Libri| Zia Valeria. Lettere ai giornali e appunti di viaggi

 

“Zia Valeria”, l’ultimo libro del salentino Rocco Boccadamo, recensito da un altro salentino (lombardo d’elezione), Paolo Rausa

di Paolo Rausa

 

Conoscendo Rocco Boccadamo di Marittima (Le), ridente località del Sud Salento a ridosso sul mare, a strapiombo sul fiordo suggestivo di Acquaviva, c’è da star sicuri che questo non sarà l’ultimo suo libro di pescatore di perle, o ragazzo di ieri come ama definirsi lui, giovane di bella età in cui tutto è permesso, finanche di volare ma sempre con i piedi ben piantati nel suo paesino natale. Che dico? Nel suo quartiere, nel nucleo costitutivo dell’aggregato rurale che tradisce nel suo nome la vocazione marinaresca. E Rocco è marinaio, di terra però. Se può esserci un nauta che tocca terra ma che vive nell’alto mare dei ricordi, nelle tempeste e nelle gioie della vita come una navigazione di cui si è certi solo del porto di partenza. Infatti, nulla si sa della vita, come per ognuno di noi. Le sue mosse partono da lui infante, circondato dall’amore dei genitori, dei parenti, di tutto il vicinato, che lui enumera e snocciola, nome per nome, età, professione in bilico tra la terra e il mare, grado di parentela, i figli che scappano come lui al Nord per cercare fortuna, però qui hanno piantato le radici che germogliano ma che ricevono alimento e sostanza dal cuore e dalla mente persa nel passato e rivolta al futuro, quasi come fotocopia. Non immagina Rocco una vita senza le carezze della madre, per quanto lo abbia lasciato giovinetto, e se anche si bea delle carezze della nidiata dei nipoti, Rocco resta sempre figlio della sua terra e di sua madre che vigila e lo attende d’estate o nei periodi delle feste natalizie a casa, all’Ariacorte, dove brulicava la vita primordiale di un centinaio di anime, ora quasi spenta. Rocco si fa figlio della propria terra, diventa cantore, “raccontastorie” o “cuntacunti” alla dialettale, rievoca le battaglie non davanti alla Porte Scee ma nel suo nucleo primordiale vitale che assurge ad ombelico del mondo. La compostezza di Rocco si espande grazie alla memoria, alla descrizione minuziosa dei particolari, alla genealogia dei suoi conterranei che hanno condiviso con lui le stradine del paese e la resistenza alla miseria, che hanno imparato a percorrere le strade della dignità come strumento non per conseguire la gloria omerica, ma per esaltare la semplicità della vita nei campi, virgiliana, fatta di tenacia e di umiltà, che ora sta per soccombere. Ecco allora che tutti i personaggi sono evocati da Rocco che, dopo il suo peregrinare in tutta Italia da sede a sede nella sua attività da bancario, ritorna al suo paese, sedotto come la prima volta quando è ritornato da Monza, e poi da Firenze, Taranto, Messina, Lecce, alla sua villa ‘La “Pasturizza”, dove la terra è “mara” e “nicchiarica”, come dice il poeta. Che non morirà mai finché ci sarà il suo cantore in vitam che esalta i particolari, gli attrezzi che ritornano a chiamarsi come un tempo. Divelta la lingua italiana estranea, quegli oggetti vivificano sotto i suoi e i nostri occhi, per un momento riacquistano vita come per essere reimpiegati. Ma l’illusione si ferma qui. A Rocco basta denominarli, secondo il linguaggio antico, e insieme a loro anche i protagonisti, oscuri di natali, ma eroici per aver resistito a un destino difficile, tuttavia non privo di affetto nel richiamo dei nomi propri personali, i Vitale, i Costantino e la zia Valeria, la piccola della famiglia materna, lei che assicura la continuità di una stirpe e di un popolo stampigliato sulle carte in modo che tutti rimangano impressi per non morire mai. Il libro è impreziosito dalla prefazione di Ermanno Inguscio e dalla postfazione di Raffaella Verdesca. Spagine, Fondo Verri edizioni, Lecce, 2019, pp. 162,  € 10,00.

 

Gli affreschi della cripta di S. Maria degli Angeli a Poggiardo (Le)

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‘Gli affreschi della cripta di S. Maria degli Angeli a Poggiardo (Le). Un ponte di arte e di spiritualità tra Oriente e Occidente’, al convegno di giovedì 8 giugno

di Paolo Rausa

La Cripta di Santa Maria degli Angeli fu utilizzata come luogo di culto dagli inizi dell’XI fino al XV secolo. Fu rinvenuta nel 1929 al centro del paese, presso l’attuale Chiesa Matrice. I culti che si sovrappongono. I meravigliosi affreschi, recuperati nel 1975 ed esposti nel Museo ipogeo della Villa Comunale, testimoniano vicende artistiche e spirituali fra le due sponde adriatiche, quella salentina e quella greca. Dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476, il Salento rimase ancorato alla parte orientale dell’Impero. Traffici e idee giungono in Salento da Oriente. Si afferma il fenomeno dell’eremitismo monastico, la cui regola fu codificata nel IV secolo da S. Basilio il Grande (330-379). A partire dal 725 per iniziativa di Leone III l’Isaurico e sino a Teofilo I (829-842), si diffonde l’iconoclastia contro il culto delle immagini sacre con la conseguente persecuzione che produsse fenomeni di culto ‘nascosto’ e di migrazioni spirituali dei monaci che trovarono nel Salento un approdo ideale. Lo scisma d’Oriente nel 1054, con la bilaterale scomunica tra Papa Leone IX ed il Patriarca di Costantinopoli, sancisce la separazione della Chiesa. Il modello greco perdura fino all’assedio di Otranto nel 1480, la cui curia aveva aderito allo scisma con il vescovo Pietro III. Altra frattura interreligiosa produce il Concilio di Trento del 1545.

Nel 1583 il sinodo diocesano, presieduto dall’arcivescovo di Otranto Pietro Corderos, sancì l’ufficiale abbandono del rito greco nel Salento, il quale perdurò sino al XVIII secolo. In questo variegato e sconvolgente quadro spirituale si realizzano nel territorio di Poggiardo e Vaste due grandi capolavori dell’arte basiliana: la chiesa rupestre dei S.S. Stefani, decorata da affreschi di diverse epoche dal X al XVI secolo, e la cripta di S. Maria degli Angeli. Al momento del rinvenimento lo stato della cripta si trovava in condizioni penose. Si decise perciò di salvare gli affreschi, separandoli dalla parete per il loro restauro e ricollocandoli in una struttura museo ipogea, montati su pannelli nella posizione originaria.

Il ciclo degli affreschi raffigura immagini di santi del culto orientale: un santo vescovo (forse San Nicola), San Giorgio nell’atto di trafiggere il drago, San Gregorio Nazianzeno e San Giovanni Teologo, Sant’Anastasio e Cristo con ai piedi la Maddalena, San Demetrio e San Nicola, San Giovanni Battista, una Vergine con Bambino, San Michele e San Giuliano, un Arcangelo Michele, Santo Stefano, San Lorenzo e i Santi Cosma e Damiano. Cristo è rappresentato in posizione benedicente alla maniera greca con solo due dita della mano, anziché tre. Il convegno si svolgerà giovedì 8 giugno, alle ore 20.00, in piazza Episcopo a Poggiardo (Le). Il suo scopo è di ‘mettere in luce gli aspetti storico, culturali, religiosi e sociali degli affreschi’ – chiarisce Massimo Gravante, assessore comunale al Turismo.

Per illustrare ‘il ruolo di ponte tra mondi, culture e religioni diverse’ interverranno Fratel Sabino Chialà, monaco di Bose, esperto di patristica orientale, e Gavriil Pentzikis, scrittore del Monte Athos (Grecia) che relazionerà su “L’affresco, mediatore multimediale di religione e cultura tra i popoli”. Anacleto Vilei, storico locale, illustrerà il suo volume “Poggiardo – Cripta S. Maria Degli Angeli. Storia e Restauri”.

Infine il convegno terminerà con l’intervento del parroco di Poggiardo, Don Maurizio Tarantino. ‘Un patrimonio di grande significato – sottolinea il sindaco Giuseppe Colafati – inserito nel ricco Sistema Museale di Vaste e Poggiardo, che comprende anche il Museo di Vaste e il Parco archeologico con l’Antiquarium, che a forma di torre messapica invita i turisti a varcare il mondo magico della storia e dell’immaginario di questo stupendo lembo di terra estrema dell’Italia, che è il Salento’.

Per i dettagli sulla cripta vedi

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/20/la-cripta-e-gli-affreschi-di-santa-maria-degli-angeli-in-poggiardo/

 

Giuseppe Greco e le sue poesie in lingua salentina di Parabita

‘Sciòscia, matreperle te pansieri, poisie’ di Giuseppe Greco

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di Paolo Rausa

Un minuscolo ma intenso libretto raccoglie una trentina di poesie scritte da Giuseppe Greco per lo più in lingua salentina di Parabita, prossima al mare di Gallipoli. Ci conosciamo da parecchio tempo con Giuseppe, da quando iniziarono un po’ per passione un po’ per esibizione le letture di poesie al Circolo Nautico di Santa Cesarea Terme, almeno da dieci anni. Avevo ripubblicato in una nuova edizione dal titolo ‘Terra mara e nicchiarica’ (Terra amara e desolata) alcune poesie che mio padre Fernando aveva scritto in lingua salentina di Poggiardo e pubblicato poco prima della sua morte, nel 1977. D’estate sullo sperone del Circolo, rimirando le stelle e il luccichio del mare ci abbandonavamo ai sogni sotto forma di parole. Un abbandono sensuale, profumato di salsedine e della linfa dei pini, mentre il vento suggeriva parole poetiche da uno all’altro dei convitati, quasi fosse un simposio a cui poeti e artisti salentini partecipavano con le loro immagini sussurrate o dipinte. Serate di grande compartecipazione emotiva.

Giuseppe con le sue poesie dettate dal cuore di artista si inerpica su nel cielo cullandosi sulle onde del mare prospiciente, con uno sguardo ora voglioso ora velato rivolto alla luna, contornata di stelle. A lei Giuseppe affida gran parte delle sue liriche come testimone muta e dolente delle vicende umane che il poeta espone in quadri dipinti di colori. Come Astolfo sull’ippogrifo Giuseppe ci conduce a visitare i solchi sul pianeta caro ai romantici e le ampolle delle menti umane avviluppate dai sogni. I suoi versi, armoniosi e suggellati dalle visioni sovrumane, centellinano le parole, scelte come note a comporre un quadretto, una sinfonia, dove ogni elemento visivo e sensitivo partecipa per esprimere lo stato d’animo del poeta, colmo di meraviglie, leggero come le comete, gli aquiloni, un sentimento appena accennato, la visione di lei trasfigurata in un fiore, in un colore, nella luce, nello sciabordìo delle acque ad indicare pena, risucchio, amore, ricerca di amore, mancanza di amore. Situazioni, alla ‘mpete, a piedi, creano visioni, desideri, che si sperdono nell’immaginazione del creato dove ogni elemento rende l’immensità e la meraviglia, lo stupore delle nostre visioni…

Giuseppe Greco, artista, scenografo, docente, si misura con lo strumento linguistico come il pittore, dosa i colori-parole, li espande come note che risuonano, crea armonie, piaceri, ascolti, situazioni indelebili che trapassano dagli occhi al cuore e viceversa.

Sensazioni e palpitazioni che ci sommergono di meraviglia ogni volta che leggiamo un verso, ogni volta che Giuseppe si approssima sul palco per cantare la canzone della vita, dolce, sommessa e carica di passione amorosa. La prossima presentazione alla Casa di SilLa a Taviano (Le).

 

Pati Luceri al 5° giorno di sciopero della fame

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Pati Luceri al 5° giorno di sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane dei migranti nel CIE di Restinco (Br) e la detenzione illegale dei detenuti politici in Turchia e Israele

di Paolo Rausa

In Salento è periodo di vacanze, di mare, feste, pizziche… ma la solidarietà internazionale non si ferma. Non per Pati Luceri da Martano (Le). Lo incontro al Castello di Corigliano d’Otranto durante la seconda tappa di una iniziativa culturale sul griko, promossa da una serie di organizzazioni locali, i cui esponenti dialogano nella lingua grecanica come sfida e continuità con le radici dei luoghi.

‘Tàlassa ti nonni tàlassa ti zechorìzi’ – ‘Mare che unisce, mare che divide’ è il titolo. I riferimenti sono molteplici, alla ‘madre patria’, quella Grecia da cui arrivarono i primi coloni, al mare che porta con sé anime in fuga dalla guerra e dalla devastazione. Quel clima si respira nell’iniziativa assunta da Pati Luceri.

Mi mette al corrente e ne nasce questo breve scritto. Ci rivediamo e mi racconta della sua scelta di denuncia utilizzando lo sciopero della fame. ‘Sono contro per principio – mi dice – ma ora sono costretto a richiamare l’attenzione sui fatti di casa nostra e sulla detenzione illegale di molti attivisti politici in Turchia, Ocalan e i curdi, e in Israele, dove centinaia di detenuti giacciono rinchiusi nelle carceri senza incriminazioni e senza processi’.

In particolare Pati ricorda il detenuto palestinese Bilal Kayed, in sciopero della fame a sua volta da 50 giorni. ‘A metà giugno avrebbe dovuto tornare a casa ad Asira al-Shamaliya, in Cisgiordania, dopo aver passato quasi 15 anni nelle prigioni israeliane, e quando le autorità di occupazione gli rifiutarono il rilascio e lo misero in detenzione amministrativa, diede inizio allo sciopero della fame.’ – racconta Pati. La sua azione è accompagnata dal contemporaneo sciopero di numerosi militanti di Hamas e del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.

Ricorda l’attività instancabile della Rete Kurdistan di Lecce per la libertà e l’autodeterminazione del popolo kurdo e del suo leader Ocalan, tuttora detenuto e relegato nell’isola di Imrali. Ma la denuncia di Pati va oltre, non si ferma e si indirizza contro il CIE di Restinco (Br), una vera e propria prigione dove vengono ammassati in condizioni disumane i migranti, rei di scappare da condizioni di guerra nei paesi di origine. ‘Non sono così presuntuoso – ribatte Pati alle mie osservazioni – la mia battaglia è per mettere a fuoco l’attenzione e la tensione sul CIE di Restinco e contribuire al dibattito per allargare il confronto ed ampliare la solidarietà riguardo i fratelli e le sorelle migranti trattenuti nel CIE e dei prigionieri politici che lottano per l’autodeterminazione della loro terra!’

La sua determinazione è commovente ma è risoluto nel definirsi ‘uno che, pur con tante contraddizioni, cerca di dare il suo contributo all’abbattimento di ogni violenza contro il proprio simile e soprattutto a partire dai più deboli – sottolinea con enfasi – e di tutti i senza voce, a partire da quelli reclusi nel CIE di Restinco’.

Pati richiama le nostre coscienze e le istituzioni a porre fine alle discriminazioni politiche e sociali per affermare ‘un mondo più giusto e solidale’.

Per il recupero del castello dei Guarini di Poggiardo

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L’Associazione Culturale Orizzonte per il recupero del Castello dei Guarini di Poggiardo (Le)

 di Paolo Rausa

Il Castello di Poggiardo, caso forse unico nel panorama nazionale, è rimasto nelle mani dei privati che lo hanno posseduto, i duchi Guarini, normanni di stirpe, che da molti anni si sono trasferiti nel loro palazzo di Scorrano (Le).

L’Associazione Culturale Orizzonte rilancia la sfida di far sedere attorno ad un tavolo i diretti interessati (Proprietà, Comune e Regione) per fissare le modalità del suo recupero e del suo utilizzo attraverso un progetto condiviso.

Imponente maniero del tardo o basso medioevo, eretto nel passaggio verso la nuova epoca dell’umanesimo e del rinascimento, il castello si impone sullo spiazzo antistante, che doveva essere la piazza d’armi, a fianco della chiesa madre e sopra la chiesa basiliana di S. Maria degli Angeli dell’XI secolo.

Una struttura massiccia che si alleggerisce a est, verso il mare, con una torre rotonda. Diversi gli ingressi, accanto alla chiesa madre, laddove sorgeva il palazzo vescovile, poi sulla via di mezzo che corre in direzione est-ovest, fra i due mari, in seguito arricchita da uno spazioso loggiato, su cui la famiglia ducale dei Guarini organizzava le feste di rappresentanza e ascoltava poemi e il dolce suono della mandola. Un agrumeto alla base della torre cilindrica e lungo il fossato rende ancora più orientalizzante questa struttura poderosa, descritta nel 1800 da Cosimo de Giorgi nei Bozzetti di viaggio nei minimi dettagli, con riferimento ai preziosi arredi e alla pinacoteca.

Dai Messapi ai Normanni, la regina Maria d’Enghien nel 1446 lo dà in ricompensa con titolo baronale ad Agostino Guarini. Molte dominazioni si sono susseguite in queste terre: Normanni, Svevi (1195-1266), Angioini (1266-1435), Aragonesi (1442-1502), Spagnoli (1506-1734) e infine Borboni (1734-1861). I Guarini intrapresero vari lavori di fortificazione. Durante il regno di Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli, dopo la distruzione di Castro, il vescovo Luca Antonio Resta trasferì a Poggiardo la residenza vescovile.

L’ultimo abitante del castello fu il duca Francesco Antonio, che vi alloggiò sino al 1879, data della sua morte. Il palazzo vescovile, edificio cinquecentesco, fu venduto ai Guarini e nei secoli successivi fu adattato a caserma e tabacchificio. Sull’architrave di una finestra si legge la frase latina che si riferisce al cane di Ulisse Argo: ‘Difficile est Argum fallere’ (E’ difficile ingannare la sorte o fuggirla, si è riconosciuti).

Il Castello, per le attuali condizioni rischia di essere compromesso senza un intervento e un progetto di recupero, che coinvolga la proprietà, il Comune, la Regione Puglia e i cittadini che vedono rappresentato in quella struttura il simbolo stesso della loro città. Un monumento che ha ancora molto da dire, se gli si lascia il tempo, prima che sia troppo tardi.

Info: Associazione Culturale Orizzonte, via Nazario Sauro 52, 73037 Poggiardo (Le)-via Ungaretti 2, 20098 San Giuliano Milanese, tel. 334 3774168.

 

Vitigliano e i suoi piselli secchi da tutelare e valorizzare

Il pisello secco di Vitigliano, fr. di S. Cesarea Terme (Le), la sua tutela e valorizzazione nel lavoro di giovani agricoltori

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Giuseppe Bene e i piselli sull’aia

 

di Paolo Rausa

A pochi chilometri dal mare Vitigliano, nell’entroterra di S. Cesarea Terme, come Ortelle, a poca distanza da Castro Marina, il Castrum Minervae di Virgilio, un territorio fertile, già richiamato nel nome, gli orti e le viti, una vocazione agricola che data al tempo dei Messapi e che recentemente ha trovato un paladino, da poco scomparso. Quel Giorgio Cretì, di Ortelle appunto, che ha imbastito storie popolari di pòppiti ed eroi antichi, e ha scandagliato non solo la sua terra d’origine ma tutti i posti dove è vissuto alla ricerca della sua Itaca per scoprire prodotti della terra, che spontaneamente dà – sempre parafrasando Virgilio delle Georgiche – al contadino lontano dalle armi.

Di Vitigliano ne aveva già ampiamente parlato Giorgio nei suoi ricettari, attenti alla terra e alla natura dei luoghi, rilevando un prodotto particolare, il pisello secco, ‘cucìulo’, cuocevole, riconosciuto come tipico grazie alla tenacia degli agricoltori antichi e alla volontà di uno sparuto gruppo di giovani agricoltori e agronomi che hanno preso le redini di questa terra ricca di specie vegetali.

Lo abbiamo ascoltato dalla relazione della direttrice dell’Orto botanico annesso all’Università del Salento di Lecce. Giuseppe Bene e Antonio De Santis sono i due pionieri, gli Ulissidi, non un nome altisonante, ma specifico per individuare la loro missione.

Varietà di legumi

Ieri sera in vico Piave a Vitigliano, uno spiazzo a pochi passi dalla chiesa madre e dietro il palazzo ducale, la parte popolare del paese, hanno simulato un’aia riempita di piante secche del pisello da cui viene separato il frutto, dopo fatiche inenarrabili, come ci ha dimostrato la famiglia Guida. Padre, madre e zia, tutti intenti a separare le ultime impurità. Il Presidente della Provincia Gabellone ha ricordato di aver sostenuto – con lungimiranza bisogna dire – questo progetto. Così come il Parco della Costiera Salentina. Nicola Panico, il presidente, ha riportato l’esempio delle 5 Terre dove i nuovi contadini hanno ripreso testardamente e follemente i terrazzamenti e a ripiantare i vitigni che forniscono il dolce nettare, lo schiacchetrà.

I Canali di Vignacastrisi della Porta d’Oriente, le attività dell’Orto botanico, i musei diffusi sono tutte esperienze del territorio che richiedono la saldatura, di essere messe in rete. Intanto il cantastorie P40 snocciola storie inverosimili accompagnate dai ritmi incalzanti delle fatiche dei campi. I legumi cuociono nelle ‘pignate’, ceci bianchi e neri, fagioli, piselli secchi cucìuli, un poker di bontà e sapori, che possiamo ancora degustare grazie all’impegno di chi crede nella terra e la rispetta come fattrice di benessere.

Tommasino Calora e le foto
Tommasino Calora e le foto
La famiglia Guida e Angelo Miggiano
La famiglia Guida e Angelo Miggiano

‘Una parte di me’, romanzo di Giulia Campa

COPERTINA

di Paolo Rausa

 

La saggezza della cuoca nella preparazione del pan di spagna: mescolare con le uova e lo zucchero il burro e il cioccolato fusi e poi aggiungere farina e lievito, rispettando quest’ordine. Guai ad aggiungere alla fine i liquidi perché le uova si smontano e tutti gli altri ingredienti reagiscono scompostamente. La vita fra le altre metafore è una modalità di preparare il cibo, le torte, di comporre e ricomporre le nostre qualità e le nostre esperienze con le persone che incontriamo. Se non rispettiamo le caratteristiche o se queste non si amalgamano allora sono guai, meglio procedere oltre. Con Viola era stato subito amore, si capisce subito ‘quando siamo fatti l’uno per l’altra, dagli sguardi, dal primo bacio, da come ci cercavamo’ – Lorenzo ripercorre così il suo passato. Una camera da ospedale, pochi giorni di ricovero. Da qui nascono l’idea e il bisogno di dedicare la permanenza nel luogo di cura a scandagliare la propria vita, di giovane trentenne, che è passato già da tutti gli stadi dell’esistenza, dalla felicità della famiglia, dall’orgoglio del padre medico alla sua inspiegabile sparizione, alla desolazione di una madre che si era tutta dedicata a lui e che ora scopre il tradimento e l’esistenza di un’altra famiglia. Lorenzo vive intensamente la sua fanciullezza, allietata dal rapporto con le zie e la nonna, ma trova proprio nella festa dell’ultimo dell’anno la caduta nell’abisso insondabile del dolore. Una bicicletta rossa fiammante, un regalo della madre sempre desiderato, non lenisce la sua condizione. Comincia la sua odissea nel senso inspiegabile degli avvenimenti che si susseguono. Come farà ora che non ha al suo fianco una guida? Rimprovera la madre che lo ha costretto ad andare via. Si rifugia nell’amicizia di un suo compagno di scuola e di giochi, ma l’amarezza lo pervade quando scopre un’amara verità. Odia la vita, odia Francesco, non capisce come sia possibile che egli lo abbia privato dell’amore paterno. Pian piano risalirà la china attraverso l’impegno professionale e l’incontro con Viola. Capisce subito che è il suo doppio, che la sua anima è trasposta in questa fanciulla a cui dona un bacio e un’alba d’amore al faro della Palascìa a Otranto. Qui osservano la luce del nuovo giorno, la luce della sua nuova vita accanto a lei. Ma non è finita. I rapporti con Francesco lo chiamano ad una scelta, a trasformare l’odio in amore, a cedere parte di sé nell’estremo tentativo di salvare una vita e con essa se stesso. Appaiono dopo la morte del padre le lettere che gli aveva scritto da cui traspare la grande umanità di un uomo che è conscio, consapevole di essersi giocato il destino ma solo per senso di responsabilità e di amore per gli altri, per la donna che ha amato in un momento di sconforto e di abbandono. Gli ha generato un figlio, verso il quale ha rivolto la necessaria protezione. La malattia di Francesco richiede il coraggio della scelta. Ecco allora l’occasione per Lorenzo di comprendere i passaggi ineludibili della vita, che richiedono coraggio perché sia invertita nel giusto senso l’esistenza, attraverso l’amore e la dedizione verso gli altri, nostri fratelli di s/ventura.

Giulia Campa, Una parte di me, Lupo Editore 2016, pp. 219, € 16,00.

 

A Diso (Lecce). Ventagli d’autore per Santi patroni

ventagli devozionali

‘Il vento devoto, Ventagli d’autore per Santi patroni’

mostra di Antonio Chiarello

Chiostro del Convento di Diso (Le), 27 Aprile-3 Maggio

di Paolo Rausa

E’ da anni che Antonio Chiarello raccoglie questi cimeli della devozione popolare, bandiere al vento cartonate multicolori, attaccate ad un’asta di legno, contornate di bordi cartacei a mo’ di cornici coloratissime, incollate. Insieme ai nastri colorati che sarebbero volati in aria come gli aquiloni, se noi ragazzini non li avessimo tenuti stretti nei pugni delle piccole mani o legati con il filo al manubrio delle bici. Uno spettacolo a vedersi. Sull’una e sull’altra faccia figure di santi, strappate dagli altari nel corso delle feste dei paesi vicini della ‘Contea di Castro’ – aggiunge Antonio. E con l’immaginazione corriamo ai tempi antichi, medievali, normanni forse e poi svevi, angioini, quando Castro contendeva il primato alla Terra d’Otranto, grosso modo la vecchia Messapia. Si invidiava chi per primo poteva esibire il ventaglio del Santo Patrono, ogni paese il suo, San Donato, San Rocco, la Madonna dell’Uragano, Alfio Filadelfio e Cirino, Filippo e Giacomo, i Santi Martiri, ecc.

Era già festa l’annuncio di recarsi alla Madonna di Sanarica. Qui giunti con il carro si faceva dapprima la visita in Chiesa e solo dopo si potevano comprare noccioline, un gelato, un giocattolo, la palla con l’elastico, o qualcosa del genere, molto semplice. Ma prima la liturgia sacra, durante la quale i fedeli si abbandonavano a gesti di invasati così da toccare con il corpo e con le mani, baciandolo, il santo, trascinandosi sul pavimento e sperando di trarre per sé la sua benevolenza che poteva soccorrere nelle mille difficoltà della vita.

Antonella Carrozzo, sindaca di Diso, ospita la mostra nel chiostro dell’ex convento, ora sede comunale. Don Adelino Martella, il parroco, ricorda gli aspetti devozionali parossistici nel suo libro sui ‘santi nosci’ e invita a considerare il valore di quei gesti, che ora non si comprendono più.

Di tutti questi comportamenti e speranze si caricavano anche i ventagli che riproducevano i santi da una parte e dall’altra del cartoncino cosicché si potesse disporre, nelle invocazioni, di un duplice soccorso. Salvatore Colazzo ed Eugenio Imbriani, pedagogista l’uno e demoantropologo l’altro nella Università del Salento, ripercorrono le attese dei fedeli nell’incontro con i santi, augurandosi sollievi alle loro condizioni nella risoluzione delle malattie, nella continuità del lavoro, nel favore di un’annata piovosa, nella aspettativa di un raccolto abbondante, ecc.

Antonio Chiarello e i ventagli devozionali
Antonio Chiarello e i ventagli devozionali

Un’arte che rischia di scomparire, legata com’è all’ultimo artigiano superstite, Antonio Latino di Galatina. E che Antonio Chiarello con le sue sette tavole cerca di riprodurre in limitati esemplari.

Un Salento che cerca di autodefinirsi nei suoi aspetti ancestrali, anche a fini di attrazione turistica, ma forse per ritrovare il filo della sua storia che rischia di essere irrimediabilmente smarrita e perduta.

inaugurazione della mostra
inaugurazione della mostra

Il vento devoto, Ventagli d’autore per Santi patroni, Storia Immagini Collezioni di un oggetto devozionale, Amaltea Edizioni, Lecce, 2016 pp. 48, € 10,00.

Orario della mostra: 17,00-22,00.

Il Museo Archeologico di Vaste rinasce a nuova vita nel Palazzo Baronale restaurato

Vaste, Palazzo baronale
Vaste, Palazzo baronale

di Paolo Rausa

 

Piazza Dante a Vaste. Si capisce subito che la piazza attuale e l’agorà messapica corrispondono. Lo si intuisce. Lì nel corso dei secoli, almeno fin dall’età del ferro, si sono succedute popolazioni pacifiche, dedite alla pastorizia e all’agricoltura, sdegnose delle armi se non per difendersi dall’odiato vicino, la città spartana di Taras. La Messapia, la terra di mezzo fra i due mari, qui conobbe una fioritura notevole a ben guardare i resti delle tombe del cavaliere e dell’atleta, il monumento ipogeo delle cariatidi, la ricchezza dei vasi apuli a figure rosse con scene tratte dalla mitologia e dall’iconografia tradizionale, i monili e il consistente tesoro, un’acchiatura, così definita dagli anziani quando improvvisamente la fortuna bussava alla porta di qualcuno e sovvertiva le condizioni precedenti. Vaste, la messapica Baxta, con la sua cinta muraria del IV-III sec. a.C., con i suoi ricchi arredi funerari testimonia il grado di benessere delle classi colte e commerciali locali. Gli insediamenti messapici occupavano il vasto territorio della penisola salentina dal Capo di Leuca, la bianca, fino a Brundisium, il cui nome ricorda le corna dell’alce, e Manduryon sul confine occidentale, insediamenti di una popolazione che veniva dal mare, da Creta secondo Erodoto, più probabilmente da genti sbarcate dalla contrapposta costa adriatica.

Cratere apulo a figure rosse, scena di ratto
Cratere apulo a figure rosse, scena di ratto

‘Con la sistemazione del Palazzo Baronale di Vaste, di epoca rinascimentale, gli oltre 400 reperti che vanno dall’età del bronzo al periodo medioevale – dichiara soddisfatto e orgoglioso il sindaco Giuseppe Colafati – hanno trovato degna sistemazione al piano terra e al piano primo, secondo una disposizione cronologica che parte dall’età del ferro, l’epoca ellenistica con il ritrovamento del tesoretto di 150 stateri d’argento delle zecche di Tarentum, Heraclea e Thurium del IV sec. a.c., insieme all’ipogeo delle cariatidi, un complesso funerario monumentale sorretto da quattro fanciulle con panneggio che ricorda la Nike, menadi del corteo dionisiaco qui impegnate a sostenere la trabeazione del complesso’. Una sistemazione che allarga la visione a tutto il territorio di Poggiardo e della sua frazione Vaste in un Sistema Museale unico inclusivo delle chiese rupestri bizantine di Santa Maria degli Angeli e dei Santi Stefani, il Parco dei Guerrieri a cui si accede attraverso un portale monumentale, che riprende gli elementi delle tecniche costruttive messapiche, e l’Alboreto Didattico. Dopo oltre trent’anni di campagne archeologiche condotte dall’Università del Salento sotto la guida del prof. Francesco D’andria e grazie alle intuizioni dell’ing. Gianni Carluccio si è giunti alla attuale riorganizzazione che espone attraverso le sue emergenze architettoniche ed i ricchi reperti il senso e la vita della comunità insediata su questo territorio. Info: Sistema Museale Vaste|Poggiardo (Le), piazza Dante, – www.sistemamusealevastepoggiardo.it, info@sistemamusealevastepoggiardo.it, tel. 800551155, ingresso libero fino al 10 gennaio.

 

Taccuino di viaggio Otranto-Leuca e Bosco di Tricase con le tavole di Chiarello

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di Paolo Rausa

 

Castello Spinola Caracciolo di Andrano, sede del Parco Naturale Regionale Costa Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase, Antonio Chiarello da Ortelle (Le) attende promesse di visitatori, qualche artista della zona, dei paesani e altri come noi, già da tempo messi a conoscenza di queste illustrazioni ‘frutto di trent’anni di amore per il Salento’, confessa l’autore. Antonio ha esplorato in lungo e in largo ogni luogo, ogni anfratto di questa terra ‘magica’, come la definisce lui e ogni volta ha trovato motivo di meraviglia e di contemplazione per il fatto che la natura ha donato a questi luoghi tanta diversità, tanta bellezza e del come le opere dell’uomo per millenni si sono integrate nella loro semplicità con l’imponenza del paesaggio semplice ma stratificato nel tempo. Non è nuovo a queste osservazioni Chiarello, a osservare e riportare su carta, su tela, sulla pietra (le chianche) gli elementi più disparati che la natura ha voluto disseminare e la cultura edificare in questa lingua di terra protesa verso il mare, come scrive Plinio il Vecchio dell’Italia nella Naturalis Historia. Gli acquerelli sono la sua tecnica che più privilegia, ‘ perché ti consente nella tenuità dei colori di tornare alla tecnica antica, quella della mano libera’. Delicatezza e gentilezza sono i suoi tratti salienti e l’arcobaleno variopinto di colori, dove tutto confluisce, elementi naturali, specie vegetali tipiche e animali, a definire i caratteri del territorio ora tutelato dal Parco, ma molto ambito da chi vorrebbe ‘spingere indietro con contrafforti persino il mare per costruire nuovi palazzi’ – così scrive sdegnato da tanto osare contro le leggi della natura Seneca a Lucilio. Le tavole sono un susseguirsi di particolari ambientali dove il cielo si confonde con il mare, mentre il verde e il marrone delle campagne partecipano ad una sarabanda di storie incise nel lavoro dei muri a secco, nelle strade percorse dai carretti, ora a piedi, da Otranto (l’Odra messapica) e dal suo mosaico pavimentale con la riproduzione del Paradiso Terrestre riprodotto nelle figure semplici e ignude senza vergogna di Adamo ed Eva, da Faro a Faro, dalla Palascìa a quello de finibus terrae di S. Maria di Leuca, dove i due mari si incontrano, si scontrano e si amano come è nella storia degli uomini, e dove ‘i salentini dopo morti tornano con il cappello in testa’, ricorda il poeta Vittorio Bodini. In mezzo porti, torri, vedute mozzafiato, elementi fusi nell’opera della natura e degli uomini che il Parco intende tutelare, meravigliando e facendoci innamorare innanzitutto con la matita e i colori di Antonio Chiarello confluiti in questo taccuino di viaggio, un itinerario che, così sollecitati, ci muoviamo a intraprendere senza frapporre indugio. In esposizione al Castello di Andrano (Le) fino al 6 gennaio, info: tel. 328 4242206, Castello “Spinola–Caracciolo” Piazza Castello Andrano (Le), tel. 0836/925049, fax; 0836/926830, info@parcootrantoleuca.it.

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L’ombra della madre, di Paolo Vincenti

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Paolo Vincenti è una sorpresa piacevole, nel senso che è sorprendente… Nei sui romanzi ci trovi di tutto, amore innanzitutto, passione, humor, thriller, cultura, senso della vita, satura lanx, parresia, grottesco… insomma un pranzo o una cena da Paolo Vincenti ti costa ma ti sforna ogni ben di dio. Se poi accanto a lui schiera un certo strimpellatore di nome Michele Mike Bovino allora non ti salvi più. Resti inchiodato alla sedia e reclami un altro verso, un altro brano, un altro ritmo. Non finirà che con nuove letture, nuovi versi e brani e canzoni e poi altri… Rimani scioccato e colpito, chiedi venia, chiedi il bis. E’ tutto così bello che non ti accorgi del trascorrere del tempo… tutto fila liscio fino alla mezzanotte. Del dopo non rispondo, e neanche loro credo.  Paolo Rausa

 

SANGUE DROGA E SESSO NEL CULTO DI CIBELE E ATTIS

“Nello svolgimento logico della vita, accadono dei fenomeni che facilmente sconvolgono la nostra traballante sicurezza, il nostro equilibrio precario. […] Al di là di ogni previsione, all’infuori di ogni prospettiva, si verificano delle coincidenze significative, che annullano la catena di causa ed effetto. È la sincronicità, il portento che ci afferra le braccia, il paradosso, l’occasione illuminante, lo scandalo, l’alchimia, il caso che entra nella nostra esistenza e in un attimo la scombina”. Queste parole aprono la seconda parte del romanzo “L’ombra della madre” (Edizioni Kurumuny, Calimera, 2015) di Paolo Vincenti e in esse sono condensati i momenti salienti del thriller-noir, anticipandone – a pensarci bene – il finale. In questo ultimo, in ordine di tempo, romanzo del giovane scrittore-professore di Ruffano vengono esaltate la grande cultura personale e la soprattutto la padronanza della materia trattata, il mistero, in cui si immergono i protagonisti del romanzo in terra salentina. Infatti Francesca, Riccardo, Fabrizio, Alessandra ed altri ancora, che vivono a Lecce, vengono ineluttabilmente assorbiti dai riti del culto antichissimo di Cibele e di Attis. La elegante narrazione avvinghia sempre più il lettore alle pagine del romanzo, mentre i personaggi (a volte vittima, a volte carnefice, a seconda delle situazioni) si immergono nei riti satanici col proprio e l’altrui sangue in un susseguirsi di droga, canti, balli (pizzica) e soprattutto sesso in tutte le sue accezioni, esercitato anche con gay e con trans. Ambientato nel Salento, il romanzo si sviluppa con continui colpi di scena assolutamente imprevedibili e con l’entrata in scena di personaggi nuovi che fanno da contorno ai protagonisti che, col trascorrere delle pagine, evidenziano la vera essenza della loro natura (demoniaca?). Il finale è mozzafiato e naturalmente non va svelato in questa sede: basti sapere che una stessa donna, la madre appunto, è stata artefice dei destini di tutti i protagonisti della storia. Il romanzo va sicuramente letto, anche perché la prosa di Paolo Vincenti, talmente ricercata da dover tenere sempre a disposizione un vocabolario della lingua italiana, introduce a studi specifici sul misticismo, solleticando la curiosità del lettore.

Rossano Marra

in “Il Galatino”, Galatina, 10 luglio 2015

 

“L’ombra della madre” di Paolo Vincenti, pubblicato da Kurumuny Editore, non è solo un noir in cui si intrecciano le storie di Francesca, Riccardo e Fabrizio, ma è soprattutto un romanzo psicologico nel quale si possono trovare sottili congiunzioni nella mente dei protagonisti che rivelano tra le pagine di un libro avvincente e ricco di pathos, dell’incredibile.

La trama ambientata nella cittadina leccese con vari richiami all’arte, alla storia, alla cultura, alla musica e alle tradizioni del Salento, è resa intricata per via dei misteri che cela con grande abilità Francesca Colasanti, una donna intelligente, affascinante e sensuale, ma con un risvolto inquietante della propria vita. Docente di Storia delle religioni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, dopo gli anni trascorsi a Roma, Francesca agli occhi di chi le sta intorno risulta irresistibile eppure nella sua apparente determinazione e sofisticata spigliatezza c’è un lato oscuro che si svelerà lentamente. Ed è nella sua città d’origine che Francesca tenta di trovare il senso della sua vita. Intorno a questa figura intrigante e amletica c’è Sauro, il suo ex compagno, un uomo violento che non accetta la separazione da Francesca; Fabrizio, il suo amante, e Riccardo Valentini, professore alla sua seconda laurea, al quale è affidato il complesso compito di districare i nodi esistenziali della donna della quale si innamora perdutamente anche per l’aurea di mistero che la circonda. “Privilegio e dannazione: questo significava averla conosciuta”. Riccardo frequentando Francesca diventa sempre più consapevole di qualcosa di imponderabile che caratterizza il loro rapporto: “Sei bella e perversa” le diceva “e io sono caduto nella tua trappola, ci sono caduto e non ne so più uscire”. Con lei “Donna diabolica e bambina innocente, spudorata e selvaggia, eppure fragile e quasi ingenua” il ragazzo scopre una parte della propria natura rimasta per anni quiescente.

Essenza di questa storia è la ricerca storico-religiosa che prevale nel romanzo “L’ombra della madre” tanto da risultare impregnato di un aspetto arcaico ed esoterico come il rito ancestrale a cui lo scrittore già autore di vari testi, differenti tra loro ma simili nello stile raffinato e incisivo, fa riferimento. Si tratta di un culto antichissimo, orgiastico e salvifico che si praticava a Roma durante i primi secoli dell’Impero. “Fra canti languidi, musiche ossessive e danze vertiginose, i fedeli delle Magna Mater Cibele e del dio Attis si abbandonavano completamente alla mistica ammaliati dallo splendore e dalla pompa delle feste” .

Con richiami all’antropologia culturale e dettagli che rendono il volume oscillante tra un fantasy e un noir, padroneggia la bellezza senza tempo di una terra come il Salento alla quale le si attribuisce quell’aspetto magico che caratterizza una storia resa peculiare grazie all’abilità letteraria di Vincenti che squarcia quella patina un po’ stucchevole attribuita ad un territorio che in realtà sa essere in grado di sorprendere e stupire. Ne “L’ombra della madre” emerge un fascino celato da un buio depositario di segreti e rivelazioni.

PAOLA BISCONTI

IN WWW.LINKIESTA.IT   NOVEMBRE 2015

 

Le Ferrovie Sud-Est macinano più debiti che chilometri

Stazione Sud-Est di Poggiardo (foto Antonio Chiarello)
Stazione Sud-Est di Poggiardo (foto Antonio Chiarello)

Le Ferrovie Sud-Est macinano più debiti che chilometri,

può salvarle solo un commissario straordinario

di Paolo Rausa

L’azienda Ferrovie Sud-Est Srl, costituita a Roma nel 1931, gestisce mille km di linee ferroviarie. E’ così gravata da una pesantissima crisi debitoria da non riuscire più a percorrere i km della sua rete che come una ragnatela congiunge i paesini del Salento e si allunga fino a Taranto e a nord a Martina Franca (Ta) e a Bari Mungivacca. ‘1300 dipendenti e 1400 cause di lavoro!’ – Sergio Rizzo con un articolo sul Corriere della Sera analizza la sua situazione drammatica, frutto di anni e anni di cattiva gestione finanziaria che data al tempo della sinistra ferroviaria di Claudio Signorile. Non modernizzata nei mezzi utilizzati e nell’adeguamento delle rete ferroviaria alle effettive necessità di un Salento turistico, le Ferrovia Sud-Est sono rimaste ferme nell’utilizzo dell’impianto originario, con fermate lontane dai paesi e dai centri balneari come Otranto o Santa Maria di Leuca. Qui la fermata più vicina, Gagliano del Capo, dista 5 km. dal Santuario de finibus terrae. La situazione è davvero disastrosa, con 320 autobus destinati a studenti e pendolari di cui la metà inutilizzabili, le ditte di manutenzione che entro una settimana smetteranno di prestare la loro opera, i servizi informatici e contabili affidati ad una società esterna che minaccia di chiudere senza altra alternativa (guarda caso) se non l’assunzione diretta dei dipendenti, un direttore del personale che operava da Roma, dirigenti retribuiti con 220 mila euro annui, 311 milioni di debiti e 170 milioni di sbilancio contabile, mancato versamento da tre mesi all’Inps e al Fisco delle ritenute previdenziali e dell’Irpef dei dipendenti. Le consulenze esterne sono oggetto di indagine. Nell’inchiesta sulle grandi opere è stato coinvolto Ercole Incalza per almeno un decennio commissario governativo dell’azienda pugliese, di proprietà del Ministero delle Infrastrutture. Con lui risulta indagato anche l’ex amministratore unico della società pubblica Luigi Fiorillo. Tangenti e malaffare, sprechi come nel caso delle 25 carrozze passeggeri usate, acquistate dal Germania nel 2006 a 37.500 euro, poi vendute ad una società polacca e ricomprate dopo una sistemazione a 900 mila euro l’una invece delle 620 mila concordate. La società polacca Varsa era gestita da un pregiudicato, un prestanome, Carlo Beltramelli. Soldi intascati, tangenti, una macchina BMW regalata al braccio destro di Fiorillo e tante altre irregolarità hanno fatto muovere la Corte dei Conti che ha richiesto la restituzione di 9 milioni di euro e ha già messo sotto sequestro i beni. Il nuovo presidente Andrea Viero si è messo le mani nei capelli appena ha potuto accedere ai documenti aziendali ed è rimasto inorridito dalla ‘inadeguatezza drammatica di meccanismi operativi, processi decisionali e sistemi di controllo’, tanto che ha suggerito al Ministro del Rio di ricorrere urgentemente per il risanamento ad un amministratore straordinario. Intanto è da anni che si parla di una riconversione della Ferrovia a metropolitana leggera per tutto il Salento fino all’aeroporto di Brindisi. Nell’attesa si investe nelle autostrade del mare che dal capoluogo leccese si inabissano verso Otranto e verso Santa Maria di Leuca. Povero Sud, povera Patria!

Musiche, canzoni, pitture, scritti e poesie di Salvatore Brigante

Il lunedì d’arte e letteratura alla ‘Puteca de mieru’ di Minervino (Le),

musiche, canzoni, pitture, scritti e poesie di Salvatore Brigante

Salvatore Brigante alla Puteca de mieru

di Paolo Rausa

Salvatore Brigante da Tricase, questo lunedì dei primi di novembre, scende nella fossa dei leoni della ‘Puteca de mieru’ di Minervino (Le) nell’immediato entroterra salentino a pochi chilometri dal mare, fra Santa Cesarea Terme e Otranto.   Lui è nato più a sud, vicino al Capo di Santa Maria di Leuca. Si sente dall’inflessione della voce più cupa e dal sogghigno di chi ne ha viste tante, soprattutto da piccolo, quando con il nonno al chiaro di luna usciva nell’orto a pulire i cavolfiori dalle farfalle notturne che si prelibavano di questo vegetale. ‘Oniriche’ così chiama le sue prime poesie vergate all’età di 8 anni, ma – aggiunge – non erotiche. E’ quel ‘non’ che non convince, frapposto fra i due termini. Si riferisce all’uno, all’altro o a tutt’e due? Salvatore è sornione, non risponde, fa scivolare la domanda, e intanto con l’occhio si dirige verso la panca vicina occupata da una serie di bellissime fanciulle sulle quali il suo sguardo si sperde. E allora si toglie dall’imbarazzo e attacca con la chitarra. ‘Ntoni Calò’ è il suo ritmo assordante e cantilenante, in ricordo della fanciullezza quando dormiva dalle due zie in un periodo della vita desiderosa di affetti. Così si nascondeva sotto il letto e ingurgitava caffè e zucchero, zucchero e caffè. E poi attacca un’altra canzone: ‘La rivoluzione del cartone’. ‘Qui si fa la rivoluzione con le scritte sul cartone…’ è il suo ritornello, graffiante e ironica, sul percorso di tanti giovani che inneggiavano ad un mondo migliore ma limitandosi alle scritte sul cartone e non come processo che nasce dal profondo. Intanto Salvatore ha disposto come tanti scudi a sua difesa, a cominciare dall’ingresso, i pannelli in legno su cui ha gettato i colori come sedimenti e volumi, seguendo ancora una volta come in tutte le sue manifestazioni artistiche delle direttrici dettate dal cuore. Ne risulta un’arte ‘primitiva, simbolica, impulsiva, sanguigna’. Antonio, lo chef della Puteca, lo guarda in modo interrogativo. Ne sono passati di matti da qui, pensa, ma questo li batte tutti! Arriviamo al romanzo ‘La quercia è il peccatore’, autobiografico, sulla corruzione, contro la politica arraffona che non si ferma davanti a nulla. Il proposito di Rocco, il protagonista, di liberare dall’asfalto e dal cemento la maestosa quercia vallonea rappresenta il sogno di liberare il Salento dal malaffare. Florinda e Tonio, attori della Compagnia Ora in Scena!, attaccano a leggere un racconto coinvolgente fino alla dichiarazione d’amore finale fra Rocco e Giulia. Salvatore abbassa la testa, sospira, pensa a Marika, la fanciulla dall’abito rosso (Questa me la sposo! – disse quando la vide a Zurigo, giovanissima.) divenuta sua compagna, prematuramente perduta. Il vino scorre. Gli altri commensali non sono da meno. Cantautori, artisti e imitatori. Carlo non sa se è più lui quando vede riflessa la sua immagine nell’imitazione di Pezzulla. Intanto P40 illustra che cosa accade il lunedì alla Puteca, mentre Claudio si attacca al tamburello intonando una nenia che ha fatto la fortuna dei Mascaramirì.

 

Lucugnano/ A difesa di Palazzo Comi

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La mobilitazione a difesa di Palazzo Comi prosegue,

sabato 31 ottobre letture poetiche, convegno e concerto

 

di Paolo Rausa

‘Abbiamo bisogno di tutta la vostra partecipazione alle iniziative che il Comitato, promosso da Simone Coppola, ha organizzato sabato 31 ottobre, una non stop a partire dalle ore 16,30 con letture poetiche a cura del Fondo Verri di Lecce.’

– Gloria Fuortes responsabile della Biblioteca Comunale si appella a tutti i cittadini di buona volontà e alle associazioni che hanno a cuore questa istituzione antica del Salento. Ripercorre le tappe della vicenda che vede protagonista la Provincia di Lecce nelle scelte del presidente Gabellone; il famigerato bando di affitto per 30 anni senza vincoli, le inascoltate proposte di acquisizione del sindaco Antonio Coppola di Tricase, il coinvolgimento finora infruttuoso della Regione Puglia. E’ orgogliosa dell’appoggio che il Comitato spontaneo, sorto per evitare il cambio di destinazione da luogo di cultura a luogo di ristorazione, ha profuso e degli attestati di solidarietà che si sono espressi a difesa della Biblioteca e del Museo di Storia Naturale del Salento a Calimera con le migliaia di firme apposte in calce ad una petizione minuziosa e precisa vergata dalla scrittrice Raffaella Verdesca con destinatari il Presidente della Repubblica, il Ministro dei Beni Culturali e il Presidente della Regione Puglia.

A dare man forte a questo movimento convulso le ragioni della cultura contro la barbarie degli atti amministrativi azzardati dalla Provincia. ‘Vi invito caldamente a partecipare – prosegue Gloria Fuortes – al convegno sui Beni Comuni, a cui interverranno i docenti presso l’Università del Salento, Nicola Grasso, prof. di Diritto costituzionale e legislazione dei beni culturali e di Diritto costituzionale della cultura, e Stefano Cristante, prof. di Sociologia dei processi culturali e comunicativi; l’avv. Michele Macrì e il sindaco di Tricase Antonio Coppola. E non è finita qui. A seguire l’aperitivo offerto dal Comitato Pro Palazzo Comi-Casa della Cultura.

Subito dopo alle 21 il Concerto/Showcase ‘La Rocha’. Un convegno che esprime grande determinazione per sventare i colpi di mano della Provincia, fra l’altro destinata ad essere soppressa dalla nuova legge costituzionale. Convitati di pietra saranno i Presidenti della Repubblica e della Regione e il Ministro dei Beni Culturali a cui il Comitato ribadirà le richieste a difesa della cultura salentina e di una civiltà, quella messapica e greca e romana e sveva e normanna e angioina e aragonese e araba e turca e poi quella dei borboni e quella piemontese e quella italiana infine. ‘Considerate se non meritano rispetto costoro, – si chiede la Verdesca – ma ancor più quelli che verranno. Non possiamo privarli delle fonti e dei luoghi di cultura.

Per questo ci battiamo perché siano mantenuti aperti e nel pieno esercizio Palazzo Comi a Lucugnano e il Museo di Storia Naturale del Salento a Calimera!’

Taccuini di Santa Cesarea

Villa Raffaella

Enzo Viti, Taccuini di Santa Cesarea, disegni, acquerelli, opere

e fotografie di Dario Caputo a Villa Raffaella

 

di Paolo Rausa

L’ora di tutti’, il bel romanzo di Maria Corti. Non era di queste parti, si intende il Salento, ma del nord, della sponda occidentale del Lago di Como, Valle Intelvi di fronte al Lago di Lugano.

Eppure Maria Corti è passata da Villa Raffaella, della famiglia Lubelli a Santa Cesarea Terme.

Una struttura elegante e imponente, giocata sui pieni e sui vuoti, sull’idea del palazzo munitissimo con torri eburnee e archi che racchiudono una balaustra arcuata con vista verso l’orizzonte orientale. All’interno, accolti da una frase non d’occasione ‘Domus tua haec’ (Questa è casa tua) si svolgerà dal 10 al 20 agosto una mostra d’arte, che contempla i taccuini di Enzo Viti, assiduo frequentatore di Santa Cesarea e proveniente da quella Matera di recente innalzata a Capitale Europea della Cultura per il 2019, le sue pitture e le fotografie di un figlio di questa terra, Dario Caputo.

Enzo Viti
Enzo Viti

Che cosa accomuni questi tre soggetti è Enzo Viti a spiegarlo, mentre si dispone a ritrarre l’ennesimo schizzo del paesaggio esclusivo di questa terra, ‘dove tutto si innesta per convergere verso la bellezza: il mare, i fiori, il verde’. Per Enzo Viti si tratta di amore a prima vista, da quando circa 15 anni fa gli è stato suggerito questo luogo baciato dalla fortuna: ‘Mentre me ne andavo a passeggiare e notavo questo equilibrio cromatico, esistenziale e materico, mi chiedevo in che modo potessi ricambiare questa sensazione di benessere’.

E da allora nessun angolo è sfuggito alla matita e ai pastelli di Enzo, ben 130 disegni sono stati elaborati dalla mente e dal cuore dell’artista e trasmessi sulla carta pronti per essere esposti nella struttura ricettiva di Villa Raffaella insieme a 13 pitture e ad una trentina di foto di Dario Caputo, figlio ossequioso di Santa Cesarea.

Inaugurazione il 10 di agosto ore 20. Per 10 giorni si potranno ammirare taccuini, pitture e foto a far mostra di sé nelle architetture di stile eclettico con elementi romanico-gotico-moreschi di questa villa progettata e realizzata dal padre di Maria Corti, l’architetto Emilio, che si inserisce in una teoria di costruzioni che si snodano lungo il litorale da Palazzo Sticchi e la sua cupola moresca a Santa Maria di Leuca, de finibus terrae, dove  – dice Bodini – i salentini dopo morti ritornano con il cappello in testa.

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Dario Caputo – 2014

Orari della mostra: dalle 20,00 alle 23,00, tel. 0836 944235, 335 6412163, www.villaraffaella.it

 

L’albero della vita della cattedrale di Otranto a Expo

mosaico di Otranto
mosaico di Otranto

Un viaggio in Expo 2015 tra scienza, alimentazione e agricoltura, su cui irrompe l’enciclica ‘Laudato si’’ di Papa Francesco

 

di Paolo Rausa

Ad appena due mesi dall’apertura l’Expo dispiega tutta la sua potenza espositiva. Un decumano, lungo un chilometro e mezzo in direzione est-ovest,  che incrocia il cardo, a sua volta lungo 350 metri, all’altezza di piazza Italia da cui si intravede il suggestivo albero della vita, che richiama con una visione avveniristica e tecnologicamente avanzata l’Albero della vita della Cattedrale romanica di Otranto. Un grande mosaico pavimentale che aveva ordito tra il 1163 e il 1165 Pantaleone, il monaco basiliano del monastero di San Nicola a Casole. E’ veramente entusiasmante e suggestivo vedere affacciarsi su queste strade di concezione consolare romana padiglioni di ogni parte del mondo degli oltre 130 paesi partecipanti, circa 60 dei quali sviluppano uno spazio auto costruito e gestito, mentre gli altri costituiscono i cluster monotematici (il riso, il caffè, cacao e cioccolato, frutti e legumi, spezie, bio-mediterraneo, isole mare e cibo, cereali e tuberi e infine le zone aride),  i quali mettono in evidenza gli aspetti naturali e gli sforzi che ogni paese sta compiendo per affrontare il problema alimentare e climatico. La nostra visita a piedi comincia dall’ingresso ovest, Cascina Triulza, a cui si arriva comodamente in treno, il nostro dalla zona sud est è il passante ferroviario S14 con partenza da Rogoredo. Il Padiglione 0 introduce l’argomento, una grande biblioteca, i semi, gli attrezzi agricoli che hanno aiutato l’uomo a estrarre i frutti dalla terra, l’allevamento e i pesci che pendono dal cielo, lo spreco alimentare, il listino della borsa. Il primo a cui ci si ferma è il padiglione del Nepal, non ancora ultimato, oggetto di pellegrinaggio e di solidarietà da parte dei visitatori che già dalla mattina arrivano numerosi. Si visitano i padiglioni facendo necessariamente una scelta, dettata dal caso o da quanto si è sentito dire. Poi l’Angola e il Brasile, ma la fila che si intravede distoglie. Il Vietnam e la Repubblica di Corea, avveniristica: il cibo come sfida. I cluster del riso e del cacao: i paesi espongono i loro prodotti della terra e artigianali. La Thailandia, il paese dell’oro, l’Uruguay, ci saremmo aspettati un omaggio al presidente Mujica e alle popolazioni indigene, ma è troppa l’ansia di attrarre visitatori, allora si propone la bellezza dei territori, la Cina che si limita ad esporre in una struttura a pagoda un letto di canne meccaniche che simulano il lento fluire del ritmo naturale, la Colombia divisa in 5 climi che dimentica Medellin e la lotta al narco traffico, l’Argentina con la sua carne grigliata che ci spinge ad una sosta. Stanchi, ma non domi siamo pronti alla seconda parte del percorso, l’oriente: Azerbaigian e Kazakhstan, molto curati nei particolari espositivi. Questo si prepara a celebrare il prossimo expo dell’energia nel 2017 e affida il racconto della sua storia ad una artista che illustra sulla sabbia le vicissitudini di un paese proiettato nel futuro, specie quando ci introduce con la visione tridimensionale sugli aspetti naturali ed architettonici, tanto che pare quasi di immergersi nel mare e di toccare terra tra il frumento o di sfondare il palazzo presidenziale. La sosta al centro Conferenze dove vari studiosi e il cardinale Angelo Scola illustrano i contenuti dell’enciclica di Papa Francesco ‘Laudato si’’, sulla natura come atto di creazione e sulla responsabilità dell’uomo sui danni all’ambiente. Poi Israele, cosa abbiamo fatto a favore dell’umanità in termini di scoperte, e la Germania, che assume su di sé le sorti del pianeta con un’esposizione didascalica e puntuale su che cosa fare. Straordinaria! Piazza Italia e l’Albero della Vita, suggestivo con l’acuto lirico che libera i colori e fascia la struttura. Slow Food e la sostenibilità, il giardino degli aromi, l’Oman, una nazione marittima che si scopre anche agricola. L’altoparlante chiama alla chiusura e invita a uscire. Stanchi ma soddisfatti. Da ritornarci per completare il giro, almeno altre due volte. Molte riflessioni, sui popoli, sui loro diritti negati, sui problemi del cibo, non sulla sua mancanza ma sulla cattiva distribuzione, sugli sprechi. L’umanità è qui riunita, mostra il meglio di sé, ma non può nascondere il fatto che fuori di qui urgono guerre e carestie. C’è materia e di azione e di riflessione per tutti, cittadini e governanti compresi.

Gli ulivi nelle pirografie di Silvana Bissoli

Silvana Bissoli

Gli ulivi nelle pirografie di Silvana Bissoli, Chiesa dei Battenti, Galatina 20 giugno-8 luglio

di Paolo Rausa

 

Le pirografie di Silvana Bissoli, una tecnica artistica che imprime con il fuoco,  ritraggono gli ulivi della terra sallentina, la Messapia, ‘tanti mari, porti, e il suo grembo aperto da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari’. Così scriveva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.

Che cosa resta di quella idea e di questa terra nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti e dei tanti amanti che da ogni parte del mondo e dell’Italia hanno stabilito un legame che va oltre le apparenze e si nutre di visioni? Quelle stesse che impressionarono i primi uomini che la frequentarono nelle Grotte dei Cervi di Porto Badisco, sulla litoranea a sud di Otranto, accanto alla torre di S. Emiliano, un baluardo che si erge sul promontorio di rocce che guardano a Oriente come per rispondere a ventilate minacce. Quali? Quelle dei turchi o quelle che giungono dal nostro seno?

Dai piani sillettiani di abbattimento degli ulivi che ne hanno viste tante in questa terra, una vera e propria ‘Via Crucis’, ritratta in queste straordinarie pirografie dalla veronese di origine e imolese di adozione e cittadina del mondo e onoraria del Salento,  la viandante messaggera come ama definirsi. I suoi messaggi sono racchiusi nei tronchi contorti, espressione delle storie ambientali che si sono succedute qui, nel corso dei secoli, intrecciando quelle degli uomini, miti testimoni di travagli e di aspirazioni, ‘Voci tra Cielo e Terra’, ben piantati al suolo con radici millenarie che non ci pensano ad assoggettarsi alle macchine distruttrici che li minacciano di eradicazione, un termine astruso che vuol dire annientamento per rispondere colpo su colpo al batterio xilelliano.

Come Cristo gli ulivi hanno la loro verità da raccontare a noi che li ascoltiamo riverenti, anche quando i loro sogni sono trasfusi su tavole di legno incise con il fuoco sacro della passione, che ribadisce il diritto alla vita contro le logiche di morte, dei deserti che vengono chiamati pace.

Una chiesa, la cinquecentesca confraternita dei Battenti a Galatina,   riaperta per l’occasione della mostra, ospiterà dal 20 giugno all’8 luglio la personale di Silvana Bissoli,  30 pirografie che ritraggono la nostra anima circonfusa con quella degli ulivi e la loro con la nostra. Un viaggio sentimentale tra le opere dell’artista, curato dalla critica d’arte Pompea Vergaro.

Durante la serata di inaugurazione e nei giorni successivi si alterneranno letture di poesie e canzoni della nostra tradizione culturale, a seguire la voce di Lucia Minutello e la musica del menestrello P40 il 26 giugno, la presentazione dell’opera poetica di Nico Mauro  ‘La polvere e l’acqua, parole lungo la via della croce’ il 3 luglio. ‘Egli vedeva il Calvario/… morbida stola ai piedi di sua madre divina’.

Con Alda Merini, Poema della Croce, può iniziare questo viaggio all’interno dell’arte di Silvana Bissoli, che racconta storie che sanno di noi.

 

Galatina (Le), Chiesa dei Battenti, Orari mostra: tutti i giorni 10:00-13:00/18:00-22:00, Info: 339.7612304, bissosil@tin.it-Fb.

Invito Galatina  ok 10 giugno 20151

Il Liceo Capece di Maglie e Nuova Messapia per il recupero del Dolmen Chianca

il masso della vecchia
il masso della vecchia

di Paolo Rausa

 

Non accade spesso che in nome della difesa e della valorizzazione del territorio e dei monumenti che vi insistono si formino delle alleanze, ma quando accade si realizza finalmente quella visione olistica dove la cultura sedimentata nel tempo, i segni vistosi monumentali, le tracce che le passate civiltà hanno lasciato, vengono riconosciuti come beni da preservare.

E’ il caso del Dolmen Chianca (il nome del lastricato solare) in località Policarita (dal suggestivo lemma greco) a Maglie, nel Salento centrale fra Otranto e Gallipoli, due ridenti località turistiche ma anche due porti importanti messapici. Per la verità non  mancano nel territorio di terra d’Otranto altre testimonianze che datano al periodo preistorico, come dolmen, menhir o incisioni e pitture rupestri databili al periodo neolitico. In particolare sono da citare il monumento detto ‘Centopietre’ a Patù nei pressi di S. Maria di Leuca, un edificio di culto o un monumento sepolcrale, il cosiddetto masso della vecchia a Giuggianello, una serie di chianche, massi sovrapposti, dalle dimensioni ciclopiche, gli allineamenti dei menhir a Minervino di Lecce e a Giurdignano, le grotte di Porto Badisco con le pitture parietali che raffigurano scene di caccia e scene religiose con lo sciamano che sovrintende a una cerimonia nuziale, dove secondo la leggenda, contesa da Castro, approdò Enea, le veneri steatopigie di Parabita, i resti fossili e umani nelle grotte di Leuca, ecc.

Tutti elementi che definiscono la frequentazione neolitica del Salento, un territorio che trova esemplificazione nel paesaggio pittoresco definito dalle distese degli ulivi, che per la verità ora non se la passano così bene.

E’ merito della Associazione Nuova Messapia, che promuove la conoscenza del territorio, se nel corso delle campagne di ripulitura dai rifiuti abbandonati, alle quali partecipano le scuole, ha  coinvolto gli studenti del Liceo Capece di Maglie  nel rinvenimento di questo monumento che necessità di recupero.  Si è provveduto ad isolarlo dalle erbacce e a far intervenire la Soprintendenza, ma è il lavoro di catalogazione e di studio che ora spetta alle classi. Insieme all’Associazione il dolmen Chianca verrà adottato, verrà proposto un recupero rispettoso e l’apposizione del vincolo monumentale e paesaggistico su di una zona che ha lasciato questa traccia perché sia riconosciuta e preservata.

 

La festa della Liberazione al Parco dei Paduli, un 25 aprile di terra e libertà

Il 25 aprile delle donne al parco dei Paduli a San Cassiano (Le)

di Paolo Rausa

 

Ai Paduli, una immensa foresta planiziale nel cuore del Salento, la festa della Liberazione!

Ne ho viste di feste della Liberazione, a Milano per lo più, sotto scrosci  interminabili di pioggia, il cuore della Resistenza, quel 25 aprile del 1945 quando finalmente le brigate partigiane scese dai monti liberarono con Milano l’Italia del Nord.

Ma un 25 aprile fra gli ulivi, sotto il tepore di una primavera baciata dal sole, non mi era ancora mai capitato. In un momento difficile per il Salento e per il suo albero rappresentativo, l’ulivo, minacciato dal batterio Xylella e dalla insipienza degli uomini che pensano di risolvere tutto ‘eradicando’ i patriarchi verdi ‘infetti’. Ecco allora che la festa organizzata dai giovani che gestiscono con questo progetto pilota denominato ‘Abitare i Paduli’ il cuore verde del Salento assume il significato di Resistenza, intesa come salvaguardia del patrimonio arboreo e di valorizzazione produttiva agricola e dei beni artistici e monumentali del territorio.

25 aprile al parco dei Paduli a San Cassiano (Le)

All’appello rispondono in moltissimi, e io fra questi, attratti dalla novità, dal programma che vede coinvolti numerosi cantautori salentini che si esibiscono gratuitamente e soprattutto per ribadire che l’idea di progresso si coniuga con quella di conservazione della memoria di questi luoghi e di questa cultura contadina che ha lasciato il segno nella bellezza e nell’armonia del paesaggio naturale.

Giorgio Ruggeri, uno dei fondatori del gruppo, una trentina di giovani, che gestiscono il progetto, mi introduce ai contenuti e alla articolazione del senso della loro iniziativa: ‘Abitare i Paduli vuol dire appropriarsi del territorio, viverlo, trasformarlo se necessario ma sempre qualitativamente, organizzare un turismo sostenibile fatto di camminate lungo i percorsi rurali, gite in bicicletta, nidificare i Paduli nel senso di utilizzare nidi-abitazioni biocompatibili e favorire il ritorno di una cultura della terra da molto tempo bistrattata e dimenticata’.

I comuni del circondario, San Cassiano, Nociglia, Supersano, Botrugno, ecc., scommettono su questa riconversione e opportunità del territorio come luogo e sedimentazione di memoria da preservare, ricordare e mettere a frutto, nel senso di adoperare le buone pratiche agricole che hanno consentito di mantenere vivi e vegeti questi patriarchi verdi, gli ulivi, che ora rischiano grosso.

Riconosco molti artisti e cantautori che il lunedì di Pasquetta si sono dati convegno sempre in zona agricola, a Corigliano d’Otranto, dall’Associazione Culturale ‘Mbroja’: P40 il menestrello di ‘ho fatto marketing con la k’, i Grifiu, Massimo Donno, Cristiana Verardo, Albina Seviroli che destreggia la chitarra come se fosse un tappeto volante su cui viaggiare in mondi sconosciuti, e tanti altri. Ma è il coro dei Paduli, condotti da Enza Pagliara, ad aprile il pomeriggio con una canzone di consapevolezza sulla attività agricola eco-compatibile che smaschera i pericoli da batterio  che correrebbero gli ulivi. E con un discorso sul valore della Resistenza e con la canzone ‘Bella ciao’ danno il via alla festa, mentre nonni e bambini si divertono a  confezionare sogni e ad affidarli agli aquiloni.

 

Info: 377 5341053, Escursioni: 345 2347258, http://www.abitareipaduli.com/contatti.html.

 

‘Mia madre’ un film di Nanni Moretti con Margherita Buy

Shots from "Mia Madre"

di Paolo Rausa

 

Già nel film ‘La messa è finita’ del 1985 Nanni Moretti aveva introdotto la figura della madre, che non sopporta l’abbandono del marito per una giovane donna e decide di togliersi la vita. In ‘Mia madre’ riprende quel filo interrotto, ampliandolo. Tutto confluisce nella vicenda della esistenza  materna che, ormai vecchia e malata, si avvia a concludere la sua esperienza terrena. Questa condizione interseca la vita dei figli, orfani del sentimento e in difficoltà nel districarsi dai fallimenti dei rapporti affettivi. Alter ego di Moretti è Margherita, che nel ruolo di regista sovrappone i piani esistenziali a quelli professionali, confusa e insoddisfatta della vita. Ricorre così ad un grande attore americano, John Turturro, per dare valore al film sulla occupazione della fabbrica decisa dagli operai per rispondere alle minacce di licenziamenti, ma neppure questa scelta rasserena l’animo. Anzi. La regista fatica a imporre la sua visione sullo svolgimento delle scene e sul ruolo che devono ricoprire gli attori, incapaci di comprendere il senso delle sue raccomandazioni: non confondere il ruolo del personaggio con quello di attore. ‘Lucrezio, Tacito… che ne faremo di tutti quei libri, che ne sarà di tanti anni di studi?’ – così riflette sulla vita spesa dalla madre mentre si preoccupa delle riprese sul set. Il riferimento è alla attività di docente della madre, benvoluta dagli allievi e maestra di vita. Margherita esprime il senso di abnegazione e di incrollabile fede nella volontà di lotta per affermare le ragioni della vita. L’affetto e la tenerezza verso la madre restano le uniche modalità di fronte alla incomprensione della realtà. Il film, come rivela la regista durante una conferenza stampa, non  si pone l’obiettivo di dare risposte alle domande della società, né indica soluzioni di fuoriuscita dalla crisi economica ed esistenziale. Il grande attore americano incespica beffardamente sull’italiano e dimentica le battute, cosicché in uno scatto d’ira impreca di voler uscire dalla finzione del film per essere riportato alla realtà. Ma quale realtà? Sullo sfondo ecco la grande umanità della madre sofferente, che conserva fino alla fine la lucidità, infonde alla giovane nipote barlumi di traduzioni dal latino ed è capace di leggere nel cuore  irrequieto di una adolescente. La vediamo lì, ‘mia madre’, nel letto di malattia, mentre dispensa parole di ingenuità e di amore  senza chiedere contropartite. Il film è un grande omaggio a chi ci ha generato e ci ha insegnato a donare senza nulla pretendere. Questa è la lezione del film, l’amore, come speranza di salvezza dell’umanità forse non ancora irrimediabilmente perduta.

Il popolo degli ulivi in festa a Veglie, musiche danze confronti buon cibo e vino

Festa al presidio di Veglie

di Paolo Rausa

 

I miei riferimenti spazio-temporali, storico-artistici, ora hanno lasciato il tempo ad un altro elemento di orientamento: le mappe dove gli untori hanno lasciato il segno della sfida. Una croce rossa, una x, il simbolo della xylella, come la discesa di Carlo VIII in Italia. Solo che qui rischiano sul serio gli ulivi patriarcali. Ovviamente non sono tanto vecchi come quelli dell’Orto di Getsemani, luogo in cui si manifestò il tradimento di Giuda  – tutto ritorna negli avvenimenti umani e divini! – ma questi ricordano l’alleanza dei messapi contro gli spartani di Taras, quando riuscirono a respingere l’invasore e a riconquistare la propria terra.

Motivi storici e nostalgici, che ben si possono riferire alla situazione attuale in cui versa il Salento. Incontro volti noti al presidio, dove ormai ci arrivo ad occhi chiusi. Qui è il mio cuore. La cronaca scorre via come se fosse dettata da dentro. Alessandro va in giro a farsi rilasciare interviste, punti di vista sulle prospettive e sulle speranze di questa lotta che da qui non si muove. E’ in questa contrada nelle campagne di Veglie, Sferracavalli, che il popolo degli ulivi ha posto il suo quartiere generale, il suo avamposto, luogo da cui il nemico-avversario teme possa essere ‘scatenato l’inferno’. Solo che qui di armi non se ne vedono!

E’ strana questa guerra che ti accoglie con i ritmi scatenati di Sergio, filosofo e chitarrista di fama, il pensiero che trova modo di esprimersi sulle corde di uno strumento musicale: folle e geniale insieme. Tania recita una sua poesia sull’oliva, tenta così di strappare l’attenzione alla melodia. Tende, gazebi, un teepe indiano  come a ricongiungersi a quella vicenda dei pellerossa, alla lettera che Capriolo Zoppo nel 1854 scrisse al presidente degli Stati Uniti, Roosevelt Pierce, per rispondere alla richiesta di comprare la loro terra: ‘Tu, Grande Padre che stai a Washington, vuoi compare la terra, il cielo e l’aria ma questi non appartengono a noi ma tutti gli esseri viventi…’. Chissà se la capiranno questa lezione il Commissario Silletti, che a nome del governo conduce le giubbe blu, e tutti gli altri, politici e scienziati.

E poi  tavole improvvisate imbandite di ogni ben di Dio, frutto della terra salentina e preparato dalle mani d’oro delle nostre donne. Oronzo, il più anziano, è pronto con un bicchiere di rosato, poi intravedo Giovanna, che è scesa finalmente dall’albero ma il suo ruolo non è meno importante perché si sincera affannosamente se tutto scorre bene. E poi tanti giovani, bambini che si fanno coinvolgere e poi travolgere dal ritmo della pizzica, che un gruppo intona sotto un albero di ulivo segnato da morte certa ma che per oggi vive.

Una festa, il modo migliore per rispondere ai piani di eradicazione. ‘Non siamo un popolo da colonizzare. Risponderemo colpo su colpo! – enfatizza Mimmo. Di fronte ai balli e ai canti si comprende come dalle lotte stia nascendo un nuovo Salento, consapevole della propria coscienza e deciso a difendere la propria terra e gli ulivi che ne sono espressione, la più antica, la più sacra.

 

Il popolo degli ulivi c’è, ieri a Veglie nessun albero tagliato

Giovanna sul trespolo dell'ulivo

di Paolo Rausa

 

Il presidio del popolo degli ulivi è consistente, più di un centinaio di aficionados, tanto da consigliare il commissario straordinario per l’emergenza xylella, Giuseppe Silletti, di interporre una tregua, dopo le prime ‘eradicazioni’ di ieri a Oria, nel brindisino.

C’è determinazione fra gli ambientalisti, agricoltori, salutisti, artisti e tutti gli altri che a vario titolo si sono dati convegno qui a Veglie, località Sferracavalli, estrema propaggine della provincia leccese. Non c’è aria di vittoria, ma di attesa. Sanno che l’avversario non demorderà e che ricorrerà, coma ha già annunciato, a tagli indiscriminati senza prima preavvertire dove le ruspe e le seghe elettriche si macchieranno di questa grave colpa. ‘Disastro colposo’ – azzarda Gino Ancona di Bitonto. E’ qui per capirne di più su questo batterio che provoca una reazione ‘forsennata’ da parte delle autorità, anzi arriva al paradosso di esprimere solidarietà e non condanna alla Xylella, perché – come ha illustrato qualche giorno fa a Vernole il prof. Xiloyiannis Cristos – è stato condotto un esperimento in California, iniettando il batterio in un ulivo, senza provocare disseccamenti. E’ stato ieri a Oria, ha provato inutilmente a protestare, anche vivacemente. 5 ulivi secolari hanno ‘perso la vita’: questa la sua espressione di cordoglio. E’ preoccupato soprattutto per l’assenza di vita nelle campagne di Veglie, come ieri a Oria. Nessuna formica, nessun uccello, nessuna lucertola: ‘Eppure è primavera!’. Sembra che il terreno sia inerte e ricco solo di veleni.

Giovanna attrae subito la mia attenzione. E’ rannicchiata sul primo ulivo della serie di questo campo che dovrebbe subire la stessa sorte di quelli di Oria. Eppure non si notano rami disseccati. Non si comprende la strategia di fare terra bruciata di questo territorio se non con la volontà di demarcare una linea di sicurezza, di contenimento per assecondare la volontà, pare, dell’Europa di istituire una zona di quarantena. Così stabilirebbero le norme quando entra nel territorio comunitario una epidemia sconosciuta. Giovanna racconta la sua origine da un paesino lucano assillato dalle perforazioni petrolifere, della sua fuga a Melendugno dove ha scoperto con suo grande disappunto il progetto della Tap, il collegamento con il gas del Kazakistan, e ora non mancava che questa follia della Xylella. Quest’albero, su cui medita, è la sua vita dice. Per lei è naturale, difende se stessa e qui rimarrà fino a mezzanotte, quando scadrà la notifica.

Mimmo è imponente, arriva da S. Pietro Vernotico, un’esperienza  con le malattie tumorali al polmone e alla laringe, la lotta ancora senza risultati per imporre il registro delle malattie. Nella Valle della Cupa arrivano i miasmi della centrale a carbone di Cesano,  dell’Ilva di Taranto e dei fumi di Marghera.

Stefano del ‘Coordinamento Agricoltura è salute’ di Lecce racconta di come si è evoluta la protesta e di come abbia coinvolto molti più cittadini. Come Donato, che racconta del ruolo nella sua band di chitarrista, basso, tastiera e batteria, della sua fatica di operaio, dei libri che ha portato con sé e che offre a Giovanna appollaiata sull’albero per confrontarsi sulla natura e sulla possibilità di vivere senza soldi – il suo sogno -, dei giovani di Collemeto. Il presidio si anima all’arrivo di Raffaele Nestola, nerochiomato, chitarrista dei Negroamaro. Gli chiedo che ci fa qui. Si ferma a pensare. Si commuove. Racconta della sua vita in campagna, del significato che hanno assunto per lui gli alberi di ulivo, che hanno modellato il nostro territorio. Oronzo e il figlio, trappitari, assentono.

Temono il danno economico di questo fenomeno e soprattutto quello di immagine. ‘Una grande prova di orgoglio e di dignità questa di oggi del popolo degli ulivi’ – mi confida Sergio Storace, professore di filosofia in pensione ma rimasto filosofo nell’anima. Farebbero bene i politici e la comunità di scienziati a tenere in conto questo popolo che non si arrenderà. Lo deve agli ulivi, alla propria vita, alle generazioni future.

Mentre a Lecce si discute sulla Xylella a Sagunto (Oria) si eradica


Il convegno di Lecce, Hotel Tizianodi Paolo Rausa

Un convegno organizzato domenica pomeriggio all’Hotel Tiziano di Lecce per rispondere al dilemma: ‘Xylella: sradicare o curare?’. Il focus, come lo chiama l’organizzatrice Federica de Benedetto di Forza Italia Puglia, ha lo scopo di far incontrare ricerca e politica per la difesa del territorio salentino. Perché come riassume lei nell’introduzione: ‘La buona politica non sa solo litigare, ma si pone come obiettivo il bene comune della propria terra’. Le intenzioni sono nobili e ne è prova il fatto che sono stati invitati ad esprimere pensiero e linee di azione gli scienziati che in questi due anni hanno seguito l’evolversi del disseccamento dell’ulivo e politici di entrambi gli schieramenti.

Si tratta di Donato Boscia dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante, CNR di Bari, che illustra lo sviluppo della malattia che si è dilatata da un zona limitata fra Alezio e  Gallipoli – a macchia d’olio o di leopardo è una querelle, non l’unica, fra gli ambientalisti convenuti in massa e un altro professore della Università di Bari, Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti, Francesco Porcelli. Boscia viene chiamato in causa dopo il suo intervento per chiarire che non ha mai parlato di abbattimento di un milione di ulivi, ma di poche migliaia. Sono gli ambientalisti a contestare questa politica di terrorismo ambientale e vegetale nelle parole di Sergio Starace quando enfaticamente e solennemente dichiara: ‘Gli ulivi sono la nostra anima. Noi non permetteremo che sia toccata una sola foglia!’. Due mondi che diffidano, che non si comprendono, quello degli scienziati e degli ambientalisti, ed è un peccato perché è necessaria ‘una strategia unica e condivisa’, come implora Fabio Ingrosso della Copagri di Lecce.

Mentre i politici se la svignano. Lara Comi, vice presidente del PPE e membro della Commissione mercato interno, per prendere l’areo direzione Milano, preoccupata del fatto che il batterio potrebbe espandersi a nord, in Liguria o lungo il lago di Garda. Nel suo intervento pone l’accento sulla innovazione, la ricerca e l’educazione all’acquisto. E’ d’accordo sulla proposta di Gianni Cantele, Coldiretti Puglia, che snocciola i dati economici delle aziende pugliesi coinvolte, il danno presunto, e le richieste allo Stato di sostegno economico ed esenzione delle imposte, dopo la dichiarazione dello stato di calamità fitosanitaria.

Questo è il primo passo ma poi occorre muoversi: questo del fare è il monito che Paolo De Castro, ex ministro e membro della Commissione Agricoltura della Comunità Europea, continua a ripetere. Consapevole dei rischi sul territorio ma ancor più dei provvedimenti che si appresta a prendere la Commissione Europea nella prossima riunione del 27 aprile di messa in quarantena con tutto quello che ne può seguire.

Ovviamente depreca la decisione della Francia, inutile e dannosa per l’immagine della Puglia e del Salento nel mondo, e si augura che tutti concorrano con mezzi e azioni ad affrontare e risolvere questa situazione di sofferenza letale per gli ulivi.  Sostiene apertamente le ragioni degli scienziati e il peso diverso che hanno le loro parole rispetto ad un qualsiasi empirico sperimentatore. Accende la miccia e poi scappa anche lui. Non ascolta le decise contestazioni degli ambientalisti, contrapposti anche fisicamente, in una parte della sala, alle misure proposte da parte di Giuseppe Ciccarella dell’Università del Salento che introduce il concetto che la guerra – perché di guerra si tratta dice – si combatte con  nuove armi ed espone lo stato delle sue ricerche nel ricorso alle nanotecnologie.

Vito Savino del Dipartimento di Scienze del Suolo, delle Piante e degli Alimenti di Bari invoca tempestività nell’azione e  propone una serie di misure di prevenzione e di contenimento della diffusione del batterio, non si spiega come mai sull’esempio di altri paesi l’Europa non si sia ancora dotata di un centro di quarantena. Il dibattito che si scatena dopo le relazioni scientifiche rimarca ancora una volta la incomprensione fra questi due mondi, mentre l’ulivo muore e il commissario Siletti dà mano alle ruspe. Intanto Legambiente Puglia, Comitato spontaneo Voce dell’Ulivo, D.O.P. Terra d’Otranto (Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva) e Aprol Lecce indicono il 16 aprile in ogni comune il ‘Buone Pratiche Day’ per contenere il Co.Di.Ro. (Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo).

L’insediamento ciclopico rupestre nella campagna di Melendugno (Le)

di Paolo Rausa

Campagna di Melendugno, struttura fortificata

Ulivi e menhir, la terra del Salento nasconde tesori che la natura e il tempo hanno preservato per noi. A Minervino di Lecce e Giurdignano si allineano le pietre itifalliche erette verso il cielo come per innalzare la potenza umana sull’Olimpo. Con il maestro scultore nel duro e venato legno di ulivo Vincenzo de Maglie, originario di qui, raccogliamo l’invito di Donato Santoro a Melendugno per una introspezione bucolica, in dolce compagnia, alla scoperta di tracce del passato, massi sovrapposti in ordine a simulare una casa o un tempio, un luogo sacro.

Partiamo per la zona posta nell’entroterra di Roca Vecchia, porto antico, messapico, posto di fronte a Dyrrachium, punto di arrivo della rotta marittima  che proseguiva la via Appia e di partenza della via Egnazia verso l’oriente, a Bisanzio.

Donato Santoro è un personaggio conosciutissimo a Melendugno, un territorio che ama e che perlustra alla ricerca dei suoi segreti ancora lì da rivelare nella sua compiutezza. Cavaliere e ufficiale al merito, ha dedicato la vita agli altri, amato tanto che i giovani prima di compiere un viaggio o una scelta risolutiva per la loro vita, per es. il corso di studi o la  ricerca di un lavoro lontano, si consultano con lui come fosse un oracolo, che parla a nome della Pizia che a sua volta ha ricevuto l’ispirazione da Febo-Apollo. Donato gira per il territorio, trova un segno dell’uomo e annota, segni vetusti di strutture primordiali, dolmen, specchie, presenze umane che connotano il territorio. Attraversiamo la campagna salentina che rifulge in tutta la sua bellezza primaverile  non prima di una sosta benefica alla pasticceria Elia. A pochi km dal paese sulla vecchia strada Vernole-Calimera ci conduce in aperta campagna, fra gli ulivi verdeggianti non colpiti dal batterio. Le mire su questo territorio minacciano la sua trasformazione da luogo integro e incantato in terminale della linea Tap che porta il gas dal lontano Kazakistan. La gente teme che quest’opera trasfiguri i luoghi e si oppone con tutta la forza possibile. Ci fermiamo in una radura.

Il palazzo ciclopico rurale, Meledugno

All’improvviso appare un imponente castello ciclopico, una struttura mai vista in Salento che ha dei simili nei complessi nuragici di Barumini e di Tharros in Sardegna e nelle mura ciclopiche di Tirinto, nel Peloponneso. E’ un allineamento murario con delle finestrelle in alto che si congiungono in una torre di forma circolare che proietta fuori il suo volume mentre all’interno una feritoia permetteva di ricevere luce e nello stesso tempo di difendere il complesso che si avvale di locali addossati alle mura.

Dai due lati opposti si intravedono dei dolmen sottoposti in parte al terreno forse per successivi riempimenti e fra questi una struttura a tolos, un furnieddhru, consentiva il riparo delle provviste e delle persone. Veramente impressionante questo palazzo nuragico in terra di Salento! Distante da questo qualche centinaio di metri una piccola costruzione con una scritta in latino sul frontone che allude alle messi e al vino, come attività e come piacere. Una chiesa rurale, una locanda? Alla fine della scritta una data: 1715. Si comprende come questo posto abbia conservato un’aurea di sacralità, nei resti di queste pietre che lottano contro il tempo. Ci avviamo a ritornare. Abbiamo cercato di carpire l’anima di quei luoghi, anzi di conservarla. Si vede il segno del tempo su quelle pietre consumate e preservate dal verderame e dai funghi della pietra, mentre con Donato osserviamo le stratificazioni delle ere geologiche su un frammento di roccia raccolto dal suolo. E’ ormai tempo di andare. Salutiamo i luoghi e le persone che intravediamo muoversi e lavorare e pregare e vivere in un ambiente rurale magico, intoccabile.

 

‘Buongiorno Taranto’ il film di Paolo Pisanelli ieri sera a Taviano (Le)

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di Paolo Rausa

 

Riconosco Paolo Pisanelli dal piglio e dalla sua posizione sempre in prima fila, quando si lotta per l’ambiente, per la salute, per la nostra sopravvivenza. Era in piazza S. Oronzo a Lecce la Domenica delle Palme, alla manifestazione per la difesa degli ulivi, simboli loro malgrado di un Salento che ha compreso la necessità di fare fronte comune contro un nemico subdolo e onnipresente, sui vari scenari,  dalle città alle campagne. In prima fila, accanto agli oratori, riprendeva i loro interventi, la foga con cui esprimevano l’amore per una terra del ri/morso che oggi si trova sotto attacco.

Lo sa bene Paolo Pisanelli cosa vuol dire. Lui che è andato a Taranto a riprendere in questo documentario dal titolo ‘Buongiorno Taranto’ il dramma ambientale e sanitario che sta vivendo la città che un tempo era la perla dello Jonio, la Taras lacedemone che aveva allungato le sue mire espansionistiche in questa zona di Messapia. La città che conserva nello splendido Museo archeologico cimeli importantissimi della civiltà magno-greca, sotto forma di vasellame, statue, ori in collane e corone, strutture architettoniche e le funamboliche acrobate, metafora della condizione femminile di ieri e di oggi.

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Come abbia fatto la classe politica a fare di questa città dei due mari una fogna a cielo aperto con uno stabilimento di acciaieria, il più grande d’Europa, prima Italsider e poi l’Ilva dei Riva famigerati, lo si può solo capire con una visione tardo-colonialista, che ha causato tanti danni alla salute con morti e malati gravi per le difficoltà respiratorie del miasma che incombe sulla città.

Di questa condizione il regista ha voluto rendere conto andando per le piazze a sentire gli operai che manifestavano la loro contrarietà a doversi assoggettare al ricatto, respingendolo, salute/posto di lavoro. Seguendo le onde della radio locale dal nome propiziatorio appunto di ‘Buongiorno Taranto’, Paolo Pisanelli ha dato conto del dibattito che si è aperto fra i cittadini, i lavoratori, i pescatori e financo fra i bambini, che si divertivano immaginando tuffi lustrali – ma che sono temibili per le infezioni che possono causare – nelle acque joniche. Una società colpita profondamente nelle condizioni di vita, negli affetti con la scomparsa prematura di molti parenti, ma mai doma anzi ancor più desta e consapevole che solo dal basso è possibile ricostituire un tessuto sociale e produttivo diverso, compatibile e proiettato verso il futuro.

Questo il senso della manifestazione organizzata il 1° Maggio, festa del lavoro, nel Parco archeologico, ripulito per l’occorrenza dai cittadini riuniti in un comitato per il risveglio della città. Accanto a Pisanelli, introdotto dalla musica ritmata dall’organetto di Donatello Pisanello e dal contrabbasso di Angelo Urso, il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone, che ha messo sotto accusa la direzione aziendale dell’Ilva e gli stessi amministratori, i Riva, per disastro ambientale colposo.

Un magistrato coraggioso, eroico per aver voluto applicare le norme in vigore, non una rivoluzionaria! Eppure le accuse sono piovute pesanti sulla sua testa. Ora ha assunto una nuova inchiesta, quella sugli ulivi che sarebbero attaccati dalla Xylella. Il suo è stato un discorso solidale nei confronti dei cittadini colpiti dall’inquinamento e offesi da certe pratiche che nulla hanno a che vedere con l’agricoltura. Perciò ammonisce il numeroso pubblico, accorso all’iniziativa di proiezione al Multiplex Teatro di Taviano rispondendo all’invito della Associazione Culturale ‘V. Bachelet’, di interessarsi della tutela del territorio per noi e per le generazioni che verranno dopo di noi, dal momento che la terra l’abbiamo ricevuta in prestito da usare e da riconsegnare alle generazioni future meglio di come l’abbiamo ereditata.

Buongiorno Taranto è una produzione dal basso. Si può sostenere il progetto, diventando produttore. Info: Big Sur, Immagini e Visioni, Via G.A.Coppola, 3

73100 Lecce,  Tel/Fax: +39.0832 346903,  Mobile: +39.347 5745284, info@buongiornotaranto.it

In piazza a Lecce per difendere gli ulivi

Piazza S. Oronzo, Lecce

di Paolo Rausa


Come una processione compiuta da Cristo-Ulivo, l’Unto, simbolo quanto mai opportuno per rappresentare la via crucis degli ulivi salentini minacciati da lunedì prossimo di ‘eradicazione’, questa grande manifestazione di popolo per scongiurare la diffusione del contagio. La peste manzoniana fa un balzo di secoli per scendere dal ducato di Milano in questa terra estrema, la Messapia, fiorente quanto mai, granaio d’Italia. Intorno alle 15 la piazza comincia a riempirsi di gente, che risponde all’appello lanciato da intellettuali, artisti, musicisti, agronomi, contadini e ambientalisti. E’ una marea che la invade: migliaia di persone sono qui, giunti da ogni dove, dai luoghi dolenti, dove si combattono battaglie per l’ambiente come a Taranto, che ha saputo respingere il ricatto ambiente-lavoro. Non si è mai vista tanta gente in piazza S. Oronzo a Lecce per rivendicare la tutela del paesaggio salentino che ha nell’ulivo il suo simbolo di eccellenza e soprattutto di identificazione. Questi sono i due elementi che hanno contraddistinto gli interventi degli oratori che si sono succeduti per tutto il pomeriggio. Don Raffaele Bruno delle Diocesi di Lecce alterna parole italiane ed espressioni salentine, giura che gli ulivi non hanno bisogno di essere benedetti, che la loro condizione chiama in causa tutti – definiti popolo degli ulivi – perché si torni a pratiche agricole naturali, quelle che ci hanno tramandato i nostri nonni e che solo interessi estranei a questa terra hanno compromesso. Il riferimento è alle multinazionali del cibo, da molti interventi chiamate in causa per ribadire che ci sarà una decisa resistenza contro gli ogm, contro i pesticidi che si vogliono spargere a piene mani, anzi a pieni contenitori spruzzati dagli aerei sul territorio salentino avvelenando ogni forma di vita, anche quella umana. Antonia Battaglia di PeaceLink riporta il dibattito lacunoso in Comunità Europea trascinata dal piano regionale ad assumere posizioni di messa in quarantena e di annientamento degli ulivi che hanno rami disseccati. Ivano Gioffeda è il santone che in questi anni si è battuto generosamente contro le logiche di una ricerca limitata alla Università di Bari, finora incapace di definire le cause scientifiche di questo strano disseccamento. E’ pronto a ritornare con la sua azienda agricola a costituire dei laboratori in cui riprendere i saperi antichi e le vecchie pratiche che hanno definito questo paesaggio magnifico, ora esposto al rischio delle ruspe. Nandu Popu dei Sud Sound System canta il motivo delle ‘radici ca tieni’ e tutta la piazza lo segue, il suo è un lungo excursus nella storia della civiltà salentina che affonda al tempo della Magna Grecia e molto ha ancora da dire alla generazioni future. La musica tradizionale inneggia dal canto di Enza Pagliara e del suo coro, Mimo Cavallo segue le piazze e segna con il ritmo la contrarietà a progetti lesivi del territorio. Giuseppe Serravezza, medico della Litl, richiama la necessità di guardare nel piatto in cui si mangia, e sollecita tutti ad essere consapevoli, a ritornare finalmente sobri per evitare che ci si ritrovi del tutto privi di un territorio che è esposto ai colpi della sorte, intesa come interessi delle multinazionali che non hanno certo a cuore la salute dei cittadini. Il pensiero di Pino Aprile, scrittore meridionalista, riecheggia nella voce di Rosanna Quarta sulla necessità di costituire una rete che respinga questo attacco concentrico contro il meridione d’Italia, dalla Campania terra di fuochi, alla Basilicata terra di perforazioni, al Salento, terra di eradicazioni. Giovanni Carbotti di ‘Respira Taranto’ e Paolo Pisanelli, regista del film ‘Buongiorno Taranto’, invitano a proseguire nell’impegno di lotta all’appuntamento del 1° maggio nella città dell’ILVA. Un popolo, è nato un popolo quest’oggi in piazza S. Oronzo a Lecce che non lascerà eradicare nessun ulivo, perché un malato si cura e non si condanna a morte! E’ questo l’impegno assunto da tutti, dal fiume di interventi che si susseguono sul palco improvvisato, fra il Sedile e la statua del Santo, come per dare concretezza al lavoro agricolo e al turismo e sacralità alle parole e ai propositi assunti.

Poggiardo, 29/03/2015

Ancora attività estrattive a Cutrofiano (Le), come se volessero penetrare le viscere della terra

Cava estrattiva

di Paolo Rausa

 

‘Costruivano come se non dovessero morire mai e mangiavano come se dovessero morire all’indomani’ – così Empedocle nel V secolo a.C. a proposito degli agrigentini. Qui, nel Salento invece, un massacro del territorio lo definiscono le associazione ambientaliste (Forum Amici del Territorio, Italia Nostra sez. Sud Salento, Consulta Ambiente C.S.V. Salento, Forum Ambiente e Salute), preoccupate che l’attività estrattiva minacci l’ambiente naturale e la salute dei cittadini.

L’area che si teme possa venire ulteriormente e irreparabilmente compromessa si trova nel cuore del Parco agro-naturale dei Paduli. Che cosa accade dunque in questa area agricola e ambientale di pregio?

‘L’Amministrazione di Cutrofiano si appresta a concludere un vergognoso accordo con la Colacem, in danno del territorio, dell’ambiente e di tutta la comunità locale, per un obolo di 50.000 euro l’anno, il classico piatto di lenticchie, denunciano le associazioni. Si tratta dell’ampliamento di ulteriori 5 ettari della cava “Don Paolo”, che si aggiunge ai 22 ettari (con profondità di 30 metri) già interessati all’attività estrattiva di argilla per confezionare cemento.

‘Un patto scellerato, – incalzano gli ambientalisti – reso possibile dalle connivenze della politica locale, che ha trasformato questo nostro paese, dalle spiccate vocazioni agricole, turistiche e artigianali in una colonia mineraria, il cui materiale di scavo viene esportato in tutto il mondo senza regole e senza limiti, per dare profitto ad una singola azienda privata.’ La quale mostra sicurezza tanto da dichiararsi tranquilla sui tempi lunghissimi di attività che si protrarranno fino ad esaurire la vena dei materiali estratti. Che fine hanno fatto le promesse elettorali dell’Amministrazione Rolli  che dichiarava avrebbe messo in atto “una politica di controllo, di contenimento e, se necessario, di contrasto nei confronti delle attività estrattive”?

Una situazione che non sembra preoccupare le Autorità, a fronte dei dati contenuti nel Registro Tumori del Comune e del comprensorio da cui risulta una mortalità per tumori polmonari nettamente superiore alle medie regionali e nazionali. In particolare il progetto di ampliamento interessa un’area a ridosso del Parco dei Paduli e nella fascia di rispetto del canale Colaturo (classificato tra le acque pubbliche), di elevato valore paesaggistico, già respinto una volta nel 2011 dalla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale.

Che cosa chiedono i cittadini e gli ambientalisti con questa presa di posizione? ‘Una moratoria delle attività estrattive e una discussione pubblica sulla tutela del territorio che coinvolga i comuni vicini – incalza Gianfranco Pellegrino del Forum Ambiente Salute – Il grido di dolore per quest’ennesima ferita della terra giunga alle orecchie anche della Provincia e della Regione che impediscano ulteriori scempi del territorio, revocando l’autorizzazione all’allargamento delle attività estrattive! – conclude, con la speranza di trovare ascolto.

Libri. Il Poeta Buongustaio

Il Poeta Buongustaio, copertina

di Paolo Rausa

‘Amiche sian le voci a lui d’intorno/e prodighe le piogge dell’estate;/sia tenera la sera e dolce il giorno,/sia pieno il cielo in le nottate.’ Gli siano, al libro o allo stelo? Per quanto il poeta si precipiti a s/congiurare che trattasi della sua opera e non dello strano oggetto del desiderio femminile, il dubbio resta e anche l’ambiguità, che per la verità non si sciolgono mai anzi sono costitutivi di questa brillante disamina sui prodotti che dalla terra giungono sul desco. Per la verità noi abbiamo ereditato descrizioni e allusioni che datano dai tempi dei tempi, contenute nella Bibbia, il Vecchio e il Nuovo Testamento, provenienti dalla cultura occidentale della poesia epica – Omero e l’episodio di Polifemo reso ebbro e poi beffato da Ulisse/Nessuno -, dalla lirica greca monodica e corale, Alcmane e Stesìcoro (Musa, lascia le guerre, e canta tu con me/le nozze degli dèi, canta i conviti/degli uomini, le feste dei beati.) e poi dai latini, dai poeti dalla lingua locale, i romani Gioacchino Belli e Trilussa, fino all’indimenticabile e popolarissimo Aldo Fabrizi, che già nella stazza denunciava, come dice il poeta Gianni Seviroli, la sua indole di buongustaio, accanto all’altro mito del cinema transteverino, Alberto Sordi, di cui ricordiamo la celebre frase rivolta agli spaghetti: ‘Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno…!’

D’accordo con lo scanzonato e con quel senso di leggerezza, di invettiva velata, di doppio senso dove il ventre erotico e il ventre gastrico a volte si confondono e si sovrappongono, ma in queste composizioni di ricette e sonetti mangerecci – come li chiama l’autore – c’è un utilizzo sorvegliatissimo e ricercato del verso, le terzine alternate a rime chiuse e aperte (o incrociate), a rime incrociate, le quartine, le sestine, lo strambotto, ottave a rime, insomma tutte le possibilità che gli offre la tradizione letteraria italiana dalla Commedia dantesca ai poemi cavallereschi rinascimentali, piegati ad un contenuto leggero che passa in rassegna tutti gli strumenti e tutti i prodotti alimentari che la nostra terra salentina e quella friulana (a Gorizia ha trascorso un ventennio della sua vita) possono offrire.

La pasta innanzitutto e i sughi, qui sovviene l’origine campana della compagna Tania che costituisce il pezzo forte – la splendida vocalità della sua voce viene accompagnata dai mandolini e dagli strumenti musicali della tradizione suonati da Gianni e dai figli Andrea e Albina nel complesso ‘Napolinaria’ – quando intona le canzoni strazianti d’amore e di passione.

Napolinaria

E poi i prodotti semplici della terra, il pane, i pomodori che colorano i nostri piatti e la nostra vita, le verdure, melanzane, peperoni, ecc. la carne poca, il pesce accompagnato dalle linguine o preferibilmente dagli spaghetti. Intorno alle ricette minuziosamente descritte in rima e poi spiegate dettagliatamente negli ingredienti e nel procedimento, si costruisce una storia attinta dalla tradizione o dal repertorio classico, mescolando i ricordi familiari, le leggende popolari e i miti del mondo antico (Polifemo e  Ulisse).

E dalla storia antica che  Gianni Seviroli inizia il suo percorso culinario nelle pietanze che già si vedono fumare sul nostro desco, salvo dimenticare – come fa Nerone – l’abbacchio nel forno e provocando così l’incendio di Roma, attribuito poi per comodità ai cristiani. Non poteva certo dire che era colpa del suo forno! Fino alla resurrezione di Cristo dovuta oltre che alla sua santità, come Figlio del Padre, anche ad una briciola della pastiera che la madre aveva portato come dono funebre ai piedi della sua tomba da consumare secondo le usanze del tempo. Ironia e ambiguità delle parole e dei significati, Seviroli innesta su un retroterra dotto e fantastico la sua pruriginosa visione della vita, ridendo di tutto come sanno fare i veri poeti e cantastorie del mondo.

 

Gianni Seviroli, Il Poeta Buongustaio, 30 storie e ricette tradizionali in rime 20 sonetti mangerecci, Edizioni Panico, Galatina (Le) 2012, pp. 174, € 16,00.

Un tour nella Grecìa Salentina fra arte, impegno sociale e piacere del gusto

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Il barbiere di Soleto, DNAdonna, La Porta Antica a Sternatìa e Tenuta Mezzana nei pressi di Aradeo, un tour nella Grecìa Salentina fra arte, impegno sociale e piacere del gusto

 

di Paolo Rausa

Le scoperte in Salento sono affidate al caso o meglio al fiuto. Certo, sono il frutto di frequentazioni, di storie, di passioni per la propria attività e di amore per la propria terra, questo Salento proteso verso il mare che con il suo capoluogo ha sfiorato il titolo di capitale della Cultura Europea, ma che sicuramente avrebbe conquistato se fosse stato tutto il territorio ad esprimere la sua vocazione di terra protesa verso il Mediterraneo, così come è stato nei secoli passati.

‘Questa terra è il sud d’Italia, la Porta dell’Oriente. Noi accogliamo tutti, siamo ospitali. Ne son passati tanti dalle nostre marine e non sempre con intenzioni amichevoli… I greci, i romani, gli arabi, i normanni, i saraceni, che hanno messo a ferro e fuoco Otranto e la costa, le crociate e poi gli spagnoli, i tedeschi e infine voi. Noi siamo così, dividiamo il poco che abbiamo. Guarda che bella questa terra! Ti dà e ti toglie tutto, devi saperla sedurre!’ – dice Immacolata ad Efrem, nello spettacolo teatrale ‘Volti delle donne di un tempo’, tratto dai racconti di Raffaella Verdesca ‘Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu’, che verrà rappresentato a Soleto il 27 dicembre per le attività sociali dell’Associazione DNAdonna e di sostegno alle donne che subiscono violenza e sopraffazione.

Un incontro non programmato con Emanuela mi ha portato a percorrere altre strade incognite, che ora vi narrerò.

Non prima di avervi segnalato la Rassegna cinematografica sull’identità di genere ‘Altre Visioni’, ideata dall’Associazione DNAdonna, che parte domenica 26 ottobre alle ore 16.00 con il film Tomboy della regista Céline Sciamma in via Risorgimento 30/a (angolo viale Italia), a Soleto, con ingresso gratuito.

Elio Toma, barbiere di Soleto
Elio Toma, barbiere di Soleto

Da un mancato appuntamento all’incontro straordinario con un artista del capello, che ha decorato la sua piccola bottega artigiana di opere d’arte di grande levatura, sculture, pitture, sbalzi, ceselli, ceramiche, ecc. soprattutto dei fratelli Antonio e Paolo Lani. Ma la sua specialità è professionale con l’invenzione di una forbice ‘magica e portentosa’ che ha sostituito i vecchi attrezzi del mestiere: il rasoio, la forbice a denti e a taglio netto. Un meccanismo che consente in pochi minuti di sfoltire i capelli dalle fibre morte e inutili in modo da restituire nuovo gonfiore e lucentezza. In pochi minuti, sissignori! Sperimentato con successo da me. E’ impossibile non provare empatia umana con Elio Toma che adatta ai capelli la metafora della rimonda degli ulivi, della potatura delle piante e soprattutto per la sua visione ottimistica della vita, contagiante, come si propone di fare nei confronti dei suoi colleghi.

E’ lui a fine servizio, di cui mi ha fatto dono, a indirizzarci al ristorante La Porta Antica di Sternatia, parte di una vecchia masseria riadattata, che ci accoglie con un caloroso ‘Kalòs ìrtate’ di benvenuto e con pietanze di qualità giunte integre dalla tradizione. Buon prezzo finale: 20 €!

Il nostro tour salentino continua in direzione Galatina, Aradeo, via per Collepasso, dove ha aperto la cucina e le stanze ospitali la castellana Maria Casto, che ci accoglie con molta simpatia e ci offre the con frutta di stagione: mele cotogne e melograni. In altre sere cene speciali a base di peperoncino piccantissimo (il più terribile e allo stesso tempo il più piacevole è il Caroline) a cura del Club Amici del Peperoncino in Terra d’Otranto.

Si rientra finalmente soddisfatti, non primo di aver fatto visita alla cappella dei Santi Vito e Marina a Ortelle, dove è in corso la fiera del maiale, per ringraziarli – da agnostico – dei doni che hanno profuso a questa terra meravigliosa.

 

Info: DNAdonna, Ass. di volontariato per il contrasto alla violenza sulle donne, Via Risorgimento ang. viale Italia, Soleto (Le), tel. 347/12.33.700 (Centro d’ascolto), tel. 329/81.20.306 (Segreteria associativa); tenuta.mezzana@libero.it, tel. 339/4608631.

 

Sant’Isidoro di Nardò (Le), il sogno inglese di edificare nelle campagne di ulivi

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di Paolo Rausa

La signora Alison Deighton, ai più sconosciuta ma non ai neretini, ha tuonato nei giorni scorsi contro la malapianta della burocrazia regionale pugliese, inadempiente nei confronti del suo progetto di resort a 5 stelle, ecocompatibile a suo dire, definito addirittura ‘stellare’ da non meglio definiti ‘gruppi ambientalisti, a livello nazionale’. Non sappiamo molto di lei, se non che è moglie di lord Paul Deighton, sottosegretario al tesoro del Governo Inglese, ex top manager della Goldman Sachs e organizzatore delle Olimpiadi di Londra, e socia nel progetto del resort di un tale Ian Taylor, broker del petrolio. Uomini d’onore! Hanno messo sul tavolo come investimento 70 milioni di € nell’acquisto e nella realizzazione di questo immenso resort della portata di 150 mila mc. E non si spiegano come mai la rete della burocrazia abbia finora, dopo 6 lunghi anni, impedito la mega costruzione turistico-alberghiera con l’idea di attirare una ‘clientela alta, in modo da creare anche sviluppo’. Lamenta, a ragione, che non se ne sia parlato nelle sedi istituzionali, ma omette di dire che 4 anni fa la Soprintendenza aveva espresso parere negativo perché il progetto interessava un’area sottoposta a vincolo ambientale e che il Comune di Nardò è stato inadempiente perché non ha adeguato il suo piano regolatore al Piano di Tutela varato dalla Regione Puglia nel 2001. In qualsiasi parte del mondo e nella sua Inghilterra o negli Stati Uniti le leggi si rispettano, lei lo sa. Non basta disporre di denaro per pensare di poter sfidare il paesaggio naturale, che come ben sa è frutto di millenni di coesistenza di specie animali e vegetali. Quindi la prima regola, ancor prima delle leggi, è il rispetto dei luoghi. Non si comprende difatti in che cosa consista l’ecocompatibilità di un progetto che getta tonnellate di cemento su una delle più belle zone dell’Italia e del Mediterraneo. ‘Stop al consumo di suolo!’, la campagna per azzerare la continua occupazione di suolo agricolo sottratto alla coltivazione, ha individuato altre modalità di investimento, se così ritiene di fare la signora, a favore di un sud disastrato e sitibondo. Per esempio ritornando ad occuparsi del recupero dei centri storici che versano nel degrado e nell’abbandono: questa sì che sarebbe una campagna meritoria e riprenderebbe a dar vigore a quello spirito rinascimentale e illuministico di tanti viaggiatori inglesi nel sud Italia, ipotizzando modalità diverse di utilizzo del patrimonio edilizio, ridando vita a questi centri baroccheggianti ma dismessi, gloriandosi di aver riportato vita negli anfratti della suburra e di non aver ricoperto di cemento uno dei più bei litorali della nostra terra! Mi creda signora, cambi il suo progetto. Investa sull’esistente e utilizzi la campagna per continuare a produrre olio!

Le opere dell’artista salentino Sandro Greco in mostra a Lecce

Il sole innamorato della luna verde
Il sole innamorato della luna verde

Leggerezza: gravità senza peso’, le opere dell’artista salentino Sandro Greco in mostra al Monastero degli Olivetani di Lecce

 

di Paolo Rausa

L’ingresso alla mostra di Sandro Greco è all’insegna della metamorfosi. Non si è più in città, nel caos del traffico, nella baraonda di rumori, qui tutto tace e si ode, se si presta orecchio, perfino il sibilo delle ali, il frusciare delle farfalle che non sono solo dipinte o installate ma colorano il prato in cui sono immerse e noi con loro. La fantasmagoria di colori ci rallegra. Sandro, un giovane di 86 anni,  è subito lì a spiegarci che l’arte è inspiegabile, almeno nel suo significato, perché la sua cifra sta nel rapporto che si stabilisce fra l’artista e il visitatore, in quel connubio spirituale che consente un’osmosi fra la nostra e la sua personalità poliedrica. ‘Fiuri e… culuri’ mi verrebbe da titolare questa mostra. Senonché questo è il titolo di una delle prime raccolte di poesie di mio padre, Fernando Rausa.  E’ strano come i concetti si assomiglino, per quanto espressi con mezzi diversi. Qui è la leggerezza delle farfalle che costituisce la cifra, la sua fragilità, la sua bellezza che dura il volgere di un giorno o al più una settimana, per quelle più longeve un mese. La loro essenza è la nostra. Chiedo a Sandro se  si sente una farfalla. La risposta è ovvia: ‘Per me è la riprova che la condizione della farfalla dovrebbe insegnare all’essere umano a percorrere la vita sulla terra senza lasciare un segno negativo della sua attività antropica, che si risolve in opere, costruzioni, disboscamenti che poi si ritorcono sulla sua esistenza, quando il corso del fiume travalica il suo letto in cui è ridotto dalle ville e dai capannoni che sorgono sul suo orlo’. L’altro aspetto appariscente dell’arte di Sandro Greco sono i colori, che egli stesso da buon chimico realizza una volta per tutte. Siamo immersi magicamente in un altro mondo che è fuori dalle mura del Monastero possente degli Olivetani a Lecce, siamo nei prati che possiamo ammirare nelle campagne dove il paesaggio è modellato secondo l’armonia di una nota, di un sogno, quello di guardare la natura con meraviglia, con spirito di bambini, senza mai perdere quello stupore inebriante. Sandro Greco modella la materia, il legno, la terracotta, l’olio, la tempera e la riduca a icona delle sue convinzioni maturate nel corso dell’esistenza dura, ma ricca di esperienze. La fede sorregge le sue aspirazioni artistiche e spirituali. L’altro artista con cui mi sono accompagnato alla mostra, Vincenzo de Maglie da Minervino di Lecce, scava nel legno di noce e di ulivo e così ricava immagini della nostra esistenza reali o immaginarie. Il loro incontro è avvenuto all’insegna della reciproca curiosità, sullo scambio di modalità per arrivare alla medesima verità, che l’uomo insegue per raggiungere il divino che c’è in noi. E gli artisti come Sandro e Vincenzo vi sono molto vicini. Info: Museo degli Olivetani, viale San Nicola – Lecce, orari: lun.-ven. 8,00-19,00, per informazioni e visite guidate tel. 338 2618983, oppure 340 8227373, www.unisalento.it/mostre.

 

Da Minervino di Lecce al Vaticano

Il viaggio dell’arte nella fede.

L’Ultima Cena dello scultore Vincenzo de Maglie da Minervino di Lecce

donata al Santo Padre Francesco nell’udienza del 3 settembre

 

di Paolo Rausa

Vincenzo de Maglie indica al Papa Francesco la sua scultura
Vincenzo de Maglie indica al Papa Francesco la sua scultura

Il nostro viaggio inizia il giorno prima su un furgone, da Minervino di Lecce a Poggiardo per raggiungere  Roma, Caput mundi, la Sede di Pietro, ora assunta dal Vescovo Francesco giunto da lontano. Vincenzo de Maglie, nel corso della mia visita qualche mese prima alla sua esposizione di oggetti d’arte intagliati e scolpiti nel legno di ulivo, aveva notato che su questo bassorilievo avevo indugiato. ‘E’ l’ultima cena, simbolo di Cristianità!’ – mi presentò così così la sua opera, una notevole scultura di 79×159 cm., imponente. ‘Il mio desiderio è di donarla al Santo Padre.’ – sussurrò. Siamo sulla strada per Roma, maciniamo chilometri lungo il tracciato della via Appia, tante volte percorsa al contrario dalle legioni romane per raggiungere Brindisi e da qui salpare  per l’oriente, desiderato e temuto. Roma, la Capitale! Siamo dentro la città, gli occhi di Vincenzo sono inumiditi. Niente rispetto al giorno dopo, quando scende dal sagrato di San Pietro dopo aver stretto la mano del Papa Francesco e aver indicato il suo dono: ‘E’ il simbolo della Cristianità, Sua Santità! Mi guarda negli occhi e aggiunge: Auguri! Quello sguardo, quella persona emanavano santità, pace!’. Vincenzo non aggiunge altro. Parlano per lui gli occhi che lacrimano e dai quali si può comprendere il travaglio di una vita. In pochi attimi Vincenzo la ripercorre tutta e si sofferma in particolare su un sogno, fatto in Svizzera nel 1963. Una figura bianca gli lancia delle tavole e lo invita ad attraversare il fiume impetuoso. Un periodo buio della sua vita. Quella figura bianca ora è associata al Papa. Il Sindaco di Minervino Fausto de Giuseppe lo abbraccia, così fanno anche i due assessori Antonio Accoto e Giuseppe della Luna, orgogliosi di avere cotanto cittadino che hanno accompagnato per dimostrare l’attaccamento del suo paese natale all’artista che ha saputo trarre dalla materia, il legno di noce e di ulivo – la forza e la pace – un’opera d’arte che rappresenta un lascito testimoniale di Cristo all’umanità – il suo corpo e il suo sangue – per consegnarlo al Papa Francesco, pastore delle genti. Non si possono esprimere queste emozioni, solo gli occhi tradiscono, ora con il sorriso ora con il pianto lustrale, che indica la via della salvazione.

Vincenzo de Maglie saluta il Papa Francesco

Il Festival delle Culture Mediterranee al castello di Andrano (Le), dal 5 al 7 settembre

La NiKe violata, di Carlo Casciaro
La NiKe violata, di Carlo Casciaro

di Paolo Rausa

 

Un Festival d’arte in un castello lungo la costa salentina a sud di Otranto. Da qui si guarda a Oriente. Lo hanno fatto i romani inseguendo il sogno di Alessandro il Macedone, i locali nel 1480 timorosi delle galee turche che lasciarono un segno di sgomento. Da qui, dal Castello Spinola Caracciolo di Andrano, sede del Parco della Litoranea Salentina, da Otranto a Tricase fino a S. Maria de finibus terrae, dove – dice Bodini – i salentini dopo morti tornano con il cappello il testa, prende il via la proposta artistica del Festival che comprende una mostra d’arte contemporanea, concerti, teatro, cinema, letture e la degustazione di prodotti tipici biologici e dei vini delle più rinomate cantine del Salento. ‘Sarà proprio il regista salentino Edoardo Winspeare, che ha diretto molti film su questa terra, l’ultimo dei quali lo splendido ‘In grazia di Dio’, – ci comunica Maria Rizzello De Pierri, presidente della Associazione Culturale Mediterranea con sede ad Andrano e curatore artistico della Mostra e direttore artistico del Festival – ad inaugurare la mostra il 5 settembre alle ore 20,30.

diSegni d'Acqua, A. Chiarello
diSegni d’Acqua, di Antonio Chiarello

Una mostra che accanto ad una sezione storica con l’esposizione di opere di artisti di primo piano quali Picasso con la pregiata litografia ‘Arlecchino Mediterraneo’ e i dipinti di Guttuso, Manzù, Fiume, ecc. accoglie opere di artisti contemporanei provenienti da varie parti del mondo (Brasile, Spagna e Albania) e italiani, fra cui i salentini Casciaro e Chiarello, e inoltre  Caroli, Scanderebech, Schifano, Zingarelli, Carrozza, Malerba, Cacciatori e  Marzo.

Il Mediterraneo è il ‘Mare nostrum’ dei romani e prima ancora il mare su cui sono sorte civiltà, luogo di scambi fra gli etruschi, i fenici-cartaginesi, i greci con le loro colonie, e poi di tutte le varie civiltà che si sono susseguite con il loro carico di cultura e di violenza, sempre comunque ardenti per il desiderio di incontrare l’altro da sé per incantarlo e possederlo. Il mare dei miti, la Colchide, Medea, gli Argonauti, Odisseo polùmetis, dal multiforme ingegno, di letterati e di poeti. Kavafis, fra tutti con la sua Itaca, “Se Itaca è la mèta del tuo viaggio/formula voti sia una lunga via;/peripezie e scoperte la gremiscano…” Ma è Fernand Braudel, ne ‘Il Mediterraneo (lo spazio e la storia – gli uomini e la tradizione)’ a darne una sintesi: ‘Si può dire che il Mediterraneo realizza il proprio equilibrio vitale a partire dalla triade ulivo-vite-grano.’ L’olio, il vino e il pane, che non mancano sul nessun desco, in qualunque parte delle sue sponde, la loro mancanza e la loro ricerca  forniranno ispirazione alle opere esposte e alle varie proposte di riflessione: il 6 settembre alle 20,00 la visione del documentario ‘L’approdo delle anime migranti’ di Simone Salvemini, alle 21,00 la presentazione del libro ‘Adriatico: golfo d’Europa’ a cura di don Giuseppe Colavero, alle 21,30 la rappresentazione teatrale Kater di Francesco Niccolini del Teatro Thalassia. Il giorno successivo, 7 settembre, alle ore 21,00 incontro con l’autore di ‘Ama il tuo sogno’, Ivan Sagnet e alle ore 21,30 il concerto ‘Officine Zoè con Baba Sissoko’.

Da segnalare la grande tela di Carlo Casciaro dal titolo “la Nike violata’, una grande statua che emerge dal mare su un’intensità di azzurro illuminata da una pallida luna con il suo panneggio mosso dal vento, simbolo del pensiero greco di progresso e di civiltà ai cui piedi però giacciono corpi senza vita di migranti, barconi naufragati e un viso di donna terrorizzato che esprime l’angoscia di questi viaggi della morte in un mare che è sempre stato incrocio di civiltà, e la tela di Antonio Chiarello “di/Segni d’Acqua”- acrilico su tela cm.70×200, accompagnata dai versi di Girolamo Comi: ‘…Mare, un brivido etereo che riproduce l’immagine spirituale del Cielo’.

Un Festival da non perdere!

 

5-7 settembre, Castello di Andrano,

info: maria.depierri@gmail.com, 349 1963390, ore 20:30-24:00, ingresso libero.

‘Pòppiti’ alla masseria Capriglia, in agro di Ortelle

 

‘Pòppiti’ alla masseria Capriglia, in agro di Ortelle (Le),

il 10 agosto 2014 a rimirar le stelle

 

Lo spettacolo teatrale Pòppiti dal Faro della Palascìa, il 1° gennaio 2014 alle 4 del mattino, alla piazza San Giorgio di Ortelle il 1° giugno, ora sceglie come proscenio direttamente i luoghi in cui si svolsero i fatti narrati nell’omonimo romanzo di Giorgio Cretì (1933-2013), la masseria di Capriglia, lungo la vecchia strada comunale fra Vignacastrisi e Santa Cesarea Terme. Sentirete parlare di Pitria, Serricella, pajare e ascolterete la storia d’amore e di guerra che ha coinvolto questi pòppiti del basso Salento infuocato, immersi in un paesaggio multicolore, variopinto di erbe e malerbe, mentre la loro vista spazia oltre l’orizzonte verso est in direzione Albania, ancora timorosa delle galee turche,  e verso sud in direzione S. Maria di Leuca, dove i salentini dopo morti ritornano con il cappello in testa, ricorda Vittorio Bodini.

Dal romanzo la scrittrice Raffaella Verdesca ha tratto il testo teatrale, che la Compagnia Teatrale ‘Ora in Scena’ porterà sulle scene naturali dei luoghi in cui si svolse questo dramma popolare. La regia dello spettacolo è di Paolo Rausa,  montaggio e assistente alla regia Ornella Bongiorni. Una storia d’amore e di passione vissuta nel Salento rurale, abbiamo detto. Sullo sfondo incombe la guerra di Libia, è il 1911.

Nel minuscolo universo della masseria si intreccia la storia d’amore di Ia e di Pasquale, che l’ha ingravidata e perciò decide di portarla via, in fuga. Pasquale è poi richiamato in guerra, Ia resta col bimbo da svezzare. Al suo ritorno Pasquale trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Un dramma che spinge ancora una volta alla fuga con la moglie e il figlio, per iniziare una nuova vita dove può coltivare un’altra terra, lontana, quella che “con il sangue abbiamo conquistato in Libia”.

I dialoghi sono accompagnati dai ritmi tradizionali di P40 e Lucia Minutello, immagini di Antonio Chiarello e Carlo Casciaro, la coreografia di Kalimba Studio Dance. Gli interpreti: Ia, Pasquale (Florinda Caroppo, Michele Bovino), Massaro Rosario (Antonio Rizzo), Rocco (Fernando Circhetta), Dorotea (Maria Orsi), Cirina, Peppino Parmatiu (Norina Stincone, Luigi Cazzato).

Una vacanza da sogno nel Salento da amare, lungo la via Appia e sulle spiagge joniche dal mare cristallino

Torre Lapillo
Torre Lapillo

di Paolo Rausa

 

 

Lungo la Via Appia, regina viarum, ora SS 7, che da Roma conduceva merci e truppe romane a Brindisi per imbarcarsi in direzione Oriente, si incontrano nell’immediato entroterra del porto pugliese città d’arte e rinomati centri storici, una campagna fertile di ulivi e di viti, e un mare, a sud, sullo Jonio, dai colori sfuggenti, verdi, turchesi, blu. Una vacanza ideale in questa zona del Salento, dopo aver scelto la propria spiaggia del cuore, per es. a Torre Lapillo, una torre di guardia del ‘500,  nel lido La Pineta, oppure le spiagge dorate di Campomarino al lido Fuori Rotta, lasciandosi sedurre dai prodotti agricoli di questa terra generosa e dalle sagre, le feste paesane religiose o gli eventi tradizionali.

Centro storico di Oria
Centro storico di Oria

A Oria fervono i preparativi per celebrare il 9 e il 10 agosto il Torneo dei Rioni, giunto alla sua 48ma edizione, che rievoca l’arrivo in città di Federico II, soprannominato puer Apuliae, nel 1225 per attendere la sua sposa Jolanda di Brienne, in viaggio dall’Oriente. 800 figuranti in abiti medioevali a cavallo si sfidano nelle giostre in rappresentanza dei  quattro rioni di Lama, Castello, Giudea e San Basilio.

A due passi la cittadina di Francavilla Fontana, cosiddetta per il rinvenimento di una fonte sacra durante una battuta di caccia, ad appena 5 chilometri da Oria. Lungo i suoi viali alberati e le ampie piazze si affacciano splendidi palazzi, barocchi e neoclassici, e il castello degli Imperiali. La devozione religiosa si  esprime nella chiesa madre, con cupolone – il più alto del Salento – , la chiesa dei padri liguorini con  altari e i fregi in oro zecchino e la chiesa di Santa Chiara, che conserva le 14 statue in cartapesta dei Misteri, che sfilano per le vie della città durante la suggestiva processione del Venerdì Santo, evento che si configura fra i riti della Settimana Santa. Qui si trovano fra le prelibatezze il confetto riccio, una mandorla ricoperta di zucchero e lavorata ancora artigianalmente, e la pampanella, una ricotta avvolta in foglie di fico, dette pàmpane. D’estate la si porta al mare, perché disseta con il suo sapore fresco.

Ci spostiamo di poco, a nord ovest, per raggiungere Villa Castelli, un borgo rurale, che si eleva su una gravina, un’acropoli costruita su un asse viario centrale, il decumano,  ai cui estremi si fronteggiano i simboli del potere religioso con la chiesa madre e del potere civile con la palazzina estiva degli Imperiali, ora ristrutturata magnificamente dal Comune che vi ha posto la sede amministrativa e uno spazio museale etnografico-archeologico. Sorge al limitare delle civiltà fiorite sul suo territorio, la messapica, la magno-greca e la peucetica. ‘Tutto merito della campanula versicolor, un fiore in via di estinzione che ha trovato il suo abitat qui e in Attica!’ – ci dice con orgoglio il sindaco  Vito Antonio Caliandro. Una tappa d’obbligo, se non altro per gustare i dolcetti di pasta reale, unione riuscita di mandorla e zucchero, al Bar La Sfornata. La terra dell’ulivo e del vino, il Salento, in questa zona si esprime nelle eccellenze delle produzioni in stabilimenti condotti da giovani imprenditori agricoli: l’Azienda Dantona, con annesso b&b di charme e le sue tre etichette di olio extravergine, ma gusterete anche il gelato all’olio di oliva; l’Azienda Melillo, una masseria didattica (www.melillo.biz), che produce vino di qualità e in particolare il Nereo, un primitivo dal gusto dolce, e il frantoio oleario Cassese.

Anche questo è Salento: arte, storia e buoni prodotti della terra! Diverse le possibilità di pernottamento a Oria, nel centro storico, modalità albergo diffuso: La Tana del Lupo o le Antiche Dimore, la Domus Frumenti,  il B&b Messapia, il B&b Torre Palomba e il Bb Nonna Pina; cibo di qualità secondo tradizione al Ristorante Fuori Porta di Oria.

Un bagno ristoratore al mare, al Lido  La Pineta di Torre Lapillo e al Lido Fuori Rotta di Campomarino concluderà degnamente la vostra vacanza.

 

 

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

copertinafronte

A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito

Ciò che sopravanza della masseria Capriglia
Ciò che sopravanza della masseria Capriglia

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito, un contratto di affitto stipulato a Napoli nel 1918 fra la Duchessa di Nardò e Salvatore Merola di Cerfignano

 

di Paolo Rausa

La masseria di Capriglia è conosciuta per essere stato il luogo in cui Giorgio Cretì ha ambientato il romanzo ‘Pòppiti’, ripubblicato recentemente a cura della Fondazione Terra d’Otranto e rappresentato come dramma popolare al Faro della Palascìa a Otranto e parzialmente nella piazza di Ortelle il 1° giugno. La pioggia ne ha impedito la conclusione. Il testo è di Raffaella Verdesca, la regia di Paolo Rausa.

Capriglia l contratto di affitto

In un documento notarile del 20 febbraio 1918 viene trascritto a Napoli il contratto di locazione della ‘vasta masseria denominata Capriglia’ di proprietà della Eccellentissima Duchessa di Nardò, Donna Maria Zunica, gentildonna e proprietaria, con Salvatore Merola di Cerfignano, agricoltore e proprietario.

Di questo atto, descritto con minuzia di particolari negli elementi costitutivi della proprietà e negli obblighi a cui è tenuto il fittuario, è importante estrarre la componente agriculturale di conduzione dei fondi e di manutenzione dei beni, ben definita sia che si tratti di muri a secco, dei locali della masseria, persino del giardino che abbellisce la Cappella di S. Eligio e degli arredi sacri che vengono ricevuti dal precedente affittuario e perpetuati dal nuovo. Il ciclo dei campi si invera e si comprendono le condizioni sociali e culturali che permangono nelle campagne salentine fino a un secolo fa e forse anche oltre. In premessa l’oggetto del contratto, si descrive la composizione dei fondi indicati coi nomi di Pitria, Capriglia, Chiusura Finocchio, Aia, Ortore limitrofo all’Aia, Giardino della Cappella, Santaloja Vecchia, Masseria Capriglia, Ortore adiacente e contigua, Vignali, Serra pascolosa, Monte e Larghi la Croce, Monte Finocchito, Larghi Pezza li Monaci, Caggiubba e Larghi li Monaci, Chiusura lo Viero, Chiusura la Grotta, Cicirumella, Spitali e Pezza la Casa, giusta le antiche denominazioni dei fondi medesimi.

Capriglia Una masseria della zona

L’intera masseria Capriglia è di circa centosettanta tomolate, cioè di circa 83,30 ettari, considerandovi la consuetudinaria tomolata di circa are 49. Seguono gli altri elementi essenziali per la stipula del contratto: la durata in sei anni, dal 1° settembre 1918 al 31 agosto 1924; l’affitto  annuo in lire 8.600 per la masseria da versare con tempi e modalità prestabilite e lire 400 in compenso della decima e metà del prodotto della vigna. Seguono le descrizioni in dettaglio delle doti di cui dispone la masseria: gli animali bovini ‘di giusta età ed atti al lavoro’, sessanta pecore di corpo, delle quali trentasei di ottima qualità, e ventiquattro recettibili, cioè non cieche, non zoppe e né mancanti di denti, tre montoni e quattro capre, di buona qualità. Dopo gli animali la dotazione dei prodotti di scorta, definiti nella quantità, e degli attrezzi che il fittuario riceve dall’uscente: grano,  orzo,  avena,  fave, lupini, ecc., tutti generi di buona qualità e per uso di semenza – viene specificato -, poi paglia di grano e di orzo,  immesse nella pagliera, una carretta, tre aratri ‘coi rispettivi gioghi buoni e servibili’, due vomeri di ferro ‘con la specifica del peso e servibili’, una madia per la ricotta salata, in buono stato ma senza serratura, un caccavo di rame rosso, otto mangiatoie nella masseria; cinque pile ed un pilone vicino al pozzo, e due altre pile vicino alla cisterna della masseria. Tutto specificato nei dettagli in modo che non sorgano liti o incomprensioni.

Questo tanto per cominciare. Nel caso di maltempo o di malattia delle piante che potessero distruggere in tutto o in parte il raccolto, come  grandine e alluvioni, o la mosca olearia, la filossera, la peronospera, l’oscamorina, la grittogama, ecc. il fittuario non può esimersi dal pagare quanto pattuito.

Tra i vari punti da sottoscrivere alcuni si richiamano alla regola d’arte nella coltivazione dei terreni e secondo gli usi locali, per es. seminando ogni due anni i terreni per la pastorizia, lasciando l’ultimo anno della locazione venti tomoli di maggesi e venti di erba, piantando secondo la volontà tabacco, purché non si rechi danno alle coltivazioni e alle piante esistenti, specie agli ulivi. Altri riguardano il governo degli animali in dote alla masseria e quelli aggiunti dal locatario, l’obbligo a farli dimorare e pernottare nella masseria, e di utilizzare il letame per concimare esclusivamente i terreni della masseria e non altri, altrimenti si incorre in una penale. L’approvvigionamento dell’acqua dal pozzo di Capriglia, che  deve essere mantenuto sgombro da materiali, e la cura dei canali di scolo sono altre prescrizioni contenute nel contratto insieme alla manutenzione dei locali affidati e alla loro riparazione ordinaria.

Capriglia
Pòppiti nel territorio di Capriglia

L’adempimento di tutti i patti e le condizioni sono suggellati e garantiti da una ipoteca che grava a garanzia su tutte le  proprietà del fittuario, compresi case e fondi. Oltretutto sono consentite visite ispettive di personale inviato dalla signora Duchessa di Nardò per verificare l’osservanza delle varie condizioni poste  e sottoscritte.

Ce la farà il povero Salvatore Merola di Cerfignano a lavorare la terra e a rispettare tutte queste clausole contrattuali? Non lo sappiamo. Vedendo le condizioni in cui è ridotta la masseria di Capriglia, ora diroccata, sembrerebbe di no.

Ci ritorneremo con lo spettacolo teatrale ‘Pòppiti’ il 10 di agosto, la Notte di San Lorenzo, riportando vita in un lembo di territorio agricolo, seppure per la durata di questo dramma popolare.

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

copertinafronte

A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

Quei “fiuri de la Pathria” recisi combattendo sul Carso

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di Paolo Vincenti

 

Mercoledi 30 aprile, in risposta ad un gentile invito di Paolo Rausa, giornalista, scrittore e regista teatrale, mi sono recato in quel di Poggiardo, Palazzo della Cultura, per assistere alla presentazione del libro “Li fiuri de la Pathria. Poesie sulla grande guerra” di Fernando Rausa (Comune di Poggiardo 2014), a cura di Paolo Rausa.

L’evento rientrava nell’ambito della manifestazione  “Dialogos. Rassegna culturale di Terra d’Otranto”, patrocinata dal Comune di Poggiardo – Assessorato alla Cultura, ed organizzata dall’alacre operatore culturale Pasquale de Santis. La rassegna, nella sede della Biblioteca Comunale, ha ospitato diversi autori salentini, a partire dal 22 marzo con la presentazione del libro “Il senso dell’incanto” di Laura e Pina Petracca e fino al 31 maggio con “Il sigillo del marchese” di Giuseppe Pascali.

Prima della presentazione del libro, ho potuto anche ammirare la personale dell’artista Vincenzo De Maglie, una mostra di sculture in legno di noce e di ulivo, ospitata nel piano terreno del poggiardese Palazzo della Cultura in Piazza Umberto I.

L’amico Paolo, milanese di Poggiardo o poggiadese di Milano, mi aveva già informato di questa iniziativa editoriale, in uno dei tanti nostri incontri in occasione dei suoi frequenti ritorni nella terra dei padri.

Si tratta di una serie di poesie in dialetto salentino che hanno a tema la Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra appunto, vista dagli occhi un salentino di Poggiardo che ad essa non ha partecipato ma che da essa è stato scosso nell’intimo. E dunque i tragici avvenimenti bellici sono filtrati dalla sensibilità poetica dell’autore, in un canto accorato di umana pietà e compartecipazione, abbraccio solidale.

Sostanzialmente Rausa canta la vita e il suo grande valore, tanto più grande quanto più essa è minacciata dalle contingenze. E di fronte al cruento conflitto bellico, la sensibilità del poeta sa cogliere questo valore  raddoppiato. “Li fiuri de la Pathria” furono recisi combattendo sul Carso, credendo nell’italia, come scrive Paolo Rausa, il quale si chiede:  “ha senso pubblicare in dialetto salentino versi che trattano avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio? Ci siamo risposti di sì!

Perché ovunque arda l’amore per la propria terra e per l’estremo atto di sacrificio, ovunque ci si ricordi di un Ettore che sotto le mura di Troia non esita ad affrontare il nemico/avversario in una sfida fatale, lì il verso sprona a veder oltre, a lacrimare sulla sventura nelle trincee della vita”.

Certamente ha senso ricordare, soprattutto quando questa operazione viene sorretta da afflato poetico e nobiltà d’intenti, sincerità d’animo e vicinanza umana, tanto più se si pensa che queste poesie non erano nate per essere pubblicate, e quindi lontane da qualsiasi calcolo editoriale-commerciale. Esse rappresentano il canto d’amore, accorato e sincero, di un figlio della patria nei confronti dei suoi fratelli più sfortunati, recisi appunto come fiori e come gigli di campo (per citare il De Andrè della celeberrima “Canzone di Piero”, le cui note sono risuonate durante la serata), strappati ai loro affetti, passioni, interessi e alla loro terra, dall’abominio e dall’odio umani.

Fernando Rausa, 1926-1977, operaio edile e poeta autodidatta, pubblicò in vita le raccolte “Poggiardo mia” e “L’occhi ‘ntra mente” nel 1969, poi “Fiuri… e culuri”nel 1972 e infine “Guerra de pace” nel 1976. Ma scrisse tante altre poesie sparse ed anche un racconto inedito. Dopo trent’anni dalla sua morte, grazie alla cura del figlio Paolo, sono state pubblicate Terra mara e nicchiarica” (Manni 2006), con Prefazione di Donato Valli, “L’Umbra de la sira  (Edizioni Atena 2009), con Prefazione di Rita Pizzoleo. Valeva la pena però far conoscere, fra i materiali rimasti ancora inediti, queste poesie patriottiche, in specie a vantaggio delle giovani generazioni sempre troppo scarse di begli esempi ed edificanti riferimenti: questo deve aver pensato ancora Paolo, infaticabile promoter dell’opera del padre, quando ha deciso di dare alle stampe la presente pregevole raccolta.

Sulla prima pagina è riportato un brano tratto da “La grande guerra” di Paolo Rumiz. E durante l’incontro di Poggiardo,  è stato proiettato un filmato documentario,”L’albero tra le trincee” di Alessandro Scillitano con commento del giornalista Paolo Rumiz, in cui si ripercorrono quei luoghi, da Trieste all’Adamello, circa 600 kilometri di frontiera, che hanno fornito triste scenario alle vicende belliche: importante questo filmato, nella sua ricostruzione storica, sia per il suo valore documentale che memoriale. Durante l’incontro di Poggiardo, la lettura delle poesie di Rausa ha dato ai presenti in sala, fra i quali gli studenti del locale Istituto D’arte “Nino Della Notte”, emozioni intense, facendo entrare gli ascoltatori in quell’atmosfera di abbandono, abbrutimento, disfatta, evocata dai versi, ma anche di eroismo e di orgoglio di nazione. Dopo i saluti dell’Assessore alla Cultura Giuseppe Orsi,  l’intervento e le letture di Paolo Rausa, e le canzoni del cantautore salentino P40.

La grafica del libro è curata da Ornella Bongiorni, consorte di Paolo Rausa, la quale è intervenuta alla presentazione del libro con letture e numerosi spunti di riflessione. Nel libro compaiono le Presentazioni del Sindaco Giuseppe Colafati e dell’Assessore Giuseppe Orsi e poi la Nota del curatore .

I testi riportano in calce la traduzione in italiano. La poesia di Fernando Rausa ha una intima ispirazione, è una poesia molto sentita perché affonda i sentimenti di amore della patria nella nostra cultura rurale e si serve della lingua legata alla nostra terra e stratificata. Leggiamo allora di Vittorio Veneto e di Caporetto, del Piave e di Monte Grappa, di Enrico Toti e Francesco Baracca, della Folgore, di combattenti e reduci; a tutti va la parola del poeta, forgiata nella lingua degli avi, impastata con la nostra terra “mara e nicchiarica”. E sui vincitori e sui vinti, sui caduti di tutte le guerre, sventola quella bandiera italiana (“bandiera mia”) la cui poesia suggella la raccolta, che diventa simbolo di salvezza e di rinascita.

Omaggio a Giorgio Cretì. A Ortelle

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“Per un antico(pòppitu)eroe” è l’incipit che accompagna il progetto/omaggio a Giorgio Cretì, giornalista, scrittore, cultore della gastronomia e delle tradizioni popolari, scomparso lo scorso anno. Ortelle, sua cittadina natale, gli rende merito con due iniziative culturali, che hanno lo scopo di celebrarne la memoria e anche di far germogliare altri semi che Cretì seppe spargere amorevolmente in terre lontane dal suo Salento.

Le manifestazioni si svolgeranno in piazza San Giorgio, agorà del borgo di Ortelle, Sabato 31 maggio con l’illustrazione del progetto “Ortelle e gli ortellesi attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei”, un progetto promosso dal Comune di Ortelle che si è valso della collaborazione della “Fondazione Terra d’Otranto”, finanziato dal CUIS e sostenuto  dall’Università del Salento, Dipartimento Beni Culturali.

Dopo i saluti delle autorità,i familiari di Cretì illustreranno la bio-bibliografia,mentre il presidente della Fondazione Terra d’Otranto dott. Marcello Gaballo presenterà il volume antologico che comprende i due romanzi, racconti inediti e foto d’archivio dello stesso Cretì.

Il volume, riccamente illustrato, sarà distribuito ad ogni famiglia del Comune, con ciò rispettando la volontà di Giorgio Cretì e della stessa Fondazione Terra d’Otranto, a cui sono stati ceduti i diritti dei testi pubblicati.

Domenica 1 giugno, alle 21, si alza il sipario sullo spettacolo teatrale “Pòppiti”, tratto dall’omonimo romanzo di Cretì. Il testo scritto dalla scrittrice Raffaella Verdesca sarà rappresentato dalla Compagnia teatrale ‘Ora in scena’, diretta da Paolo Rausa. Le musiche e le canzoni della tradizione salentina saranno eseguite da P40 e Lucia Minutello, la coreografia daKalimbaStudio Dance. Il racconto è unaffresco di salentinità,una storia d’amore e di guerra ambientata a Capriglia, una masseria collocata nell’entroterra fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi. Le vicende si svolgono nel 1911 e si intrecciano con la guerra di Libia.

Nei due giorni è possibile visitare la mostra “Ortelle /Paesaggi Personaggi” con opere dei pittori locali Carlo Casciaro e Antonio Chiarello e la “lettura” fotografica di Pòppiti a cura di Stefano Cretì, allestita nell’atrio e nelle sale di Palazzo “Rizzelli”, in piazza San Giorgio.

Info: Comune di Ortelle, 0836 958014, www.comune.ortelle.le.it

 

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