Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda)

Giulio Cesare Bedeschini,, San Pietro Celestino, 1613, dall’arcivescovato de L’Aquila (da wikipedia)

 

di Giovanna Falco

 

Santa Croce e la Controriforma

Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2],  è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.

Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.

La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563).  Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.

Mausoleo di Celestino V

 

La possibilità di  costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il  detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].

La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.

 

A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 –  non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.

Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio,  rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).

Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver  letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.

[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima  e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche  sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.

[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono  nel 1574)  cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.

[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.

[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.

[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).

[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590).

[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Nardò. Una discutibile rampa a ridosso della chiesa dei Paolotti

di Marcello Gaballo

E’ stato subito allarme generale tra la popolazione più sensibile nel rilevare la rampa per i diversamente abili realizzata in questi giorni a ridosso del prospetto laterale della chiesa di San Francesco da Paola, nota come “Paolotti”, su Via Roma, nelle vicinanze del Castello e Municipio.

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Il progetto, in cantiere da diversi anni, ha trovato i nulla osta necessari da poco tempo, tanto da consentire l’avvio dei lavori per la realizzazione della rampa, al fine di eliminare le cosiddette barriere architettoniche, e il rifacimento del piazzale antistante.

Nessun commento o parere per la sistemazione di quest’ultimo, che non mi compete e che saranno i cittadini a giudicare se in sintonia con il luogo e la storia del posto. Su questo comunque si affacciano il convento secentesco dei frati Paolotti, una attività commerciale (su preesistenze dell’antico convento) e la facciata della chiesa con la sua scala (degli inizi del secolo scorso).

Fatto salvo ogni rispetto e sempre auspicata la giusta attenzione per chi trova difficoltà motorie per accedere al luogo di culto, tuttavia è inevitabile porsi il dubbio se in questi casi occorre venire incontro alle necessità del diversamente abile o privilegiare la tutela e la conservazione dell’immobile, in tal caso deturpato nel suo aspetto esteriore a causa della costruzione che si sta effettuando a ridosso della chiesa. In parole povere, si deve tutelare il monumento o la persona?

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Si è ben consapevoli che gli edifici di culto (chiese, moschee, sinagoghe o qualsiasi altro ambiente destinato al culto) devono essere visitabili o perlomeno prevedere una zona riservata facilmente accessibile per assistere alle funzioni religiose, come previsto dall’art. 3 del D.M. LL.PP. 236/1989). La normativa vigente prescrive, infatti, per i luoghi di culto il requisito della visitabilità. Ma è anche vero che l’art.19, comma 3, del D.P.R.503/96 recita: “la deroga è consentita nel caso in cui le opere di adeguamento costituiscono pregiudizio per valori storici ed estetici del bene tutelato; in tal caso il soddisfacimento del requisito di accessibilità è realizzato attraverso opere provvisionali ovvero, in subordine, con attrezzature d’ausilio e apparecchiature mobili non stabilmente ancorate alle strutture edilizie. La mancata applicazione delle presenti norme deve essere motivata con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio”.

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Non voglio addentrarmi nello specifico, perché vi sono gli specialisti della materia che sanno bene cosa può essere fatto e cosa va evitato, vista anche l’abbondante letteratura in merito.

Nel caso specifico, fermo restando che non so quanti diversamente abili abbiano effettiva necessità di accedere proprio in quella chiesa, avrei immaginato una soluzione diversa. Mi viene in mente un’apparecchiatura mobile di limitate misure sul lato opposto della facciata o, più semplicemente, un accesso riservato ai soli impossibilitati dal retro della chiesa, in corrispondenza della sagrestia, da dove accede il parroco o altri parrocchiani.

La doppia rampa, posta sul già ridotto marciapiede (le foto sono eloquenti) mi pare di ostacolo ai pedoni. E dunque potrebbe nascerne un altro problema, che saranno i tecnici ad affrontare.

Lungi dalla polemica, anche perché conosco bene l’amico direttore dei lavori e il parroco, questa mia è solo per augurare una revisione immediata del progetto (mi riferisco alla sola rampa), studiando soluzioni alternative che comunque impediscano quelle non stabili, addirittura ancorate all’edificio settecentesco.

L’appello perciò al parroco e al consiglio pastorale, che immagino hanno voluto e predisposto questa soluzione, affinchè pensino a situazioni reversibili o ad una piattaforma elevatrice o ad altre soluzioni che i tecnici ben conoscono e che non dovrò certamente qui indicare. Purchè non siano contraria alla conservazione, al decoro e alla visibilità della Chiesa, quindi con pari dignità di rispetto per l’immobile e per tutti i possibili fruitori della chiesa.

Note sulla chiesa dei Paolotti a Nardò

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di Marcello Gaballo

Sorta su una preesistente chiesetta dedicata a S. Maria di Costantinopoli o del Canneto, fu ricostruita dal duca di Nardò Belisario II Acquaviva d’ Aragona (1569-1623), figlio di Giovanbernardino II, per un evento prodigioso occorso nella sua vita tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, nel giardino annesso al castello ducale.

Lo conferma un atto notarile conservato nell’ Archivio di Stato di Lecce, del notaio Pietro Torricchio, in cui si legge che lo stesso duca Belisario “…tenere et possidere in burgensaticum… jardenum unum cum arboribus communibus et cannito et cum ecclesia sub titulo S. Maria de Costantinopoli, existente intus eodem jardenum, in latere versus boream, et de novo aedificata cum maiori parte espensarum ipsius ducis, sita extra et prope menia et castrus eiusdem civitatis, iuxta tres vias publicas et terras mense episcopalis neritonensem…”.

La chiesa era perciò di patronato della famiglia Acquaviva e lo stesso duca aggiunge nel documento “pro salute eius anima, constituere, erigere et fundare quoddam beneficium ecclesiasticum perpetuum sub titulo S. Maria de Costantinopoli in ecclesia predetta…”.

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interno della chiesa con la tomba di Giovan Bernardino Tafuri

 

Che la chiesa fosse preesistente al convento lo si rileva in un atto notarile del 1606, quando Gio. Battista Serpante da Forlì annulla il suo lascito del 1/7/1606 ad Alessandro delli Falconi, a favore della chiesa di S. Maria di Costantinopoli “extra moenia in jardeno Ducis”. Già nel 1573 la chiesa risulta comunque esistente, sempre dedicata a S. Maria di Costantinopoli. Secondo il Moroni i frati si insediarono a Nardò durante l’episcopato di Girolamo De Franchis (1617-1634).

Ciò che oggi si vede fu ricostruito nel 1745, essendo crollata la maggior parte della struttura originaria per il terremoto del 1743. Ciò è ricordato da un’ epigrafe (DOM/ TEMPLUM HOC/ X. CAL. MARTIAS ANNO D.NI MDCCXLIII/MAGNO CIVITATIS EXCIDIO TERRAEMOTU EVERSUM/ NERITONORUM PIETAS/ S. FRANCISCI PAULANI PATRONI PRAESENTISSIMI/ INNUMERIS COMMOTA MIRACULIS/ A FUNDAMENTIS RESTITUIT/ FRATES MINIMI NE POSTEROS LATERET BENEFICIUM/ GRATI ANIMI MONIMENTUM POSUER./ ANNO MDCCXLV).

A ridosso c’era il convento dei Minimi Riformati o Paolotti, che si stabilirono nel convento nel XVII sec. per restarvi sino al 7/8/1809.

La chiesa, con pianta a croce latina, fu consacrata nel 1706 dal Vescovo Fortunato, ma fu in buona parte ricostruita dopo il terremoto del 20 febbraio 1743, forse nel 1749, quando fu riedificata la sacrestia da Mons. Carafa e suo fratello Antonio, come ricorda l’ epigrafe che ancora si vede.

Il prospetto, sobrio ma elegante e slanciato, secondo il gusto dell’epoca, presenta paraste lisce con capitelli adornati da volute. Sui gradini posti all’ esterno della chiesa è visibile l’ insegna dei frati (sole raggiante caricato della parola CHA-RI-TAS).

altare di San Francesco da Paola
altare di San Francesco da Paola

 

Degno di particolare nota è il bellissimo altare di S. Francesco da Paola, nel transetto destro, realizzato dallo scultore di Alessano Placido Buffelli, e qui trasferito dalla Cattedrale, ove era dedicato a S. Francesco di Sales. Presenta triplici colonne a spirale, con un incredibile animazione di putti in differenti pose. Nella parte superiore vi è la nicchia con la statua del Santo titolare e l’ insegna dei frati, mentre inferiormente sono impresse le armi dei nobili Montefuscoli.

Altrettanto notevoli, dal punto di vista artistico, la tela posta a lato di questo altare e l’affresco originario della Madonna di Costantinopoli. Sempre qui è presente la tela di S. Nicola Pellegrino, del 1615, di Donato Antonio d’ Orlando.

particolare dell altare di S. Francesco da Paola
particolare dell altare di S. Francesco da Paola

 

Sulla chiesa si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/20/1607-lavori-nella-chiesa-di-s-francesco-da-paola-in-nardo/

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmineappartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmine appartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore snello, elegante e ricco, come quello dei Paolotti, di un ciclo pittorico di tutto rilievo.

Il chiostro di S. Francesco di Paola, annesso alla chiesa e al grandioso convento dei Frati Minimi, qui introdotti nel 1536 dal grottagliese  P. Girolamo Sammarco. è di sicuro il più importante di Grottaglie, e tra i più interessanti e significativi dell’Ordine dei Minimi, sia per la struttura che per il richiamo del ciclo pittorico quasi completo della vita del taumaturgo calabrese. La struttura architettonica risale, perciò alla seconda metà del  secolo XVI, mentre le lunette  vennero  completate nel 1723, con fresca e originale vena popolaresca, dal pittore salentino Bernardino Greco da Copertino, il quale per le varie scene si ispirò abbastanza fedelmente a una serie di incisioni di Alessandro Baratta stampate con didascalie poetiche a Napoli nel 1622: La  vita e miracoli del gloriosissimo Padre Santo Francesco di Paola, con le rime di Don Oratio Nardino Cosentino, dato in luce per Ottavio Verrio genovese, Napoli 1622 (altra edizione a Napoli nel1627 a cura di Giovanni Orlandi).

1723 FIRMA DELL’AUTORE BERNARDINO GRECO DA COPERTINO

Nelle lunette di Grottaglie vengono proposti, senza un vero e proprio ordine, episodi della vita miracolosa del  santo di Paola, insieme con figure e personaggi legati alla storia dell’Ordine dei Minimi. Ogni scena è illustrata da una didascalia poetica (quattro quartine sono del celebre letterato minimo del Seicento Francesco Fulvio Frugoni)  e riporta i nomi e gli stemmi delle famiglie grottagliesi che commissionarono l’opera, tra le quali quella dei feudatari principi Cicinelli.

Il chiostro, in parte restaurato, è un monumento studiato e giustamente decantato in diverse pubblicazioni da P. Francesco Stea; in particolare nel suo Un monumento barocco (Fasano, 1979): Ecco come ne parla: “Al centro del convento si allarga il chiostro: costru­zione ad ampio respiro, quadrilatero perfetto, che si articola in venti arcate a tutto sesto, rette da colonne doricheggianti di carparo locale. Su tre lati — sud, est, ovest — esse sono quadrate e sormontate da brevi capitelli; a nord sono ottagonali a diretto sostegno dell’arco. A somiglianza del tempio dorico, poggiano, senza base, sullo stilobate, «come albero che spunta direttamente dal terreno»; la loro base è un unico rialzo perimetrale, con due cuscinetti accennati a dop­pio ripiano; il fusto è senza scanalature, assottigliato, per accentuare l’energia di tensione verso l’alto. Il ca­pitello si compone d’un cuscinetto a linea curva — echino — e di un parallelepipedo — abaco — sul quale poggia un semicatino con foglie ai lati; un’ampia cor­nice a più ripiani, inizia il pie’dell’arco. Nella parte superiore del lato nord, i pilastri ripeto­no motivi analoghi a quelli del piano inferiore: echino ed abaco più evidenziati e fregi ai quattro lati. Corre sull’orlatura la “sima” con le docce per l’acqua piova­na; il tetto, infine, è a terrazze lastricate. Le volte sono a vela; al centro una pigna, di forma quasi sempre diversa, fa da chiave di volta. Sei ampi finestroni luminosi del corridoio di sog­giorno soprastante l’atrio si affacciano sul lato nord, in proiezione prospettica, conferendo eleganza e son­tuosità (…) Oltre all’equilibrio architettonico e alla simmetria dell’intero corpo di fabbrica, pur nel continuo variare dei diversi elementi, in mirabile armonia tra loro ad accrescere fascino e bellezza concorrono gli affreschi sotto le vele. Sono trentadue le lunette, comprese quattro dell’ ingresso, di cui una è andata completamente perduta, l’altra è visibile solo per metà. Di fronte, nel vestibo­lo, si apre l’albero genealogico dell’Ordine; le altre si snodano come in un interessante diorama storico: la vita del Santo Fondatore dei Minimi e la sua azione prodigiosa, lungo tutto l’arco dei suoi novantuno anni. Tra l’una e l’altra, dove si allarga l’angolo della vela, sono inseriti dei medaglioni di illustri personalità: re, regine, duchi, arcivescovi, vescovi, benefattori insigni, terziari dell’Ordine con i loro stemmi e blasoni: venti in tutto (…) Ove meglio le pitture si conservano, è sul lato nord, a ridosso di tramontana; qui non hanno perduto nien­te della loro primitiva freschezza, come la canonizza­zione del Santo, affollatissima di alti dignitari pontifici ed ecclesiastici di ogni rango. In un’altra, il Santo appare circonfuso di fulgore nella gloria della sua apo­teosi, con i lembi della tonaca che sembrano toccare terra, come per assicurare i suoi devoti, dal cielo, che egli continua a guardarli e proteggerli. Importanti, per l’araldica grottagliese e di qualche famiglia di paesi forestieri, i nomi di chi ne ordinò l’esecuzione; alcuni sono tuttora esistenti: Marra, Lo Monaco, Serio, Ciracì, Lillo, Finto, Maranò, Caforio, Bucci. Di ventisei lunette conosciamo il committente, de­gli altri il nome non è riapparso dopo i restauri; sei della famiglia Pinto; sei del Principe di Cursi e Duca di Grottaglie; sei di sacerdoti grottagliesi; una del Viceduca Antonio Damiano; una del Barone Tommaso Basta di Monteparano; le rimanenti di altri de­voti. Pitture fatte eseguire senza finalità specifiche o particolari riferimenti ai soggetti raffigurati: alcuni com­mittenti avevano il nome “Francesco”, evidente la de­vozione al Santo; i sacerdoti erano quasi tutti del locale Capitolo Collegiale; anch’essi vollero in tal modo manifestare l’attaccamento al Paolano, oltre che all’Ordine dei Minimi, orgogliosi del decoro e del lustro che il monumento conferiva al paese. I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza (…) Negli affreschi domina sovrana la figura del Santo, attorniato da alcuni suoi religiosi o seguito da ammi­ratori e devoti. Gli spazi sono pieni, qualche volta, di immagini senza vita e movimento, che balzano all’oc­chio dell’osservatore, non senza un fascino alla luce del giorno, suggestiva e piena di mistero nella penom­bra della sera. Le scene conferiscono una sacralità a tutto il chiostro, e non pochi sono coloro, che, en­trando, in ore vespertine, vengono presi da religioso rispetto e timore: sembra che il Taumaturgo di Paola, dipinto nelle lunette, abbia, operato qui, tali pro­digi. La storia, così varia, di oltre quattro secoli, svoltasi sotto queste arcate e nell’intricato dedalo dei lunghi corridoi del convento, la severità e la ieraticità di tanti personaggi dicono che «ora, veramente, questo luogo è santo», specie se si considera il forzato abbandono da parte dei religiosi, quando, tristi e foschi episodi ne hanno profanato la sacralità.”

L’Autore delle pitture murali: Bernardino Greco

Per quanto riguarda l’autore, gli unici dati certi derivano dalla sottoscrizione e dalla data che si possono ancora  leggere, inserite in un cartiglio nel vestibolo del convento: “Bernardino Greco di Copertino dipingeva nell’anno del Signore1723”.  Di sicuro sappiamo che egli dipinse pure il ciclo pittorico sul santo di Paola del convento di Monopoli (Bari): 20 lunette corredate, come a Grottaglie,  da didascalie, ritratti di personaggi illustri, stemmi nobiliari e decorazioni. Si  tratta di una serie di episodi dipinti con una vena leggermente più sommaria e semplificata.

Il pittore copertinese, di certo su indicazioni dei religiosi grottagliesi, dipinse gli episodi della vita del santo su 28 lunette del chiostro e su tre lunette del vestibolo; sull’intera quarta parete del vestibolo, ed esattamente quella posta di fronte all’ingresso, raffigurò l’albero dell’Ordine dei Minimi (Arbor Religionis Minimorum). Quindi in tutto 31 episodi biografici, dei quali, però, quello raffigurante probabilmente la morte del Santo è andato completamente perduto, e altri tre sono cancellati per oltre la metà (Il Santo che ripara la fornace ardente, l’asinello restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco e l’episodio dei pesci arrostiti fatti tornare in vita). Diversi altri, poi, versano in uno stato di progressivo deterioramento che nel volgere di pochi anni ne rovinano vistosamente i tratti; è il caso degli episodi riguardanti il passaggio dello stretto di Messina, il miracolo dell’uomo assiderato da tre giorni e tornato in vita, del guerriero miscredente e dello stesso Albero della Religione del vestibolo ormai irriconoscibile per oltre la metà. Una vera iattura da fronteggiare al più presto se si vuole salvare questa testimonianza di religiosità e di cultura.

Per buona fortuna, ad eccezione della lunetta del tutto perduta, siamo in grado di identificare e riconoscere tutti gli altri episodi grazie al modello che il pittore tenne presente abbastanza fedelmente, tratto, come si è detto, dalla serie delle tavole realizzate nel primo Seicento dal pittore-incisore Alessandro Baratta.

Il lavoro del pittore si protrasse per un certo tempo prima di concludersi nel 1723 che, evidentemente, è la data di conclusione dei lavori fissata nel cartiglio del vestibolo; una prova di ciò si può intravvedere nella mancanza di un preciso ordine nella sequenza degli episodi e dei medaglioni dei personaggi. Probabilmente si dovette procedere in base agli interventi finanziari di coloro che commissionarono le pitture con gli episodi miracolosi scelti da loro stessi tra quelli che maggiormente li avevano colpito e corredandoli con didascalie poetiche e con la raffigurazione dei propri stemmi o blasoni nobiliari. Spiega ancora P. Stea: “I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza: evidente il fine di magnificare ed esaltare la potenza taumaturgica del Santo.

Ecco l’oro del cor fatto assassino

Spander punito i sanguinosi umori;

Perché succhiò le vene a tanti cori

Rende il sangue rubato il ladro fino.

Nella reggia di Napoli, dove Ferdinando d’Aragona non si fa scrupolo d’angariare e di vessare le popo­lazioni, l’Eremita di Paola tuona con la forza del suo animo contro i soprusi che immiserivano la povera gente.

A stupir qui, natura, Egli t’invita

Informe volto a disegnar s’accinge;

Ad immagine sua qual Dio, lo pinge,

Sputo è il color, e son pennel le dita.

Pittura e poesia si fondono mirabilmente: non sap­piamo dove l’una cominci e l’altra finisca. La fresca vena popolare, è componente unica nella cornice architettonica di colore.

Questo sincronismo ci induce a ritenere il chiostro un’opera degna di nota tra le altre della nostra regio­ne; giudicarlo diversamente sarebbe voler obliare ogni espressione d’arte minore e limitarsi alle mag­giori.”

Gli episodi della vita del Santo

La biografia del Paolano viene perciò efficacemente illustrata con una sequenza consistente di episodi che così si possono riordinare:

  1. Un bagliore nel cielo di Paola nella notte in cui nacque il Santo
  2. Nascita del Santo (27 marzo 1416)
  3. Il giovane Francesco si consacra a Dio coi i 4 voti (ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale)
  4. Il giovane Francesco riceve dagli angeli le insegne dell’Ordine (il cappuccio e lo stemma CHARITAS)
  5. Un capriolo scampa ai cacciatori rifugiandosi presso il Santo
  6. Con l’applicazione di erbe il Santo guarisce il barone di Tarsia da una cancrena alla gamba
  7. Il Santo accetta una generosa offerta da un nobile cosentino per la costruzione di un convento
  8. S. Francesco entra nella calcara ardente per ripararla (nel vestibolo, in alto, sul portone)
  9. Risana un religioso che si era tagliato il piede nel fare legna nel bosco
  10. Richiama in vita dalla fornace ardente l’agnellino divorato dagli operai
  11. Fa tornare in vita un morto assiderato nella neve da tre giorni
  12. I soldati inviati dal re non riescono a catturare il Santo
  13. E’ sorpreso in estasi davanti alla Trinità con una triplice corona sul capo
  14. Guarisce un lebbroso
  15. Ordina all’asinello di restituire gli zoccoli al maniscalco avaro (vestibolo, in altro a destra)
  16. Guarigione di forsennati e furiosi
  17. Ridona sembianze umane  a un bambino deforme servendosi delle dita come un pennello
  18. Risuscita il nipote Nicola D’Alessio che poi diventerà frate
  19. Passa miracolosamente lo stretto di Messina
  20. Consegna ai soldati del conte d’Arena la candela benedetta per la guerra contro i Turchi
  21. Un soldato rifiuta la candela benedetta dal Santo; per questo egli non fece ritorno dalla guerra contro i Turchi
  22. S. Francesco di Paola spezza le monete d’oro davanti a Re Ferrante d’Aragona a Napoli
  23. Ridona la vita ai pesci arrostiti che il re gli aveva fatto portare (rovinata)
  24. Il Santo è ricevuto a Roma dal Papa Sisto IV. In alto a destra egli profetizza il pontificato a Giovanni dei Medici che poi lo canonizzerà nel 1519 (Leone X).
  25. La nave che aveva portato il Santo in Francia, al ritorno, scampa al naufragio grazie agli zoccoli del santo gettati in mare
  26. Il re di Francia Luigi XI accoglie il Santo
  27. Profetizza a Luigia di Savoia la nascita di un figlio.
  28. Luigia di Savoia presenta al Santo il figlio avuto per sua intercessione (Francesco I di Francia).
  29.  (Perduta: probabilmente raffigurava la morte del Santo)
  30. Canonizzazione del Santo in S. Pietro (1 maggio 1519)
  31. Il Santo Taumaturgo guarisce i malati di ogni sorta (vestibolo, in alto a sinistra)
  32. Albero dell’Ordine dei Minimi (vestibolo, di fronte)

Il vestibolo del convento appare oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi. L’incuria degli uomini e lo scorrere inesorabile del tempo ne hanno irrimediabilmente compromessa la bellezza: la parete che si trova di fronte all’ingresso, una volta interamente ricoperta dalla pittura murale raffigurante l’Arbor Religionis, oggi conserva solo una parte di questo interessante soggetto iconografico e per giunta in condizioni pietose. Delle tre lunette sovrastanti, solo una (e cioè l’azione taumaturgica del Santo) si può ancora osservare nella sua interezza, mentre le altre due (e cioè l’episodio della fornace ardente e l’asinello che restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco) risultano perdute per oltre la metà. Anche la volta, interamente decorata, è molto rovinata; nonostante tutto è ancora possibile leggere sui due cartigli il nome dell’Autore e la data di realizzazione:

BERNADINUS GRAECUS   [CO]PERTINENSIS  [PINGE]BAT

[……………………………………… ]   A. D. MDCCXXIII

Il significato allegorico dell’albero che, partendo alla base dal corpo del Fondatore, si innalza maestoso nella storia della Chiesa e  che porta i suoi buoni frutti di virtù e di santità, viene espresso in maniera alquanto diversa e semplificata rispetto a una nota incisione del 1622.

Comunque , si può ancora vedere in alto, “ il Fondatore S. Francesco di Paola; sul suo capola SS.ma Trinità; intorno, un coro di angeli festanti e uno stuolo di venerabili martiri, confessori, dottori e vergini, re, regine, personalità illustri, alti dignitari, ecclesiastici, religiosi del primo Ordine, suo­re e terziari d’ambo i sessi; sotto, si diramano maesto­si e folti i rami di questo albero secolare, che «diede fiori e frutti santi», al dir di Dante.”

Il progressivo deterioramento sta gradualmente cancellando dal basso verso l’alto, numerosi personaggi al punto  che alcuni di questi già riportati nella monografia di P. Stea, sono ormai scomparsi. La stessa sorte sta interessando purtroppo molte altre lunette.

Recentemente sono state restaurate le due lunette relative al fausto presagio della notte in cui nacque il santo e al miracolo della nave in tempesta, salvata per intercessione del santo. Si attende anche per le altre un intervento sollecito per salvare questo significativo monumento di spiritualità di arte e di cultura del nostro territorio.

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