Il canestraio: un artigiano contadino

angelo il canestraio 2

testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

Il canestraio: un artigiano contadino

angelo il canestraio 2

testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

Le panare di Spongano per la festa di Santa Vittoria

di Rocco Costantino Rizzo

 

A Spongano resiste la tradizione  delle “Panare” e si rinnova ogni 22 dicembre in occasione della festa di Santa Vittoria.

Purtroppo cominciano a venire meno gli esperti della Panara, per cui ci pare utile rammentare come avviene la sua preparazione.

 

 

Spongano (Lecce). Una delle panare esposte in occasione della festa
Spongano (Lecce). Una delle panare esposte in occasione della festa

La panara o cista è costituita da vinchi di ulivo e canne tagliate perpendicolarmente, in modo da formare degli intrecci robusti e flessibili. I vinchi di olivo sono necessari per la base della panara, per il telaio e per le impugnature: da essi dipendono la robustezza e la finitura della stessa.

Le panare, trai recipienti più comuni della tradizione contadina, avevano utilizzi diversi in base alla capienza, in base alla quale venivano distinti in panari e panareddhri. Entrambi utilizzati nella raccoltadelle olive, dei pomodori, dei fichi e di altri frutti, i secondi si differenziano per avere un’impugnatura più centrale e più grande.

Ancora più capienti erano invece le panare, utilizzate dal popolo per riporvi il pane e le friselle, al momento della consegna a domicilio dopo la cottura nel forno pubblico. A Spongano esse sono strettamente legate ad una singolare tradizione, che i cittadini rievocano in occasione della festività di Santa Vittoria, il 22 dicembre.

Ma come si realizza una panara?

Se ne sceglie una alquanto capiente, il cui tronco di cono capovolto sia ben definito e più o meno simmetrico. Si fissano perpendicolarmente, ai vertici di un trapezio ideale, circoscritto dalla base maggiore della panara, le quattro barre di legno, le varre.

Ho preso come esempio i vertici di un trapezio e non di un quadrato perché, secondo l’esperienza di Salvatore Bramato, costruttore di panare e governatore del fuoco, le varre che servono per sostenere le palme, sistemate in questo modo, permettono un migliore aspetto frontale ed una maggiore comodità al fuochista, che si pone nella parte posteriore.

Ultimato il lavoro di fissazione delle varre con del filo di ferro, si versa nella panara della sansa spriculata (prodotto ottenuto dalla spremitura a freddo di olive mediante mulinova o sansa a paddhrotte sbriciolata), che serve unicamente per zavorrare la panara e darle una solida base, tale da poter reggere l’intero addobbo (anticamente si usava zavorrare anche con pietre o tronchi di ulivo).

La panara con i quattro rami di palma ben fissati
La panara con i quattro rami di palma ben fissati

Si inserisce, quindi, al centro, un tubo o un tronco dal diametro di circa 15/20 cm, in modo tale che le paddhrotte di sansa vengano sistemate attorno al tronco sino ad una certa altezza: ciò fatto, si procede alla rimozione del tronco o del tubo. Questa operazione è necessaria per creare una sorta di camera d’aria che consenta una riserva di ossigeno, da sfruttare per favorire in seguito la combustione. Lo spazio lasciato vuoto dal tronco o dal tubo viene coperto alla base con altre paddhrotte di sansa, quindi si inserisce un cestello (cisteddhru o cistarieddhru), realizzato con fil di ferro, che viene utilizzato come braciere per tutto il percorso.

Il  cisteddhru è preparato con cura dal nachiru o fuochista, così che abbia la certezza che la panara  arrivi indenne: essendo le paddhrotte altamente infiammabili, basta un attimo di distrazione perché prenda fuoco tutta la panara. Il cisteddhru viene comunque occultato sistemandogli intorno altre paddhrotte, che vengono fissate con corde di fìscoli (tappeti circolari di canapa che insieme a dei dischi di acciaio permettono di pressare le olive macinate ed ottenere così l’olio).

A questo punto la panara è pronta per essere piazzata sul mezzo di trasporto (trattore, camion o traìno) e si dà inizio all’addobbo delle quattro palme già fissate. La parte inferiore, generalmente spoglia, viene rivestita con tralci di edera, fiori, ramoscelli d’olivo, e tra le due palme anteriori si colloca l’immaginetta  di Santa Vittoria. Quindi si addobbano i rami con bandierine, palle natalizie, luci, fili dorati, mandarini, arance, secondo il gusto di chi la prepara e che ha tutta la libertà di dare sfogo alla sua fantasia per un migliore effetto scenico.

Spongano (Lecce). Si sistemano gli ultimi addobbi di una delle panare poste sula carro
Spongano (Lecce). Si sistemano gli ultimi addobbi di una delle panare poste sula carro

Durante il percorso del corteo occorre prestare massima attenzione a che il fuoco non si spenga ed è per questo che il nachiro prepara delle bende imbevute d’olio o nafta che, una volta accese, sistema nel cisteddhru. Per evitare che le fiamme si propaghino a tutto l’addobbo si è soliti “addomesticarle” bagnando con acqua le paddhrotte poste intorno al braciere o versandovi del tufo inumidito.

A fine percorso, che coincide con il mercato coperto di Spongano, la panara viene tolta dal mezzo di trasporto; il fuochista tira fuori il cisteddhru e con un bastone rompe le paddhrotte che chiudevano la buca della camera d’aria, favorendo così la combustione.

Le panare bruciano lentamente...
Le panare bruciano lentamente…

La panara resterà dunque accesa sino al suo lento e completo consumo.

 

La più antica fiera di Maglie: lu panìri

di Emilio Panarese

Tra le cinque fiere annuali di Maglie lu panìri era la più antica, essendo stata istituita nell’ottobre del 1819 dal re di Napoli Ferdinando I di Borbone. Cadeva nei giorni 27, 28 e 29 giugno, giorni dei festeggiamenti in onore dei SS. Pietro e Paolo. Posteriori le altre fiere: S. Oronzo, 1834;  S. Nicola e Addolorata, 1860; SS. Medici, 1891. Oggi l’unica sopravvissuta è quella dell’Addolorata, che si svolge nel viale omonimo il venerdì precedente la Domenica della Palme.

Il panìri dal neogreco πανηγúρι vuol dire “riunione di gente in occasione di particolari festività”. La parola neogreca fu in seguito usata estensivamente e genericamente nel senso di “mercato” oppure “dono che in particolari festività si faceva alla fidanzata o a parenti ed amici”: lu panìri de san Pietru; lu paniri de san Nicola ecc..

A Maglie il mercato boario del panìri, che era esente da imposte, si svolgeva la mattina del 29 al Largo Cuti sul piazzale dei SS. Medici; la sera, per sicurezza di ordine pubblico, era prescritta l’illuminazione di tutti i fanali a petrolio. Gremitissimo il mercato in piazza, che attirava molti acquirenti dei paesi vicini.

I due santi erano venerati nella chiesa di san Pietro (una delle tre esistenti in piazza), che, delle antiche chiese medievali di rito greco, fu quella che resistette di più per le sue buone condizioni statiche. Solo agli inizi dell’800 cominciò a mostrare grosse crepe. Venne abbattuta nel 1880 e trasformata in palazzo (oggi vi è la sede dalla Banca Popolare Pugliese). Nell’interno si vedevano sulle pareti molte immagini di santi e  sull’altare due grandi statue di

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