Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (II parte)

di Riccardo Carrozzini

 

Fig. 5 – Lo scheletro ricomposto, a Maglie (da Teresa Salomi, come le successive fino alla fig. 5e)

 

La vendita venne infine effettuata al Museo di Zoologia e di Anatomia comparata della Regia Università di Pisa, il cui direttore era il prof. Sebastiano Richiardi, che offrì un corrispettivo di lire mille più spese di trasporto a suo carico. La spedizione venne effettuata nel maggio 1903. In una lettera di quello stesso mese al Richiardi, il Presidente Garzia lo informa dell’avvenuta spedizione ed aggiunge: “Le accludo una relazione, di questo egregio giovane Sig. Salomi Liborio, appassionatissimo cultore di Scienze naturali, il quale, sotto la direzione dell’insegnante prof. Consiglio di questo Liceo ha curato la preparazione e l’imballaggio del cetaceo“. Brani di questo documento, trascritto integralmente più oltre, vengono citati nell’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi in precedenza citato. La scansione della relazione, di 8 pagine, mi è stata mandata il 22 maggio 2014 dal dott. Nicola Maio, dell’Università di Napoli, al quale è stata fornita da uno degli autori.

Fig. 5a – Particolare arto anteriore

 

Fig. 5b – Particolare parte posteriore del cranio

 

Fig. 5c – Particolare delle costole

 

Fig. 5d – Particolare delle prime vertebre

 

Fig. 5e – Particolare della mandibola

 

Da una lettera della Giunta provinciale amministrativa di Terra d’Otranto del 3 luglio 1903 (prot. 10775), che si esprime in ordine ad una deliberazione dell’Istituto Capece, risulta che il Salomi, “avendo questi col suo lavoro contribuito al maggior vantaggio dell’amministrazione”, ricevette come compenso per l’opera prestata la somma di £. 50,00.

Fig. 6 – La lettera in francese per la vendita dello scheletro (Fondaz. “Capece”)

 

Fig. 7a – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 1

 

Fig. 7b – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 2 (Fondaz. “Capece”)

 

Vi è poi una lettera del Prof. S. Richiardi, del Museo di Pisa, il quale aveva, evidentemente, anticipato di tasca sua le £. 1.025,00 pagate all’Istituto Capece per lo scheletro. Richiardi faceva rilevare che la quietanza di pagamento rilasciata dal Capece era sbagliata perché intestata a Salvatore e non a Sebastiano Richiardi, la qual cosa gli aveva impedito fino ad allora (10 maggio 1904) di essere rimborsato dall’Università di Pisa, e pregava il Presidente Garzia di inviargli una nuova quietanza correttamente redatta. Riferiva, nella stessa lettera, che “il Fisetere [9] è montato, mancano però l’ultima vertebra, una delle ossa del bacino, n. 8 denti, n. 3 ematoapofisi od ossa a V, n. 20 pezzi degli arti – dovrebbero essere 30+30”.

Fig. 8 – L’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi citato nel testo

 

Do’ anche conto delle spese sostenute dall’istituto Capece in occasione del recupero di questo scheletro: si trova, infatti, tra la documentazione, un rendiconto finale (denominato “Conto cetaceo”) delle spese sostenute, che ammontarono a lire 576,85; detratte queste dalle lire 1.025,00 avute come corrispettivo, risultò un guadagno netto, per l’Istituto Capece, di lire 448,15.

Fig. 9 – Il “Conto cetaceo” (Fondaz. “Capece”)

 

ig. 10 – Il compenso di 50 lire a Salomi (Fondaz. “Capece”)

 

Lo scheletro del capodoglio è ancora esistente presso la Certosa di Calci, dove l’Ateneo pisano ha il suo Museo di Storia naturale, dotato di una stupenda galleria che contiene gli scheletri di numerosi cetacei (si vedano le foto in calce alla presente).

È trascritta infine fedelmente, di seguito, la relazione di Salomi di cui si è fatto cenno più sopra, scritta su carta intestata del Liceo – Ginnasio Capece (una pagina di questa è l’ultima foto in calce), nella quale si autodefinisce “perduto amatore di Zoologia” e dalla quale si può chiaramente evincere, dai molti particolari e dalle descrizioni, chi era, quanto a conoscenze e competenze nel settore, Liborio Salomi già a 20 anni; questo documento è il più lungo testo con firma autografa che sono riuscito a trovare [10].

 

Relazione di Liborio Salomi

Ill.mo Signor Direttore,

Prima di ogni altro mi permetta presentarmele quale un appassionato di Storia Naturale. Ho venti anni e sono in procinto di conseguire la licenza liceale in questo Liceo, dopo di che vorrò dedicarmi completamente allo studio delle scienze biologiche che ho coltivato sin da ragazzo. Ero ancora tale quando cominciai a catturare insetti e a sezionare quanti mammiferi, uccelli ed altri animali mi capitassero fra le mani; e poi ho continuato sempre più a sentirmi attratto dalle tante bellezze di cui è ricca la natura, e possiedo una discreta raccolta di insetti indigeni, di resti fossili, di uccelli imbalsamati da me stesso, di animali in alcool, fra i quali un bellissimo aborto mostruoso di Ovis Aries etc.. Qui in Maglie mi conoscevano già tutti per appassionato di Scienze Naturali, allorché un caso speciale venne a mettermi in maggiore evidenza. Fu questo l’arrivo in Otranto di un Capodoglio. Nello scorso anno infatti, nel 18 gennaio 1902 i soldati del Semaforo, addetti al servizio di Otranto nella località così detta “Palascia”, avvisarono che in alto mare galleggiava uno scafo di bastimento capovolto. A tale avviso, i poveri marinai otrantini, sperando di trovare in esso dei tesori che valessero a sollevare alquanto la loro miseria, si misero in mare con sette barche, ma grande fu la loro delusione quando, giunti al voluto scafo, riconobbero in esso un immane pesce, a dir loro già morto da parecchi giorni. Assicuratolo con una forte gomena attorno la coda lo rimorchiarono nel porto, donde il Sindaco, per ragione d’igiene pubblica, lo fece trasportare non lungi da Otranto, nella località detta “Rinule” a circa tre chilometri dall’abitato. Ben presto la notizia dell’invenimento di questo grande cetaceo si sparse per quasi tutta la provincia e da ogni parte di essa si recarono ad Otranto delle persone per vederlo. Tra queste ci fui anche io ed altri compagni di scuola, accompagnati dal sig. Giuseppe Consiglio, professore di Fisica e Scienze Naturali in questo Liceo. Dapprima vedemmo il cetaceo da sugli scogli e poscia con delle barche potemmo osservarlo da vicino. La putrefazione era già cominciata nell’interno, e ad ogni cavallone un po’ forte e quindi ad ogni conseguente muoversi del cetaceo, veniva fuori dalla sua bocca un puzzo penetrante e insopportabile. Provvisto di una discreta macchina fotografica il prof. Consiglio ritrasse l’animale, e la fotografia sebbene non molto chiara è abbastanza sufficiente per mostrare come esso giacesse sul fianco sinistro e come, ad arguirlo dalla bava bianchiccia che vedesi intorno alla bocca, fosse inoltrata in esso la putrefazione. Essendo lo Stato padrone di tali mostri che si rinvengono sulle coste italiane, il sindaco di Otranto annunziò al governo la scoperta del Capodoglio, perché si pigliassero serii provvedimenti onde distruggerlo, potendo riuscire, con la sua putrefazione, di grave danno per gli abitanti delle spiagge vicine. Si attendeva invano ordine dal Ministero, allorché il preside di questo Liceo, il sig. Giuseppe Gabrieli [11], attualmente bibliotecario all’Accademia dei Lincei, pensò che fosse conveniente all’Istituto Capece l’acquistare lo scheletro di un Capodoglio, sì importante nello studio della Zoologia ed Anatomia comparata e così raro nello stesso tempo. Si telegrafò dapprima alla Capitaneria del porto di Taranto, e avendo questa risposto che il cetaceo era in potere del Ministero di P. Istruzione, il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Capece, il sig. Cav. Raffaello Garzia, fece delle pratiche presso di esso, il quale rispose che il cetaceo era a disposizione del gabinetto di Storia naturale di Maglie. Fu così che io, alunno della 2a liceale, e perduto amatore di Zoologia, ebbi dalla Onorevole Commissione di questo Liceo il piacevolissimo incarico di andare ad Otranto per dirigere la scarnificazione del cetaceo e sorvegliare a che nessuna parte dello scheletro venisse menomamente lesa. L’operazione per denudare le ossa fu di somma difficoltà e dispendio, sia per la località che non mi permise di trarre a secco il cetaceo, sia per la poca praticità del personale addetto al lavoro, sia in ultimo per i tempi piovosi. Potei constatare subito trattarsi di un individuo di Physeter macrocephalus, di sesso femminile. La pelle era completamente intatta, ciò che esclude l’idea che l’animale fosse morto per ferita. Dei denti, in massima parte cariati, mancavano otto, ciò che, tenendo anche conto della coda completamente liscia, mi fece pensare trattarsi di un individuo assai inoltrato negli anni. La putrefazione avvenuta mi impedì assolutamente di fare qualsiasi osservazione anatomica sui tessuti molli, e mi tolse anche l’agio di constatare se nella vescica orinaria vi fossero dei calcoli, e delle incrostazioni di simil natura sulle pareti dell’intestino. Ciò che mi colpì grandemente furono i muscoli tutti invasi, nel loro spessore, da corpuscoli un po’ più piccoli dei granelli di pepe, di color bianco-giallognolo e che alla osservazione microscopica sembrano delle uova di Elminti [12]. Fosse la morte del Cetaceo stata causata dall’esistenza di qualche parassita? Mancando di libri da riscontro non ho potuto venire a conclusione alcuna, eppure potrebbe trattarsi di qualche specie nuova o poco studiata di Elminto. Circa lo scheletro fui dapprima sommamente meravigliato di trovar distaccate le ossa facciali del lato sinistro, ma ben presto potei attribuir ciò al peso della massa muscolare sopraincombente del lato destro. Ebbi massima cura di conservare le ossa del cinto pelvico tanto importanti nello studio dell’anatomia comparata. Dopo 13 giorni di continuo lavoro le singole ossa furono trasportate a Maglie ed infossate nella calce viva per farle spolpare e sgrasciare completamente. Circa un mese fa le ho tolte da essa per pulirle definitivamente ed ora sono in viaggio per Pisa. Anche l’imballaggio è costato lavoro e fastidio, ma per la scienza bisogna far tutto, ed io mi reputo fortunatissimo di aver lavorato, ancor sì giovane, per la preparazione dello scheletro di un Capodoglio che di ora in poi adornerà (me l’auguro) le ricche sale del Museo pisano, vanto e gloria del nostro chiarissimo Savi [13]. E voglio sperare che ella trovi lo scheletro in buono stato, in modo che il mio lavoro non sia andato completamente perduto, e che voglia attribuire qualche piccolo difetto alla mancanza dei mezzi necessarii per la preparazione di tali scheletri e alla mia poca pratica con essi. Prima di fare l’imballaggio ho situate le ossa alla meglio onde fare la fotografia dello scheletro intero, e fra giorni mi farò un pregio di mandargliela insieme a quella del cetaceo in mare ed altre ritraenti diverse ossa e regioni singole dello scheletro, ed una rappresentante un frammento di membrana endoteliale dello sfiatatoio [14]. Lo scheletro come le sarà facile constatare è lungo, così disarticolato, m. 10,30, ma con i dischi intervertebrali misurava m. 11, pur essendo lungo m. 12 rivestito dalle masse muscolari. Nell’imballarlo ho messo nel gabbione oltre al capo anche l’atlante l’epistrofeo saldato alle altre cinque vertebre cervicali ed al processo odontoide rudimentale, le vertebre dorsali, le lombo-caudali e le costole. Nel cassone ho messo lo sterno, il primo paio di costole, i denti, le ossa del cinto pelvico, alcune ossa del capo che trovai da esso distaccate, le clavicole, le scapole, gli omeri, le ossa, saldate verso la loro estremità, dell’antibraccio, le ossa carpali con le rispettive falangi (1) [15] ed alcune ossa articolate alla faccia inferiore delle vertebre lombo-caudali, e che non so invero cosa siano, pur avendo cercato di riscontrare varii testi di anatomia comparata. (Che anzi le sarei obbligatissimo se volesse indicarmi a quali dello scheletro umano corrispondano queste ossa e che ufficio compiano nei cetacei). Di queste ossa vi è una nel gabbione che per l’azione della calce ha l’estremità libera un po’ bruciata, ma credo che ciò non pregiudichi lo scheletro; ché nella relazione del Gasco [16] sulla Balena catturata a Taranto, ho letto come anche nello scheletro di essa alcune parti siano state sostituite da legno. È mai possibile evitare qualche piccola avaria in scheletri così colossali e nello stesso tempo risultanti da ossa spugnose e fragili in sommo grado? Avrei desiderio di scrivere una piccola monografia su questo Cetaceo, ma a causa della mancanza di materiale di studio, rimando tal lavoro al primo anno di studii universitarii, che veramente non mi son ancor deciso dove fare. Potrà darsi che venga a Pisa; è un centro di studii tanto rinomato! Giorni fa leggevo nella Mammologia [17] Italiana del Cornalia di uno scheletro di Physeter, arenato nel 1868 in Calabria e da lei egregiamente preparato per l’Università di Bologna. Credo, se non mi sbaglio, che manchi ancora in Italia un elenco completo dei cetacei giunti morti o dati a secco sulle sue spiagge; e sto curando, tanto per contributo a tale elenco, di raccogliere notizie precise su tutti i cetacei rinvenuti sulle coste della penisola salentina. Pochi anni or sono ad Ugento, sullo Ionio, dettero a secco contemporaneamente parecchi capodogli, ma per la putrefazione avvenuta, il governo, a richiesta delle autorità locali, mandò due navi per curarne il loro affondamento in alto mare.

Giorni fa fui chiamato da alcuni cavatori di pietra per vedere delle ossa che avevano trovato a nove metri di profondità: Recatomi sul luogo ebbi a constatare trattarsi dei resti di un Equus caballus mastodontico, quaternario. Ho quasi tutti i denti, che sono veramente bellissimi. Di resti di Equus ed altri animali quaternarii trovansi spesso nelle nostre cave ed io ho una discreta raccolta, ma mi mancano molti scheletri di animali odierni per farne gli studi comparativi. Se crede ella che tali resti fossili possano servirle a qualche cosa, non dovrà che avvisarmene, ed io sarò fortunatissimo di farglieli avere. E così dico pure di qualsiasi prodotto naturale della penisola salentina.

Mi permetta intanto di ossequiarla e professarmele suo dev.mo

Liborio Salomi di Angelo

Maglie il 12 maggio 1903

Fig. 11 – Lo scheletro del capodoglio alla certosa di Calci (Foto dal prof. Roberto Barbuti, Università di Pisa, come le successive fino alla fig. 14)

 

Fig. 12 – Sulla mandibola si può leggere “Otranto, gennaio 1902”

 

Fig. 13 – Un’altra vista dello scheletro

 

Fig. 14 – Una vista della Galleria cetacei con lo scheletro recuperato da Salomi in primo piano

 

Fig. 15 – Una pagina della lettera-relazione di Salomi

Note

[9] Sinonimo di capodoglio, derivata dal nome scientifico latino.

[10] Ringrazio il prof. Barbuti, già citato in precedenza, che si è messo in contatto col dott. Alessandro Corsi, direttore della Biblioteca di Scienze naturali dell’Università di Pisa; questi ha autorizzato la pubblicazione della relazione.

[11] Giuseppe Gabrieli, da Calimera (LE), padre di Francesco (quest’ultimo deceduto nel 1996, uomo di sconfinata cultura che fu uno dei più grandi orientalisti italiani e Presidente dell’Accademia dei Lincei), orientalista anch’egli, mentre era Preside del “Capece” vinse il concorso per bibliotecario dell’Accademia dei Lincei di Roma e lasciò la Presidenza del “Capece” per assumere il nuovo prestigioso incarico.

[12] Elminti: nome caduto in disuso, che non designa un gruppo zoologico definito, ma genericamente i vermi, in particolare quelli parassiti.

[13] Dall’Enciclopedia on line Treccani: Savi, Paolo. – Naturalista (Pisa 1798 – ivi 1871), figlio di Gaetano, prof. di storia naturale nell’Università di Pisa (dal 1823); socio corrispondente dei Lincei (1860). Autore di molti notevolissimi lavori sulla geologia della Toscana, in cui sostenne la teoria attualistica di Ch. Lyell, e di due importanti opere ornitologiche.

[14] Evidentemente presso l’Università di Pisa non vi è traccia di queste foto, visto che nell’articolo prima citato è stata pubblicata una foto fornita dalla dott. Elena Valsecchi, pronipote di Liborio Salomi. Forse le foto sono quelle pubblicate in questo volume, in possesso della figlia Teresa.

[15] Qui vi è la nota (1) nel manoscritto, e a piè di pagina è scritto: le ultime vertebre caudali.

[16] GASCO, Francesco Giuseppe: famoso naturalista (Mondovì 3 nov. 1842 – Roma 23 ott. 1894). Dal Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 52 (1999), di Maria B. D’Ambrosio: … Nel 1877 il G. vinse la cattedra di zoologia e anatomia comparata all’Università di Genova, e qui si occupò anche del Museo zoologico che arricchì di nuovi reperti fra cui lo scheletro di una balenottera arenatasi a Monterosso in Liguria; contemporaneamente pubblicò una relazione, iniziata a Napoli, su una balena arenatasi a Taranto nel febbraio del 1877 che identificò nella balena dei Baschi, Balaena Biscajensis (euglacialis). Nel 1878 le sue ricerche sulla osteologia dei Cetacei lo spinsero a visitare i più importanti musei europei fra cui quelli di Parigi, Londra, Copenaghen, Leida e Bruxelles, dove più ricche erano le collezioni cetologiche e molto quotati i cultori di questo ramo della zoologia. Invitato dal direttore del Museo di Copenaghen X. Reinhardt a studiare lo scheletro di un esemplare catturato nel 1854 a San Sebastiano sulle coste spagnole, giunse alla conclusione che si trattava della stessa specie della balena di Taranto. …

[17] La mammologia è la scienza che studia i mammiferi, classe di vertebrati con caratteristiche come ad esempio pellicce e un complesso sistema nervoso. La mammologia si dirama anche in altre discipline, quali la primatologia (studio dei primati) e la cetologia (studio dei cetacei).

 

Per la prima parte v. qui:

Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (I parte)

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (4/7): S. Maria di Leuca e Otranto

di Armando Polito

S. Maria di Leuca
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

 

Otranto, iIl castello
tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Otranto#/media/File:Castello_di_otranto,_01.jpg

 

Otranto, la cattedrale
immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Otranto#/media/File:Cattedrale_di_Otranto2.jpg
Otranto, la cripta della cattedrale
immagine tratta da https://www.archilovers.com/projects/132840/cripta-di-otranto.html

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

 

Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Annalisa Presicce, Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 221-256.

 castello di Otranto

 

ITALIANO

Nel 1765 Horace Walpole pubblica The castle of Otranto inaugurando un nuovo approccio alla scrittura e aprendo la strada alla letteratura gotica. Nel presente lavoro si intende fornire una presentazione degli antecedenti storico-culturali alla stesura dell’opera, una breve analisi stilistica che ne sottolinei l’apparato categoriale, una ricostruzione dei riferimenti utili a comprendere la vera o presunta relazione tra la fortezza otrantina reale e quella romanzata, le ragioni della fortuna di un libro che ha reso nota la costruzione aragonese in tutto il mondo, pur nei limiti del fantastico. Le fonti prese in esame sono diverse, letterarie, biografiche, epistolari, architettoniche, artistiche e propriamente storiche; partendo da queste ci si propone di sciogliere dal testo tutto ciò che è riconducibile, dove possibile, a trasposizione diretta di fatti e figure di spicco che hanno interessato il principato di Otranto in passato, passando anche per il filtro documentato delle trattazioni degli storiografi moderni di cui disponeva l’autore. La conclusione approda ad una intrigante verosimiglianza il cui fascino, vivo ancora oggi, ha permesso al castello di resistere al tempo quale emblema incontrastato tra i luoghi dell’orrore restituitici dalla letteratura.

 

ENGLISH

In 1765 Horace Walpole published The castle of Otranto inaugurating a new approach to writing and paving the way for the gothic literature. In the following study we intend to give a presentation of the historic-cultural antecedents to the drawing up of the work, a brief stylistic analysis aimed to point up the categorical apparatus, a reconstruction of the useful references to understand the true or alleged relationship between the real and the fictional fortress in Otranto, the reasons about the fortune of a book which has been making the aragonian castle become famous all over the world, even within the limits of a fantastic styling. The examined sources are different, literary, biographical, epistolary, architectural, artistic and historical properly; starting from here we propose to solve through the text all that is attributable, where possible, to a direct transposition of facts and prominent figures that had been affecting the principality of Otranto in the past, also passing through the documented filter of the modern historical works available to the author. The conclusion leads to a intriguing likelihood whose charm, still alive today, has been enabling the castle to resist the time as a undisputed symbol among the places of horror handed down from literature.

 

Keyword

Annalisa Presicce, Walpole, Otranto, The castle of Otranto

Il Pesce marmo (Pèšce mármuru) e la Cernia bianca a Otranto

di Igor Agostini

Quando in italiano, genericamente, si parla di Cernia, si pensa ad una specie ittica ben precisa: la cosiddetta Cernia bruna, il cui nome scientifico è Epinephelus marginatus (Lowe, 1834), purtroppo oggi sempre più rara a motivo della pressione esercitata da parte della pesca, in tutte le sue forme.

In realtà, però, la Cernia bruna costituisce solo una delle sei specie autoctone di Cernie nei mari italiani e che il Salento, sul versante ionico, possiede ancora tutte.

Fra di esse, v’è la Cernia bianca, che, tuttavia, a motivo del colore della sua pelle, meglio sarebbe denominare Cernia bronzina (dal nome latino, Epinephelus aeneus, Geoffroy Saint-Hilaire, 1809), come ancora faceva, alla fine del secolo scorso, il grande studioso dalmata Pietro Doderlein (1809-1895).

Esemplare giovanile, senza 'scalino'
Esemplare giovanile, senza ‘scalino’

 

Altro esemplare giovanile senza 'scalino'
Altro esemplare giovanile senza ‘scalino’

 

Il suo tratto inconfondibile sono due sottili linee bianche – più visibili nei giovani che negli adulti, ma sempre presenti – che, quasi come solchi, attraversano, partendo dall’occhio, opercolo e preopercolo.

Molto genericamente, nei vari repertori sui pesci del Mediterraneo, si trova indicato, quale nome dialettale per designare questo serranide, quello di ‘Dotto’.

Il che è vero, ma non è tutta la verità, anzi ne è una parte esigua, perché il termine italiano ‘Dotto’, così come la corrispettiva forma dialettale salentina Dòttu (o Ddòttu), possiede una gamma di significati estremamente più ampia e, anzi, seppur parzialmente, persino equivoca.

Rinviando ad un’altra occasione un’indagine a tal proposito, per quel che riguarda questa scheda, basterà dire che in molte località salentine, ed anche ad Otranto, questo nome è talvolta utilizzato per designare anche la Cernia bianca, ma non è riservato esclusivamente ad essa: infatti, il termine ‘Dotto’ è usato molto genericamente, spesso anche da pescatori esperti, per indicare alcune (e, in taluni rari casi, tutte) le specie di Cernia che non siano la Cernia bruna, la sola qualificata propriamente Cèrnia, o Cèrgna (in accordo, d’altronde, con la tradizionale idea che il Dòttu, o Ddòttu sia il maschio della Cernia, certo erroneamente, perché – come è noto agli stessi pescatori – le Cernie sono ermafroditi).

Esemplare adulto, col caratteristico 'scalino'
Esemplare adulto, col caratteristico ‘scalino’
Altro esemplare adulto con 'scalino'
Altro esemplare adulto con ‘scalino’

 

Esistono, invece, nomi molto più precisi per indicare la Cernia bianca: in Salento, i più diffusi (ma per nulla affatto i soli) sono quello gallipolino (ma largamente attestato altrove) di Mozzàcanasse e quello leucano di Spunnanasse: quest’ultimo deriva dall’azione esercitata dalla Cernia bianca all’interno della nassa, da dove, una volta catturata, cerca di uscire, prendendo lo slancio, attraverso colpi violenti esercitati sulla stessa, mediante il capo, particolarmente stondato, soprattutto negli esemplari adulti (donde la regola: ‘Pesce grande nassa piccola, pesce piccolo nassa grande’)[1].

Ma, se con i più vecchi pescatori otrantini parlerete di Spunnanasse, o anche di Mozzàcanasse, sarà estremamente difficile che vi intendano. Questo non perché questo pesce sia, effettivamente, ad Otranto molto più raro che a sud della Palascía (la sua zona di massima concentrazione è, difatti, nella Provincia leccese, da Porto Cesareo sino al Capo di Leuca), ma perché qui il nome che è utilizzato per designarlo è un altro: Pèšce mármuru, italianizzato in Pesce marmo.

Qui e solamente qui, perché il nome di Pesce marmo è conosciuto esclusivamente ad Otranto.

All’origine del termine stanno, senz’altro, i tratti marmorei del corpo, peraltro già rilevati da Doderlein: «Il colore del corpo negli esemplari del nostro Museo è verde-oliva o grigio-verdastro, marmorato di più chiaro e col ventre biancastro».

Ma si faccia attenzione ad una cosa: se a qualcuno dovesse capitare di parlare con i pochi pescatori otrantini che ancora conoscono il nome di Pesce marmo, chiedendo loro di quale pesce si tratti, riceverà un’informazione apparentemente enigmatica, eppure decisiva: che si tratta di un pesce il cui peso va dai sei chili circa sino ai quindici, o poco più.

E quand’era più piccolo – ci si chiederà?

La risposta sarà una non risposta: il Pesce marmo è quello, punto e basta.

Di questo, però, non c’è da stupirsi: la classificazione dialettale segue regole diverse da quella scientifica e distingue talvolta, quali specie a sé, anche pesci che nella classificazione scientifica sono riuniti sotto la medesima specie.

Non si tratta di un errore, bensì solo di una diversa accezione di specie: la specie scientifica non combacia perfettamente con quella della nomenclatura popolare, non tanto ed anzitutto per la classificazione che si porta dietro, ma nel suo stesso concetto, perché per il pescatore sono definitori della specie l’età e l’habitat, spesso considerati interdipendenti (vi è una scienza precisa che oggi studia la correlazione fra classificazione scientifica e popolare, anche se i passi da fare sono tanti: la Folkbiology).

Così, gli esemplari più piccoli di Cernia bianca, se ne verranno mostrate le foto ai pescatori otrantini, saranno designati col nome di Dòttu, forse seguito da qualche aggettivo, posposto al nome, al fine di distinguere la Cernia bianca dagli altri ‘dotti’.

Questo spiega quando, nel corso delle mie indagini, nonostante avessi esibito loro foto di tutte e sei le specie di Cernie, gli ultimi grandi pescatori otrantini non riconoscevano in nessuna di esse il Pesce marmo: il motivo è che avevo con me solo foto di Cernie bianche in stato giovanile.

Ma, oltre a questo, c’è da fare i conti con la rarità del pesce, ad Otranto, cui sopra accennavo, ed anche con una cultura popolare che si sta ormai sgretolando, sulla scia della crisi irreversibile della piccola pesca.

Innumerevoli pescatori del luogo, anche di grande esperienza, che pure ho intervistato, non erano neppure in grado di identificare il Pesce marmo, o perché, con grande onestà, dichiaravano di non averlo mai visto (Angelo Sammarruco), oppure perché, nel tentativo di rispondere, lo confondevano grossolanamente (in un caso, fu identificato con un esemplare estero, raffigurato in foto, di Cernia dorata; in altri, il pesce venne ricondotto addirittura a generi diversi e presentato come appartenente alla ‘famiglia’ dei Dentici o, anche, dei Merluzzi).

L’identità del Pesce marmo mi è stata svelata da Antonio Milo, detto Uccio Capoano, il più anziano pescatore otrantino di nasse, e da Franco Muoio, grande sommozzatore.

È stata la loro precisione, sono stati i ‘no’ con cui Uccio, Franco, ma anche Angelo, respingevano l’identificazione del Pesce marmo con tutti gli esemplari delle sei specie di Cernia presenti nel mio (assicuro, alquanto voluminoso) dossier di foto, che mi hanno spinto a non accontentarmi e, poi, un po’ per fortuna, un po’ per esclusione, un po’ per congettura, ad ipotizzare che il Pesce marmo potesse essere un esemplare adulto di Cernia bianca.

Dalla mia, però, avevo ancora un suggerimento prezioso, trasmessomi da Franco: il dettaglio della testa stondata, che non solo, un giorno, mi richiamò improvvisamente la motivazione alla base della nominazione Spunnanasse a Leuca, ma potei mettere in correlazione con un fenomeno largamente attestato negli Sparidi (in particolare nei Pagri e nei Dentici), per cui, per ragioni con ogni probabilità legate allo sviluppo delle funzioni predatorie, crescendo, la fisionomia tipicamente fusiforme della Cernia bianca si attenua a favore di una forma leggermente più arrotondata e con un caratteristico scalino fra la testa ed il muso: forma che potei verificare puntualmente in esemplari di grossa taglia.

Il nome di Pesce marmo è ormai quasi scomparso: è grazie a Uccio, Franco ed Angelo se queste pagine contribuiranno a sottrarlo dall’estinzione; ed a loro sono dedicate.

 

[1] Nonostante l’affinità del nome, diversa è la spiegazione che sta dietro al termine gallipolino di Mozzàcanasse, a mio avviso estremamente problematico, legato ad una pretesa azione di perforazione esercitata dal pesce dall’esterno delle nasse, allo scopo di mangiar i pesci ivi catturati.

Castro ed Otranto in una mappa del 1568

di Armando Polito

Reperibile all’indirizzo https://www.europeana.eu/portal/it/record/2022713/oai_rebae_mcu_es_176657.html?q=OTRANTO, la mappa è registrata col titolo Mapa de las costas del estrecho de Otranto en el mar Adriático y de las islas de Corfú, Fano, Maslera y Mathraki (Mappa delle coste dello stretto di Otranto nel mare Adriatico e delle isole di Corfù, Fano, Maslera e Mathraki) ed è così descritta: AGS. Secretaría de Estado, Legajos, 00540. Se conservaba en un atado y en la carpeta pone: “Flandes 1568. En este maço es algunos designos de plaças fuertes y de alojamientos del campo de su Md. en Flandes…”. Rotulación en italiano.Manuscrito sobre papel. Tinta y colores a la aguada azul y amarillo (Archivio Generale Spagnolo. Segreteria di Stato. Fascicolo 00540. Si conservava in un allegato nella cartella dal titolo: “Fiandre 1568. In questo fascicolo ci sono alcuni disegni di piazzeforti e di alloggiamenti del campo di sua Maestà nelle Fiandre …”. Etichettatura in italiano. Manoscritto su carta; dipinta ad acquerello con colori azzurro e giallo). Per quanto riguarda la provenienza la scheda registra Catálogo Colectivo de la Red de Bibliotecas de los Archivos Estatales (Catalogo collettivo della rete di biblioteche degli archivi statali).

Segue l’ingrandimento della parte inferiore sinistra corrispondente alla Terra d’Otranto.

Osservo anzitutto l’estrema regolarità (si direbbero quasi a stampa) di PONENTE, OTRANTO, PARTE D’ITALIA e C. DI S. MARIA (oggi Capo di S. Maria si Leuca), mentre il corsivo di Castro (oggi tal quale) e di La limina (oggi Laghi Alimini1) sottolinea la loro importanza secondaria rispetto ad Otranto.

Nelle immagini successive ho ulteriormente ingrandito, compatibilmente con la necessità di una lettura sufficiente, i dettagli relativi a Castro e ad Otranto perché, al di là della presumibile sintetica stereotipicità del segno convenzionale, è possibile cogliere fondamentali elementi caratterizzanti2.

Sarebbe, così, per esempio,  ancora più azzardato pretendere di fare un confronto addirittura con carte in scala larga o media, quale può essere, nel nostro caso, la pur coeva mappa di Otranto di Piri Reìs e identificare con la cattedrale il dettaglio in entrambe evidenziato con l’ellisse bianca.

 

Così avevo scritto e si leggeva come ora fino a qualche ora fa, quando con encomiabile tempestività il signor Michele Bonfrate, che qui ringrazio pubblicamente, mi ha fatto notare l’errore (ingiustificabile, neppure mettendo in campo l’ignoranza dell’arabo da parte mia) e inviato l’immagine correttiva che segue. Ho provveduto anche ad aggiungere all’inizio il link prima mancante, lacuna che nelle precedenti letture mi era sfuggita.  

 

 

Meno azzardato mi pare il confronto con un’altra carta, della quale fino a pochi mesi fa ignoravo l’esistenza3. Due delle numerose puntate ad essa dedicate su questo stesso blog riguardano proprio una Castro4 e l’altra Otranto5. Nel lasciare al lettore ogni sforzo  comparativo, mi limito a precisare che, mentre nelle carte nautiche6 i toponimi relativi ai centri più importanti sono, direi di regola, in rosso e gli altri in nero, in queste i toponimi sono in nero mentre i simboli rappresentanti le città sono in rosso, nonostante nella carta del 1568 l’elaborazione a cui l’ho sottoposta ha finito per alterare,soprattutto per il simbolo di Otranto, il colore originario.

 

____

1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/16/alimini-appunti-storia-del-toponimo/

2 Nonostante la difficoltà d’identificazione comparativa del singolo fabbricato in rappresentazioni distanti, non solo cronologicamente, di una città, segnalo per Otranto https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/

3 Sulle circostanze e sullo studioso che mi ha edotto sulla sua esistenza e stimolato ad occuparmene per la sezione relativa alla Terra d’Otranto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

6 Chi ha interesse in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/05/08/la-terra-dotranto-carta-nautica-del-1521/ troverà su tali documenti più di un link e, comunque, nella home page basterà digitare “carta nautica”.

 

Le quattro più antiche mappe a stampa di Otranto, forse … (3/?)

di Armando Polito

 

L’immagine si riferisce, dunque, alla fase iniziale dell’assedio e del relativo bombardamento da parte dei Turchi e trova una sorta di postuma didascalia nella memoria del 1537 lasciata manoscritta da Giovanni Michele Laggetto; una copia settecentesca del manoscritto (D/11, carte 10v-14r) è custodita nella biblioteca arcivescovile “A. De Leo” a Brindisi6. Da questo manoscritto (consultabile e scaricabile in http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209730&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU) ho tratto ciò che sembra essere l’esatta descrizione della nostra immagine (nella trascrizione ho sottolineato gli elementi descrittivi salienti).

Carte 11r-15v, passim

… pigliorono sotto vento della Città quasi un quarto di miglio per Scirocco in luoco, che si dicono Le Foggie Luoco coverto di Monte, molto commodo per disbarcare, facendo ivi subito un scaro [per scalo] tagliorono con piconi li scogli, e disbarcorno le genti, Cavalli, Artigliarie, e Munizioni, e così disbarcati i Turchi con suoni timpani, ed altre allegrie s’accostorno alla città, e con suoni di Ciaramelle s’incominciorono ad accampare le loro Tende, e Padiglioni

Padiglioni intorno alla Città.

Il Bassà poi che il campo fù assentato [per assettato] mandò un Interpetre, che i Turchi chiamano Iurìman, a fare intendere a i Capitani della Città, che esso era venuto con questa Armata, ed Esercito per ordine del suo Signore, che voleva la Città in suo dominio, e che se loro l’avessero voluta dare, e renderla liberamente, e di buona voglia

voglia senza combattere, che esso l’averia fatti liberi, e di poter andare con loro fameglie, mogli, e figli dove più ad essi  avesse piaciuto, e che se avessero voluto dare la Città sotto il dominio del suo Signore che l’avria molto ben trattati come gli altri sudditi, ch’anno a lor Paese. Fù risposto al predetto Bassà per il detto interpetre da tutti comunemernte ch’essi in nessun conto deliberavano dare la Città, anzi più presto volevano morire, che venire in questo atto della dezione, e che non volevano altro Signore di quello, che aveano; e per difensione della       Fede, e per il loro Signore volevano morire. E con queste, e simili parole in sostanza fecero li Capitani colli Cittadini con gran costanza d’animo per l’interpetre la risposta al Bassà, quale avuta, ed incrudelito nell’animo minacciando fuoco, fiamme, e ruina, distruzione e morte fece mettere in ordine la batteria in più parti della città; li Soldati, che v’erano dentro quasi tutti se ne fuggirono di notte calandosi colle funi dalle Mura, ma non restandoci altro solo che li Cittadini, quali facevano grand’istanza alli Capitani, che non 

che non si sbigottissero, ma che stessero saldi; e di buon animo di osservare la fedeltà; ed il simile faceano li Capitani, che non si sbigottissero i Cittadini, animandoli; ed animandosi l’uno, e l’altro alla difesa contro li nemici, di modo che d’un concorde volere per levare ogni sospezione pigliorono le chiavi della Città, e quelle presente tutto il Popolo, che lo vedesse e da sopra una Torre le buttarono in mare. Ora assattate le Bombarde da Turchi per la batteria incominciorno a battere la città da più parti; cioè dalla parte di Levante, da sopra un’alto [sic]dove erano certe calcare antiche distanti dalle Mura passi 30; ed un’altro nonte chiamato il Monte di S. Francesco per ponente distante passi 80; ed anche battevano dalla parte di Ponente da un luoco detto Rocca Murata, lontano dalla Città passi 20; però il primo colpo, che fù tirato fù di quella parte di Rocca Murata, e diede la palla in una finestra della Città, che stà alla strada di mezzo, ch’era  

ch’era della famiglia di Gaoti; ed andò scorrendo per la strada insino ad un luoco che si dice la piazzella, quasi mezzo la Città. Questa batteria facevano i Turchi con certe bombarde grosse di gran maraviglia, che parevano esser botti, ed erano di bronzo, ed altri [per altre] di ferro: e l’uno, e l’altro mettalo [per metallo] tiravano palle di pietra viva di smisurata grandezza, mettendoli dentro con ingegni, e le stesse palle menavano con mortali [per mortai] di molta grandezza. Le dette palle alcune erano di circuito di 10 palmi; alcuni di 8, altri di sei, e più, che ancora se ne vedono nella Città quantità, che tutte le strade ne sono piene di dentro, e di fuori alle rive del mare, benché i Signori Veneziani quando ebbero questa Città in pegno da Ferdinando ne portorno in Venezia una quantità le più belle , le più grosse, e le più maravigliose, quali posero ne i loro Arsenali per un trofeo, e memoria, ed erano di peso dette palle alcune di sei cantari l’una, alcune più, ed altre meno secondo

la grandezza, e volume loro, perche quando dette bombarde sparavano era tanto il terremoto, che pareva il Cielo, e la terra si volesse abissare, e le case ed ogni edificio per il gran terrore pareva ch’allora cascassero; tutti gli animali così aggresti, come domestici se n’erano per la gran paura fugiti [sic] dal territorio; e per l’aria non si vedevano Ucelli, per meraviglia usavano di più usavano certi strumenti chiamati Mortari, quali pur tiravano simili palle in alto verso l’aria spinte, parte della violenza della polvere, e poi cadevano dette palle in mezzo della Città, e sopra delle Case, talche non si poteva caminare per le strade, ne meno si poteva stare in casa onde si pigliò espediente di abbandonare le Case, e ridurre tutte le Donne, e figlioli nella Chiesa Maggiore, e sotto la Confessione, ed alcuni vecchi decrepiti insieme. Ma l’uomini di combattere sopra le Mura, e così continuorno di fare con quei strumenti bellici per più giorni di poco

tempo avanti. L’Avoli nostri ritrovati, e che l’antichità non ebbero stromenti veramente diabolici trovati senza alcun dubio del Diavolo per avere più commodità di mandare ad un tratto una infinità d’anime all’Inferno.

Venerdì matino all’Alba nel dì 12 Agosto avendone fatto una gran battaria [sic] alla cortina, quale viene da Levante verso ponente e il che aveva, e hà oggi la faccia in ostro, che è trà il Castello e la Torre e hà l’angolo verso Tramontana, dove era una porta, che si chiamava porticella; ed avendo pieno i fossi per il guasto dell’artiglierie da quella banda ordinavano che si sparasse tutta l’artigliaria senza palle, per non offendere a i loro, e con i fulmini, e con il fumo di detta artigliaria si mossero con gran impeto, e rumore d’urli, e di gridi, e con suoni di timpani e di tamburri turcheschi per entrare, dove trovarono il Capitano Francesco Zurlo con la sua compagnia di gente armata, e con un suo figlio che guardava il fuoco, e molti altri cittadini armati alla difesa, che resistevano più d’un’ora e mezza gagliardamente ributtando i Turchi, ed ammazzandono gran quantità, che ne …

Non conosco altra celebrazione scultorea della presa di Otranto se non quella dello Zimbalo (altare di San Francesco di Paola nella basilica di Santa Croce a Lecce; immagine tratta da http://www.salentoacolory.it/i-turchi-in-terra-dotranto/) successiva di  quasi due secoli all’immagine dell’assedio del 1486.

Al di là della coincidenza forse scontata di alcuni dettagli (la città sullo sfondo, le tende a destra) e della discrepanza cronologica (assedio in atto/assedio concluso), se la cronaca del Laggetto appare come lo sviluppo narrativo dell’immagine del 1486, di quest’ultima l’opera dello scultore leccese costituisce la trascrizione poetica.

Appuntamento alla prossima puntata, in cui riprenderò l’esame bibliografico ed iconologico dell’opera del Foresti.

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/31/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-2/

Le quattro più antiche mappe a stampa di Otranto, forse … (2/?)

di Armando Polito

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, in riferimento all’ipotetica imbiancatura, evocata nella prima puntata (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/) , che da qualche parte potrebbe nascondere una mappa di Otranto, debbo qui ricordare che nemmeno tale destino toccò, purtroppo, ad una pittura raffigurante Otranto eseguita dal pittore Calvano di Padova, una delle tante a lui commissionate da Alfonso II (duca di Calabria e liberatore, come vedremo, di Otranto dai Turchi) per decorare Villa Duchesca, sontuosa residenza preferita da sua moglie (Ippolita Maria Sforza), villa mai completata e ben presto abbandonata, fagocitata dalla speculazione edilizia fin dal secolo XVI e della quale oggi resta, come è avvenuto più lentamente per quella di Poggioreale,  solo il nome Duchessa. Del pittore e del dipinto nulla sapremmo se cedole di pagamento della cancelleria aragonese per gli anni 1487-1489 [grazie a N. Barone (Le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli dal 1460 al 1504 in Archivio Storico delle Provincie napoletane, IX, 1884 e a E. Percopo (Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in Archivio Storico delle Provincie napoletane, XVIII-XX, 1893-1895) perché i registri originali sarebbero andati distrutti dai bombardamenti del 30 settembre 1943] non ci informassero che il Calvano fu retribuito per la decorazione di Villa Duchesca dal 1487 al 1489, data in cui iniziò ad essere regolarmente stipendiato dalla corte, e che nell’agosto 1488 l’affresco di Otranto, sul quale stava, presumibilmente, lavorando da un anno, era terminato. Tenendo conto del committente, è plausibile immaginare che il soggetto fosse proprio la liberazione della città.

Sempre nella puntata precedente avevo scritto che a quanto mi risulta, al tempo delle quattro stampe in epigrafe, la cartografia ancora non aveva abbandonato i suoi primi timidi passi (anche per via dei costi fra disegnatori ed incisori) e avrebbe cominciato a farlo nel secolo successivo per lo più con mappe rappresentanti una parte di territorio ben più esteso di quello occupato da una singola città.

L’unica eccezione può essere considerata il Liber chronicarum, più comunemente noto come Cronache di Norimberga, di  Hartmann Schedel, pubblicato nel 1493, dove, accanto ad altre figure che possono essere considerate come le eredi delle miniature più complesse dei codici medioevali, compaiono anche vedute di città, considerabili come embrionali mappe.

Il corrispondente italiano, molto più modesto ma cronologicamente anteriore di un decennio, del Liber chronicarum può essere considerato il Supplementum Chronicarum del frate bergamasco Giacomo Filippo Foresti (1444-probabilmente 1520) dell’ordine degli Eremitani di S. Agostino. Di seguito documento la vicenda editoriale di quest’opera fornendo sempre la traduzione perché la parte testuale, pur non cambiando il contenuto, presenta nella forma numerose varianti.

Essa vide la luce per la prima volta nel 1483 a Venezia per i tipi di Bernardino Benali, come si legge nella sottoscrizione e nel colophon1 (in corsivo, qui e più avanti la mia traduzione).

Qui dunque porrò fine al Supplemento della storia che promisi che avrei tramandato con ogni verità. Mi sono poi sforzato [di tramandare] senza errori  le successioni dei re e dei principi, le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e l’origine delle religioni secondo quanto è scritto nei libri degli storici. Questo infatti mi ripromisi di fare all’inizio di quest’opera. L’opera poi fu completata da me nell’anno della nostra salvezza  1483 il 29 giugno nella città di Bergamo, per me nell’anno quarantonovesimo dalla nascita.

Quest’opera fu poi stampata nell’illustre città di Venezia da Bernardino Benali di Bergamo il 23 agosto dello stesso anno.

Questa prima edizione non solo non reca alcuna figura ma non contiene riferimento di sorta ad Otranto. La lacuna non è giustificata per la risonanza che gli eventi salentini, per quanto relativamente recenti, dovevano, giocoforza, aver avuto. Il Foresti, tuttavia, si fece subito perdonare.

La seconda edizione, infatti, uscì nel 1485 a Brescia per i tipi di Bonino Bonini (di seguito sottoscrizione e colophon2).

E così infine: qui col favore di Dio già propizio porrò fine al supplemento delle Cronache, [opera] che mi ripromisi di tramandare per la seconda volta con ogni diligenza e verità. In essa mi sono sforzato [di tramandare] senza errore le successioni di Re e di principi e le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e le origini delle Religioni secondo quanto è scritto nei libri degli storici. Questo infatti mi ripromisi di fare all’inizio di quest’opera. L’opera poi fu completata e di nuovo corretta e integrata da me il 22 novembre del 1485 dalla nascita di Cristo nella città di Bergamo nel cinquantunesimo anno dalla mia nascita, mentre erano direttori per noi nell’ufficio di generalato del nostro ordine il Maestro Silvestro di Bagnaria studioso di teologia e delle buone arti e nella nostra congregazione in Lombardia vicario generale il padre fratello Agostino da Crema predicatore egregio che per trentasei quaresime con grande vantaggio della religione e delle anime continuamente predicò e restaurò ed eresse molti Monasteri.

Stampato a Brescia da Bonino Bonini di Ragusa nell’Anno del signore 1485 il promo dicembre.

Anche questa edizione è priva di figure, ma contiene un riferimento alle note vicende otrantine del 1480, come appare nei dettagli delle carte 351v-352r:

Otranto, città marittima dell’Apulia, in questo anno [1480 stampato a margine in alto all’inizio della carta] fu all’inizio assediata a lungo dall’esercito di Maometto principe dei Turchi; alla fine viene sottomessa con infinite stragi e viene perciò saccheggiata da un esercito moltiplicato [la mancanza di difensori raddoppia la forza degli attaccanti]  [i Turchi]distrussero molte borgate,rubarono moltissimi animali e facendo scorribande tutto all’intorno arrecarono infiniti mali (mettendo tutto a ferro e a fuoco) al regno di Apulia; per questo Alfonso duca di Calabria che assediava la città di Siena fu costretto, abbandonato l’assedio, a ritornare a difendere le sue cose. E se Maometto non fosse stato tolto dal centro dello stato sarebbe stata la rovina non solo della provincia di Apulia ma di tutto il regno e di tutta l’Italia. [Sia]benedetto per tutto Dio che non solo ha rimesso a noi i nostri peccati. Morto così l’Imperatore dei Turchi il duca Alfonso di Calabria con molte stragi inferte e subite cinse la città di valido assedio. I Turchi poi alla notizia della morte del loro principe avendo perso la fiducia di poter difendere la città, salve le loro cose, si consegnarono ad Alfonso che entrato in città trattenne tutto e rese i Turchi suoi schiavi. 

Del 1486 è la terza edizione ( la prima illustrata), uscita a Venezia ancora per i tipi di Bernardino Benali (di seguito sottoscrizione e colophon)3.

E così infine con l’aiuto e il favore di Dio porrò fine ormai per la terza volta al supplemento delle cronache, [opera] che una volta e due e tre promisi che con ogni diligenza e verità avrei realizzato; in essa ora e sempre mi sono sforzato di scrivere senza errore la successione dei re, e di tutti i principi e le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e le origini delle religioni, nonché la sequenza di tutti i pontefici come risulta dai libri degli scrittori di storia. Perciò mi ripromisi di fare questo all’inizio di quest’opera. L’opera fu da me completata e di nuovo corretta ed integrata il 15 ottobre nell’anno 1486 dalla nascita di Cristo nella nostra città di Bergamo, nell’anno cinquantaduesimo dalla mia nascita.

Stampata poi a Venezia da Bernardino Benali di Bergamo nello stesso anno, cioè il 1486, il 15 dicembre).

Dettaglio della carta 289v:

Otranto città della Magna Grecia.

Otranto città dell’Apulia, assediata a lungo dall’esercito di Maometto principe dei Turchi e di altri,  in questo anno dopo infinite stragi di uomini viene presa, saccheggiata e deturpata, devastando i Turchi con il loro esercito moltiplicato molte borgate e apportando molti mali alla regione  dovunque all’intorno con le loro scorrerie. Mettendo anche tutto a ferro e a fuoco posero tutto il regno in grandissimo pericolo e se il loro imperatore Maometto non fosse stato tolto subito di mezzo c’era da credere che il pericolo avrebbe coinvolto non solo il regno di Apulia ma tutta l’Italia. Perciò anche (sia) benedetto per tutto Dio che nel comportarsi con noi non tenne conto dei nostri peccati. Per questo Alfonso duca di Calabria che allora assediava Siena città dell’Etruria, avendone avuta notizia, sciogliendo l’assedio dal luogo affrettandosi con l’esercito in Apulia cominciò a difendere il suo interesse. In verità appena morto l’imperatore dei Turchi lo stesso Alfonso subito cinse la città con uno stretto assedio. Ma i Turchi, avuta notizia della morte del principe, disperando di poter difendere la città mantenendo integre le loro cose si arresero ad Alfonso. Egli entrato in città s’impossessò di tutto e ridusse i Turchi a suoi schiavi.

Anche se il mio scritto ha un taglio esclusivamente iconologico e bibliografico e non ha alcuna pretesa di ricostruzione storica degli eventi, l’immagine del 1486 può a buon diritto avere valenza di fonte e merita, perciò, che su di essa io spenda qualche parola.

Una bombarda (A) e sei mortai4 [dei quali tre in batteria (B), due da soli (C) ed  uno parzialmente montato (D) collocati sulla loro base di legno] spiccano in primo piano; a destra un gruppo di tende di foggia chiaramente orientale (E). Le mura delle città mostrano in più punti (F) gli ingenti danni procurati dall’artiglieria nemica. Sulla torre di destra sventola la cornetta (G).

 

CONTINUA

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/

_______________

1 Immagine tratta da http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000058396&page=1, dove l’opera è integralmente consultabile (questa opportunità vale per ogni altro link di seguito segnalato per le altre edizioni). Riguardo a questa edizione è interessante, per comprendere i rapporti autore-editore dell’epoca quanto scrive Girolamo Tiraboschi in Storia della letteratura italiana, Bettoni & c., Milano, 1833, v. II, p. 556 (https://books.google.it/books?id=UtlaAAAAcAAJ&pg=PA556&dq=filippo+foresti&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi-ur6AnNHJAhUBXBoKHfShCBY4KBDoAQhNMAk#v=onepage&q=filippo%20foresti&f=false)

2 Immagine tratta da http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0006/bsb00067922/images/index.html?id=00067922&groesser=&fip=xsyztsewqxdsydxsxseayayztsfsdr&no=40&seite=774. Di questa edizione la Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò custodisce un esemplare. 

3 http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0004/bsb00040458/images/

4 Sono ben distinguibili in ogni mortaio la parte posteriore, di minore diametro ma più lunga (detta cannone o gola), contenente la carica di polvere da sparo, e la anteriore, di maggior diametro e più corta (detta tromba), contenente il proiettile, di solito in pietra ma talora anche in metallo. Contando come unitaria la batteria da tre pezzi c’è una singolare coincidenza numerica con quanto riportato nel presunto scritto in latino del Galateo e pubblicato in estratto nella traduzione di Michele Martiano col titolo Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480 per i tipi di Lazzaro Scoriggio a Napoli nel 1612 (integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=OeViAAAAcAAJ&pg=PP11&lpg=PP11&dq=Successi+dell%27armata+turchesca+nella+citt%C3%A0+d%27Otranto&source=bl&ots=W9FTmVtEjs&sig=U0MP9VXjBHWIwzlq_rXr1YmBMIw&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj_27jR_MvJAhVItBQKHYjpBMgQ6AEIIzAB#v=onepage&q=Successi%20dell’armata%20turchesca%20nella%20citt%C3%A0%20d’Otranto&f=false), p. 4: … quindi accostati li Mahoni [ imbarcazioni per il trasporto di cavalli, artiglierie e vettovaglie] furono sbarcati li cavalli, e nel seguente giorno, che fù alli XXV di Luglio, messo in punto l’essercito, con ordine militare se inviaro verso Otranto; e riconosciutolo di fuori, conobbero, che per la profondità de’ fossi, conveniva, senza tentar altra fortuna, batter prima à terra le sue mura, il che facendosi con cinque ben grossi pezzi, per spatio di dieci giorni , né in questo tempo rallentando mai l’ordine, furono fatti in più luoghi del muro larghissime entrate …

Le quattro più antiche mappe a stampa di Otranto, forse … (1/?)

di Armando Polito

Nel titolo il punto interrogativo vale come avviso al lettore che il numero delle “puntate” non è al momento quantificabile e che esso sarà sciolto solo con l’uscita dell’ultima parte; l’avverbio forse, invece, ha la sua ragion d’essere non tanto nel fatto che in qualche sperduto, impolverato e ammuffito manoscritto o sotto qualche sciagurata (ma nello stesso tempo provvidenziale: l’ossimoro più caro a chi studia il passato) imbiancatura a calce potrebbe celarsi qualche mappa della cittadina salentina (perciò ho specificato a stampa) ma, piuttosto, nel considerare che, a quanto mi risulta, al tempo delle quattro stampe in epigrafe, la cartografia ancora non aveva abbandonato i suoi primi timidi passi (anche per via dei costi fra disegnatori ed incisori) e avrebbe cominciato a farlo nel secolo successivo per lo più con mappe rappresentanti una parte di territorio ben più esteso di quello occupato da una singola città.

In considerazione di quanto appena detto le quattro immagini sono per il momento da considerarsi come un messaggio promozionale o, se preferite, pubblicitario, quello che nel gergo cinematografico si chiama trailer. Il lavoro è già pronto ma uscirà solo se un numero adeguato di lettori manifesterà la voglia di fare insieme questo viaggio, invitandomi con un semplice vai!. Sono consapevole del rischio che corro con la proposizione finale che potrebbe essere sottintesa …, come anche del fatto che questa mia scelta, che formalmente ricalca pure quella politica dell’annunzio, potrebbe apparire come una forma di sadismo culturale, meno dannoso, comunque, del sensazionalismo divulgativo di certi servizi televisivi … Voglio illudermi, comunque, che dall’altra parte non ci sia un numero dominante di masochisti, sempre culturali, e che il viaggio possa, perciò.  cominciare al più presto …

Aggiornamento del 31/8/2017: il viaggio, grazie al vostro incoraggiamento, è iniziato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/31/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-2/).

Ancora sulla carta aragonese di Otranto e dintorni

di Vanni Greco

 

Mi associo ai commenti soddisfatti per l’ampia partecipazione alla comune riflessione sulle carte, che ci confermano come la chiave per il coinvolgimento delle persone stia sempre in una felice combinazione di stimoli colti e popolari insieme che, quando opportunamente curati, si affrancano dai rispettivi rischi, assai frequenti, di esclusività elitaria e di becera faciloneria.

Un buon lavoro coordinato da Armando Polito che il Prof. La Greca, che ringraziamo ancora, ha voluto cortesemente onorare riservandoci la sua attenzione.

Provo qui ad offrire un nuovo contributo al dibattito sulla datazione dopo aver cercato qualche approfondimento direttamente sia attraverso il coinvolgimento della dott.ssa Antonella Candido che ringrazio per la considerazione che ha mostrato per il nostro lavoro e, soprattutto, per il contributo professionale che ci ha dato, oltre che per avermi autorizzato a render noto il suo punto di vista.

Rispetto alla chiesa di S. Eligio non ho, purtroppo, novità significative. Una delle prime narrazioni organiche dei fatti di Otranto è forse la Historia del Laggetto[1], canonico e giureconsulto otrantino, venuto a conoscenza dei fatti di cui narra attraverso il racconto del padre testimone oculare, il quale riporta che il duca Alfonso:

« la prima cosa che fece dopo venuto andò a visitare quei beati corpi uccisi, che stavano di tanto tempo sopra la terra nel Monte della Minerva, …costrinse tutti quei Signori che erano ivi presenti a lacrimare; ordinò che fussero discesi dal Monte, e fussero portati dentro una chiesa, quale era appresso il Pozzo della Minerva al piano; Così fu fatto dove stiedero poi fino alla recuperazione della Città.»

Poiché Daniele Palma[2] colloca la datazione dell’opera del Laggetto tra 1544 e 1571, si sarebbe tentati di affermare che ancora fino a questi anni la chiesa di S. Eligio non esistesse.

Una testimonianza di due secoli successiva (1751) è quella di Francesco D’Ambrosio, sacerdote di Castiglione, frazione di Andrano, che nel suo Saggio[3] riporta:

«Nel 1481, ritornato la seconda volta Alfonso all’assedio della Città di Otranto, …ordinò, che con tutta l’attenzione, e riverenza fussero trasferiti, e collocati in una Chiesa detta del Fonte della Minerva sita alle radici dello stesso monte, come si disse nel cap. 9 del 2. Lib. Oggi la detta Chiesa va sotto il titolo di S. Eligio, ed è titolo di Canonicato.

La seconda Traslazione successe, dopo che i turchi resero ad Alfonso la Città: e questa per esser stata una solennissima funzione, …con ordine di Sisto IV radunati i Vescovi suffraganei, ed i Sacerdoti della Diocesi, e delle vicine Città coll’intervento dell’Arcivescovo di Brindisi, il quale celebrò tal solenne funzione, furono trasferiti dalla Chiesa di S. Eligio nella Metropolitana, cioè nell’Oratorio di basso; essendo stato prima riconciliato, e benedetto, perché profanato da’ Turchi.

Non saprei dire se il D’Ambrosio sia stato il primo a fare il nome della Chiesa di S. Eligio, certo è che nulla chiarisce sul possibile anno di titolazione. In attesa che emergano altre fonti, potremmo affidare le nostre speranze ai documenti dell’Archivio storico diocesano di Otranto e a qualche generoso collaboratore o studioso dello stesso.

Una seconda pista, per così dire di natura più creativa, verso la datazione della carta mi ha portato a considerare che la densità urbanistica delle diverse località riportate non fosse generica, ma piuttosto rispondente alla realtà dell’epoca di rilevazione. In questo senso, ho trovato conferma che le mappe siano disegnate con grande cura per i dettagli in un articolo di Antonio Capano[4] che si occupa del territorio potentino rappresentato nelle carte aragonesi: «…più case intorno ad un campanile sormontato da croce, o intorno ad una chiesetta a pianta rettangolare, con tetto a doppio spiovente e campanile; sono visibili la facciata ed uno dei lati, con un accenno di porte e finestre. Considerando il numero degli elementi disegnati, in particolare le case, è abbastanza evidente che il cartografo intendeva in tal modo dare un’indicazione, sia pure sommaria, sul numero degli abitanti di ciascun insediamento, forse in base ad un elenco di “fuochi” o di famiglie di cui disponeva; come è noto, fu Alfonso I d’Aragona ad attuare per primo i censimenti della popolazione del Regno di Napoli con il sistema della numerazione dei focolari, a partire dal 1443. Forse la mappa poteva essere usata anche come guida per gli addetti ai censimenti dei fuochi, i “numeratori delli fuochi”. I toponimi con i valori più bassi, da 1 a 4 elementi, solitamente indicano santuari, monasteri o località di interesse religioso e, invece del solo campanile, troviamo il disegno schematico di una chiesa. Le Città fortificate, …sono rappresentate a volo d’uccello da una cerchia di mura turrite, e/o con una rocca o castello che sovrasta il paese, con numerose case addensate all’interno. Sono anche le più importanti dal punto di vista militare».

Città fortificata era anche la nostra Otranto.

Essendomi imbattuto, nel corso delle mie ricerche, nella documentata tesi di laurea su “Le Mura e il Castello di Otranto” della dr.ssa otrantina Antonella Candido, non ho resistito alla tentazione di contattarla (grazie alla cortese e preziosa mediazione di Marcello Gaballo e Marcello Semeraro) per avere un suo punto di vista specialistico sulla descrizione di Otranto riportata dalla mappa, nella quale si riconosceva la cittadella protetta da mura, torri e torrioni. Anticipo che la mia ipotesi non è risultata poi così peregrina. Con il mio ringraziamento, ecco la sintesi delle sue risposte alle mie domande, idee e obiezioni:

«Supponendo che la mappa sia stata disegnata con fedeltà alla realtà, tenderei ad escludere con certezza una datazione a metà ‘500 e ancor meno successiva. Mancano, infatti, del tutto i tre bastioni poligonali che a partire dal 1540 vennero man mano aggiunti all’impianto iniziale della fortificazione.

Escluderei anche il periodo precedente all’attacco turco, in quanto è già presente abbastanza chiaramente la successiva struttura aragonese dell’impianto murario, con rondelle circolari e merlate in cima e addirittura la doppia rondella della Porta Alfonsina (quella visibile al centro delle mura della parte ovest). Inoltre, gli studi fatti finora, nonché le poche fonti scritte, tendono ad escludere un impianto murario aragonese prima del 1481.

Secondo il mio parere questa mappa dovrebbe essere del periodo immediatamente successivo alla primissima ricostruzione del castello e delle mura da parte di Alfonso d’Aragona. Quindi, in un lasso di tempo che andrebbe dal 1482 al 1540 massimo quando fu effettuata anche la nuova fodera delle mura da parte di Carlo V, che qui non sembra esserci. Si può notare infatti la struttura abbastanza squadrata del castello, con le quattro rondelle ad ogni lato, tipica del primo impianto, ma soprattutto la presenza di un paio di torri non tondeggianti ma squadrate, che è possibile appartenessero all’impianto precedente (o vestigia addirittura più antiche inglobate nella struttura di epoca federiciana) e che furono forse inizialmente incorporate nel nuovo progetto aragonese. Come conferma, invito a notare la forma delle rondelle sulla mappa, che sono raffigurate non in maniera verticale e quindi perfettamente dritta (com’erano invece costruite in epoca federiciana), ma risultano rastremate verso l’alto, secondo la tipologia aragonese di costruzione, che prevedeva un toro marcapiano a metà della torre che segnava anche un cambio di inclinazione delle pareti esterne.

Un’ulteriore prova che la mappa possa essere riferita al periodo dopo la riconquista aragonese e non prima può sicuramente essere la stessa grandezza della città e delle mura urbiche: la città risulta molto piccola e pressoché ridotta all’interno della “cittadella”. Prima della conquista turca infatti la città contava quasi 5.000 abitanti (all’incirca la popolazione attuale) ed era estesa in un’area molto più ampia di quella della mappa. Tant’è che si parla per il periodo precedente addirittura di tre circuiti murari, uno che racchiudeva la cittadella appunto (quella visibile sulla mappa), uno che racchiudeva la cosiddetta “città bassa” e infine un circuito esterno formato esclusivamente da torri di vedetta. Anche il Galateo descrive la cinta muraria otrantina, al momento dell’attacco turco, come molto imponente, dotata di profondissimi fossati e di mura. Subito dopo la presa turca la città e la popolazione decimata non resero più necessario il circuito murario esterno, riducendo così la sua area al solo “centro storico” attuale.

In definitiva, rispetto alla datazione propenderei per l’ultimo decennio del XV secolo, soprattutto se il possibile autore, il Pontano, era molto attivo proprio in quegli anni e al seguito di Alfonso d’Aragona sul quale, durante le mie ricerche, sono giunta alla conclusione (forse solo una suggestione) che fosse molto fiero del lavoro di fortificazione svolto ad Otranto quando ancora non era sovrano e che quindi avesse deciso di inserire nelle mappe del tempo la nuova fortificazione di cui aveva dotato la città.»

Si trova conferma, quindi, a quanto autorevolmente sostenuto dal Prof. La Greca che richiama un’elaborazione della mappa in fasi successive a partire dalla fine del Quattrocento fino alla metà del Cinquecento e che però, grazie al presente contributo della dr.ssa Candido, forse possiamo limitare al 1540.

Tuttavia, a mio giudizio, rimarrebbe da chiarire anche il riferimento al Pontano, che già in un mio precedente intervento ho provato a collocare temporalmente, che penso meriterebbe una precisazione ulteriore rispetto all’attribuzione che viene fatta a lui di tali mappe, in qualità di autore o, più verosimilmente, di coordinatore del progetto complessivo.

In conclusione, ci stiamo avvicinando alla meta, ma c’è ancora del lavoro da fare. E noi, non rinunceremo a cercare ancora.

 

[1] Giovanni Michele Laggetto, Historia della città di Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini. Scoperto nell’archivio della chiesa metropolitana il 3 aprile 1660, fu pubblicato, per la prima volta, a Maglie nel 1924 nella trascrizione dei can. Luigi Muscari e ripubblicato, a cura di Antonio Antonaci, nel volume Otranto. Testi e documenti, Galatina, 1955.

[2] Daniele Palma, L’autentica storia di Otranto nella guerra contro i Turchi, Kurumuny, 2013.

[3] Francesco D’Ambrosio, Saggio istorico della presa di Otranto e stragge de’ Santi Martiri di quella Città successa nel 1480, Napoli 1751, Libro Terzo, Delle varie traslazioni dei Santi Martiri, Cap. 1, pagg. 117-119.

[4] Antonio Capano, La provincia di Potenza nelle carte aragonesi della seconda metà del XV secolo, in Basilicata Regione Notizie, N. 131-132, 2013, pag. 156-178.

Otranto e dintorni in una carta aragonese del XVI secolo

di Armando Polito

Caccumoli sopr(ana):  oggi Cocumola

Caccumoli sot(tana) dir(uta)

Casale delle Fantanelle: da leggere Fontanelle; ha dato il nome ad un agriturismo sulla strada provinciale 366 Otranto-Alimini. Fontanelle nelle carte di Ianssonius e del Bulifon (XVII secolo):

Casa Massella: oggi Casamassella

Corfiniano: oggi Cerfignano

Fanale della Serpe: oggi Torre del Serpe. Si ritiene che la prima costruzione risalga al periodo romano e fungesse da faro. Fu restaurata in età federiciana. Il toponimo è legato ad una leggenda narrante di un serpente che ogni notte saliva sulla torre per bere l’olio che alimentava la lanterna del faro. Un’altra leggenda, probabilmente più recente, narra che, pochi anni prima della presa di Otranto nel 1480, i Saraceni avevano già tentato di prendere la città ma l’impresa era fallita perché il serpente, bevendo l’olio, aveva provocato lo spegnimento del faro.

Jordiniano: oggi Giurdignano

Porto2 badiscio: il successivo Porto fondo fa pensare ad un nucleo abitato del vicino entroterra.

Porto fondo: oggi Porto Badisco; il toponimo aragonese sembra quasi una nota etimologica, una sorta di traduzione dal greco βαθύς (leggi bathiùs), che significa profondo. Il riferimento sarebbe a prima vista al mare e in tal caso bisogna ipotizzare che la parte finale di Badisco sia il suffisso –ίσκος (leggi –iscos) con valore diminutivo; in tal caso l’allusione sarebbe alla modesta profondità del mare. Tuttavia, proprio il badiscio della carta aragonese apre la possibilità che il nome derivi dal greco βαθύσκιος  (leggi bathiùschios) composto dal ricordato βαθύς e da σκιά (leggi schià) che significa ombra, per cui il riferimento sarebbe alla folta vegetazione, di cui abbiamo un indizio nel in Girolamo Marciano (1571-1628) che, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, opera usscita postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855, dove, a p. 375 si legge: Vadisco è piccola ed amenissima valle vestita di oliveti, dalla quale trascorrono nel mare alcuni ruscelli di acque ov’è il Porticciolo, ricovero di piccoli vascelli. E subito dopo cita un passo del De situ Iapygiae del Galateo: Quarto ab Hydrunto lapide convallis parva, attamen amoenaissima et oleis consita est, quam incolae pomarium nuncupant; per hanc rivulis acqua decurrit. Haec pusillum portum efficit, quem ideo Vadiscum incolae dicunt; parvarum navicularum statio est (A quattro miglia da Otranto c’è una valle piccola ma amenissima e ricca di olivi, che gli abitanti chiamano frutteto; attraverso questa valle l’acqua scorre a ruscelli. Essa forma un piccolo porto un piccolo porto che perciò gli abitanti chiamano Vadisco; è riparo di piccole navicelle).

S.a M(aria) del Soccorso. Attendo notizie.

S.ta Pelagia: oggi Punta Palascìa; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/27/antonio-maria-il-pescatore-etimologo-di-punta-palascia/

S.to Emiliano: oggi Torre di S. Emiliano. La mappa mostra, come già in altri casi, un nucleo abitato in corrispondenza del toponimo e la torre distante sulla costa. È legittimo pensare, quando ciò succede con l’implicazione del nome di un santo che il nucleo abitato ne abbia tratto il nome per motivi devozionali che intuitivamente si perdono nella notte dei tempi e in epoca successiva l’abbia trasmesso alla torre. Se tutto ciò corrisponde al vero la mappa costituirebbe una sorta di ibrido sospeso tra il passato e il presente, Molto più, insomma, di quello che s’intende per carta storica.

S.to Francesco: oggi Convento dei Cappuccini. (vedi nei commenti)

S.to Stephano: l’attuale Torre di S. Stefano presenta un’ubicazione in corrispondenza orizzontale sulla costa per cui quella che si nota in basso probabilmente è frutto di un errore di rappresentazione. 

Torre [di] Coccoruccio. Nelle carte di Hondius,  di Magini e di Ianssonius (XVII secolo) Torre di Cocorizzo.

  

Nella carta di Bulifon (XVII secolo) Torre di Coccorizzo

Nella carta del De Rossi (1714), aggiornamento di quella del Magini, la torre e il toponimo sono assenti. Cocoruccio, Cocorizzo e Coccorizzo potrebbero essere italianizzazione  del salentino cucuruzzu (Cicirizzu è pure il nome di una località nel territorio di Nardò) che indica l’insieme di pietre che dopo il dissodamento del terreno venivano sistemate in un cumulo conico. Se è cosaì il nome della torre potrebbe essere connesso con la sua forma oppure con la sua dislocazione nel punto più alto del promontorio. Di essa, comunque, oggi non v’è traccia.

Torre della Vecchia: oggi Torre di Specchia di guardia)

Torre di S. Cesarea: oggi S. Cesarea terme

Torre Pelagia: vedi Santa Pelagia e il relativo link.

Torrione di Orte: oggi Torre dell’Orte o dell’Orto

Ugiano: oggi Uggiano la Chiesa

E siamo al caso disperato che non a caso ho lasciato per ultimo:

Il nunc S.to Eligio (?), che mi pare di poter leggere nel secondo rigo, grazie al nunc (ora) ci fa intuire che il primo rigo reca la forma antica del toponimo, che, per quanti sforzi abbia fatto, anche con l’ausilio delle carte precedentemente usate per la comparazione degli altri e con gli strumenti messi a disposizione dai migliori programmi di grafica, non sono riuscito a decifrare a causa dellevidente degrado del supporto. Chiudo con la speranza, ormai ricorrente, che ci riesca qualcun altro. (vedi nei commenti)

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

___________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

2 Anche se appare scritto Porta.

Bandiere Blu 2016. Il mare del Salento è sempre più blu

 

Torre dell'Orso, Melendugno
Torre dell’Orso, Melendugno

 

di Giuseppe Massari

Castro, Otranto, Melendugno e Salve hanno ricevuto per il 2016 l’ambito riconoscimento assegnato dalla Fondazione Europea per l’Educazione Ambientale. Il Programma Bandiera Blu, comunque, premia tutte quelle località marine che si sono impegnate nella promozione del territorio a salvaguardia dell’ambiente, secondo criteri di assegnazione che vanno dalla qualità delle acque di balneazione, alla depurazione di quelle reflue, passando per la facile accessibilità alle marine fino alla gestione dei rifiuti.

Veterana della classifica da oltre un decennio, Otranto si riconferma come uno dei borghi marini più attrattivi del Salento, un riconoscimento che il sindaco Luciano Cariddi commenta così: È la conferma di un lavoro portato avanti da tutta la città. Posso dire però che non ci sentiamo appagati: c’è ancora molto da fare nel settore dei rifiuti, ad esempio. Un ambito in cui l’amministrazione può agire fino a un certo punto, poi tocca ad altri enti .

BAIA DI PUNTA DELLA SUINA, GALLIPOLI, PUGLIA

Stessa soddisfazione aleggia intorno alle parole del sindaco di Melendugno Marco Potì, che è gonfio di orgoglio per il premio ottenuto dalle marine di Torre dell’Orso, Roca e San Foca, le quali possono vantare di aver conquistato, contemporaneamente, la Bandiera Blu, le Cinque Vele e la Bandiera Verde.

Anche Castro non nasconde la sua soddisfazione per la gratificazione alla propria qualità nei servizi.

Ma il Salento nel suo insieme, inteso come penisola salentina, comprensiva delle province di Brindisi e Taranto, può vantare analoghi riconoscimenti per le spiagge e le marine di Fasano, Ostuni e Carovigno e per Ginosa e Castellaneta.

Nove comuni in tutto, su gli 11 pugliesi, tra i quali Polignano a Mare (nona bandiera consecutiva), l’unico in provincia di Bari, e Margherita di Savoia, comune solitario nella Barletta-Andria-Trani.

Grotta della Zinzulusa, Castro
Grotta della Zinzulusa, Castro

In definitiva, la Puglia alza le sue 11 bandiere conquistate l’anno scorso. Con una sola eccezione e un avvicendamento: esce Monopoli ed entra Carovigno. L’auspicio, per il prossimo anno, è che i vessilli aumentino e che la Puglia si confermi nel suo primato di qualità balneare e balneabile.

Gli stemmi dell’antico palazzo Rondachi di Otranto

 Presentazione

di Marcello Semeraro e Antonella Candido

 

L’identificazione di stemmi anonimi presenti su edifici, affreschi e manufatti è un esercizio molto importante non solo per l’araldista, ma anche per lo storico dell’arte. Le insegne araldiche, infatti, sono tra pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) e un “contesto” all’opera su cui sono riprodotte. Questo più ampio e proficuo approccio nell’interpretazione dei segni araldici manifesta tutta la sua validità scientifica nel caso degli stemmi scolpiti sui resti dei parapetti di due balconi monumentali conservati all’interno del castello aragonese di Otranto.

Come vedremo, l’analisi storico-araldica delle insegne ha consentito di gettare una nuova luce sulle origini e le vicissitudini edilizie dello storico palazzo idruntino di via Rondachi sul quale un tempo erano collocati i balconi.

Per comodità di esposizione, preferiamo iniziare la disamina partendo dal parapetto quasi integro che fa bella mostra di sé nella sala rettangolare del castello (fig. 1).

Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale
Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale

 

Il manufatto è formato da nove lastre rettangolari in pietra locale, scomposte e allineate su una pedana. Sulle sette lastre centrali si ammirano decorazioni in bassorilievo recanti sette busti maschili e femminili in maestà, ognuno dei quali è racchiuso da un serto di alloro, tipico corollario dell’iconografia celebrativa. Sulle due lastre laterali, decorate a traforo, campeggiano due scudi sagomati con contorni mistilinei, di foggia diversa, databili al XVI secolo. Purtroppo, come spesso avviene, e contrariamente a quanto doveva essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di smalti. Il primo esemplare mostra una colonna con base e capitello, sostenente un putto che impugna con la mano destra una croce latina (fig. 2); il secondo reca nel primo quarto lo stesso stemma, benché stilisticamente diverso, partito con un altro raffigurante un albero nodrito1 su un ristretto di terreno2, movente dalla punta dello scudo (fig. 3).

Fig. 2
Fig. 2. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma
Fig. 3
Fig. 3. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma di alleanza matrimoniale

 

Quest’ultimo esemplare partecipa evidentemente delle caratteristiche dell’arme di alleanza matrimoniale: a destra (sinistra per chi guarda) le insegne del marito, a sinistra (destra per chi guarda) quelle della moglie. Il balcone appare nella sua interezza in una riproduzione fotografica realizzata nel primo decennio del Novecento (1910 ca.) dai fratelli Alinari, dalla quale si evince che esso dominava il prospetto di casa Carrozzini e che gli stemmi erano posizionati ai lati del parapetto (fig. 4).

Fig. 4
Fig. 4 – Balcone di casa Carrozzini, Otranto ca. 1910, stabilimento tipografico dei fratelli Alinari (Archivi Alinari, Firenze)

 

Altre foto d’epoca con altri particolari del suddetto edificio sono contenute fra le illustrazioni del secondo volume del Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli3, pubblicato nel 1912 (fig. 5).

Fig. 5
Fig. 5. Balcone di casa Carrozzini (dal Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli, foto Perazzo).

 

Tuttavia, nessuno dei due stemmi poc’anzi descritti corrisponde all’arme portata dalla famiglia Carrozzini, la quale sia nella versione blasonata dal Montefusco (“un cervo che tira un carro su cui è inginocchiato un uomo nudo con le mani giunte; il tutto sulla pianura erbosa”4), sia in altre varianti lapidee attestate a Soleto, differisce per la presenza di un emblema parlante5 costituito da una carrozza o da una sua parte (la ruota). Ciò significa che la committenza del balcone deve essere ricercata necessariamente altrove. Va premesso che l’identificazione dei titolari si è rivelata un’operazione particolarmente difficile, sia per la scarsità di fonti storiche su questo edificio, sia perché il contenuto blasonico degli stemmi non è facilmente ascrivibile a famiglie note. In casi di questo genere, le ricerche mediante collazione sulle fonti più specificamente araldiche (gli stemmari) possono rivelarsi fruttuose. E così è stato per il primo stemma e per il primo quarto del secondo, mentre si possono formulare solo delle ipotesi a proposito del secondo quarto del partito. Nel celebre Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, lo storico e araldista Amilcare Foscarini descrive un’arme identica, attribuendola ai Rondachi: “una colonna con base e capitello su cui sta un puttino ignudo che impugna colla destra una croce”6. Lo stesso blasone viene riportato nello Stemmario di Terra d’Otranto di Luigiantonio Montefusco7. In entrambi i casi non si hanno indicazioni sulla cromia delle figure e del campo.

I Rondachi furono una nobile famiglia idruntina di origini greche, annoverata fra le più illustri della città dallo storico Luigi Maggiulli8 ed estinta nella seconda metà del Seicento9. Fra il XVI e il XVII secolo la casata possedette vari feudi in Terra d’Otranto, tra i quali vanno ricordati Casamassella, Castiglione d’Otranto, Giurdignano, una quota dei laghi Alimini, Serrano e Tafagnano10. Un Domenico, vissuto nel XVII secolo, fu canonico della cattedrale di Otranto oltre che dotto nelle scienze e nelle lettere11.

Fra le famiglie nobili di Otranto, i Rondachi non furono comunque i soli a vantare un’origine ellenica giacché essa è attestata anche per altre schiatte come i Leondari, i Morisco e i Calofati12. Resta da capire, dopo aver identificato la famiglia di provenienza dello stemma in esame, a quale singolo personaggio detta arma apparteneva. Sfortunatamente non è stato possibile raggiungere questo obiettivo a causa soprattutto della difficoltà di stabilire, sulla base delle fonti a nostra disposizione, dei precisi riferimenti storico-genealogici sui vari membri di Casa Rondachi.

Ancora più problematica risulta essere l’identificazione dello stemma muliebre rappresentato nel secondo quarto dell’arma di alleanza matrimoniale, allusivo, come abbiamo visto, alla consorte di un Rondachi. Ciò dipende da una serie di limiti oggettivi a cui lo studioso va incontro nella lettura dell’arme, legati sia alla composizione araldica in sé, che si presenta acroma e generica nella sua figura principale – il termine “albero” è stato non a caso usato perché non se ne conosce la specie – sia alla lacunosità delle fonti con cui poter fare un raffronto. Va osservato, a tal proposito, che fra tutte le famiglie nobili e notabili idruntine riportate dal Maggiulli e dal Foscarini, solo di alcune di esse si conosce il blasone13.

Fra queste ultime, soltanto i Cerasoli (“d’argento, al ciliegio di verde”14), i Pipini (“d’azzurro, alla quercia al naturale, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro”15) e i Dattili (“d’azzurro, alla palma di dattero d’oro, accostata da due stelle dello stesso”16 ) innalzavano un albero come figura principale, ma nessuno dei tre blasoni, nel suo complesso, sembra corrispondere a quello in argomento. Il quadro risulta ulteriormente complicato dal fatto che, come abbiamo poc’anzi ricordato, non disponiamo di solide fonti storico-genealogiche sui vari esponenti di Casa Rondachi, dalle quali avremmo potuto ricavare dati utili per la conoscenza delle insegne araldiche delle rispettive consorti.

Nel corso delle nostre indagini, tuttavia, siamo riusciti a rintracciare una fonte che si è rivelata di notevole importanza. Si tratta di una lettera del 15 ottobre 1893, scritta dal barone Filippo Bacile di Castiglione e pubblicata nel 1935 dalla rivista Rinascenza Salentina17. Storico nonché studioso di araldica, il Bacile apparteneva ad una nobile famiglia di origini marchigiane che possedette in Terra d’Otranto i feudi di San Nicola in Pettorano e di Castiglione d’Otranto, lo stesso, quest’ultimo, che qualche secolo prima era appartenuto ai Rondachi18.

La lettera, indirizzata a Luigi Maggiulli, descrive un viaggio ad Otranto durante il quale il Bacile poté visionare di persona uno storico palazzo di cui all’epoca era proprietario tale Don Peppino Bienna. In quell’occasione egli vide sulla facciata non uno, ma due parapetti che costituivano “la parte più notevole19 dell’edificio. “Quei parapetti hanno in tre lati corti e su fondi a trafori geometrici che indicano il passaggio dal XV al XVI secolo […] tre armi: una sola con una figura; le altre con due, perchè partite, ripetendo però a destra sempre questa figura; e a sinistra un’altra. La prima, dunque, è una colonna, su piedistallo, sormontata da un puttino tenente nella destra una croce. Nelle armi partite vi è 1°: la descritta; 2°: un albero su breve terrazza direi quasi accorciata20.

Il secondo parapetto, posto “in linea quanto divergente dal primo ma, tripartito e con bassorilievi21, conteneva dunque un terzo scudo che replicava la stessa combinazione d’armi per alleanza coniugale che abbiamo osservato nell’esemplare riprodotto nella figura 3. Ammirato dalle fattezze dell’edificio, il Bacile volle cercarne i proprietari originari e seppe era appartenuto alla famiglia Rondachi “che si era imparentata con la Scupoli, a cui dovrebbe appartenere la 2° partizione delle due armi22.

Si tratta di un documento importante perché oltre a confermare la committenza Rondachi, offre anche un indizio per l’identificazione dello stemma muliebre. Di origini ignote e non annoverata dal Maggiulli fra le più illustri di Otranto, la famiglia Scupoli divenne celebre per aver dato i natali a Lorenzo (*1530 †1610), chierico teatino nonché autore del celebre Combattimento spirituale23, e probabilmente anche a Giovanni Maria Scupola, pittore otrantino contemporaneo dei fratelli Bizamano24. Purtroppo non si conoscono altre attestazioni dell’arma portata da questa famiglia.

Allo stato attuale delle nostre ricerche non possiamo pertanto né confermare né confutare l’ipotesi di attribuzione del quarto muliebre suggerita al Bacile che, tuttavia, va tenuta in considerazione in vista di ulteriori, auspicabili approfondimenti. Nella lettera summenzionata si parla anche di un secondo parapetto presente sulla facciata, che dovette essere di dimensioni minori rispetto al primo. Fino a qualche settimana fa i resti di questo manufatto giacevano isolati e decontestualizzati nella sala triangolare del castello.

Tuttavia, grazie al nostro interessamento, si è provveduto a spostarli nell’adiacente sala rettangolare, dove sono attualmente ammirabili. Essi corrispondono perfettamente a quanto descritto dal barone di Castiglione. Si riconoscono tre lastre rettangolari decorate con pregevoli bassorilievi che riproducono diverse figure, comprese tre colonne che sembrano avere una relazione allusiva con l’arma Rondachi (fig. 6).

Fig. 6
Fig. 6. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare delle lastre del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi

Una quarta lastra, che si presenta in uno stato frammentario, reca scolpito su un fondo a traforo uno blasone partito Rondachi – (Scupoli?) del tutto simile a quello raffigurato sul parapetto maggiore, sebbene la composizione risulti stilisticamente differente (fig. 7).

7
Fig. 7. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, frammenti della lastra del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi, con stemma partito Rondachi – (Scupoli?).

 

L’analisi dell’araldista salentino presenta, invece, alcuni aspetti problematici per quanto riguarda il numero originario delle lastre del parapetto più grande. Egli, infatti, descrive “cinque scompartimenti racchiusi in elettissimi pilastrini” recanti “cinque medaglioni con teste che sporgono da serti circolari25, mentre se ne contano due in più nelle foto novecentesche di casa Carrozzini e nel manufatto visibile nella sala rettangolare del castello. Riteniamo che questa divergenza si possa spiegare ipotizzando un errore di conteggio da parte dello studioso. Tale supposizione si basa sul fatto che la sequenza dei sette busti raffigurata su ogni pannello difficilmente troverebbe una spiegazione se non venisse considerata come parte integrante dell’intero corredo decorativo della parte frontale del parapetto maggiore, lo stesso manufatto, peraltro, che qualche anno dopo apparirà nella sua interezza nelle riproduzioni novecentesche del balcone di casa Carrozzini.

E’ probabile che ogni busto racchiuso dalla corona d’alloro sia da intendersi come allusivo ad un personaggio di Casa Rondachi e che, di conseguenza, l’insieme costituito dai bassorilievi figurati e dalle insegne araldiche agnatizie e matrimoniali (che all’epoca erano sicuramente radicate nell’esperienza visiva degli osservanti) sia stato ideato per celebrare la famiglia proprietaria del palazzo nonché per ostentarne il rango. E’ bene precisare, però, che allo stato attuale delle nostre indagini queste considerazioni sono e restano delle mere ipotesi, da prendere con le dovute cautele.

Da un punto vista cronologico e stilistico, entrambi i parapetti presentano fattezze ascrivili al XVI secolo, probabilmente opera raffinatissima di Gabriele Riccardi26. Nel primo decennio del Novecento lo storico palazzo sito in via Rondachi dovette subire dei rimaneggiamenti che andarono a modificare in parte la struttura della facciata, tanto è vero che il prospetto dell’edificio, nel frattempo divenuto casa Carrozzini, era costituito da un solo balcone.

Le vicende che interessarono questa dimora nel lasso di tempo successivo a quello documentato dalle foto presentano, invece, non pochi lati oscuri. Stando a quanto si ricava dall’introduzione alla lettera del Bacile – pubblicata, come abbiamo visto, dalla rivista Rinascenza salentina agli inizi del 1935 – a quella data l’edificio non esisteva più perché fu abbattuto a causa delle sue precarie condizioni27. Si apprende che grazie all’interessamento del Maggiulli e della Soprintendenza ai Monumenti della Puglia e alla munificenza della famiglia Bienna, i pezzi del balcone furono smontati, affidati all’amministrazione comunale e conservati “in apposito luogo28.

Di parere diverso è lo studioso Paolo Ricciardi, secondo il quale casa Carrozzini fu acquistata dall’arcivescovo Cornelio Sebastiano Cuccarollo (1930-1952) e abbattuta dal suo successore Mons. Raffaele Calabria (1952-1960) per far posto ad una palazzina attualmente utilizzata come archivio diocesano (piano terra) e uffici pastorali (primo piano)29.

Comunque sia, delle lastre lapidee dei due parapetti si perse ogni traccia fino agli inizi degli anni ’90, quanto esse furono rinvenute all’interno del materiale di riempimento del fossato del castello aragonese e collocate nelle sale interne della fortezza idruntina. Ulteriori e più puntuali indagini, basate soprattutto su fonti archivistiche, potranno chiarire meglio le fasi e le vicissitudini edilizie a cui andò incontro quella che un tempo era l’antica dimora di una nobile famiglia otrantina della quale oggi non restano che i frammenti degli antichi balconi e un’intitolazione toponomastica a perpetuarne la memoria.

 

* Desidero esprimere il mio più profondo ringraziamento alla dottoressa Patricia Caprino (Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università del Salento), alla quale va il merito di avermi segnalato il caso, suscitando il mio interesse e la mia curiosità. Un ringraziamaneto particolare va anche a Mons. Paolo Ricciardi, noto cultore di storia otrantina, per la sua generosa disponibilità. (Marcello Semeraro)

  1. Si dice di vegetali che nascono o escono da una figura o partizione.
  2. Terreno che è molto ridotto o isolato da entrambi i lati.
  3. Cfr. G. Gigli, Il tallone d’Italia: II (Gallipoli, Otranto e dintorni), Bergamo 1912, pp. 86-87.
  4. Cfr. L. Montefusco, Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce 1997, p. 35.
  5. Le armi o le figura parlanti sono quelle che recano raffigurazioni allusive al nome del titolare.
  6. A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, vol. 1, p. 181.
  7. Cfr. L. Montefusco, op. cit., p. 106.
  8. Cfr. L. Maggiulli, Otranto: ricordi, Lecce 1893, p. 97.
  9. Cfr. A. Foscarini, op. cit., p. 181.
  10. Cfr. ibidem; cfr. inoltre L. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto: la provincia di Lecce, Lecce 1994, ad voces.
  11. A. Corchia, Otranto toponomastica, in Note di storia e cultura salentina (a cura di F. Cezzi), Galatina 1991, p. 133.
  12. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 32, 118, 146. Quello delle famiglie nobili di origine ellenica giunte in Terra d’Otranto e, più in generale, nel Sud Italia per sfuggire alla dominazione ottomana, resta un fenomeno tutto sommato poco esplorato dagli studiosi. L’araldica, da questo punto di vista, potrebbe fornire un interessante terreno di ricerca.
  13. Cfr. L. Maggiulli, op. cit., pp. 93-104; A. Foscarini, op. cit., ad voces.
  14. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 46-47.
  15. Cfr. ivi, pp. 169-170.
  16. Cfr. ivi, p. 59.
  17. Cfr. F. Bacile, Il palazzo dei Rondachi in Otranto, in Rinascenza salentina, 1 (gen-feb 1935), pp. 42-45.
  18. Cfr. A. Foscarini, op. cit. p. 16.
  19. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 43.
  20. Cfr. ivi, p. 44.
  21. Cfr. ibidem.
  22. Cfr. ivi, p. 45.
  23. Cfr. P. Ricciardi, Lorenzo Scupoli e il presbitero Pantaleone. Due maestri idruntini intramontabili e universali, Galatina 2010, pp. 9-10.
  24. Cfr. ivi, p. 307.
  25. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 44.
  26. Cfr. M. Cazzato, V. Cazzato (a cura di), Lecce e il Salento. Vol. 1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco, Roma 2015, pp. 320-321.
  27. Cfr. F. Bacile, op. cit, p. 42.
  28. Cfr. ibidem.
  29. Cfr. P. Ricciardi, Otranto devota, Galatina 2015, p. 255.

 

L’albero della vita della cattedrale di Otranto a Expo

mosaico di Otranto
mosaico di Otranto

Un viaggio in Expo 2015 tra scienza, alimentazione e agricoltura, su cui irrompe l’enciclica ‘Laudato si’’ di Papa Francesco

 

di Paolo Rausa

Ad appena due mesi dall’apertura l’Expo dispiega tutta la sua potenza espositiva. Un decumano, lungo un chilometro e mezzo in direzione est-ovest,  che incrocia il cardo, a sua volta lungo 350 metri, all’altezza di piazza Italia da cui si intravede il suggestivo albero della vita, che richiama con una visione avveniristica e tecnologicamente avanzata l’Albero della vita della Cattedrale romanica di Otranto. Un grande mosaico pavimentale che aveva ordito tra il 1163 e il 1165 Pantaleone, il monaco basiliano del monastero di San Nicola a Casole. E’ veramente entusiasmante e suggestivo vedere affacciarsi su queste strade di concezione consolare romana padiglioni di ogni parte del mondo degli oltre 130 paesi partecipanti, circa 60 dei quali sviluppano uno spazio auto costruito e gestito, mentre gli altri costituiscono i cluster monotematici (il riso, il caffè, cacao e cioccolato, frutti e legumi, spezie, bio-mediterraneo, isole mare e cibo, cereali e tuberi e infine le zone aride),  i quali mettono in evidenza gli aspetti naturali e gli sforzi che ogni paese sta compiendo per affrontare il problema alimentare e climatico. La nostra visita a piedi comincia dall’ingresso ovest, Cascina Triulza, a cui si arriva comodamente in treno, il nostro dalla zona sud est è il passante ferroviario S14 con partenza da Rogoredo. Il Padiglione 0 introduce l’argomento, una grande biblioteca, i semi, gli attrezzi agricoli che hanno aiutato l’uomo a estrarre i frutti dalla terra, l’allevamento e i pesci che pendono dal cielo, lo spreco alimentare, il listino della borsa. Il primo a cui ci si ferma è il padiglione del Nepal, non ancora ultimato, oggetto di pellegrinaggio e di solidarietà da parte dei visitatori che già dalla mattina arrivano numerosi. Si visitano i padiglioni facendo necessariamente una scelta, dettata dal caso o da quanto si è sentito dire. Poi l’Angola e il Brasile, ma la fila che si intravede distoglie. Il Vietnam e la Repubblica di Corea, avveniristica: il cibo come sfida. I cluster del riso e del cacao: i paesi espongono i loro prodotti della terra e artigianali. La Thailandia, il paese dell’oro, l’Uruguay, ci saremmo aspettati un omaggio al presidente Mujica e alle popolazioni indigene, ma è troppa l’ansia di attrarre visitatori, allora si propone la bellezza dei territori, la Cina che si limita ad esporre in una struttura a pagoda un letto di canne meccaniche che simulano il lento fluire del ritmo naturale, la Colombia divisa in 5 climi che dimentica Medellin e la lotta al narco traffico, l’Argentina con la sua carne grigliata che ci spinge ad una sosta. Stanchi, ma non domi siamo pronti alla seconda parte del percorso, l’oriente: Azerbaigian e Kazakhstan, molto curati nei particolari espositivi. Questo si prepara a celebrare il prossimo expo dell’energia nel 2017 e affida il racconto della sua storia ad una artista che illustra sulla sabbia le vicissitudini di un paese proiettato nel futuro, specie quando ci introduce con la visione tridimensionale sugli aspetti naturali ed architettonici, tanto che pare quasi di immergersi nel mare e di toccare terra tra il frumento o di sfondare il palazzo presidenziale. La sosta al centro Conferenze dove vari studiosi e il cardinale Angelo Scola illustrano i contenuti dell’enciclica di Papa Francesco ‘Laudato si’’, sulla natura come atto di creazione e sulla responsabilità dell’uomo sui danni all’ambiente. Poi Israele, cosa abbiamo fatto a favore dell’umanità in termini di scoperte, e la Germania, che assume su di sé le sorti del pianeta con un’esposizione didascalica e puntuale su che cosa fare. Straordinaria! Piazza Italia e l’Albero della Vita, suggestivo con l’acuto lirico che libera i colori e fascia la struttura. Slow Food e la sostenibilità, il giardino degli aromi, l’Oman, una nazione marittima che si scopre anche agricola. L’altoparlante chiama alla chiusura e invita a uscire. Stanchi ma soddisfatti. Da ritornarci per completare il giro, almeno altre due volte. Molte riflessioni, sui popoli, sui loro diritti negati, sui problemi del cibo, non sulla sua mancanza ma sulla cattiva distribuzione, sugli sprechi. L’umanità è qui riunita, mostra il meglio di sé, ma non può nascondere il fatto che fuori di qui urgono guerre e carestie. C’è materia e di azione e di riflessione per tutti, cittadini e governanti compresi.

L’albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?

di Mimmo Ciccarese

Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.

Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.

Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.

L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo.  Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.

Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.

Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.

Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio.  Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.

Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.

La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità  e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.

Yggdrasillm, albero cosmico primordiale

Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.

Klimt, L’albero della vita

Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per  descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.

Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi  e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese;  le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.

Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci  e doni vari.

I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.

Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.

Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.

Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.

È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.

Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.

Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.

mosaico di Otranto

Il ponte tra Otranto e Apollonia, con uno sguardo al presente e, purtroppo, anche al futuro …

di Armando Polito

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, III, 11: 100-101: (A partire) da Taranto le città dell’interno sono: Oria cui è il soprannome “di Messapia” (per distinguerla) da quella apula; Alezio; sulla costa invece Seno, Gallipoli, che ora si chiama Anxa, a 75 miglia da Taranto. Da qui a 33 miglia (c’è) il promontorio che chiamano Punta iapigia, dove l’Italia si protende più lontano nel mare. Proseguendo da esso (c’è) la città di Vaste e Otranto a 19 miglia, al confine tra il mare Ionio e l’Adriatico, per dove è più breve il tragitto per la Grecia, intercorrendo un’ampiezza del canale di mare non più ampia di 50 miglia fino alla città di Apollonia che sta di fronte. Per la prima volta Pirro re dell’Epiro progettò di ovviare a questa interruzione con un transito a piedi grazie a ponti gettati; dopo di lui Marco Varrone quando era a capo della flotta di Pompeo nella guerra contro i pirati, ma altre preoccupazioni legarono le mani all’uno ed all’altro.1

 

Dal naturalista latino, apprendiamo, dunque, che già con Pirro (III secolo a. C.) e poi con Marco Varrone [le cui competenze di comando nella guerra contro i pirati (67 a. C.), riguardavano il basso Adriatico] era stata progettata una di quelle che oggi definiamo pomposamente grandi opere e che alcuni indicano come l’unico rimedio per scacciare la crisi. Di fronte al ponte Otranto-Apollonia quello sullo stretto di Messina sembra cosa da nani (forse un po’ di tempo fa qualche comunista avrebbe detto da nano …), 

ma non posso non pormi alcune domande destinate, purtroppo, a restare senza risposta: se il progetto di Pirro prima (povero re, non bastava la sua proverbiale vittoria?) e di Varrone poi fosse andato … in porto, ci sarebbero stati rinvii di sorta nel completamento dell’opera? Di quanto i costi sarebbero lievitati in corso d’opera? Che dimensioni avrebbe assunto il fenomeno della tangente?

Una cosa è certa: se il ponte fosse stato realizzato, molto probabilmente dopo più di duemila anni sarebbe ancora visibile; lo stesso non mi sento di affermare, sempre se fosse stato o fosse realizzato, per il ponte sullo stretto di Messina e, se mai verrà completato, il MOSE, acronimo, per chi non lo sapesse, di MO(dulo) S(perimentale) E(lettromeccanico). M’inquieta tremendamente lo sperimentale (ottima giustificazione per qualsiasi tipo di insuccesso nel funzionamento …) ma ancor di più il fatto che in MOSE basta spostare l’accento sull’ultima sillaba per sperare in un altro miracolo delle acque …

___________

1 Oppida per continentem a Tarento Uria, cui cognomen ob Apulam Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Tarento. Inde XXXIII promunturium quod Acran Iapygiam vocant, quo longissime in maria excurrit Italia. Ab eo Basta oppidum et Hydruntum decem ac novem milia passuum, ad discrimen Ionii et Hadriatici maris, qua in Graeciam brevissimus transitus, ex adverso Apolloniatum oppidi latitudine intercurrentis freti L non amplius. Hoc intervallum pedestri continuare transitu pontibus iactis primum Pyrrus Epiri rex cogitavit, post eum M. Varro, cum classibus Pompei piratico bello praeesset; utrumque aliae impedivere curae.

Il megaporto turistico di Otranto, 50 milioni di euro e 500 posti barca

di Paolo Rausa

Come ci si poteva aspettare, i vincoli apposti dalla Soprintendenza e dall’Arpa Puglia contro la realizzazione del nuovo megaporto turistico a Otranto che non tiene conto della fragilità e della bellezza paesaggistica e delle strutture portuali preesistenti, messapiche, ellenistiche, romane e normanne, hanno sollevato una reazione da parte dei benpensanti e amministratori locali, preoccupati per l’occasione di sviluppo che si presenta. ‘Non si può infatti non cogliere al volo questa opportunità che consente opere per 50 milioni di euro per fare posto a 500 posti barca e maxy yacht, una struttura in grado di intercettare il turismo crocieristico e rilanciare la povera economia idruntina.’ – questo sostengono, con buona pace delle migliaia di turisti che frequentano i nostri luoghi per i loro aspetti paesaggistici. Gli ambientalisti avevano salutato il fermo imposto dalla Soprintendenza con entusiasmo, soddisfatti per il fatto che una volta tanto le Istituzioni preposte alla tutela delle nostre coste e del nostro ambiente naturale e marino siano state in grado di bloccare uno scempio ambientale annunciato. ‘In nome di quale sviluppo, poi? Lo conosciamo lo sviluppo invocato dagli operatori locali e dal sindaco Cariddi che pronuncia una pietosa bugia quando dichiara che il porto lo vogliono tutti, imprenditori, privati cittadini e associazioni. Non si sarebbe sollevata, a suo parere, nessuna voce contraria. Alle orecchie del sindaco non è arrivata nessuna, ma proprio nessuna voce contraria? Peccato che le bugie hanno le gambe corte, caro sindaco!’ Evidentemente il sindaco non ha mai letto i comunicati del Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino e del Forum Ambiente e Salute del Grande Salento. ‘Questo non è sviluppo, ma distruzione sistematica del territorio! – urlano a gran voce gli ambientalisti e si apprestano a sostenere le determinazioni della Soprintendenza con azioni di sensibilità nei confronti della cittadinanza e delle Autorità superiori. Una grande raccolta di firme – promettono – per un progetto di tutela, che aggiunga alle aree salvate dal cemento le acque marine prospicienti, cosicché siano incluse nel Parco naturale litoraneo Otranto-Santa Maria di Leuca. Non lasceremo che ancora una volta si verifichi l’azione invasiva e deturpante verso uno dei più bei paesaggi del mediterraneo (non a caso Otranto è patrimonio dell’Unesco e più volte negli anni scorsi si è fregiata della Bandiera Blu per la limpidezza delle sue acque).’ Contro gli interessi ‘diffusi’ e le ‘voci’ interessate a realizzare questa come tante altre opere, distruttive della costa e dell’ambiente naturale in nome dell’occupazione e dello sviluppo, le Associazioni ambientaliste esprimono tutto il loro sostegno e la piena solidarietà ai funzionari della Soprintendenza e dell’Arpa, ‘colpevoli’ di applicare le norme di tutela esistenti, che per la verità molte altre volte sono state disattese. Si augurano che i nuovi turchi e circassi non riescano nell’impresa di compiere un nuovo sacco della città, altrettanto distruttivo di quello ricordato da Maria Corti. Difatti incombe, come nel 1480, ‘L’ora di tutti’.

I vincoli della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali salvano Otranto dal nuovo porto

Otranto, la linea di costa minacciata dal nuovo porto

di Paolo Rausa

“Fermato lo scandaloso progetto per un nuovo maxi-impattante e ridondante porto a stupro di Otranto, patrimonio UNESCO dell’umanità!” – esultano gli ambientalisti del Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e della Salute del Cittadino e del Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, che aggiungono ad ulteriore tutela la proposta che le aree salvate dal cemento e le acque marine prospicienti  siano incluse nel Parco naturale litoraneo Otranto-Santa Maria di Leuca.

A fronte delle prese di posizione offensive piovute da più parti contro i funzionari ‘solerti’ della Soprintendenza intervenuti a fermare ancora una volta l’azione invasiva e deturpante verso uno dei più bei paesaggi del mediterraneo (non a caso Otranto è patrimonio dell’Unesco e più volte negli anni scorsi si è fregiata della Bandiera Blu per la limpidezza delle sue acque), contro le ‘voci’ interessate a realizzare questa come tante altre opere,  distruttive della costa e dell’ambiente naturale in nome dell’occupazione, le Associazioni ambientaliste esprimono tutto il loro sostegno e la piena solidarietà ai Funzionari, ‘colpevoli’ di applicare le norme di tutela esistenti, che per la verità molte altre volte sono state disattese. Questo senso del dovere può fare scuola.

E’ quanto si augurano gli ambientalisti, che ora issano sulle coste idruntine la bandiera dell’ambiente a testimoniare una vittoria per sé e per le generazioni future, mentre dall’alto del suo podio sembra che anche Idrusa abbia rasserenato la sua faccia arcigna e sorrida per lo scampato pericolo contro un invasore più terribile dei turchi e dei circassi, ma che questa volta è stato respinto, con buona pace di tutti!

E’ per fortuna successo quello che non è accaduto negli anni scorsi a Otranto con l’edificazione sulla spiaggia a ridosso del porto di una struttura avveniristica, in cui trovano collocazione bar e negozi su una spianata di cemento, e a Castro Marina con la costruzione di enormi sostruzioni su cui si innalzano muri poderosi che sembrano racchiudere basi per accogliere non imbarcazioni ma astronavi: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.” Famosa la citazione dal film Blade Runner. Al momento quindi il pericolo è scongiurato e quello skyline caratterizzato dall’antico “bastione dei Pelasgi”, il castello, le mura, il campanile e il tetto antico a doppio spiovente della imponente Cattedrale, il profilo del borgo, il lungomare liberty ben rivestito di pietra viva, le coste rocciose, le spiaggette e le caratteristiche calcaree falesie continueranno ad esercitare sul viaggiatore il loro discreto e impeccabile fascino.

La Terra d’Otranto ieri e oggi (12/14): OTRANTO

i Armando Polito

Il toponimo: La forma attuale sembra diretta discendente di Odrunto attestato in una Cosmographia in latino di autore anonimo risalente al VI secolo d. C.1

Le forme precedenti più antiche sono, invece, per il greco:  Ὑδροῦς (leggi Idrùs; genitivo Ὑδροῦντος, leggi Idruntos) attestato nello Pseudo Scilace (Periplo2, 27) e per il latino Hydrus (genitivo Hydruntis) attestato in  Cicerone (I secolo a. C.), Epistulae ad familiares, XVI, 9, 23. La forma Hydruntum è attestata in Imperatoris Antonini Augusti itinerarium provinciarum, 118 (risalente al III secolo d. C. ma con aggiunte successive). La forma Odrontum è attestata nell’Itinerarium Burdigalense, 609 (circa 333 d. C.). Tutte le forme sembrano ricondurre al greco ὕδωρ=acqua e in particolare alla sua radice ὑδρ– utilizzata da voci come ὕδρος =serpente d’acqua, ὑδρία=secchio,  ὑδραίνω=bagnare, etc. etc.  Il nome alla città, perciò, sarebbe stato dato da quello di un dettaglio del suo paesaggio, cioè il fiume Idrunte (oggi chiamato meno correttamente Idro)4.

Se la Mappa di Soleto fosse autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., l’attestazione più antica del toponimo sarebbe proprio quell’HΥΔΡ (abbreviazione di HΥΔΡΟΥΣ) che vi si legge (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, in basso).

 

Pacichelli (A), pagg. 158-159:

 

 

Pacichelli (B, anno 1684 e C, anno 1686 e 1687):

Tornando ad entrare in feluca, mi fei portare ad Otranto. Questa è metropoli di una particolar provincia, chiamat’appunto Terra d’Otranto, nella quale risiede l’Arcivescovo successore a’ discepoli di San Pietro Apostolo, che ha cinque suffraganei e ’l regio Governatore. Della fondazione di lei par che si favoleggi in persona di Minos Re di Creta, accompagnato da Dedalo, figliuolo di Pimaleone, ma senza veruna autorità. Prende il nome dal fiume, o dal monte Idra, quel che la bagna, e questi la signoreggia, in clima temperato e territorio fertile, che si discosta cinquanta sole miglia dalla Grecia, onde vien riputata per la scala dell‟oriente a’ Veneziani e Ragusei. Un Console veneto qui trattenuto corrisponde con Barletta e con cinque altre città marittime, raccogliendo le nuove di Levante, che trasmette al Ministro della Repubblica in Napoli, e questi le spedisce in diligenza al suo Principe. Sono ameni i suoi colli ed abondanti le pianure di frutta, di vino e di agrumi, de’ quali proveggonsi lontani paesi. Il suo lago di Limini gira dieci miglia e produce capitoni grossi e altro pesce. La maltrattò nel 1480 Mehemet II, tiranno d‟Oriente, sì come scrive il Galateo di quella guerra, per vendicarsi dell‟ajuto prestato a Rodi dal Re Ferdinando I di Napoli, speditovi con 140 vascelli, 18 mila fanti e 1500 cavalli Agmet Bascià, il quale sagrificò a Dio col suo sdegno la vita dell’Arcivescovo Pendinello e il sangue di 800 generosi campioni, armati da questo col sagrosanto cibo dell’Eucaristia, nel luogo che oggi si chiama la valle de’ Martiri, ove mi dissero che non ha gran tempo si sian vedute scintillare lucidissime stelle. In una cappella del suo gran tempio, per lo pavimento del quale i vaghi mosaici rappresentano un albero bellissimo di vari colori, si custodisce la maggior parte de’ corpi loro con culto, collocativi dalla pietà reale della Casa di Aragona, mentre 240 delle lor teste, ossa e frammenti furono in due casse trasferiti a Napoli dal Re Alfonso il II, nel suo altare di Santa Caterina a Formello de’ Padri Domenicani Lombardi alla porta Capoana. Vi è qualche antica memoria di Proclo, Milone e Formione, l’Academia de’ quali ebbe per uditori gli stessi Romani e altri soggetti illustri, contando venticinque fameglie nobili in 455 fuochi; ed ave tre chiese offiziate da’ greci, i quali a Casola, ne’ Monaci di San Basilio, posseggon la insigne badia, nella quale fioriron uomini di grido nella bontà e dottrina.

Si venerano i Martiri del Signore nella metropoli di Otranto, e molto più la Beatissima Vergine, in quell’estremità un miglio dentro il mare, alla punta della Iapigia, che chiama il volgo De Finibus Terrae, o in fine Mundi, e si suole in folla dalla Terra di Bari e da tutta la propria Provincia visitar nell’agosto. Il suo tempio divoto non è grande né ricco. Lo custodisce un eremita e vi corron tal volta sacerdoti a celebrare più messe il giorno. È antica l’imagine di sopra, dipinta in tavola, e in parte abbrugiata da’ Turchi, prodigiosissima e ricca d‟indulgenze, massimamente in quel tempo, sì come si leggea in caratteri d’oro in un marmo, dicendosi che al Papa celebrando venne questa dovizia dal Cielo, e che si sollevasse poi da sé medesima.

Per lo Specchio, terra che sembra uno scrittoio, in 18 miglia si toccò Otranto, e su ‘l mezo giorno, attendendo col picchio alla porta la discretezza e il levar delle mense de’ Conventuali. È città angusta, alquanto elevata, in aria poco prospera, cinta di vecchie e forti mura, con alcune buone fabriche e colma con industria di pesce, di agrumi e di fichi. Numera 400 fuochi, dando luogo a’ Consoli di Venezia, Francia, Inghilterra e Olanda, in una costa importante di mare, su ‘l fiume Idro, guardata dal castello con 30 pezzi. Non ha vino che forastiero, e famoso, conform’è tutto quello del Capo. Mi fu aperto l’Arcivescovado del Sagrista e dell’Abate del Capitolo, i quali mi mostraron la statua di legno della Beata Vergine, spiccata per sé stessa dalla Turchia e posta nel grande altare; il pavimento di antichi e curiosi mosaici, partito nelle tre navi in alberi, misteri e simboli sagri con leggiadria; sotto l’altare, a sinistra, le teste, anche passate da frecce, e le viscere, chiuse con chiavi forti, de gli ottocento generosi cittadini, che contestar la fede di Cristo col proprio sangue alla tirannia ottomana, molti corpi de’ quali degnamente si serbano là intorno, in vari scrigni di legno dorato con le graticole, e alcuni in una cassa di argento, comoda per le processioni, che si valuta 300 scudi. Fuori, presso al termine ove portan le lunghe grade al tempio de’ Minimi, dedicato a gli stessi Martiri nel 1450 dal Duca di Calabria, nell’altare di una picciola cappella, si scorge la pietra su la quale venner eglino decollati. In un‟altra al piano, sotto il titol’ora di Sant’Eligio, tempio già di Minerva, la statua della qual è trasferita in città, si gusta l’acqua leggiera della sorgente, che prende il nome da quella dea. Vollero ministrarmi a mensa la sera con esquisito pesce, fatto però da me provedere, que’ Padri che, dopo il sorger del sole, m’indirizzaron per 20 brevi miglia e per la vaga terra di Corigliano, alla maggiore, che non invidia qualsiasi città, e si dice San Pietro in Galatina.

Pacichelli, mappa:

Prima di passare al consueto esame dei dettagli faccio notare che sorprendentemente nella didascalia della mappa manca la lettera relativa alla Cattedrale, anche se essa è citata nella parte testuale e rappresentata in mappa nel dettaglio in cui l’ho evidenziata con l’ellisse rossa, mentre l’immagine a destra (tratta ed adattata da Google Maps) aiuta il lettore a cogliere nella mappa la coerenza rappresentativa, per quanto può essere spinta quella di norma rilevabile nella cartografia antica.

 

Dopo la visione panoramica della città (tratta da http://www.edilrubrichi.com/foto/img_originals/il_salento_2/otranto-vista-del-centro-storico_20090605_1694768823.jpg)

 

passo all’esame degli altri dettagli:

 

A   Castello (mappa/http://www.otranto.biz/foto-otranto/images/otranto-castello.jpg)

B  Il porto (mappa/immagine tratta ed adattata da http://www.otrantovacanze.info/wp-content/uploads/2008/12/otranto-foto-033.jpg)

D   Cappuccini  (mappa/http://fotoalbum.virgilio.it/alice/gfelih/otrantochiese/otrcappucciniw.html)

G  Porta della città/Porta Terra (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Otranto_Porta_Terra.jpg)

I   Monte della Minorita PP. Minimi di S. Francesco di Paula/Chiesa di S. Maria dei Martiri (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_di_Santa_Maria_dei_Martiri_di_Otranto.jpg)

K  Lanterna seu Torre della Serpe (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/wp-content/uploads/2009/09/82252-600×800-375×500.jpg)

(mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Otranto-Stemma.png)

(CONTINUA)

Prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

Terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

Quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

Quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

Sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

Settima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

Ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Nona parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/

Decima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/26/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1014-oria/

Undicesima parte:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/04/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1114-ostuni/

______________

1 Cito il testo originale da  Dioniysii Alexandrini et Pompei Melae situs orbis descriptio. Aethici cosmographia … , Enrico Stefano, s. l., 1577, pag. 116: Oceanus occidentalis habet famosa oppida: Ravennam … Arpos, Corfinios, Lupias, Tarentum, Odrunto, Canusium …

In questa edizione il testo è attribuito ad un certo Etico, ma ciò che sorprende  è che Odrunto appare tra tutti i centri che l’accompagnano l’unico a non avere la desinenza del caso accusativo (mi sarei aspettato Odruntum). Eppure non c’è dubbio che si tratti proprio della nostra e ciò che più sorprende è che la sua lettura corretta (Odrùnto) secondo le regole della pronunzia greca (Ὑδροῦς/ Ὑδροῦντος, leggi Idrùs/Idrùntos) e latina (Ydrùntum) coincide, per quanto riguarda l’accento, con i dialettali Otràntu/Utràntu attualmente usati.

2 Opera redatta probabilmente nel IV secolo a. C., ma contenente brani anteriori di uno o due secoli. La Mappa di Soleto, come s’è visto all’inizio, reca la forma abbreviata HYΔΡ.

3 … Inde Austro lenissimo caelo sereno nocte illa et die postero in Italiam ad Hydruntem ludibundi pervenimus … ( … Poi con un vento meridionale leggerissimo e un cielo sereno dopo un giorno e una notte siamo giunti senza problemi in Italia ad Otranto …).

4 In Lucano (I secolo d. C.), Bellum civile,  V, 374 si legge: avius Hydrus (Idrunte difficile al transito); nei Commenta Bernensia ad Lucanum (IX-X secolo d. c.) II, 609 l’avius Hydrus di Lucano viene così glossato: Idrus: alii fluvium, alii promuntorium dicunt (Idro: alcuni dicono che è un fiume, altri un promontorio). Al di là della specificità del dettaglio geografico che ha un’importanza relativa molto probabilmente la forma moderna  Idro che ho definito meno corretta rispetto ad Idrunte nasce proprio dalla glossa appena citata in cui Idrus è stato considerato come appartenente alla seconda declinazione (Idrus/Idri) e non alla terza (Hydrus/Ydruntis).

 

 

 

Da Casole a Parigi

di Armando Polito

 

La foto (tratta da http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/rete_interadriatica/beni/monastero-di-san-nicola-di-casole) ritrae i resti del monastero di San Nicola di Casole (presso Otranto) secondo alcuni fondato, secondo altri restaurato verso la fine dell’XI secolo. Esso ospitò quella che all’epoca era la biblioteca più ricca d’Europa, probabilmente del mondo,  distrutta dai Turchi nel 1480. Qualcosa si salvò grazie all’attività disinteressata di Sergio Stiso, umanista di Zollino (che, secondo le fonti, mise personalmente in salvo parecchi esemplari) e  a quella un po’ meno disinteressata,  esercitata prima dell’arrivo dei Turchi, del cardinale Giovanni Bessarione che spesso prelevava senza restituirli manoscritti greco-bizantini dai luoghi onorati (così, per dire …) della sua visita. Si sa, non tutto il male vien per nuocere, e questo proverbio trova in lui paradossale conferma. Senza i suoi furti, aggravati, secondo il mio modo di vedere, da un ulteriore reato che in campo laico si chiama peculato (perché, ammesso che li regalasse, non è difficile immaginare la finalità sdebitatrice o, al contrario, condizionante dei suoi regali e in quest’ultimo caso si configura un ulteriore reato, cioè la corruzione), e senza le numerose copie che fece fare dai suoi collaboratori copisti, tra i quali il più noto e attivo fu Michele Apostolio, certamente la consistenza di ciò che di Casole si salvò sarebbe stata ulteriormente ridotta.

Comunque, colpevoli i Turchi e i non turchi, il patrimonio librario superstite finì col tempo per disperdersi in varie biblioteche del mondo1 rendendo praticamente impossibile la sua individuazione e ricostruzione. Ed è di poco conforto sapere che è rimasto in Italia, custodito presso la biblioteca di Torino (C III, 17), il τυπικόν (leggi typicòn), cioè il manuale delle regole, datato 1173.

Il volume che sto per presentare costituisce, dunque, una sola delle tessere superstiti di quell’immenso mosaico che fu il corredo librario di S. Nicola di Casole.

È un esemplare particolarmente prezioso perché contiene testi trascritti da un copista d’eccezione, cioè Nicola di Otranto (Otranto, 1155-1160 circa/Casole, 1235), monaco, filosofo e teologo2,  dal 1219 abate dello stesso monastero con il nome di Nettario.

L’esemplare, i cui fogli sono alcuni pergamenacei e palinsesti (cioè recano le tracce di una precedente scrittura che è stata raschiata per lasciare il posto al nuovo testo, il che la dice lunga sulla preziosità, per quei tempi, del supporto scrittorio), altri papiracei, è custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (Suppl. Gr. 1232) e la sua versione digitalizzata (dalla quale ho tratto le immagini successive) è integralmente leggibile e scaricabile dal sito della stessa biblioteca al link http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8528593q/f1.image.r=otrante.langEN

 

Le immagini mostrano, rispettivamente, le parti esterne, la  controcopertina superiore e il retto del primo foglio contenente nelle prime due linee la dedica da parte di Nicola di Otranto al notaio Andrea di Brindisi. Seguono sei versi che fanno parte integrante della dedica stessa. Riporto in dettaglio le prime due linee che trascrivo e traduco perché nella prima è individuabile (l’ho evidenziata con la sottolineatura rossa) quella che potrebbe essere stata, approssimativamente, la firma di Nettario.

 

Il volume non contiene solo la trascrizione di testi originali greci ma anche, per alcuni,  la traduzione in latino a fronte, come mostra l’immagine che segue.

 

Il volume appare in ottimo stato di conservazione ma l’avvenuta digitalizzazione rappresenta una garanzia in più per la sua sopravvivenza e, quel che più conta, per una fruizione veramente planetaria. Ignoro lo stato di salute di documenti simili conservati nelle biblioteche italiane ma so di certo che da noi il processo di digitalizzazione è lungi dal decollare e dal diventare, da fatto sporadico, progetto di grande respiro. Qualcosa si è mosso, ma molto lentamente: il 10 dicembre 2012 è iniziata la fase operativa del progetto Google-Mibac che è seguita a quella preliminare iniziata quasi due anni prima; quanti anni dovranno trascorrere prima che i volumi digitalizzati siano fruibili in rete? Non è una domanda da ingenuo: so benissimo che in Italia avviene in tempi brevissimi solo la costruzione di uno stadio, mentre per questa, come per tante altre autostrade della cultura, la similitudine più immediata che mi viene in mente è la mitica Salerno-Reggio Calabria …

_________

1 Un inventario provvisorio (non essendo stati ancora catalogati  parecchi fondi di varie biblioteche nazionali ed estere) è dato da Marco Petta, Codici greci del Salento posseduti da biblioteche italiane ed estere, in Brundisii res, 4 (1972), pp. 59-121.

2 Tra le sue opere: L’arte dello scalpello [una copia manoscritta è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (Gr. 2419, cc. 228r-241v), edito da L. Delatte, Un traité byzantin de géomancie. Codex Parisinus 2419, in Mélanges Franz Cumont, Secretariat de l’Institut, Bruxelles, 1936, pp. 575-658]; venticinque poesie in trimetri giambici bizantini, edite da M. Gigante, Poeti bizantini di terra d’Otranto nel secolo XIII, Macchiaroli, Napoli 1979, pp. 73-84. Così l’umanista galatonese Antonio De Ferrariis alias  Il Galateo ricorda il monastero e il suo abate in un passo del De situ Japygiae uscito postumo per i tipi di Perna a Basilea nel 1558: … Nicolaus Hydruntinus, vir eo tempore doctissimus, qui a Philosophia ad Religionem Magni Basilii transmigravit, atque Abbas Cenobii Divi Nicolai apud Hydruntum creatus fuit, et Nicetas appellatus, ubi plura ingenii sui monumenta reliquit in Dialectica, Philosophia, et Theologia; quae omnia in illa non sine lacrymis memoranda Hydruntina clade, Monasterio a Turcis, direpto, ac diruto, conflagrarunt, simul cum Bibliotheca omnis generis librorum, quos ex universa Graecia vir ille magnus congesserat, quique ab Imperatore ad Summum Pontificem, et a Summo Pontifice ad Imperatorem componendarum rerum causa saepe commeabat (… Nicola di Otranto, uomo in quel tempo dottissimo, che dalla filosofia passò alla religione di Basilio Magno e fu fatto abate del cenobio del divino Nicola presso Otranto e chiamato Niceta, dove lasciò molte testimonianze del suo ingegno in dialettica, filosofia e teologia; tutte queste in quella strage di Otranto da ricordare non senza lacrime, preso e abbattuto il monastero dai Turchi, bruciarono insieme con la biblioteca di ogni genere di libri che da tutta la Grecia quel grande uomo aveva raccolto e che spesso si recava dall’imperatore al Sommo Pontefice e dal Sommo Pontefice all’Imperatore per risolvere i problemi …).

Da notare che il Galateo qui confonde Nicola di Otranto alias Nettario con Nicola Niceta che era stato precedentemente, pure lui, abate nello stesso monastero e si era distinto, al pari di Nettario, per alcune missioni diplomatiche e per l’amore verso la letteratura.

Le strade di Otranto

otranto-338

LE STRADE DI OTRANTO

 

                                                                             Ogni Uomo è una strada… 

 Ogni strada un dono per il comune traguardo.

                                                                     (Giulietta Livraghi Verdesca Zain)

di Nino Pensabene

 

Hanno tutte

un nome e cognome scritti a sangue

le ottocento strade

che rompendo ogni confine

da Otranto si diramano

nel mondo.

 

Non sono larghe e neanche rettilinee

– e non sono neppure lastricate –

le ottocento strade

che, affollatissime, a Otranto ritornano

accompagnando uomini

felici d’aver risposto “Si”.

 

 

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si chiamava Anna, la mia nonna paterna, e come tutte le nonne è stata, e lo è ancora, un’ispiratrice magnifica del mio benessere spirituale, della mia gioia di vivere, e soprattutto della mia fantasia.

Quando talvolta succede di sentire quell’irrefrenabile voglia di memorie, mi basta pensarla e lei arriva, chissà da dove, invitandomi a sedere sulla vecchia panca di noce, dietro il grande tavolo ovale, pronta a raccontarmi una storia.

Che mondo sarebbe senza la fantasia, forse è meglio non immaginarlo.

La fantasia apre le porte ad un universo di sogni e di gioia, quantunque le fiabe e le storie di tutti i tempi siano anche popolate di personaggi tenebrosi, protagonisti di avventure spesso spaventevoli, e costellate di orchi, di maghi, di draghi, di diavoli e streghe, di fantasmi e spiriti folletti, e di animali che parlano, tappeti che volano, passaggi segreti di castelli che si aprono al semplice suono di una potente formula magica, e ancora di luoghi misteriosi, immersi in notti buie e tempestose, e in cammini inenarrabili, dove il tacito desiderio della nostra disperata speranza si materializza in una tenue luciceddha luntana luntana

Un rifugio, la fantasia? Forse, ma non soltanto. La fantasia è un modo di essere, una scelta, uno stile di vita. O infine una specie di gioco fatato, che spesso permette di osservare il mondo con l’innocenza e il sorriso di un bambino.

Noi stessi – chissà – potremmo anche essere inconsapevoli personaggi fantastici di un libro mai cominciato e mai finito.

Come quello delle leggende.

 

Il ‘Salento immaginifico’, che nelle precedenti puntate ci ha accompagnato alla scoperta di tempi e luoghi misteriosi della nostra tradizione, riprende il suo racconto con un viaggio quasi interamente dedicato a Otranto, quale sincero e dovuto omaggio all’antica ‘capitale’ della nostra terra.

veduta di otranto (dal Pacichelli)

Otranto associa in sé atmosfere di storie fantastiche, ed ogni suo luogo può dirsi che richiami all’intrigante fascino di eventi inverosimili e arcani. Come molti vogliono, qui approdò Enea dopo la distruzione di Troia, guidando un manipolo di fedeli compagni alla ricerca di una nuova patria. Secondo gli storici più autorevoli, la descrizione minuziosa dello ”sbarco degli eroi” resaci da Virgilio non lascerebbe infatti alcun dubbio che il preciso punto d’arrivo sia individuabile nel sito idruntino, con buona pace di altre congetturose ipotesi, che indicherebbero, quale possibile alternativa, ora Leuca ora Castro (l’antica Castrum Minervae).

“Avea l’aurora già vermiglia e rancia / scolorito le stelle…” – canta il Poeta – “…allor che lunge scoprimmo / d’Italia i lidi”. E di seguito, Virgilio quasi dipinge l’antico porto naturale di Otranto: “È di ver l’Oriente un curvo seno / in guisa d’arco, a cui di corda invece / sta, d’un lungo macigno un dorso avanti, / ove spumoso il mar percuote e frange: / nei due corni ha due scogli, anzi due torri, / che con due braccia il mar dentro accogliendo / lo fa porto e nasconde, e sopra il porto, / lungi dal lido, di Pallade è il tempio…

Con chiaro riferimento, in questi ultimi versi, al Colle della Minerva, dov’era a quei tempi l’area sacra dedicata alla dea. Proprio quel fatale Colle della Minerva che il 14 agosto del 1480 fu teatro del terribile eccidio perpetrato dai Turchi di Gedik Ahmet Pashà, che portò alla decapitazione di 800 otrantini maschi sopra i quindici anni di età, i quali affrontarono senza esitazione la morte, piuttosto che rinnegare la fede cristiana.

Straordinariamente miracolosa risulta l’epica resistenza del sarto Antonio Primaldo, che fu il primo ad avere la testa mozzata da un colpo di scimitarra e che, nonostante gli sforzi dei carnefici per abbatterlo, mantenne saldo in piedi il suo corpo, finché non cadde l’ultimo dei suoi sventurati compagni.

Com’è noto, i Martiri di Otranto furono poi dichiarati Beati da papa Clemente XIV nel 1771 (al termine di un lungo processo canonico, iniziato nel 1539), e prescelti come Protettori della città.

parco-naturale-regionale-costa-otranto-santa-maria-di-leuca-e-bosco-di-tricase

La famosa Torre del Serpe, un monumento tanto emblematico per Otranto da campeggiare nello stemma della città, è protagonista di un’altra curiosa leggenda, che ha peraltro varie versioni, delle quali riportiamo qui la più suggestiva.

L’antico baluardo difensivo – eretto probabilmente in epoca romana, fatto restaurare da Federico II, e oggi fortemente diroccato – si eleva su un piccolo rialzo della roccia antistante il porto, e per tale strategica posizione fu a lungo adibito a faro. All’interno della sua sommità aveva infatti un grande fanale con una fiamma alimentata da olio lampante, al cui controllo erano adibite a turno alcune sentinelle.

Si narra che la notte di un anno imprecisato (e comunque precedente al 1480, allorché avvenne il tristemente famoso assedio dei Turchi e il drammatico eccidio degli 800 martiri di cui si è detto) il faro si spense improvvisamente. Ad una immediata ispezione, il guardiano scoprì che tutto l’olio della grande lampada si era esaurito con largo anticipo, e senza cause apparenti. Sicché ne rimise nel contenitore un congruo quantitativo, riaccese la fiamma e si appostò, ben nascosto, in attesa di risolvere il mistero. Fu così che, di lì a poco, al sorgere dell’alba, poté scoprire che una serpe, uscita da una crepa del muro superiore, si avvicinò alla fiamma e ne succhiò tutto l’olio, spegnendola nuovamente.

Nel frattempo, dalle scogliere vicine, le vedette avevano avvistato all’orizzonte una temibile flotta di pirati saraceni che evidentemente, nel buio della notte, non avendo potuto scorgere alcun riferimento luminoso della costa di Otranto, avevano proseguito più a nord, attaccando poi il porto di Brindisi. In sostanza, la serpe – quanto meno in quella occasione – aveva salvato la città da una sicura incursione piratesca.

 otranto-329

Dall’Adriatico allo Jonio,ed esattamente a Taranto, ci spostiamo per un’altra leggenda che, se fa parte integrante delle specifiche tradizioni di quella città, è altresì assai nota e diffusa, pur con qualche variante, in molti altri luoghi della penisola salentina.

Si tratta dell’usanza, detta del “bambino della pioggia”, dove – come vedremo nella fattispecie, e come, più in generale, si può rilevare in tutta la storia del folclore – sacro e profano, superstizione e religiosità si fondono insieme, integrandosi e fortificandosi. Specialmente nei casi in cui emerge la primordiale necessità dell’uomo di controllare con ogni mezzo possibile (alla bisogna anche magico e trascendente) le preponderanti forze avverse della natura.

Fino a non molti anni fa, nella ’città dei due mari’ e nelle campagne circostanti, i contadini e la gente del popolo, in vista del sopraggiungere di un temporale, usavano esporre un bambino sull’uscio di casa, sollevandolo verso il cielo, e gli facevano gettare per aria tre piccoli pezzi di pane, mentre ad alta voce, da tutti i presenti, saliva la seguente invocazione, più o meno simile a quella che si tramanda in tutte le contrade del Salento: “Òziti, san Giuvanni, e no durmiri, / ca sta visciu tre nùuli viniri: / una d’acqua, una de jentu, una de tristu mmalitiempu! / Ddò lu purtamu ‘stu mmalitiempu? / Sotto na crotta scura, / ddò no canta jaddhu, / ddò no luci luna, / cu no fazza mali a me, / e a nuddha criatura!” (Alzati, san Giovanni, e non dormire, / ché vedo tre nuvole venire: / una d’acqua, una di vento, una di terribile maltempo! / Dove lo portiamo questo maltempo? / Sotto una grotta scura, / dove non canta gallo, / dove non splende la luna, / ché non faccia male a me, / e a nessuna creatura!).

Una domanda, in conclusione, potrebbe sorgere spontanea: “E chi in casa non avesse avuto bambini, come avrebbe fatto? ”. Beh, la risposta è una sola: le leggende non si discutono, si amano.

 

 

Li màrtiri de Utràntu di Nicola G. De Donno

trascrizione a cura di Roberto Panarese

BB Martiri rid

 

Li màrtiri de Utràntu

 

di Nicola G. De Donno

I

Cce sse ne preme a Utràntu de Ferrante

cu tutta la strappina d’Aracona

la ggenticedda, e dde Sistu papante

a Rroma? Nc’ète sí ci se bblasona,

ci essendu casa cusiddetta bbona

– ca poi sbursara lu prontu cuntante

e nnu mmurira – se sente cunsona

cu lli ngranaggi, se stave mpurtante,

e llu vèscuvu an testa Pindinellu,

e lli do’ capitani. Ma la vera

carne de Utràntu, carne de macellu

e dde stanga, furese, sciurnatiera

de putèa, marinara, lu castellu

de la corte sí e nno sapîne cce era.

I martiri di Otranto – I. Alla piccola gente di Otranto, che gliene preme di Ferrante con tutta la prosapia di Aragona, e di Sisto pontificante a Roma? C’è sì chi si blasona, chi essendo di famiglia cosiddetta buona -i quali poi sborsarono per contanti il riscatto e non morirono- si sente in sintonia con l’apparato, se ne sta importante; e in testa il vescovo Pendinelli ed i due capitani. Ma la vera carne di Otranto, carne da macello e da stanga, contadina, bracciante di bottega, marinara, il castello della corte sapevano sì e no cosa fosse.

II

Ma sapîne lu nervu de lu pane,

lu pisu de lu remu a lla paranza,

lu duce de la casa, le campane.

Ste cose èrene iddi, iddi ogne usanza

ntica, era sangu loru, era sustanza

de vita unita ca se sustanziâne

senza llu sannu, na cuncumunanza

soa, de paese de persone umane,

idde, nu àutre, a tterra salentina

cu ddu mare dda chiesa dda campagna

ddi suturi: financu dda catina

de servitú, ca unu se ne lagna

straccu mortu la sira, e lla matina

torna lu sule e llu maru sbafagna.

II. Ma sapevano, il nerbo del pane, il peso del remo alla paranza, la dolcezza della casa, le campane. Queste cose erano essi, essi ogni usanza antica, era sangue loro, era sostanza di vita trascorsa insieme, di cui si sostanziavano senza saperlo, una concomunanza loro, di paese di persone umane, esse, non altre, in terra salentina con quel mare quella chiesa quella campagna quei sudori: perfino quella catena di servitù, di cui uno si lamenta stanco morto la sera, e la mattina torna il sole e l’amarezza svapora.

 

 

III

È ssoa, sta Utràntu, de sta ggenticedda

comu la terra è ssoa de le radici

ca la mprènane. E sse è ca se ncappiedda

cufiu d’ariu lu riccu pe ccurnici

de nnanni e ttarli e ppe pparenti e amici

de Nàpuli; se nu nc’ète cunedda

o de tasse o de bbulli ca ppindici

soi suttauttare nu lli le ncravedda;

se se cua suttarazzi suttarazzi

meju li panzacrandi furestieri

e li bbonzignorini paunazzi:

puru quista ète Utràntu, Utràntu jeri,

Utràntu osci, ncornudate am brazzi

a cci fatica le musche cuccheri.

III. È sua, questa Otranto, di questa piccola gente, come la terra è sua delle radici che la fecondano. E se succede che metta cappello il ricco frollo di alterigia per le cornici di antenati e tarli, e per parenti e amici di Napoli; se non c’è canale o di tasse o di bolli in cui non infogni le sue appendici di tirapiedi; se sempre si cova a braccetto di preferenza i forestieri dalle pance importanti ed i monsignorini paonazzi, anche questa è Otranto. Otranto ieri, Otranto oggi, con le mosche cocchiere sistemate in braccio a chi lavora.

 

 

IV

Poi rria lu Turcu, e ttuzza, e ole cu ttrase,

Cu ttrase a ddune? e dde cce ppizzu ggiunge

de munnu, e dde cce llingua? a cquali case

se curca, ca poi dopu ci se punge

esse fore? cce ccielu è cca li munge

lu dirittu cu nnuce navi rase

rase de scimitarre, e ccu ne sciunge,

senza vulenti, a sta stanga de bbase

ca o rrisistimu e sse face feroce

de stragge, o se li aprimu ne cunzuma

comu cannedda n’àrgulu de noce

crande, ca onza onza lu sfrauma?

Ai! senza scelta è ccalata na croce

su Utràntu, e Utràntu ttocca sse la ssuma.

IV. Poi arriva il Turco e bussa e vuole entrare. Entrare dove? e da che estremo di mondo arriva, e di che lingua? in quali case alloggerà, che poi chi si punge va fuori? Qual è il cielo che gli dà diritto di portare qui navi colme di scimitarre e di aggiogarci non volenti a questa stanga di fondo, che o resisteremo e si farà ferocemente avido di strage, oppure, se gli apriremo le porte, ci consumerà come un albero di noce grande di tarlo, che lo sfrantuma ad oncia ad oncia? Ahi! è calata su Otranto una croce che non lascia scelta, ed Otranto è obbligata ad assumersela.

 

V

E nnu ggiova se Cristu è cchiú pputente

o Allà moi su llu bbílicu sse pisa

de sta bbasculla de distinu ardente,

su sta littera de focu mpruvisa

a ddu Acumàt Utràntu l’ave stisa,

e Utràntu chiama, e Ccristu nu lla sente:

quale città se cangia de camisa

intra na notte, comu nu serpente?

Utràntu rresta Utràntu, è ccosa fatta

senza sse dice, senza ll’àe dicisa

ci cumanna e àve gradu cu ccuntratta

o none: Utràntu se rresta precisa,

precisa Utràntu, puru se Acumàt

sutta le petre soi la lassa ccisa.

V. E non serve, adesso, che si pesi se è più potente Cristo o Allà sul bilico di questa basculla di destino ardente, su questa lettiera improvvisa di fuoco dove Acomat ha stesa Otranto, e Otranto chiama e Cristo non la sente: quale città si cambia di pelle in una notte, come un serpente? Otranto resta Otranto, è cosa fatta senza bisogno di dirla, senza che l’abbia decisa chi comanda ed ha grado di contrattare o non contrattare: Otranto resta identicamente Otranto, anche se Acomat la lascerà uccisa sotto le sue stesse pietre.

VI

È vveru, nc’è nnu filu de speranza

ca rríane juti, e ppuru ne sustenta.

Ma Nàpuli è lluntana, e ll’ura vanza

precipitannu a nnui, ca fore è llenta.

Però, se nefia turca s’argumenta

ca cchiúi ne stringe cu bbumbarda e llanza

e cchiúi lu core nosciu se crapenta

fattu muddisu, e cca Utràntu se mmanza,

ogne spamientu, nvece, ca ne trase

la mitudda de l’osse, ne mbrazzamu

a lli ricordi a lle chiese a lle case

a lli cumpagni. E cchiú ppuntutu l’amu

de l’ure andate tira, e lle rimase

cu cchiú ale de morte fannu ssamu.

VI. È vero, c’è un filo di speranza che arrivino soccorsi, ed anche sostenta. Ma Napoli è lontana, e l’ora, che fuori è lenta, avanza a precipizio su noi. Però se la presunzione turca s’argomenta che più stringe con bombarda e lancia, e più il nostro cuore si crepi, fatto morbido, e che Otranto si ammansi, al contrario ad ogni spavento che penetra il midollo delle ossa ci abbracciamo ai ricordi alle chiese alle case ai compagni. E più puntuto l’amo delle ore passate ci tira, e quelle rimaste fanno sciame con più numerose ali di morte.

VII

 

Ca ggià la morte a Utràntu è lla patruna.

Li capitani e ssíndici ànnu scritte

le parole dovute, ma mancu una

àe rispostu lu Rre. Chiòvene fitte

le palle turche, pàrene marmitte

de nzurfu ca a ddu pàssane scattuna

la sbentura. Le làcrime su’ spritte,

manca mangiare, la carne  mprusciuna

de li ccisi, e nnu nc’ete sibburtura

cu bbasta, mancu lettu a lli feriti.

 Nui finu a cquannu la muraja dura

contru le palle e lli trumenti, uniti

e ddisperati a lla difesa scura

cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti.

 

VII. Ché già la morte ad Otranto è la padrona. I capitani e i sindaci hanno scritto le parole dovute, ma neanche ad una ha risposto il re. Piovono fitte le palle turche, sembrano marmitte di zolfo, che dove passano germoglia la sventura. Le lacrime sono inaridite, manca cibo, la carne degli uccisi ammuffisce, e non ci sono sepolture che bastino, manca pure un letto ai feriti. Noi fino a quando la muraglia durerà contro le palle e le macchine d’assedio, uniti e disperati alla difesa scura con ogni arma, con le forche, con gli spiedi.

 

 

VIII

 

Ma tuttu frana. Se ne su’ fusciuti

li surdati. Lu Rre nu ss’àve mossu,

lu papa àve bbiundati cuntribbuti

de ndurgenze. Strazzata finu all’ossu,

Utràntu è ssula an facce a llu mulossu.

Sula. L’úrtimi mille su’ ccaduti

su lla muraja a ll’assartu cchiù ccrossu,

l’úrtimu. E ppoi li turchi su’ ttrasuti.

Struncunisciannu Utrantu via pe vvia,

casa pe ccasa, squartannu, rrubbannu,

e ncatinannu la carne cchiú vvia

pe lli riscatti, li letti, lu scannu

de lu remu, e lla meju a lla Turchía

schiava e ttrastullu de lu turcumannu.

 

VIII. Ma tutto frana. I soldati si son dati alla fuga. Il re non si è mosso, il papa ha abbondato in contributi di indulgenze. Lacerata fino all’osso, Otranto è sola di fronte al molosso. Sola. Gli ultimi mille sono caduti sulla muraglia nell’assalto più accanito, l’ultimo. E poi i Turchi sono entrati. Stroncando Otranto via per via, casa per casa, squartando, rubando e incatenando la carne più viva per i riscatti, i letti, lo scanno del remo, e la migliore per la Turchia, schiava e trastullo del turcomanno.

 

IX

Pulmone scusu de la resistenza,

fiòccula e mmamma a ll’àutre abbitazzioni,

la cattedrale a Ddiu ffida clemenza

e rrifuggiu, li vecchi, li vagnoni,

le fímmine, li prèiti nginucchioni

su lle radici loru. La scadenza

se nvicina, nu è ura de llusioni

nè dde paure, è scritta la sintenza.

Nfunna lu turcu su sta fedeltà

la scimitarra cecata. Ssassina,

spacca, prufana. Stave la città

tutta oramài spalangata supina

sutta viulenza. Pare morta ggià,

ggià pare morta l’ànima utrantina,

IX. Nascosto polmone della resistenza, chioccia e mamma alle altre case, la cattedrale affida a Dio clemenza e rifugio, stando ginocchioni sulle radici loro i vecchi, i ragazzi, le donne, i preti. La scadenza si avvicina, non è ora di illusioni, né di paure, la sentenza è scritta. Il Turco affonda su questa fedeltà la scimitarra accecata. Assassina, spacca, profana. La città sta ormai tutta spalancata supina sotto la violenza. Sembra morta già, già sembra morta l’anima otrantina.

X

Ci se penzàa ca ncora nc’è nnu crai?

Sàlene mpasturati a ccentinare

li ncora tisi, trascinati a cquai

susu stu munte Minerva ca pare

Calvariu. Ci se pote riscattare

se squaja. Ccerti sani, a ssette chiài

mmanettati, li tocca straregnare.

Ma li vecchi e mmalati spiccia a cquai

l’esiliu loro. Guàrdane la sorte

senza lamenti, senza tradimenti,

difendènnuse Utràntu cu lla morte.

E Ccristu difendennu parimenti.

Ca Utràntu è Ccristu. E Utràntu su’ lle porte

cilesti ca li nvítane murenti.

X. Chi avrebbe pensato che ancora dovesse esserci un domani? Salgono impastoiati a centinaia quelli ancora in piedi, trascinati qua, su questo monte Minerva che pare Calvario. Chi si può riscattare se la squaglia. Alcuni sani, ammanettati con sette chiavi, li tocca fuori regno. Ma per i vecchi e i malati il loro esilio finisce qui. Guardano la sorte senza lamenti, senza tradimenti, difendendosi la loro Otranto con la morte. E difendendo Cristo del pari. Poiché Otranto è Cristo. E le porte celesti che li invitano morenti sono Otranto.

 

XI

Li morti picca tufu e ccu lli sicca

o quattru petre, ca agostu ristacca

le rètine a llu sule pe rripicca

de vita. E mmentre la pelle se stacca

uddicannu, e a lle chiese se bbivacca

lu turcu, e cquannu fosse èrene picca

pe ttombe a ttanti, le tempie li spacca

rèputu mutu a lle cristiane e nficca

rodde de rèume, nnútichi a llu core

de ci rresta fedele e ffeccattantu

li tocca fare le serve, l’amore;

e a lli mariti, a lli fiji, a ll’Utràntu,

víscere loru, dulore dulore,

dulore uffrire e gnúttere lu chiantu.

XI. Per i morti poco tufo che li dissecchi o quattro pietre, perché agosto scioglie le redini al sole per ripicca di vita. E mentre la pelle si stacca ribollendo, e nelle chiese fa bivacco il Turco, e comunque sarebbero poche per tombe a tanti, alle donne cristiane il muto lamento funebre spacca le tempie e conficca gomitoli di reume, groppi nel cuore di chi resta fedele e intanto gli tocca fare le serve, l’amore; ed ai mariti, ai figli, ad Otranto, loro viscere, offrire dolore, dolore, dolore, ed inghiottire il pianto.

 

 

XII

S’îne pututi sarvare? Cce fforsi

ca se putîne fare musurmani,

cangiare nume, pinzieri, discorsi,

vistiti: e sta piruetta, st’otomani

susu li morti càuti, e ttra lli cani

nsangunisciati, e am piettu cu lli morsi

de terrore e dde raggia, e lli do’ mani

ttaccati comu bbestie? Se succorsi

a sperare nu nc’è de cose umane,

se Utràntu stave morta e ssepelita,

nui dunque cce vvalía se ne ccattâne

e a cquale prezzu nu filu de vita,

pesci fore acqua? No, sulu rrumane

la morte cu ddae senzu a lla partita.

XII. Si sarebbero potuti salvare? Che forse si potevano fare mussulmani, cambiare nome, pensieri, discorsi, vestiti: e questa piroetta, questa prestidigitazione sui morti caldi, e tra quei cani lordi di sangue, e con nel petto i morsi del terrore e della rabbia, e con le due mani legate come bestie? Se non c’è da sperare soccorsi di cose umane, se Otranto sta morta e seppellita, che varrebbe dunque se noi ci comprassimo, e a qual prezzo, un filo di vita, pesci fuor d’acqua? No, rimane solo la morte che dia senso alla partita.

 

 

XIII

A ffilu de sta lama, a stu cunfine

tra ssí e nno, nnanzi a stu passu tristu

se rrestare imu nui stessi, a lla fine,

o rinnegare Utràntu e amparu Cristu,

cce mpòrtane Ferrante o papa Sistu?

Mporta stu lettu de lane e dde spine

ca nci nn’è mmeju forsi, ma nui è cquistu

ca simu nati, e àutru nu nne ulîne.

Lu sangu trova lentu le carrare,

se mmisca cu lla terra a vvina a vvina,

scinne lu cute e sse sposa a llu mare.

Lu turcu ca lu mete nu ndivina

cce bbandiera cumincia a sbentulare

su lla patria ca nasce salentina.

4-12 agosto 1980

 

XIII. Sul filo di questa lama, in questo confine tra il sì ed il no, dinanzi a questo tristo passo, se, in definitiva, dobbiamo restare noi stessi, o rinnegare Otranto ed insieme Cristo, che importano Ferrante o papa Sisto? Importa questo letto di lane e di spine del quale ce n’è forse migliori, ma noi è in questo che siamo nati, e non ne volevamo altro. Il sangue trova lento i sentieri, si mescola con la terra vena per vena, scende le rocce e si sposa con il mare. Il Turco che lo miete non indovina quale bandiera comincia a sventolare sulla patria salentina che sta nascendo.

 

 

LI MÀRTIRI de UTRÀNTU – Analisi strutturale di due sonetti di Nicola G. De Donno

ACUBAT

 

di Emilio Panarese

 

 

Due sono i nostri poeti più validi che hanno cantato, in vernacolo salentino, l’epopea otrantina: De Dominicis e De Donno. Circa ottant’anni fa  il primo col poemetto ‘Li Martiri d’Otranto’ (50 composizioni, 800 versi); otto anni fa e quest’anno De Donno con ‘Li martiri de Utràntu’  (sonetto pubblicato nel ’72, in ‘Cronache e paràbbule’),‘Utràntu’ (sonetto dedicato ad Oreste Macrì, ivi),‘Utràntu de li martiri’ (otto sonetti che usciranno nel prossimo numero de ‘L’albero’, scritti tra il 4 e il 12 agosto 1980, nella ricorrenza del quinto centenario dell’eccidio) ed, infine, i tredici sonetti, inediti, de Li martiri de Utràntu. In tutto 23 sonetti, 312 versi.

Differenti i livelli semantico-stilistici dei due poeti; assai diverso, sul piano connotativo, pure il tono della decifrazione del messaggio poetico: analitico, retorico, a volte ampolloso e declamatorio nel primo; sintetico, pacato e misurato nel secondo.

Fra gli ultimi tredici sonetti inediti di De Donno abbiamo volto la nostra attenzione a due in particolare, perché, a nostro giudizio, strutturalmente più compatti e, più degli altri, rispondenti alla pienezza ideativa del segno lirico.

In essi la struttura sintattica, di tipo paratattico, tutta  asindeti e polisindeti, leganti in unità i vari sintagmi poetici, è la più adatta ad esprimere i particolari effetti di successione psicologica ed emotiva della sintetica rievocazione della cosa ‘enorme […] strepitosa’, dell’azione, cioè del fatto epico, che rapida precipita, come nelle tragedie greche, verso la catastrofe.

Anche il ritmo, spezzato e volutamente cadenzato, quasi a rendere  acusticamente  il sibilo e la rovina delle palle turche, ora incalzante e frenetico, ora solenne e linearmente disteso, contribuisce sia al giuoco delle cesure interne (come nelle terzine dell’VIII sonetto), sia con gli effetti melodici di certe sillabe e di certe rime, anche quelle equivoche, a darci una visione volumetrica degli incalzanti momenti della fine.

Quanto poi alla semanticità dello stile, che è uno stile nominale legato alla enucleazione essenziale della parola-cosa, senza orpelli e senza scarti, c’è da notare il tono altamente drammatico delle due liriche qui esaminate, che colgono, nel codice vernacolare non certo meno dignitoso e vigoroso di quello nazionale di fronte ad una materia popolare cantata con spirito epico, il momento cruciale e conclusivo della resistenza otrantina.

Di fronte a questa materia popolare De Donno non assume il distaccato atteggiamento ironico-satirico, che gli è quasi consueto. Qui non trovi  più le culozze contestatrici che Primaldu à discitate  […] na notte de luna e radunate sulla Minerva, an giru sozzesozze / ssettate a pparlamentu, ma scopri invece un atteggiamento pensoso e meditativo, anche se – bisogna ammetterlo – il sottofondo psicologico resta sempre imbevuto di motivazioni polemiche ed oppositive verso il potere: da una parte lu Rre (Ferrante) indifferente, che nu ss’ave mossu eSsistu papante,che soltanto ave bbiundati contributi / de ‘ndurgenze; dall’altra Utràntu […] ssula an facce a llu mulossu / Sula.    

Persino la significazione delle figure usate, la metaforica e la metonimica, è qui diversa: è più misurata, più parca, non sovrastruttura, non ornato, ma motivazione reale del segno stesso. Ed anche la catena linguistica è diversa: del tutto scarna, ridotta all’essenziale, fatta per lo più solo di strutture minime binarie e di espansioni adnominali, specialmente nel secondo sonetto (l’VIII), in cui la tragedia della fine incalza ineluttabile.

Un’analisi particolare meriterebbe la disposizione delle parole: si pensi alla forza di quel Ca ggiàiniziale (s. VII), alla ripresa  oppositiva  di quel ma, che porta in primo piano la travagliata resistenza della genticedda otrantina abbandonata al suo destino e votata all’estremo sacrificio. Si consideri pure il valore intensivo di quel cu, tre volte ripetuto, dell’ultimo verso: cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti e la forza semantica dei quattro gerundi martellanti, incalzanti, condensati in una sola terzina dell’VIII sonetto. Si ponga mente all’efficacia stilistica  dell’aggettivo ripetuto, come in Utràntu è ssula […] Sula,  che isolato, all’inizio del verso seguente, si carica di un pathos particolare, e come in L’urtimi mille […] all’assartu, l’urtimu, e parimenti consideri  la potenza melodica di quell’E ppoi, che messo lì dopo tre  enjambements consecutivi, che allargano il ritmo, sta a segnare il netto distacco tra due momenti decisivi: la vana resistenza e la feroce vendetta.

Il poeta ci dà in questi due sonetti una visione chiaramente plastica dell’epopea del 1480, e sintetica insieme, con un segno davvero compendiario che ricorda l’austera sobrietà e la corposità plastica dell’affresco masaccesco: solo quattro pennellate, quattro abbozzi rapidi e decisi, che aprono un’immensa scena di strage.

In primo piano la morte patruna che, prima dei Turchi, ha già occupato la città, le vie, le case, e Utràntu strazzata finu all’ossu.

Più indietro, la folla anonima, ma viva e corposa, dei surdati, de l’urtimi mille, dei Turchi violenti, dei feriti, dei prigionieri e il grande scenario, in cui, attraverso accenni e tocchi fuggevoli, tu vedi con orrore i corpi de li ccisi col particolare di quella carne che mprusciúna e che dà alla morte di quei derelitti un senso di più desolato abbandono, e la muraja che ancora per poco resiste contru le palle e lli trumenti, ed, insieme le furche e lli spiti agitati per l’ultima, inane difesa, e i barbari che, struncunisciànnu Utràntu via pe vvia, stroncano, strozzano, spezzano, fracassano, squartano, rubano, incatenano, violentano, senza pietà alcuna, più feroci di sciacalli da lungo tempo affamati.

La frequenza delle vocali e dei fonemi invertiti sordi dà al verso una lentezza cadenzata, mista di pietà e di terrore: tru /tru /tra/ tra sono colpi di scimitarre che cadono impietosi, scandendo i tempi della tragica fine.

Ma ciò che commuove il poeta sono quei poveri uomini, contadini e pescatori, che amano la pace dei campi e del mare, ma che, violentemente e improvvisamente, son posti di fronte alla dura realtà della guerra, di fronte a scelte decisive, che li trasformano in eroi, tanto più grandi quanto maggiore è in loro l’attaccamento alla propria esistenza e alla fatica quotidiana della zappa e del remo.

Sono dei vinti, che sanno di dover morire, che accettano la morte con austera rassegnazione. L’epicità è tutta lì: nella loro magnanimità e nella coscienza della fugacità della vita.

 

Maglie, 13 novembre 1980

San Primaldo e compagni santi oggi 12 maggio 2013

esterno cattedrale

La guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote canonizza oggi 12 maggio gli 800 Martiri di Otranto.  E’ stato Benedetto XVI, a suo tempo, che ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, ed oggi papa Francesco nomina tali Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam.

 

Martiri di Otranto, una ferita ancora aperta

Gli otrantini vittime della Jihad islamica (da http://www.belpaeseweb.it)

di Vincenzo Scarpello

L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti. 

Un retrogusto amaro è quello che  hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)

S. Giuseppe e la sua festa, fra “Tavole” e “Tavolate”, tradizioni sacre, credenze e devozioni

Statua di San Giuseppe nella chiesa di Cocumola

 

di Rocco Boccadamo

19 marzo, antivigilia della primavera e, soprattutto, giorno in cui, per i cattolici, si celebra la festa di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria e padre putativo di Gesù.

Il culto e la venerazione verso il Santo Patriarca per eccellenza, capo terreno della Famiglia di Nazareth, sono diffusi in tutto il mondo e numerosi e capillari si contano gli edifici religiosi a lui espressamente dedicati.

A prescindere dalle anzidette notazioni sul piano della fede e di un credo specifico, vale la pena di ricordare che il 19 marzo, in Italia, è stato a lungo considerato “giorno festivo” anche agli effetti civili, una regola abolita con legge del 1977.

Nel Salento, la ricorrenza in discorso contiene e abbraccia pure peculiari usi, costumi e consuetudini d’altro genere, datati e rigorosamente tramandati fra generazioni. In concreto, siffatto capitolo verte sulla preparazione e l’allestimento, in omaggio al Santo, di un pasto, meglio dire un pranzo, conforme e fedele a un menù tanto ricco, quanto indicativo.

L’articolata gamma di piatti e pietanze, ivi compresi dessert e dolci, svaria non a caso, ponendosi anzi agli antipodi rispetto ai frugali e semplici pasti d’ogni giorno nella realtà e nella storia delle famiglie contadine, ma recando insieme, in pari tempo, un connotato morale, intriso e insaporito di generosità, considerazione, altruismo e rispetto nei confronti del prossimo, inteso specialmente nel senso dei più poveri. Presupposto basilare e di principio, è l’invito ad Ospiti, sempre in  numero dispari, da un minimo di tre sino a tredici, insieme ai quali condividere il piacere e la gioia della mensa imbandita.

Il tavolo intorno a cui sedere ha la denominazione specifica, giustappunto, di Tavola di S. Giuseppe.

tavola di san Giuseppe in un paese del Salento

Al centro della “Tavola”, ornata con fiori e ricoperta da tovaglie finissime, campeggia un quadro del Santo e, intorno, sono allineate grosse pagnotte ad anello, impreziosite, al centro, da un’arancia.

Ritornando al tema degli Ospiti o Santi, i primi tre, secondo credenza, s’identificano con la Sacra Famiglia (Gesù, Giuseppe e Maria, quest’ultima deve essere una ragazza nubile).

Quanto al menù e ai piatti, le voci principali sono:

–          la “massa” (tagliolini di farina di grano fatti in casa), cotta con ceci e teneri broccoletti di cavolo, servita dopo avervi sparso sopra i

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

museo-gallipoli-248

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

I Santi Martiri di Otranto e il 1480 (IV ed ultima parte)

Per merito della guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote oggi 11 febbraio 2013 si è tenuto il concistoro per la canonizzazione dei già Beati 800 Martiri di Otranto, che saranno dichiarati Santi il 12 maggio 2013. Benedetto XVI, che a suo tempo ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, nominerà dunque Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam. Ci è sembrato doveroso ricordare quei tristi fatti riproponendo l’ampio studio di Mauro Bortone, riproposto in questi ultimi quattro giorni (NdR).

 

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

Martiri di Otranto, una ferita ancora aperta

Gli otrantini vittime della Jihad islamica (da http://www.belpaeseweb.it)

di Vincenzo Scarpello

L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti. 

Un retrogusto amaro è quello che  hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 

La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

assalto-a-otranto

Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Otranto, il ponte verso Oriente

di Stefano Todisco

 

Otranto

Hydrous messapica

La città costruita in origine è due volte più grande di quella cinta in seguito dalle mura spagnole. La mole imponente delle fortificazioni messapiche doveva conferire un aspetto maestoso a chi spesso giungeva dal mare. Le mura, realizzate con un’anima di pietre a secco rivestite poi da blocchi rettangolari, terminavano con una merlatura quadrangolare ed erano alte 7 metri e spesse 3. Lungo la via che collegava il porto orientale con la porta marina si dovevano immaginare moltitudini di cippi monolitici scolpiti e decorati con cornici, meandri, fiori di loto, palmette e iscrizioni. Sebbene i nomi citati fossero messapici le lettere erano quelle dell’alfabeto greco; ricalcati poi i caratteri con una tintura rossa per evidenziarne il testo, queste tombe o ex voto accompagnavano i viandanti verso la città. (1)

Il toponimo si deve alla vicinanza con un torrente omonimo che richiama molto la parola greca hydràino (bagnare) e le radici ̒ / ̒ (hydor / hydros) che significano acqua / sorgente (2)

 

Hydruntum romana

Pochissimo si sa della città romana. Parte dei reperti rinvenuti però testimoniano la fase tra epoca messapica e medievale. (3)


via del Porto, complesso abitativo tardoromano

Il toponimo compare sulla mappa di Soleto e sulla Tabula Peutingeriana come Ydrunte, posto su una via secondaria che unisce i centri costieri del Salento.


Otranto segnata come HYDR sulla mappa di Soleto – V sec.  a.C.

Otranto indicata come Ydrunte sulla Tabula Peutingeriana
Otranto indicata come Ydrunte sulla Tabula Peutingeriana

 

La cattedrale

Gioiello architettonico ed artistico, la cattedrale fu terminata nel 1088. Il romanico e il gotico si sposano in una simbiosi plurisecolare. La sua fama è nota in tutta Europa grazie al celebre mosaico pavimentale del monaco basiliano Pantaleone (XII secolo). 600.000 sono le tessere policrome che lo compongono e che ricoprono letteralmente la superficie delle tre navate.

Cattedrale di Otranto

Lo stile romanico è influenzato dall’arte bizantina coeva. Le scene rappresentano ambiti sacri e profani, escatologici e mitici, pagani e cristiani. Qui, santi, imperatori, donne e uomini, contadini e mostri prendono vita attorno a figure come Alessandro Magno, la torre di Babele, il Diluvio universale, Adamo ed Eva, i segni dello zodiaco, Artù a cavallo, il Giudizio universale, singolari tenzoni tra armati o tra uomini e mostri.

Alessandro Magno
Alessandro Magno


Mostri

Adamo ed Eva
Eva e Adamo

Mesi nel mosaico di Otranto
Mesi

Il tutto è bipartito ai lati del mitico Albero della Vita, bisettrice che marca la linea mediana del pavimento.


L’Albero della vita

Una cripta, sorretta da una selva di 42 colonne marmoree, si trova sotto il pavimento della navata destra. (4)

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto e i saraceni

Il borgo antico fu testimone dell’aspro assedio perpetrato dai musulmani del sultano Maometto II nel 1480: i pochi idruntini armati resistettero alcuni giorni ma infine la cattedrale venne saccheggiata e trasformata in stalla; i cristiani che non rinnegarono la fede furono martirizzati con la decapitazione (oggi i teschi sono conservati nella Cappella dei Martiri nella Cattedrale).

I resti dei martiri di Otranto
I resti dei martiri di Otranto

Quasi un anno dopo, Alfonso d’Aragona raccolse truppe grazie a papa Sisto IV e guidò le milizie cristiane che liberarono Otranto dagli invasori ottomani tramite un assedio congiunto per terra e per mare.

Dopo questo episodio, i signori d’Aragona fecero edificare un poderoso castello (1485-89), protetto da un ampio fossato e da torri troncoconiche e cilindriche. Un secolo dopo, gli spagnoli realizzarono il bastione a punta di lancia per raggiungere il porto dalle mura del fortilizio.

Castello di Otranto

Castello di Otranto

Castello di Otranto

Note

  • (1) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, pp. 63-64.
  • (2) G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani, p. 545.
  • (3) http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=21984
  • (4) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 127.

Bibliografia

  • M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, Novara, 2009.
  • F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, Fasano, 2000.
  • G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. Torino, 1990.
  • http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=21984

Nota dell’autore

Chi scrive ha visitato la città tra 2007 e 2008. Le foto sono state scattate da Stefano Todisco, ad eccezione di quella aerea.

 

Nota della redazione

Si ringrazia l’Autore per aver permesso la replica di questo articolo, già pubblicato su http://www.antika.it/005244_otranto.html

Gedik Ahmet Pascià e Giulio Antonio I Acquaviva. Breve profilo storico di due uomini l’un contro l’altro armati

Gedik Ahmet Pascià il rinnegato cristiano che divenne Gran Visir alla corte di Mehmet II il Conquistatore

1
Ritratto di Gedik Ahmet Pascià detto Giacometto

 

di Romualdo Rossetti

 

Il nome di Gedik Ahmet Pascià (… – Edirne, 18 novembre 1482) è tristemente ricordato in terra d’Otranto per la ferocia con la quale il 14 Agosto del 1480 ordinò ai suoi uomini di decapitare gli 800 prigionieri idruntini sul colle della Minerva, dopo aver fatto stuprare fanciulle, sgozzare inermi uomini di fede, donne, vecchi e bambini, abbattere ed insozzare i più importanti luoghi di culto cristiani come la chiesetta di San Pietro, la cattedrale e l’antico cenobio basiliano di San Nicola di Casole, segare in due il comandante della guarnigione cristiana Francesco Zurlo, e fatto impalare il boia Berlabei che colpito dal coraggio e dall’eroica e soprannaturale morte di Primaldo Pezzulla, il primo degli ottocento martiri, si era rifiutato di decollarne altri.

Ma chi era in realtà Gedik Ahmet Pascià? Secondo alcune fonti il comandante in capo dell’armata turca conosciuto anche con gli appellativi di Giacometto o Gedik lo sdentato pare non fosse altro che uno dei tanti rinnegati cristiani di origini serbe o greco-bizantine che si erano votati per codardia alla causa dell’Islam. Altre fonti invece, lo dichiarano di discendenza albanese visto che durante una manovra bellica si rifiutò di prendere parte ad una ritorsione nei confronti della città di Scutari che molti cedettero fosse la sua città d’origine. La sua folgorante carriera politica ebbe sicuramente inizio in ambito militare quando in qualità di stratega riuscì a sconfiggere l’ultimo karamanide che ostacolava l’avanzata di Mehmet II in Anatolia, principato islamico che resisteva alle mire espansionistiche degli Ottomani da più di duecento anni.

3
Stemma del Gran Visir della “Sublime Porta”

La sua vittoria contro i Karamanidi nel 1471, permise all’Impero della “Sublime Porta” di conquistare la strategica regione costiera che si affacciava sul Mediterraneo e che aveva reso prospere con le sue rotte commerciali e vie carovaniere le città di Silikke, Mennan ed Ermenek. Ebbe anche numerosi scontri con la flotta veneziana stanziata nel Mediterraneo orientale e fu inviato nel 1475 dal Sultano ottomano Mehmet II a dar manforte al Khanato di Crimea contro le forze genovesi che lo assediavano da tempo. In Crimea conquistò le città di Sudak, Balaclava e Caffa insieme a molte altre fortezze e roccaforti genovesi. Per opera sua capitolarono il Principato di Teodoro con la sua capitale Mangup e le regioni costiere della Crimea. In un’occasione mise in salvo inoltre, Mengli I Giray, il Khan di Crimea dagli attacchi dei Genovesi. Conquistò al soldo del suo sultano la Crimea e la Circassia. Nel 1479 il Sultano Mehmet II gli ordinò di porsi alla guida della flotta ottomana nel Mediterraneo nella guerra contro il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.
Durante questa campagna, si appropriò delle isole di Cefalonia, Santa Maura (Leucade) e Zante (Zacinto).
Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, Mehmet II volle considerarsi il legittimo erede dell’Impero Romano, cosa che gli fece credere di poter intraprendere la conquista della penisola italiana per riunire i territori romani sotto la sua dinastia. Dopo un tentativo non riuscito di strappare l’isola di Rodi ai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, nel 1480 riuscì a conquistare la città portuale di Otranto.
Nel frattempo, nel 1474 Gedik Ahmet Pascià, uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull’arte della navigazione, era stato da nominato dal suo amato sultano Sadrazam (supremo Visir, carica che terrà fino al 1477) successivamente retrocedette alla carica di “Sançak Bey”, ovvero governatore del sangiaccato di Valona.

2
Ritratto di Maometto II di Giovanni Bellini

La flotta messagli a disposizione per la conquista dell’Italia era imponente. Stando alle varie fonti storiche pare fosse composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini: cifre però queste non storicamente confermate ed in continua oscillazione. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È ipotizzabile che la flotta turca trasportasse un esercito di 18.000 uomini. Presa Otranto ordinò ai suoi uomini svariate incursioni lungo la penisola salentina ai danni di numerosissimi villaggi e casali non trascurando di attaccare però città di notevoli dimensioni come Galatina che sotto i suoi assedi rovinò il 7 febbraio del 1481.

La presa di Otranto e le scorribande nel Salento durarono in realtà pochi mesi perché gli assedianti si trovarono, ben presto, senza vettovagliamenti e ripiegarono in Albania con l’intento di riprendere l’assedio con l’arrivo della buona stagione. La morte improvvisa di Mehmet II il 3 maggio del 1481 causata da un complotto di palazzo orchestrato con buona probabilità dal figlio Bayezid II pose Gedik Ahmet Pascià in una posizione abbastanza scomoda tanto che fu posto dal nuovo sultano agli arresti e dopo nemmeno diciannove mesi la morte del suo grande benefattore, fu fatto uccidere ad Edirne il 18 novembre del 1482.

Giulio Antonio I Acquaviva lo sfortunato “defensor fidei” di Don Ferrante d’Aragona che perse la testa per la causa cristiana

Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova
Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova

 

600px-Acquaviva_family_tree

 

VII Duca d’Atri, I Duca di Teramo, XIII Conte di Conversano e di Castro San Flaviano e Signore di Forcella, Roseto e Padula, Giulio Antonio Acquaviva I nacque in Abruzzo nel 1425. Figlio di Antonella Riccardi Migliorati dei signori di Fermo e di Ortonae del famoso capitano di ventura Giosia Acquaviva, VI duca d’Atri.

800px-Acquaviva_fam

Le famiglie di entrambi i suoi genitori appartenevano al più antico patriziato napoletano. Suo padre Giosia aveva ereditato vasti territori lungo il litorale adriatico da parte dei propri predecessori che erano scesi in Italia dalla Baviera con gli Ottoni nel corso del X secolo. Questi vasti possedimenti avevano il loro centro d’irradiazione nel feudo della città di Acquaviva Picena, graziosa città in Abruzzo Ultra, da cui la famiglia acquisì il nome a partire dal regno dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen.Gli Acquaviva ricoprirono le più alte cariche sia in campo militare che in quello civile ed ecclesiastico. Le prime scritture risalgono al 1195 con tal Rinaldo sposato a Foresta, figlia di Lione signore d’Atri.

Stemma ducale della Casata Acquaviva
Stemma ducale della Casata Acquaviva

Gli Acquaviva parteciparono, con le proprie milizie alla Crociata del 1185 e, con propri navigli, alla guerra contro l’Imperatore d’Oriente. L’antica prossimità degli Acquaviva con la casata sveva rese inevitabile il forte contrasto con gli Angioini ed i loro vassalli. Un suo avo , Antonio Acquaviva nel 1376 riuscì a sottomettere gli Ascolani che si erano ribellati e fronteggiò con successo anche Lodovico d’Angiò tanto che per riconoscenza, re Carlo III di Durazzo lo nominò suo ciambellano donandogli i possedimenti di San Flaviano e di Montorio col titolo di Conte.Con un’abile strategia e manovra militare, nel 1390 riuscì a penetrare di notte nella città di Teramo uccidendo Antonello della Valle che dormiva nella sua dimora. Il 20 giugno del 1393 ottenne da re Ladislao di Durazzo, dietro pagamento il riconoscimento del possesso di Atri e Teramo. Suo padre Giosia intraprese la stessa strategia alleandosi con Alfonso d’Aragona nella lunga, drammatica contesa per il trono di Napoli. Per questa netta scelta di campo, egli dovette subire periodiche devastazioni delle sue terre da parte degli Sforza, alleati degli Angioini, venendo persino preso prigioniero da questi ultimi dopo la sanguinosa battaglia di Ortona del 1440. Cresciuto in un contesto così violento ed infido il giovane Giulio Antonio I non potette che farsi strada con l’astuzia e la forza delle armi, militando con onore nell’armata del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo.

La sincera devozione verso il suo signore – dimostrata in molti campi di battaglia tra Marche, Abruzzo e Puglia – gli portò in dote la contea di Conversano, acquisita tramite il matrimonio che si celebrò nel 1456 con Caterina Orsini del Balzo, Contessa di Conversano, Signora di Turi, Noci, Castellana, Casamassima, Bitetto e Gioia del Colle, nonché figlia naturale del suo amato principe. Affiancando la politica del suocero, prese parte alla prima congiura dei baroni sconfiggendo il 22 luglio del 1460 presso il proprio feudo di Castello S. Flaviano le guarnigioni reali anche se non potette gioire della vittoria perché ostacolato dalle forze di Giorgio Castriota Scanderbeg. Passò poi a prendere parte all’assedio di Troia e quindi a quello di Andria insieme con Niccolò Piccinino col quale si sforzò di piegare ma invano la resistenza di Francesco del Balzo, padre di Raimondello e fedele a Ferrante d’Aragona. Presa infine la città di di Andria ma fu però sconfitto nel 1462 a Troia.

Successivamente Giulio Antonio I Acquaviva negoziò un trattato di pace tra il suocero e gli Aragonesi, riuscendo ad instaurare così un buon rapporto personale con il nuovo sovrano Ferrante. Nel 1463 tale simpatia gli permise di recuperare alcuni possedimenti di famiglia a Montepagano, e di imporre alla città di Bari un esoso tributo ammontante ad oltre 4000 ducati. Nel 1463, una volta deceduto il suocero, capo ed organizzatore principale della rivolta dei baroni, passò senza preavviso dalla parte del re Ferrante d’Aragona, al quale da allora in poi serbò fede fino alla morte. Ferrante lo accolse con ogni onore, concedendogli il 30 aprile del 1469 la restituzione dei possedimenti di Atri e di Teramo, che erano stati privati a suo padre Giosia.

 Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”
Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”

Nel 1473 ebbe l’incarico di scortare a Ferrara Eleonora d’Aragona, che andava in sposa ad Ercole d’Este. L’anno successivo fece parte del corteggio di Federico d’Aragona nel viaggio verso la Borgogna, per chiedere la mano di Maria, figlia di Carlo il Temerario. Il 16 settembre del 1477 accompagnò Giovanna d’Aragona da Castelnuovo alla chiesa dell’Incoronata, dove doveva aver luogo la cerimonia della sua incoronazione.

440px-Benjamin-Constant-The_Entry_of_Mahomet_II_into_Constantinople-1876

Con l’interdizione della carriera militare ai nobili, decisa da don Ferrante, il maturo condottiero si stabilì definitivamente nei suoi possedimenti abruzzesi dove pose in essere un’intensa attività artistica e culturale.Questo ritiro fu interrotto per poche settimane solo dalla guerra di Toscana del 1479. Ormai sicuro dei propri diritti feudali, Giulio Antonio I Acquaviva progettò la ricostruzione di molte località del ducato di Atri, diroccate durante le precedenti ostilità tra Aragonesi e Angioini.La prima località ad essere soggetta a tali interventi urbanistici fu la città di Conversano, dove venne ristrutturato l’antico castello medievale che fu arricchito con un’ampia torre a base decagonale e lunghe mura a scarpata, particolarmente ardite dal punto di vista ingegneristico. Il resto del maniero fu invece fortificato con parapettie bastioni a pianta cilindrica che lo fecero divenire un vero e proprio capolavoro dell’architettura militare del tredicesimo secolo. Subirono importanti restauri anche la Cattedrale e il Monastero di San Benedetto, governato spesso nei secoli seguenti da badesse appartenenti alla famiglia ducale Acquaviva d’Aragona.

Giunse poi il tempo della ricostruzione di Atri, con l’edificazione della chiesa di San Liberatore che era stata originariamente cappella votiva degli Acquaviva e l’ampliamento di quella di San Nicola.Fu però l’antico borgo di Castel San Flaviano ad assorbire le massime attenzioni del duca mecenate. Posto sul litorale adriatico dopo la famosa battaglia del Tordino del 25 luglio del 1460 tra le truppe di Francesco Sforza e quelle Niccolò Piccinino, Castel San Flaviano, la residenza degli Acquaviva, fu saccheggiata dai soldati di Matteo di Capua e ridotta in un cumulo di macerie.Invece di ricostruire la città, Giulio Antonio I preferì costruirne una nuova a settanta metri sul livello del mare vicino alla città antica romana denominata Castrum Novum Piceni.

410PX-~1
Stemma d’Aragona

Il 31 maggio1471 Ferrante I re di Napoli emise un proclama mediante il quale autorizzava Giulio Giulio Antonio I Acquaviva a riedificare Castel San Flaviano sul luogo che egli stesso aveva prescelto. Il nuovo nucleo prese da lui il nome di Julia e più tardi quello di Julia nova. Il progetto della cittadella fu affidato dal duca ai famosi architetti Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini che lo terminò nel 1472, ispirandosi agli antichi modelli vitruviani ed ai nuovi criteri di prospettiva e razionalità propri dell’età rinascimentale. I lavori di edificazione si protrassero per più decenni e si presentarono come un’impresa titanica, fortemente voluta dallo stesso duca che più di una volta s’interessò personalmente dell’opera, anche con l’aiuto di persone di sua fiducia, come il suo legittimo primogenito Giovanni Antonio, e Sulpizio altro suo figlio naturale. Il centro abitato originario era racchiuso per intero entro una possente cinta muraria della forma di un quadrilatero irregolare, difeso da otto torrioni di cui uno inserito nel palazzo ducale. L’impianto dell’urbe era di tipo radiocentrico imperniato su un nucleo monumentale costituito dal Palazzo degli Acquaviva, dalla fontana pubblica e dal Duomo di forma ottagonale che dominava l’Adriatico.

Stemma Acquaviva d’Aragona
Stemma degli Acquaviva d’Aragona

La cittadella, progettata per accogliere non più di un migliaio di residenti, ebbe al principio una scarsa popolazione, composta per lo più da immigrati di altri stati italiani o provenienti da alcuni paesi dell’Europa orientale. Nel primo censimento comparivano dieci Albanesi, quattro Croati non ben identificati e tre Greci mentre per quanto concerneva gli Italiani si segnalavano la presenza di ben quindici Lombardi oltre ad alcuni Veneti e Romagnoli, un Ragusino, un Marchigiano ed un solo Abruzzese. La città di Jiulia nova fu il definitivo trionfo di Giulio Antonio I Acquaviva, ormai acclamato non solo per le diverse battaglie sostenute ma anche per le grandiose opere artistiche realizzate durante il suo lungo ritiro professionale.

Uomo d’arme e d’ingegno fu utilizzato più volte da re Ferrante per i suoi fini politici. Nel 1478, riprese le armi e comandò la flotta che sosteneva l’esercito napoletano di Ferrante d’Aragona, che si era unito alla coalizione costituita dal papa Sisto IV contro Firenze e nel luglio dello stesso anno partì alla volta di Genova alla testa di una spedizione armata, in occasione della ribellione genovese contro gli Sforza, di lì attraverso la Lunigiana transitò in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo sotto le mura di Pisa e passando poi a sostenere nel 1479 i Senesi ribelli contro Firenze.

Una volta ritornato alla corte di Napoli per aver guidato e consigliato il duca di Calabria, fratello del re, venne insignito dell’Ordine del Ermellino. Inoltre con privilegio del Re di Napoli del 30 aprile 1479, ricevette l’onore di poter aggiungere al suo cognome il nome di Aragona e di inserire nel blasone di famiglia i colori della nobile casata regia. Una volta occupata Otranto dai Turchi di Mehmet II, fu posto a capo della prima spedizione di millecinquecento soldati mandata per recuperare la cittàportuale salentina.

Stanziatosi con le sue truppe nella piccola città di Sternatia, il 7 febbraio del 1481 saputo della caduta in mano musulmana della roccaforte di Galatina cercò di inseguire le retroguardie turche che ritornavano ad Otranto ma alla guida di un manipolo di suoi fedeli, s’impantanò nelle terre paludose e boschive nei pressi dei casali di Acquarolo (oggi località “Laccu”) e Pulsanello (oggi località “Pulisanu”) a poche miglia dai centri urbani di Muro Leccese e Giuggianello cadendo in un agguato dei Turchi che lo decapitarono in battaglia. La sua testa fu dapprima issata su di una picca e mostrata a sfregio durante gli scontri poi successivamente fu inviata a Costantinopoli come trofeo di guerra.Nonostante vari tentativi diplomatici non fu mai riportata in patria ad alcun prezzo. La leggenda racconta che una volta decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò privo di testa a Sternatia nel fortilizio da dove era partito con le sue truppe.A vendicarlo ci pensò il figlio Andrea Matteo, che condusse il lungo assedio delle posizioni turche nel Salento sino alla loro resa definitiva.

Il suo corpo fu sepolto, assieme a quello della moglie, nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano, in un momumento funebre opera dello scultore galatinese Giulio Barba.

Ad Otranto non ti senti turista plagiato

di Florio Santini

…A Otranto […] il tono allegro della gente, tuttavia, non concede arrabbiature; se vuoi non importa cosa, vai con fiducia al mercato e […] tra scalini, scale, scalette e scalinate, puoi persino trovare chi t’incornincia i quadri come sempre avevi sperato […]; ad Otranto non ti senti turista plagiato, sei solo un amante della costa, dunque un uomo libero. In definitiva, gli otrantini non vogliono perdere l’antica dignità di abitanti di un’antica terra, per certi viandanti stagionali […] Di cappelle ne ho viste in tutta la Cristianità, ma quelle ossa, quelle tibie, quei teschi sottovetro in Cattedrale sono un insolito, formidabile martirologio; e quella consunta gradinata in pietra secolare, con a lato la moderna, in marmo per i visitatori, che discendono e risalgono verso e dal cuore profondo di Otranto eroica, sembra l’allegoria leggendaria e reale assieme di questa terra bivalente, non abbastanza nota, i cui testi, le cui municipalistiche ricerche meriterebbero d’esser presenti nelle grandi biblioteche italiane…

Il programma della XIV^ Edizione dell’ALBA DEI POPOLI a Otranto

a cura di Paolo Rausa

SPETTACOLO TEATRALE “VOLTI DI DONNE DI UN TEMPO

La notte del 31 dicembre, ovvero la mattina del 1° gennaio del nuovo anno, per mantenere lo spirito della rassegna Alba dei Popoli, al Faro di Palascia, uno dei luoghi più suggestivi del nostro territorio, dove l’alba da sempre raccoglie luci, profumi e suoni, ci sarà un evento in armonia con la sobrietà del posto.
E’ uno spettacolo teatrale scritto e diretto da Paolo Rausa. Tratto liberamente dai racconti “Volti di carta, Storie di donne del Salento che fu” di Raffaella Verdesca, rappresenta, attraverso la storia di sei donne esemplari, il percorso faticoso delle donne del sud per emanciparsi dalla fatica, dalla violenza e dalle intimidazioni, alle quali queste donne coraggiose rispondono con determinazione e grande dignità.
L’evento è organizzato da Legambiente Circolo di Otranto, in collaborazione con il Comune di Otranto.
Si suggerisce a tutti di portare thermos con caffé o the, dolci, torce e coperte.
Faro Palascia ore 05.00

Il pavimento della cattedrale di Otranto

di Florio Santini

…Ora che Pantaleone e Dante, pur se italo-greco l’uno e fiorentino l’altro, amassero e possedessero rispettivamente la barbara, in senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso, ma anche una sottostante emblematicità teologica o significato metafisico di fondo, nessuno potrà negarlo. Che, poi, l’amore del reale e del trascendente in essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa del canto e della figura, fino a renderli capaci di grandi sincresi religiose, per dotti e analfabeti in una, ancora una volta, questo, nessuno potrà negarlo.

[…] E ‘La Divina Commedia’ non è forse, anch’essa, una specie di mosaico-omelia? E il pavimento parlante di Pantaleone non è forse una colorata lezione di Conoscenza, condotta con metodo allegorico sopra un ordito di gesta e personaggi storici? Niente di più dantesco, quindi./

Nel mosaico troviamo la biblica punizione terribile del Male che non si pente, ma anche la figura pietosamente cristiana del buon ladrone. Nel mosaico, come nella Commedia, troviamo un attualissimo ammonimento esemplificato ai potenti del mondo, quelli che costruiscono l’effimera e inutile Torre di Babele, non per caso collocata da Pantaleone al lato opposto dell’Albero primigenio./

Tutto il mosaico idruntino, al pari della ‘Commedia’, si svolge e si svela al servizio del simbolismo mistico. Si pensi ai due elefanti indiani, asiatica allusione […] alla Sapienza Divina.

Pantaleone e Dante sono artisti caleidoscopici: non manca il gusto dell’orribile, del grottesco, del gigantismo, del composto e del frammentario, messi però al servizio dell’ incantesimo cristiano, anziché della magia pagana./»

(da Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, p. 97).

Otranto. San Nicola di Casole, un monastero dimenticato tra Oriente ed Occidente

di Ubaldo Villani-Lubelli

All’indomani della lotta iconoclasta perpetrata dall’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico (714-741) molti religiosi furono costretti ad abbandonare le proprie terre d’origine in direzione di Roma. Il Meridione d’Italia, zona di confine tra Occidente ed Oriente, divenne terra di rifugio e zona di diffusione della devozione e dell’ordine monastico di San Basilio. Anche dopo la conquista normanna negli anni sessanta dell’XI secolo che avrebbe dovuto avvicinare la comunità locale al cristianesimo latino, la città di Otranto mantenne una notevole presenza di monaci basiliani: sotto gli arcivescovi latini fiorì un clero greco e l’amministrazione civile continuava ad essere gestita da funzionari, notai e giudici di educazione bizantina. I conquistatori, seppur validi cavalieri, non erano spesso alfabetizzati e non avevano lo spessore culturale per poter gestire e riorganizzare strutture amministrative complesse, così si affidarono all’antica “classe dirigente” costituita da avidi lettori, copisti, commentatori, poeti ed autori di trattati teologici che tramandarono la cultura greca per alcune generazioni.

Mentre dunque in Calabria ed in Sicilia, durante il XIII secolo, le comunità greche si ridussero fortemente, nel Salento, ed in particolare ad Otranto, i continui e vivi contatti a tutti i livelli fecero sì che la civiltà greca continuasse a fiorire.

Dall’XI al XIV secolo, infatti, la città di Otranto divenne un importante centro di riferimento, svolgendo funzioni non solo politico-amministrative, economiche e portuali, ma anche religiose e culturali. In questo senso sopravvissero e continuarono a operare alcuni monasteri basiliani ed uno in

Otranto, terra di sole e di vento

di Florio Santini

«Il petroso Salento, e soprattutto una città d’insolita bellezza come Otranto, bisogna dimenticare, oggi, quanto su essa è stato scritto e riscritto, senza nulla aggiungere di nuovo alle sue pur suggestive storie. Di questo mare idruntino, invece, bisogna conoscere correnti e approdi, esplorare caverne e scogliere; insomma, bisogna giungervi dal largo, non da terra. Baie, canaloni, grotte, insenature dai suggestivi toponimi, allora, spiegheranno cose non dette, civiltà dimenticate, portandoci spesso fino alle soglie del mito, giusto quello che dal mare approdò, là dove la costa si apriva, calda e sicura, ai marinai.

In verità Otranto, terra di sole e di vento, mi conquistò del tutto quando, dopo averla studiata in cronache avare, la vidi dal suo limpidissmo azzurro, come la videro i Greci. La costa si avvicinava azzurra nel mattino, rosseggiante di sera; e gli antichi lutti, le mistiche storie sparivano nella fiducia chiara ch’essa trasmetteva»

 

(da “Anche la vita ha i suoi scavi”, Otranto 2004, pp. 60-61).

Il pavimento di Otranto, mosaico-sinfonia, corale e plenario, su cui convergono l’Occidente e l’Oriente

di Florio Santini

…Qualcosa m’aveva spinto a ritirarmi ad Otranto, dopo aver vissuto, per molti anni, ai quattro angoli della Terra, quando chiedevano il perché di tale scelta, davo risposte che convincevano gli altri, non me stesso: la gente semplice, la vita non cara, il mare pulito, la quiete tra dotte memorie./ Ora, invece so. La spiegazione l’ho trovata sul pavimento della basilica-cattedrale di Otranto che, come troppi pseudo-informati professori, non conoscevo… Uno specialissimo prete, di nome Pantaleone, aveva ricordato l’epifonema di Terenzio “Penso che niente di umano mi sia estraneo”./ Entrai in chiesa, guardai per terra./ Erano i tempi delle Crociate, dei Cavalieri, delle turbe pellegrine; eppure, in quel mosaico-sinfonia, corale e plenario, convergevano l’Occidente e l’Oriente. Un emblematico disegno, intitolabile ‘Teologia della storia’, sussumeva grandi e piccole cose, bestie e fiori, artigiani e profeti, miti pagani e rivelazione cristiana. In breve, una specie di mistico fumetto sulla fenomenologia del creato. Fu così che […] inventando, a forza e furia di pietruzze e di marmo, la prima enciclopedia per immagini, vera Bibbia dei poveri, mi fece vedere, ripeto “vedere” che dovevo dimenticar subito quanto stava dietro di me, se avessi voluto progredire un po’. Forse, avrei fatto in tempo. E mi riconobbi, con gioia, nell’asino arpista del mosaico: il mosaico pavimentale del non abbastanza noto “duomo di Otranto”, costruito tra il 1080 e 1088 […] Grande era stata […] l’emozione del ritrovamento sul pavimento d’una cattedrale pugliese, quel discorso ideografico che tante volte, in scala ridotta, avevo ammirato nei tappeti da preghiera del Medio Oriente e d’Asia; grandioso, ora, il significato, lì, sul pavimento idruntino, di quei tre alberi della vita […] che attestano la singolare potenza del segno di Pantaleone. Mistico paziente aveva composto sotto quelle tre navate, tessera dietro tessera, dall’ingresso al presbitero, un gran libro che tutti, di ogni fede o civiltà, potessero leggere, presentandosi a noi, oggi, come un Teilhard de Chardin del 1163./ Mi sorpresi a pensare che l’ecumenismo fosse nato ad Otranto e che, non per caso, io vi fossi approdato da popoli lontani e diversi…

(da: Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, pp. 107-110).

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!