morta e irrigidita per l’eternità, ma è in perpetua gestazione, si evolve con la civiltà degli uomini e con gli avvenimenti che segnano la loro esistenza”.

I ricercatori come Ortensio Seclì  non si accontentano di ricordare il passato ma lo reinterpretano, lo ricostruiscono sempre alla luce delle nuove acquisizioni che di volta in volta sgretolano parte di quelle che erano ritenute verità tradizionali. Il merito maggiore di questi due libri di Ortensio Seclì è quello di aver dato un volto, un cuore, sentimenti, a quei personaggi della storia parabitana che altrimenti sarebbero restati solo dei nomi incorniciati dalle due date di nascita e di morte. Seclì ha dialogato con l’Ottocento parabitano, ha animato i ritratti di questi dignitari del passato, gli ha dato colore, spessore, flatus vocis quasi, dalle righe intense dei suoi dialoghi.

Chiaro che l’autore abbia il culto della storia, il gusto di riportare all’attenzione dei contemporanei le vestigia del passato, e sebbene la sua ricostruzione sia  corretta filologicamente, essa è vivificata dall’invenzione letteraria, che sembra confermare l’assunto precedentemente svolto, ossia della storia intesa come continua ricerca. Senza mai perdere di vista l’alta funzione della storia. Significativo è a tal proposito quanto l’ autore fa dire a Don Giovannino, il quale parlando sul letto di morte, col frate Padre Damiano, sentenzia: “ La storia! La morte non ha alcun potere su di essa perché anche quando sembra che la storia sia stata cancellata, un bel giorno torna dal mondo dell’oblio nel quale sembrava fosse stata dimenticata e si impone prepotente agli uomini… è la memoria di noi, di ciò che abbiamo fatto, di come abbiamo saputo operare che viene conservata dalla storia e che ritorna anche dopo secoli a farci giudicare dal mondo”.

L’inclinazione di chi scrive si fa manifesta nelle ultime dieci pagine del libro dove il romanzo vira più decisamente verso il saggio storico, con le vicende relative alla nascita della Banca Popolare di Parabita. In questo cambio di passo sembra quasi che Seclì abbia voluto recuperare  la sua prima vocazione e con questa  suggellare la fortunata parentesi narrativa. Nel complesso, un buon libro, a cui dà lievito l’interesse della materia trattata e  dà sentimento, insufflata nell’impianto generale dell’opera, la passione di chi la muove.

 

Le “Omelie” di padre Francesco La Vecchia

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di Paolo Vincenti

 

“Per un editore che ha scelto la linea laica per la pubblicazione di prodotti editoriali, non sembri strano di aver scelto un volume di omelie. Intanto la scelta laica (non laicista) è dettata dalla necessità di non privilegiare prodotti letterari in funzione di una propria e limitata visione ideologica del mondo, ma dal bisogno di privilegiare espressioni, sensazioni, percezioni, prose, poesie, capaci di esprimere il meglio dell’esperienza umana.” Con queste parole, nella sua Nota dell’Editore, Aldo D’antico, spiega le ragioni che hanno portato la sua casa editrice, Il Laboratorio Parabita, a pubblicare “Omelie. Presenze e testimonianze a Parabita” di Padre Francesco La Vecchia (2013), nella collana “Contributi”.

L’autore è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita fino a qualche tempo fa e questo libro raccoglie le sue predicazioni, ovvero le omelie, rivolte ai fedeli durante la Messa dopo le letture. Le occasioni sono le più disparate del calendario liturgico e si può riscontrare come Padre Francesco sia un religioso di grande preparazione il quale unisce al solido fondamento culturale che è proprio del suo ordine religioso, il pathos, ossia quella compartecipazione umana che è propria invece dell’autore.

E’ sempre l’editore a parlare: “Che senso hanno le omelie di Padre La Vecchia? Egli è stato padre superiore dei Domenicani di Parabita, un paese nel quale l’ordine dei predicatori di San Domenico arrivò nel lontano 1405, marginalizzando il culto greco che ivi si officiava, edificando un Convento e una Chiesa (Santa Maria dell’Umiltà) dichiarato monumento nazionale e successivamente scerpato, tagliato, suddiviso con uno scempio unico nel suo genere. Al loro ritorno hanno custodito la Madonna della Coltura per i Parabitani, la loro storia, memoria, cultura. Padre Francesco, nelle sue prediche richiama il senso della storia e della vita, propone il culto non solo come fatto di fede ma anche come dimensione dello spirito, fatto civile di adesione all’uomo e al suo valore. Leggendo le sue omelie un credente rafforza la propria scelta di fede, un non credente riflette sui destini dell’umanità. Motivi abbastanza validi per proporle come edizione”.

Presentato nella Parrocchia di Sant’Antonio in Parabita, il 14 dicembre 2013 da Don Angelo Corvo, Parroco della Chiesa matrice di Parabita, Remigio Morelli e Luigi Cataldo, il libro contiene un estratto da un’opera di Don Tonino Bello (“Parole d’amore”) e alcune lettere indirizzate da Luigi Cataldo, curatore del libro, all’autore. Da queste si evince il grande legame di affetto e fraterno vincolo di fede che unisce Cataldo a Padre La Vecchia, e il dispiacere di Cataldo, che è poi il rammarico dell’intera comunità parabitana, in occasione della partenza dalla città di Padre Francesco quando egli, a fine 2010, dovette andare perché destinato ad altro incarico.

Si comprende che sia abbastanza forte il segno lasciato dal domenicano nel paese della Madonna della Coltura se è vero che oggi esce questo libriccino che lo vede protagonista indimenticato nel cuore dei  fedeli  e degli amici parabitani. Contributi, quindi, di importanza storica, affettiva, contestuale, sociale, politica, con questa collana de “Il Laboratorio”, che risponde ad un bisogno di conoscenza e più ampia diffusione della cultura a tutti i suoi livelli.

 

Volti delle donne di un tempo, a Parabita

Spettacolo teatrale “Volti delle donne di un tempo”

Domenica 11 agosto, ore 21,30 – Piazza Umberto I, Parabita (Le)

 

Volti di donne_Locandina_Parabita copia

Il Comune di Parabita (Le) in collaborazione con l’Associazione ‘emergenze sud – cantieri culturali aperti’ di Parabita e l’Associazione Regionale Pugliesi di Milano  promuove lo spettacolo teatrale “Volti delle donne di un tempo”, scritto e diretto da Paolo Rausa.

Tratto dalla raccolta di racconti “Volti di carta, Storie di donne del Salento che fu” di Raffaella Verdesca, rappresenta attraverso la storia di 6 donne esemplari, vissute fra le due guerre e nel periodo postbellico, il percorso faticoso delle donne del sud per emanciparsi dalla fatica, dalla violenza e dalle intimidazioni, alle quali queste donne coraggiose rispondono con determinazione e grande dignità. Questi esempi rappresentano le donne  mediterranee e in particolare del nostro Sud, il Salento, la “Porta d’Oriente” come lo definisce l’autrice di questa raccolta di racconti che possiamo definire una vera e propria epopea.

Sono ritratti i volti vivi di Vincenzina, operaia in una fabbrica di tabacco, di Nunziata, moglie di emigrante, di Teresina, contadina violata nel corpo e nello spirito, di Immacolata, curiosa e desiderosa di apprendere la cultura diversa degli ebrei, sfuggiti alla deportazione e che trovano al sud un momentaneo luogo di pace in attesa di raggiungere la terra promessa, di Uccia la mammana, che vive donando la vita e alla fine viene premiata con una vita trovata e adottata, e infine di Caterina, resa vedova per una diagnosi sbagliata, mortale per il marito, e che ora non si dà pace e lavora giorno e notte per assicurare il cibo e un futuro ai figli.

Donne di un tempo, ma che ritroviamo nelle tante donne acrobate di oggi che lottano per la vita nel nostro Sud e nel Mediterraneo, discriminate e oggetto di violenza, ma imperterrite nell’affermare il diritto al lavoro, all’istruzione e agli affetti.

Lo spettacolo è stato presentato in prima assoluta il 26 dicembre 2012 alla Casa di Riposo “Capece” di Nociglia (Le) in versione ridotta e successivamente la notte del 31 dicembre, ovvero alle 5 di mattina del 1° gennaio 2013, in versione completa al Faro della Palascìa (Otranto) nell’ambito della manifestazione l’Alba dei Popoli, organizzata da Legambiente in collaborazione con il Comune di Otranto, l’8 di marzo al Palazzo della Cultura di Poggiardo (Lecce) e il 12 marzo allo Spazio Oberdan-Cineteca Italiana di Milano.

L’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti.

Salento, è festa grande con la “Bohème” della Stajano

di Francesco Greco
fuochi
Salento in festa dal 16 al 23 aprile (dalle ore 19 alle ore 24, in contrada Est Bavota) con la manifestazione musicale “Messapia in….rondine” che si svolge a Parabita (Lecce), la città delle celebri “Veneri” e il cui Comitato Organizzatore è presieduto dall’avv. Mario Nicoletti, personaggio molto noto in Salento ed extra-moenia.
Questo evento è considerato la festa di primavera di tutta la Murgia Salentina e cade nel periodo della secolare e tradizionale Festa della Madonna della Coltura, protettrice di tutti gli agricoltori, riconosciuta come tale da Giovanni Paolo II nel settembre del 1994, che così rafforzò un culto da secoli è molto sentito dalla popolazione di tutta l’area attorno alla mitica città messapica di Bavota.
   Il programma messo in cantiere prevede l’esibizione delle bande musicali di Conversano (Bari) e di Squinzano (Lecce), delll’Orchestra Filarmonica  “Valente” con la direzione del Maestro Salvatore Valente.
Ma a impreziosire questa edizione sarà la grande musica, il bel canto. La sera del 20 a Parabita arriva infatti la “Bohème”, l’opera immortale di Giacomo Puccini, portata dalla Compagnia Lirica “Mondo d’Arte” del tenore Davide Olivoni, che firma anche la regia.
davide olivoni
La “gemma” della serata sarà la guest-star Francesca Stajano (in foto), attrice cinematografica e televisiva, produttrice, di origine leccese: una personalità artistica eclettica e multiforme, un talento naturale, quel che si dice “un’eccellenza di Puglia”.
   “Mondo d’Arte” vede la luce nel 2006, quando Olivoni ebbe l’occasione di presentare al teatro “Ambra” di Poggio a Caiano (Grosseto) la sua prima opera lirica, un testo del teatro classico, “La statua” (ovvero le donne di Pigmalione), di George Bernard Show. Da allora è stato un crescendo di proposte e di spettacoli nei teatri di tutta Italia (dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalla Calabria al Piemonte) con un vasto repertorio di opere della nostra sconfinata e raffinata tradizione lirica: oltre all’opera pucciniana, “Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, la “Traviata” di Giuseppe Verdi, i “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, sono solo alcuni dei successi da “tutto esaurito” di Olivoni e Stajano, una diva molto amata dal pubblico che la segue ovunque in tutte le “piazze”.
   A Parabita sarà la “Bohème” che piace al pubblico sin dal 2007, conforme all’originale: un allestimento che vedrà in scena i cantanti principali e altre figurazioni attoriali. “L’ambientazione scenica e costumistica sarà contemporanea, perché – fanno sapere dalla produzione – l’argomento dell’opera è attualissimo: la povertà degli artisti, e l’indistruttibilità dei loro sogni, sono sempre esistiti e continuano a esistere”. E, c’è da aggiungere, non c’è crisi né recessione che tenga: esistono sin dalle corifee ateniesi e le tragedie greche, passando per il Carro di Tespi sino alla polvere del palcoscenico dei teatri d’avanguardia, da Brecht a Beckett e Jonesco.
yuri yoshikawa
yuri yoshikawa
   I cantanti, oltre allo stesso Olivoni (“Rodolfo”), sono Yuri Yoshikawa nel ruolo di “Mimì”, Merita Dileo è “Musetta”, Stefano Lovato (“Marcello”) Stefano Madeddu (“Alcindoro”), Francesca Stajano (“Momus” e coro).
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E non finisce qui: questa edizione della festa della Madonna della Coltura si annuncia memorabile, ricordata a futura memoria: nelle serate del 21 e 23 avranno luogo infatti anche due concerti lirici, presentati da Francesca Stajano, eseguiti sempre dai cantanti della Compagnia Lirica “Mondo d’Arte”. In programma arie e duetti tratti dalle opere liriche più conosciute e più amate da secoli dal pubblico di tutto il mondo: Verdi, Donizetti, Leoncavallo, Mozart, Puccini, Mascagni, Giordano, ecc.
   E’ proprio il caso di dire: è qui la festa! Sipario!

Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo

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di Paolo Vincenti

 

La storia che voglio raccontare parte da lontano. Un giorno di alcuni anni fa, curiosando fra gli scaffali dell’Archivio Storico Parabitano e conversando con il suo responsabile ed animatore Aldo D’Antico, mi colpisce una storia, quella de “I promessi sposi parabitani”, come semplicisticamente è stata ribattezzata, scritta su una vecchia rivista , della quale chiedo lumi a D’Antico. Egli mi spiega che l’estensore di quella nota storiografica è Mario Cala e che quindi a lui più di tutti io debbo semmai chiedere delucidazioni. Intanto però Aldo mi dona la collezione completa della vecchia rivista della Pro Loco parabitana perché è proprio su uno dei primi ingialliti fogli di quell’opuscolo che leggo la storia in oggetto. Per l’esattezza si tratta dell’articolo  Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo, di Mario Cala,contenuto  in “A Parabita due notti d’estate”, 2° edizione, Parabita 1977. Si tratta di una storia d’amore che coinvolge due protagonisti della nobile famiglia Ferrari che tenne il feudo di Parabita fino all’Ottocento.

Questa storia venne resa nota con un documento del 1823 ,“Memoria pel Duca di Parabita nella causa co’ fratelli Ferrari” (Napoli, Tipografia di Nunzio Pasca), un trattato di giurisprudenza in cui era contenuta la storia raccontata da Mario Cala.

I fatti si svolgevano nell’anno 1780 quando Don Francesco Saverio Ferrari, figlio di Don Giuseppe, primo Duca di Parabita, viveva una clandestina e tormentata storia d’amore con tale Rosaria Cataldo, una popolana, probabilmente figlia di qualche governante di casa Ferrari. Chiaramente questa storia d’amore trovò la disapprovazione della illustre famiglia del rampollo parabitano, tanto che Francesco Saverio e Rosaria dovettero ricorrere all’astuzia per poter celebrare il loro matrimonio. I due giovani infatti, che avevano già avuto due figlioli, Francesco e Vincenzo, si recarono notte tempo da un recalcitrante arciprete, Don Vincenzo Maria Ferrari, costringendo con l’inganno il curato a dichiararli marito e moglie. L’arciprete negò che quel rito fosse valido e Rosaria e Francesco Saverio  vennero condannati l’una a stare richiusa in un monastero di Lecce e l’altro a star lontano e non più rivedere la sua amata.

Dopo una lunga battaglia legale, il matrimonio divenne finalmente valido. Ma nel frattempo Francesco Saverio , che tanto aveva sofferto per lo sdegno e l’onta subita e per la lontananza da Rosaria, si ammalò gravemente e morì dopo appena un anno.

Questa la storia degli sfortunati amanti documentata da Mario Cala che nel suo scritto allega anche un albero genealogico della famiglia Ferrari. Questo articolo di Cala viene poi ripubblicato in “Minima Storica Parabitana”, edito dall’Adovos di Parabita nel 1991 e in “Studi di Storia e Cultura meridionale”, volume della Società di storia Patria per la Puglia, Galatina 1992.  Intorno a questi fatti, qualche anno fa, si scatenò anche un certo clamore mediatico in quanto un giovane ricercatore, appropriandosi della storia, volle far credere che lo stesso Manzoni per la sua celebre pubblicazione si fosse ispirato ai due giovani parabitani. Ciò portò Mario Cala a smentire pubblicamente quanto arbitrariamente affermato, dal momento che lo stesso Cala, se aveva parlato di analogie fra la sua storia e quella dei Promessi Sposi  manzoniani, mai tuttavia aveva  millantato che il grande scrittore milanese si fosse recato a Parabita o  fosse in qualche modo venuto a conoscenza di questo documento storico.

Quella di Francesco Saverio e Rosaria resta comunque una bella storia d’amore, emersa dalle brume del settecento parabitano .  Ed è da lì  che si dipana quel sottile ma resistente filo di una matassa che arriva fino ai nostri giorni, con la pubblicazione in questo anno  2012, del romanzo “Il giardino grande” (Il Laboratorio editore) a firma di Ortensio Seclì, noto e stimato studioso di storia locale il quale me ne fa dono in uno dei nostri incontri sempre graditi e proficui per chi scrive queste note.

Si tratta di un libro che, in 35 capitoli più un Epilogo, partendo dalla documentazione di cui ho detto sopra, sviluppa una trama del tutto avvincente, tanto da far quasi dimenticare la realtà storica che fornisce a Seclì l’abbrivio per la sua narrazione. Il libro ha una  coperta rossa rigida con un bel disegno di Giuseppe Greco e  aggiunta di sopracoperta  arricchita da una bandella destra, con breve nota dell’editore, e bandella sinistra, con ritratto dell’autore ad opera di Giuseppe Greco e brevi note bio-bibliografiche.

Nella narrazione, agli elementi di pura fantasia, si uniscono degli inserti tratti dai documenti d’archivio e riportati in corsivo. La prosa di Seclì fluisce limpida e leggera nelle pagine di quest’opera amabile che si fa leggere dall’inizio alla fine senza nessun calo di interesse. Riemerge così da un passato sul quale sembrava si fossero ormai addensate le nebbie dell’oblio, grazie a questo omaggio letterario, la storia d’amore di Saverio e Rosaria (proprio a lei l’autore dedica il libro), i quali tornano a parlarci di un tempo in cui troppi ostacoli di carattere culturale e sociale impedivano il libero cammino di un amore mutuo e sincero che oggi (forse) non avrebbe incontrato nessuna riprovazione.

Il periodo storico in cui si dipana l’intreccio narrativo, attraverso le vicende reali e simboliche dei due amanti protagonisti, è il grande teatro del settecento parabitano, un’epoca che Seclì conosce bene per averle già dedicato una monografia qualche anno fa (“Parabita nel Settecento”, Il Laboratorio Editore). La narrazione, degna del miglior romanzo nazionale contemporaneo, come è già stato sottolineato, si muove con andamento lento ma vario, mai stanco, sorretta da una tecnica espressiva matura e da una efficace orchestrazione con cui l’autore, che ha orecchio musicale, mette in scena fatti e personaggi, fra motivi dinamici e statici, muovendo  le corde giuste al momento giusto per creare quel sicuro effetto di incantamento (ché il narratore cantastorie è sempre un poco stregone,fingitore, sciamano ) nel lettore.

Non sorprende la capacità narrativa di Seclì perché già nei suoi articoli di storia locale, comparsi su svariate riviste, ci aveva abituato alla nota di colore, all’inserzione di aneddoti e trance de vie all’interno della macronarrazione storica di cui si occupava. Sempre attento al minimo dettaglio e con una spiccata sensibilità verso gli umili, quei personaggi minori, se non minimi, delle nostre comunità municipali che Seclì ha sempre voluto dimostrare che fossero, quanto e più dei grandi personaggi,  calati nella storia e che come loro avessero pari dignità e medesimo spirito di appartenenza al contesto storico analizzato. Non sono mancati nemmeno, nelle sue noterelle storiche, degli spezzoni di umorismo a mitigare la fredda scientificità dei documenti compulsati e tutto ciò ha avvicinato il lettore ai precedenti articoli e libri di Seclì e, almeno per quanto mi riguarda, ha fatto intendere che, dietro lo storico, si stesse preparando il narratore, che insomma il romanziere attendesse solo il momento opportuno per rivelarsi. E il momento ora è arrivato. Una storia matura nella mente del proprio creatore nel tempo più o meno lungo della sua ideazione e in quello entusiasmante ma  laborioso della sua gestazione. L’autore vive dentro di sé i propri personaggi, le storie, gli avvenimenti ideati, fino a quando essi  non diventano pagine di libro da consegnare all’editore, il quale  a sua volta li consegnerà ai lettori con la dovuta apprensione che accompagna ogni nuova pubblicazione. Se questa pubblicazione poi incontra il gradimento di pubblico e critica, ciò significa che il lavoro svolto è stato ben fatto, le attese ben riposte i sacrifici fatti vengono ripagati. Ciò accade all’opera dell’amico Ortensio Seclì ed io sono lieto di darne testimonianza in questo mia modesta recensione. L’arte di raccontare del maestro Seclì ci consegna il suo frutto più maturo, la prova più compiuta,  con questo romanzo, se è vero che, alla fine della lettura, la polvere di quel mondo antico raccontato ci sarà rimasta attaccata alla suola delle scarpe e qualcosa di esso continueremo a portarci dentro a lungo nei nostri percorsi quotidiani.

 

Parabita. Si presenta Volti di carta, storie di donne del Salento che fu

Il Presidio del libro di Parabita  Cantieri culturali aperti – Emergenze Sud

è lieto di invitare la S. V.

alla presentazione del libro

VOLTI DI CARTA, STORIE DI DONNE DEL SALENTO CHE FU       (Ed. Albatros-Il Filo)

DI RAFFAELLA VERDESCA

MARTEDI’ 16 OTTOBRE ORE 18,30

PALAZZO FERRARI – PARABITA

Venti ritratti di donne salentine tra le due guerre, venti storie coinvolgenti sul piano emotivo e narrativo. Uno straordinario affresco del Salento tra le due guerre attraverso la fotografia delle sue donne.

Scrive Pier Paolo Tarsi nella prefazione:   Della sua terra di origine Raffaella Verdesca ci svela nelle pagine che seguono il passato femminile nelle sue forme più intime e pertanto inafferabili, quelle cioè del vissuto emotivo, restituendoci la profondità interiore di un mondo di donne a cui possiamo ridare nuovi confini e contorni, esplorandole attraverso ritratti da leggere, da sfogliare e da meditare, per scoprire cosa di quell’universo umano ancora sopravviva, ossia, con le parole dell’autrice,” l’insegnamento di un salento al femminile capace di dignità e dolore, speranza e riscatto, padrone del coraggio di credere ancora” .

Dialogheranno con Raffaella Verdesca Paolo Vincenti e Sonia Cataldo. Letture di Alfredo Romano.

Musica e canto di Giuliana Paciolla ed Enza Pagliara.

 

Iniziativa promossa da Regione Puglia- Assessorato al Mediterraneo – e dall’Ass. Presidi del libro col Patrocinio della Città di Parabita

 

Mario Cala, parabitano doc

MARIO CALA: L’UOMO DAI MILLE VOLTI

 

di Paolo Vincenti

La scrittura, la poesia e la pittura si intrecciano nella  variegata carriera artistica di Mario Cala, parabitano doc, un passato da sportivo e insegnante di educazione fisica di cui rimane traccia nel suo fisico robusto ed asciutto, come quello di un ragazzino, a dispetto dei suoi settanta anni e più di età. Fra i primi operatori culturali parabitani, Mario Cala, ex ufficiale carabiniere, ex insegnante elementare, è oggi un distinto signore che non lesina energie in fatto di ricerca storica, di scrittura e di promozione territoriale della sua adorata madre patria Parabita. Uomo garbato e gentile, sempre disponibile con gli altri, subito pronto, quando la conversazione tocca argomenti a lui congeniali, ad investirti come un fiume in piena di parole, di conoscenze e di saggezza. Mai a corto di ironia e di nuovi progetti, Cala, Vice Presidente della Società di Storia Patria-Sez. di Gallipoli (di cui è Presidente Vitantonio Vinci), è autore di numerose pubblicazioni in cui ha toccato  i più disparati argomenti, da quelli letterari e storici, alla cronaca giornalistica, alla poesia, in lingua e in vernacolo, al teatro, allo sport,  che hanno contribuito a far luce sia sul passato remoto che sul passato più recente della sua adorata Parabita e del Salento.Con Ortensio Seclì e Aldo D’Antico, suoi amici e sodali, costituisce la  aurea triade della pubblicistica parabitana, la “vecchia guardia”, se così si può dire, dove il termine “vecchia” non vuole ovviamente riferirsi al  fattore anagrafico, ma  vuole invece connotare  l’anzianità di servizio dei tre, vale a dire la loro

Non solo Barocco

 

Nel secondo volume di Kunstwollen, periodico di arte e cultura della casa editrice Edizioni Esperidi, la luce segreta delle architetture salentine rimaste in ombra, dal ‘500 agli anni 2000

 

Non solo Barocco

di Giorgia Salicandro

C’è un Salento segreto nascosto all’ombra del folgorante Barocco, un ricamo candido di pietra che si irradia dai vicoli del nobile Capoluogo ai campi del Capo, e attraverso l’eco immobile delle mura racconta una storia di feudatari, chierici e suore, contadini e notabili, sino alla società industriale del ‘900. Una storia che “Architetture salentine”, il secondo volume della rivista culturale Kunstowollen, edita dalla casa editrice di San Cesario Edizioni Esperidi, ha cercato di rubare alla dimenticanza per restituirla a quel Salento che racconta tanto altro oltre le magnifiche chiese barocche.

La scorsa settimana la chiesetta leccese di San Sebastiano è stata la cornice scelta per presentare il volume, il secondo dei tre editi a partire da giugno 2009. Nella raccolta navata della chiesa alle spalle del Duomo, Alice Bottega ha ripercorso a ritroso la storia del luogo attraverso le sue mura. Una storia di terrore e devozione, iniziata nel 1520 nel bel mezzo della pestilenza che sterminò intere famiglie e dimezzò la popolazione, quando con “elemosine e legati pii” la piccola costruzione fu eretta e dedicata al Santo protettore degli appestati. In verità la vocazione sacra del luogo era precedente al “terrore nero”: lì infatti, molto prima che vi si affacciassero vicoli e corti, sorgeva un’antica chiesa rupestre dedicata ai Santi Leonardo, Sebastiano e Rocco. Alcuni decenni più tardi una nuova costruzione accolse il convento delle pentite, che dopo una vita trascorsa “nel vizio” cercavano un ricovero del corpo e dello spirito al riparo del Sacro. Un luogo sobrio, estraneo alla magnificenza barocca che traboccherà dagli ordini superiori delle grandi chiese leccesi, dalla Cattedrale a Santa Croce. Un fascino diverso, raccolto nella grazia della propria semplicità che si presenta inequivocabilmente al fedele già dalla facciata a spioventi, ingentilita appena da fiori e motivi simbolici in pietra leccese intrecciati intorno al portale.

La chiesa di San Sebastiano non è sola a raccontare la bellezza nel Salento non-barocco. A Racale il Palazzo ducale è testimonianza di una lunga storia di famiglie e intrecci di potere. Il Palazzo, come gli altri castelli del Meridione d’Italia, a partire dall’inizio del ‘500 perde il suo connotato militare per divenire residenza nobiliare con funzioni di rappresentanza, così come imposto dalla Corona parallelamente al consolidamento del potere centrale nel Regno di Napoli. Nel primo cinquecento il barone Alfonso Tolomei aveva fatto abbattere la primitiva Parrocchiale dedicata a San Giorgio per fare spazio all’ambiente di rappresentanza per eccellenza, il salone, che viene costruito all’altezza del piano nobile a cui si accede attraverso un monumentale scalone a giorno che parte dal cortile. Altrettanto monumentale doveva essere l’immagine che accoglieva il nobile visitatore all’ingresso della sala: due cortili su entrambi i lati illuminavano l’ampio spazio, la lunga volta a padiglione traboccava di satiri, fauni e altri personaggi pagani tipici della fantasia rinascimentale, che sfidavano con la propria spensierata lascivia le austere scene di Santi di scuola napoletana, costretti a “reggere” corni e frutta dalle pareti laterali. Quando, nel 1695, l’edificio fu acquistato, insieme alla baronia di Racale, da Felice Basurto, il nuovo proprietario volle imprimere al palazzo un simbolo del proprio status, nello spirito controriformistico dell’epoca: fu così che nel salone spuntò un oratorio privato, a cui seguì un secondo fatto erigere da sua moglie Candida Brancaccio. Della storia “lignea”  e “pittorica” del palazzo oggi non rimane più nulla, tuttavia se ne può ricostruire il mosaico attraverso le tracce notarili conservate negli archivi. Un affascinante spaccato della nobiltà di periferia, impegnata nella divisione familiare dei propri beni – il corpo principale all’erede primogenito, un’ala ai genitori, l’altra al fratello chierico – e nella difesa della propria immagine aristocratica dall’invadenza costruttiva dei vicini, risolta con un atto notarile ad hoc che impediva l’erezione di piani più alti del prospetto del Palazzo, mentre al chiuso delle stanze si conservavano tutt’al più quadri “di carta” e mobili “vecchi”, come testimonia un inventario fatto compilare dalla moglie del duca.

Opposta alle logiche umane di ceti e fazioni, infine anche la “grande livellatrice” può divenire un racconto affascinante se ripercorso attraverso la memoria, i tabù e le altre proiezioni di chi resta “al di qua”. Il cimitero di Parabita, esperimento inconsueto nella periferia della periferia salentina, è una delle testimonianze della straordinaria capacità creativa di questa terra. Negli anni ’60 del ‘900 una lungimirante Amministrazione comunale affidò il progetto del nuovo camposanto ad uno Studio romano attivo nel dibattito della neo avanguardia architettonica. L’obiettivo era quello di dotarsi di un luogo degno di custodire le tracce rimaste della civiltà, che sfuggisse all’asettica logica “funzionale” madre di incommentabili ecomostri. E i progettisti romani seppero rispondere in modo illuminato.  “Mentre progettavamo non discutemmo mai dei significati della morte – ricordava più tardi l’architetto Alessandro Anselmi – eppure chi oggi entra nel recinto cimiteriale ha la netta sensazione di trovarsi in un luogo rituale e simbolico”. Un luogo che richiama la propria importanza ma senza ostentazione, sin dalla facciata che corre lungo una sinusoide, sfuggente come la vita terrena, per raccogliersi all’interno attorno alla figura del capitello disegnata dal succedersi delle cappelle private: “l’archetipo” architettonico che lega la pietra al rito della memoria collettiva.

(pubblicato su Paesenuovo del 12/2/2010) 

Francesco Marzano da Parabita (1858-1924), un illustre economista salentino

di Paolo Vincenti

Nella sua collana “Estratti”, Il Laboratorio -Archivio Storico Parabitano  ripubblica l’opera dell’illustre concittadino parabitano Francesco Marzano: Guida allo studio di Economia Politica, edita dallo Stabilimento tipografico Pomarici di Potenza, nel 1887.

Francesco Marzano, nato a Parabita nel 1858, fu uno dei più insigni rappresentanti della scuola economica salentina. Giurista ed economista, pubblicò il primo trattato italiano di scienza delle finanze, anticipando di circa 37 anni l’opera del grande Antonio De Viti De Marco, economista di chiara fama nazionale e deputato radicale al Parlamento italiano agli inizi del Novecento. Molto meno conosciuto, invece, il Marzano, ha dei meriti innegabili nel campo degli studi economici italiani, di cui può ben considerarsi  un luminare.

La sua fondamentale opera “ Compendio di Scienza delle Finanze” venne pubblicata nel 1887 dall’Unione Tipografica Torinese e poi ristampata, in seguito, dalla Utet. L’Ottocento, a Parabita, come informa Aldo D’Antico, in  Parabita – Memorie  e sue antichità di Giuseppe Serino (Il Laboratorio 1998), è un secolo in cui si respira un grande fermento in tutti i settori. Nascono molti frantoi e molini, che utilizzano anche strumenti industriali, e si strutturano in una società cooperativa chiamata “I molini di Parabita”; viene fondata una Società di Mutuo Soccorso, una Farmacia del Popolo e  cresce moltissimo il livello dell’occupazione  e dell’istruzione.

Nel 1888, inoltre, viene fondata la Banca Popolare di Parabita, ad opera di otto cittadini parabitani: Giovanni Vinci, Giuseppe Ferrari, Luigi Muja, Francesco Marzano, Domenico Ferrari, Luigi Giannelli, Donato Pierri e Salvatore Laterza.  Marzano, quindi, fu fra i fondatori della Banca Popolare Cooperativa di Parabita, di cui fu il primo Direttore Generale.  Fu anche Segretario della Camera di Commercio di Lecce e fondò e diresse riviste, come “Il Monitore”, “Il Rolandino”, “La Gazzetta del Notariato” e “Le leggi finanziarie”.

Fra i suoi trattati, di materia fiscale ed economica, ricordiamo: “Questioni di diritto positivo finanziario”, “La Riforma delle Tasse sugli Affari – Legge sulle tasse di registro”, “Teoria generale delle imposte sulla spesa, comunemente chiamate imposte indirette”, “Il commercio del vino nei principali stati del mondo”, e “Guida allo studio dell’Economia Politica”, che viene ora ripubblicata.

Marzano morì a Parabita nel 1924, passando il testimone ad un altro grande giurista, esperto di diritto commerciale: Alfredo De Gregorio (1881-1979), studioso di fama nazionale, anch’egli figlio della eccellente Parabita.

Rocco Coronese: manifesto all’arte

di Paolo Vincenti

Il Museo del Manifesto, a Parabita,  fondato nel 1982 ed unico in tutta l’Italia Meridionale, conta una vastissima collezione di manifesti raccolti nel corso degli anni, con sezioni di cinema, teatro, turismo, pubblicità, politica. Il suo fondatore, Rocco Coronese, voleva un museo aperto e dinamico, che potesse interagire con gli enti e le istituzioni pubbliche del territorio, soprattutto le scuole, per diffondere la cultura del manifesto in tutte le sue angolazioni. Rocco Coronese era nato a Parabita, nel 1931.

Aveva iniziato la sua attività come pittore, frequentando, negli anni Cinquanta, gli ambienti artistici romani. Dalla fine degli anni Sessanta, aveva iniziato l’attività di scultore che lo aveva portato ad esporre nelle maggiori città italiane. Sono numerose le manifestazioni organizzate da Coronese in spazi aperti, come a Roma, Lecce, Parabita, seguendo l’innovativo progetto di valorizzare, attraverso questi eventi artistici, anche i luoghi che li ospitavano e la loro storia. A Parabita, aveva realizzato, per il Parco Comunale, la grande Fontana centrale, i cancelli e la pavimentazione. Fin da quando era giovane studente, Coronese aveva fatto di Roma la sua patria d’elezione: qui, aveva conosciuto la moglie e con lei aveva messo su famiglia, ma il suo cuore era sempre a Parabita, l’amata Parabita.

Nella sua veste di esperto di grafica e comunicazione d’immagine, collaborava con diverse riviste nazionali, con aziende pubbliche e private ed anche, quando Sindaco della Capitale era Argan, famoso critico d’arte, con l’Ufficio Stampa del Comune di Roma. La stessa  città di Roma gli organizzò una mostra riassuntiva di sculture in Piazza Margana. Teneva anche prestigiose collaborazioni con la Rai, con il Coni, con diversi Enti Pubblici, Scuole statali e con la Finsider, le cui collezioni private espongono i suoi quotatissimi  lavori.

Aveva realizzato marchi per importanti aziende, tra cui la nostra Banca Sud Puglia, oggi Popolare Pugliese. A Roma fece molte amicizie, come quella con Vittorio Bodini, che scrisse delle pagine molto belle su di lui.

Un rapporto privilegiato aveva con Cesare Zavattini, con il quale condivideva la passione per il collezionismo di “mini quadri”. All’attività artistica, univa la sua professione di docente:  insegnante di grafica pubblicitaria all’Accademia di Belle Arti di Lecce e, in seguito, di Plastica ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, di cui era anche Direttore.

L’idea di raccogliere dei manifesti e di creare uno spazio apposito per contenerli gli venne sul finire degli anni Settanta e, nel 1982, riuscì a realizzare questo ambizioso ed innovativo progetto, con l’apertura del Centro di attività per la comunicazione-Museo del Manifesto che, oggi, conta più di 70.000 pezzi. Nel 1984, venne tenuta una grande mostra: “ Il manifesto Polacco: Cinema Teatro e Musica”, in collaborazione con l’Ambasciata della Polonia in Italia.

L’attività del Museo, a Parabita, si arrestò nel 1987, a causa di problemi logistici, ma Coronese continuò ad organizzare eventi in altre località italiane.  Trovò nuovi stimoli ed interessi culturali a Ferentino, un piccolo ma significativo paese in provincia di Frosinone, dove nel frattempo si era stabilito, stanco del traffico e della frenesia dell’Urbe. In quel paese, grazie al grande interesse dimostrato dall’Amministrazione Comunale, si potè realizzare una nuova sezione del Museo del Manifesto, strettamente collegato a quello di Parabita, e le attività iniziarono già nel ‘96.

Nel  ‘97, presso l’Unione Industriali di Frosinone, in collaborazione con l’Ufficio Culturale Cinese in Italia, si tenne la mostra “Immagini dalla Cina”. Nel 2002, l’Amministrazione di Parabita,  ha destinato  finalmente al  Museo un’ala di Palazzo Ferrari, dove poter svolgere l’attività del Centro e, nel giugno di quello stesso anno, si è tenuta la  1° Mostra tematica  “L’Arte nei Manifesti”, di cui ha riferito tutta la stampa locale.Quella di Parabita è diventata, così, una sezione distaccata del Museo di Ferentino e questo ha portato ad un gemellaggio fra i due Comuni, nel nome di Rocco Coronese. Nel settembre del 2002, infatti,  una delegazione parabitana, guidata dal Sindaco Adriano Merico, è stata accolta, con tutti gli onori, dalla gemellata città ciociara. Rocco Coronese, per la sua attività di pittore e scultore, compare anche nella “Storia dell’Arte del 900” di Giorgio Di Genova (Bora 2000).

“Un’attività intensa, senza tregua, per la quale non risparmia energie né fisiche, né intellettuali”, dice di lui  Aldo D’Antico, suo parente ed amico, dalle pagine di NuovAlba, nel dicembre 2002, “ …la sua ricerca è costante, senza interruzioni: ma sempre il suo ritorno è a Parabita, il paese, la piazza, il centro storico, i contadini, gli artigiani, i giovani, gli operai, gli intellettuali”. L’artista è morto improvvisamente nel 2002. La figlia, Cristina Coronese, architetto, che oggi prosegue l’attività del Museo, nel solco tracciato dal padre, ci dice: “Quello che mi preme sottolineare è che il nome di mio padre è conosciuto in tutta Italia, per la sua  capacità creativa e per la grande innovazione apportata nel campo delle arti figurative. Mi rendo conto che, soprattutto a Parabita,  il Museo del Manifesto abbia finito per cannibalizzare la sua poliedrica attività e mettere un po’ in ombra gli altri suoi meriti artistici. Di lui hanno scritto Vittorio Bodini, Giuseppe Cassieri, Cesare Zavattini, Rosario Assunto, Sandra Orienti, Toti Carpentieri, ecc. Vivendo con Rocco Coronese, si respirava la sua tensione intellettuale di artista impegnato in una costante ricerca. Si condivideva la sua passione sociale e il rigore morale e con lui si inseguivano i sogni”. Nel 2003, si è tenuta la mostra “Il cinema nei Manifesti di Renato Casaro” e,  all’inaugurazione, Cristina Coronese , ha avuto modo di ricordare che molti erano i progetti che il padre aveva ancora in mente di realizzare.

La Madonna della Coltura di Parabita e l’incendio del campanile

di Paolo Vincenti

La venerazione della  Madonna della Coltura di Parabita è una delle più forti e sentite nel Salento e da molto tempo impegna studiosi ed appassionati nell’inestricabile eppur affascinante ricerca storica, antropologica, linguistica sulle origini di tale culto. Ortensio Seclì, in un suo saggio del 2001, apparso su “La Madonna della Coltura”, pubblicazione annuale sulla fede, la storia e la tradizione, a cura del Comitato Festa Patronale, in collaborazione con la Pro Loco e l’Archivio Storico Parabitano, ci riferisce della più remota testimonianza della leggenda parabitana sul ritrovamento del monolito della Madonna della Coltura; leggenda che,modificata con l’aggiunta di alcuni particolari fantasiosi, fu stampata nel 1896 per i tipi di Luigi Carra in Matino: “E’ tradizione che nella spianata Le Pane della Corte del territorio di Parabita, nel sito detto Cutura fu trovata,arandosi,la mozza lapide, su cui è dipinta a fresco l’immagine della nostra Protettrice, che si chiamò della Coltura, perché rinvenuta coltivando nel Campo Cutura”.

Sul significato dell’intitolazione della Vergine a Cutura, ci viene incontro Aldo D’Antico che, in un suo saggio comparso sempre su “La Madonna della Coltura”, ci dice che il termine, secondo le due ipotesi che si sono affermate nel corso dell’ultimo secolo, potrebbe derivare da cuddhrura, relativo alla Madonna del Pane, alla quale diversi altri paesi dedicano un culto, oppure da cuddhrura inteso come antica unità di misura del terreno seminativo. D’Antico propone poi un’altra ricostruzione.

Nell’iconografia orientale, questa Madonna era detta Hodegitria, perché considerata protettrice dei viandanti. Ed anche la Madonna della Coltura di Parabita era inserita nel percorso dei pellegrinaggi mariani per arrivare a Santa Maria di Leuca, attraverso Alezio (Santa Maria della Lizza), Parabita, Casaranello (Santa Maria della Croce) e Taurisano (Santa Maria della Strada).

A ridosso delle mura dell’antica Bavota, sita in contrada della Corte, e distrutta nel 927 dai Turchi, era probabilmente situata una laura basiliana nella quale era affrescata una Madonna Hodegitria, appunto “vigilatrice dei viandanti”, presso la quale i pellegrini sostavano per guadagnare le indulgenze promesse. Con la persecuzione che i Bizantini subirono tra il 1000 ed il 1300, i monaci furono costretti ad abbandonare la laura.Questa venne col tempo completamente sepolta sotto detriti ed altro materiale, fino a quando il vecchio contadino della leggenda, arando con i suoi buoi, non la riportò alla luce. Il luogo in cui avvenne il rinvenimento si chiamava “contrada la corte seu la cutura”, ed all’immagine venne quasi spontaneamente dato il nome di quel posto, da cui Madonna ta Cutura. La Madonna, patrona dei viandanti, trovata in una cutura, diventa così la protettrice delle coltivazioni e del mondo agricolo in genere, della cultura e della civiltà contadina. Questo culto poi si espande anche nei paesi limitrofi e in tutto il Salento, partendo proprio da Parabita, che si identifica totalmente nel culto della sua Patrona.

La festa per la Madonna ta Cutura si svolge verso fine maggio a Parabita. La giornata più importante è la Domenica,quando, in  mattinata, si ripete la tradizione dei Curraturi: secondo la leggenda, il meravigliato agricoltore, come scrive Mario Cala, altro noto studioso di storia parabitana, nel volume sopra citato, dopo avere prestato le prime dovute cure all’immagine della Vergine con Bambino, corse verso il paese per annunciare il prodigioso ritrovamento e il sacro monolito venne portato in trionfo dagli eccitati concittadini nella chiesa matrice. E dal XIV secolo, ancora oggi, si ripete questa bellissima tradizione, la domenica mattina della festa civile della Madonna della Coltura, a ricordo della corsa che gli antenati avevano fatto dopo il ritrovamento del monolito. Da segnalare ancora il suggestivo incendio del campanile della basilica, grazie ad una felice intuizione che ebbe nel 1971 padre Carlo Viviani,rettore dei Domenicani di Parabita, mutuando questa iniziativa da Santa Maria dell’Arco a Napoli, sede centrale dei Domenicani. Questa tradizione è stata poi ripresa sei anni fa con grande successo. Viene chiamato appositamente un gruppo pirotecnico, specializzato in simulazioni d’incendi di strutture architettoniche, e il campanile sembra davvero bruciare, tra gli applausi e gli sguardi sbalorditi del foltissimo pubblico che riempie Piazza Regina del Cielo, e, quando il campanile sembra ormai essere divorato completamente dal fuoco al suo interno, ecco accorrere la Madonna a spegnerlo e a salvare la sua casa, tra i rintocchi delle campane che suonano a festa.

Anche il lunedì successivo sarà festa, con una processione in ricordo della traslazione del monolito dalla chiesa al Santuario.

Mofificato da: “Il Tacco d’Italia” maggio 2004 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

Rocco Cataldi, l’uomo, il poeta

di Paolo Vincenti

L’anno scorso è scomparso Rocco Cataldi. Parabita ricorda un suo figlio devoto ed uno dei più rappresentativi poeti dialettali pugliesi degli ultimi anni. Uno dei temi ricorrenti nella sua poetica era il mondo degli umili, quella civiltà contadina alla quale egli si sentiva profondamente radicato e dalla quale mai volle staccarsi, rivendicandone orgogliosamente l’appartenenza in tutti i suoi scritti. Una civiltà contadina che era, però, al suo crepuscolo e questo determinava in Cataldi un senso di profonda nostalgia ed amarezza.

Il filo che lo teneva legato a quel mondo in dissoluzione era quello della memoria, del ricordo del buon tempo antico, un tempo fatto di semplicità di gesti e di parole, un tempo in cui bisognava certo tirare la cinghia per andare avanti alla meglio, ma in cui vi era una genuinità di sentimenti ed una bontà di intenti che, nella società ipertecnologica del 2000, Cataldi vedeva irrimediabilmente compromessi. Di qui, l’amaro sfogo contro le brutture e la tristezza dei tempi.

Poesia della memoria, la sua, quindi, e poesia pedagogica, cioè poesia che vuole insegnare, sul modello del Parini, che Cataldi amava, nel tentativo, da lui stesso dichiarato, di una restaurazione di quei principi morali ai quali era legato per formazione, come ad un “Pansieri fissu”. Quegli stessi valori che suo padre, uomo umile ed illetterato (che ricorda nella poesia “ Ci dici tà?”, una delle sue più belle), gli aveva trasmesso, e che lui voleva trasmettere ai suoi allievi, insieme alla “Speranza” di un domani migliore: “Quardati annanti… nu’ bbe scoraggiati! A rretu ‘lla nuveja, nc’è lu sule”.

Come ci riferisce la moglie, Signora Marisa, aveva paura di non riuscire a trasmettere ai suoi ragazzi il buon esempio, quei valori su cui, diceva, si costruisce la società. La scelta del dialetto ha questa valenza, quasi di una battaglia civile in difesa di quei principi di cui la sua storia era maestra (solo una raccolta, “Riflessi opachi” è in lingua italiana).

La sua, secondo Antonio Errico, è “poesia costruita sulle macerie di miti e deità che come ogni mito ed ogni deità esistono finchè esiste l’uomo che ci crede” (introduzione ad “Arretu ‘lla nuveja nc’è lu sule”).

La morale di Cataldi viene da Gino Pisanò, nell’introduzione ai suoi “Culacchi”, definita “esiodea”, “quindi millenaria come il messaggio dell’antico poeta greco, medesima epperò nuova, perché mai fuori tempo e fuori luogo: lavora e sii giusto”.
Rocco Cataldi era nato a Parabita il 9 gennaio 1927. Maestro elementare a Matino, Lecce, Racale e Parabita, dove era diventato una vera istituzione, nel 1985 era stato insignito dal Presidente Pertini dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica”, ma Cataldi non amava sbandierare ai quattro venti questo importante riconoscimento, anche se ne andava fiero e, ci confida Ortensio Seclì, nel privato amava condividere le sue gioie e gratificazioni con gli amici più cari, fra i quali lo stesso Seclì .

La prima raccolta di poesie risale al 1947, “Robba noscia” (Editrice Bruzia), poi “Storria t’à Madonna t’à Cutura” (Paiano Galatina, 1950, poi ripubblicata dall’Adovos di Parabita, nel 1987, con prefazione di Padre Giuseppe Parrotta). Nel 1956, è la volta di “Riflessi opachi” (Gastaldi Milano) e, dopo una lunga pausa, “Lu Ggiudizziu ‘niversale” (Adovos Parabita, 1975), con prefazione di Aldo D’Antico.

Da piccolo, Cataldi aveva conosciuto un poeta dialettale di Taviano, Oronzo Miggiano il quale, cieco dalla nascita, ospitava volentieri il giovane Cataldi nella sua casa, dove viveva solo; un giorno, il Miggiano ascoltò alcune composizioni di Rocco, che aveva trovato il coraggio di leggergliele e, dopo un lungo silenzio(come ricorda lo stesso Cataldi in un aneddoto raccontato a Guido Pisanello su NuovAlba, aprile 2001), il Miggiano disse: “E bravu lu scettu” e lo incoraggiò a continuare sulla strada intrapresa: quella frase divenne il titolo di una poesia di Cataldi dedicata proprio al Miggiano.

A proposito della poesia dialettale del Cataldi, Donato Valli, nell’ultimo numero di NuovAlba (aprile 2005), tracciando un profilo del grande amico perduto, precisa il posto in cui si colloca Cataldi nel panorama della poesia dialettale in generale; spiega Valli, “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale “riflessa”, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”.

Il nostro rientra, dunque, nel filone popolaresco della poesia in dialetto, ma non nel senso di poesia di origine popolare, come spiega ancora Valli, ma nel senso che essa muove da colori, umori e sapori che sono radicati nel popolo ritenuto, in una visione romantica e mazziniana, come depositario della bontà e della saggezza.

Nel 1977, viene pubblicato “Pale te ficalindie” dalla Editrice Salentina di Galatina, proprio con prefazione di Donato Valli. Nel 1982, è la volta di “Li sonni te li pòviri” (Congedo Editore), con prefazione di Luciano Graziuso e, nel 1989, “A passu t’ommu” (Congedo), introdotto e commentato da Gino Pisanò. Nel 1988, viene pubblicato dal Laboratorio di Aldo D’antico “A rretu ‘lla nuveja nc’è llu sule”, con introduzione di Antonio Errico.

Aldo D’Antico fa notare che, in un mondo colmo di “nu tumunu te moja e de mundizza”, rivolto solo all’interesse ed al profitto, “l’ironia, il sarcasmo, il paradosso sono le vendette morali con cui il poeta ripaga il mondo e gli altri della loro falsità” Nel 1996, esce “Culacchi”, con prefazione di Gino Pisanò, e il ricavato della vendita di questo libro, dedicato “Ai buoni perché si mantengano tali; agli altri perché lo diventino”, stampato in numero limitato, il poeta volle che fosse devoluto a favore dell’erigendo monumento a Padre Pio, a Parabita. E questo ci porta ad una altro aspetto del poeta Cataldi, cioè la sua forte religiosità; come conferma ancora la Signora Marisa, “avrebbe voluto fare il missionario”, ci dice “ e importantissimi erano questi sentimenti di umana pietà, senso del dovere e della famiglia, onestà intellettuale, che ha voluto trasmettere ai suoi quattro figli”. Si era adoperato per la costruzione di una piazza a Parabita dedicata a Padre Pio. A capo del Comitato Promotore, dovette combattere per anni contro la burocrazia, prima di vedere avverato il suo sogno: finalmente una piazza, all’interno della zona di espansione di Parabita, lungo la strada per Collepasso, con al centro una imponente statua bronzea di Padre Pio da Pietralcina, realizzata dai maestri scultori Donato e Carlo Minonni, grazie anche alla generosità di tanti parabitani e soprattutto del suo grande amico Raffaele Ravenna. “Un’occasione per contribuire alla crescita spirituale della nostra gente”, scriveva Cataldi in un articolo apparso su NuovAlba nel marzo 2002, “per guardare in alto”, “in un momento in cui si è assediati dal materialismo che costringe a guardare in basso” e pubblicava sulla rivista una poesia inedita che aveva scritto in onore del Santo, in occasione di una visita a San Giovanni Rotondo nel 1992, “Quell’unica, umilissima, campana…”.

L’ultimo libro, del 2000, è “Parole terra terra” (Congedo editore), con prefazione di Donato Valli e note esegetiche di Gino Pisanò. A questo bisogna aggiungere tutte le poesie scritte su cartoncini, per i suoi allievi, nelle più svariate occasioni dell’anno scolastico, come il Natale, la Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà, sempre amorevolmente illustrate da Mario Cala e che si trovano ancora in molte case dei parabitani che sono stati allievi del Maestro Rocco. Rocco Cataldi- Mario Cala era diventato negli anni quasi un marchio di fabbrica: “la penna e il pennello”, come lo stesso Cala afferma in un commosso ricordo dell’amico e parente, “lu zì Rocco”, sull’ultimo numero di NuovAlba. Di prossima pubblicazione, è una raccolta di poesie inedite del maestro Rocco, a cura dell’Adovos di Parabita, “Mirando al cuore”, con una nota introduttiva di Aldo D’Antico. “E, òsci, ntorna sule. Comu ieri./ Comu nu stierzu. Sule Salentinu!/ Nù ‘ ccusta nensi, mancu te pansieri./ Cusì nc’è scrittu susu ‘llu bullinu…/ La mmane, s’aza prestu. E’ mattinieri./ E, gentirmente, s’offre pè spuntinu:/ ‘nu stozzu caddu caddu e ‘nnu bicchieri/ te Lacrima te Luna a mmatutinu./A cquai, lu sule è ffrancu. Nd’ave tentu!/ Lu poi truare, specie a mmenzatìa,/ mmiscatu a vere lacrime te chiantu/ te tanta ggente, ca nu’ ttròa la via/ pe ‘ nnu lavoru unestu e ssacrusantu./ E mangia sule, lu Salentu mia…/”.“

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI ROCCO CATALDI

Robba noscia , Bruzia Editore, Castrovillari 1949, con Prefazione di Francesco Russo

Storria t’a Matonna t’a Cutura, Paiano Editore, Galatina 1950

Riflessi opachi, Gastaldi editore, Milano 1956

Lu Ggiutizziu ‘niversale, Adovos Parabita, 1975, con Prefazione di Aldo D’Antico

Pale te ficalindie, Editrice Salentina, Galatina 1977, con Prefazione di Donato Valli

Li sonni te li pòviri, Congedo Editore, Galatina 1982, con Prefazione di Luciano Graziuso

Storria t’ ‘a Matonna t’ ‘a Cutura (ripubblicazione), Adovos Parabita, 1987, con Prefazione di P.Giuseppe Perrotta o.p.

A rretu ‘lla nuveja nc’è lu sule (Antologia 1948-1982), Il Laboratorio, Parabita 1988, con  Introduzione di Antonio Errico

A passu t’ommu, Congedo Editore, Galatina 1989, con Prefazione di Gino Pisanò

Culacchi, Parabita 1996, con Prefazione di Gino Pisanò
Parole terra terra , Congedo Editore, Galatina 2000, con Presentazione di Donato Valli
e Note esegetiche di Gino Pisanò

Mirando al cuore (postumo), Adovos Parabita, 2005, con commento di Mario Bracci, Prefazione di Mario Cala e Presentazione di Aldo D’Antico

Sue poesie ed articoli sono stati pubblicati, fra le altre, sulle seguenti riviste: “A Parabita due notti d’estate” , “Il Donatore”, “Paesenuovo”, “Sagra della patata”, “NuovAlba”.

Pubblicato su “Anxa news”, ottobre 2005 e poi in “Di Parabita e di Parabitani”, di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

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