Otranto 1480. Fonti, studi, testi. La parte di Donato Moro

di Cosimo Rizzo

Innumerevoli saggi sono apparsi nel tempo sulla vicenda otrantina del 1480.

Significativi e più puntuali quelli pubblicati nel secolo XX° e quelli apparsi in seguito alla canonizzazione del 12 maggio 2013 dei circa 800 otrantini decapitati dai Turchi il 14 agosto 1480 sul colle della Minerva.

Via via che ci si allontana da questo evento storico di Otranto, caduta in mano ai Turchi, afferma il critico letterario A. Vallone, si perdono insieme la lucidità e le ragioni delle circostanze e dei condizionamenti politico-militari ed anche le dimensioni del reale dramma umano e quotidiano della città e dei suoi abitanti. La fonte più genuina, seppure trepidante e commossa è negli accenni di Antonio De Ferraris, nel De bello idruntino.

Non molto dopo, verità storica e realtà drammatica non solo si vanno diluendo nel tempo, ma anche, rimescolandosi, si tramutano prima in scolastiche esercitazioni e poi, frammiste a queste, in fantasiose leggende.

Nè storici, nè letterati del tempo colgono adeguatamente l’occasione così come il fatto stesso, eccezionale sotto ogni aspetto, avrebbe forse richiesto. Ci sono nel fondo motivazioni storiche di rilievo.

Nel 1670 Francesco Antonio Capano pubblicava: Memorie alla posterità delli gloriosi e costanti confessori di Giesu Christo, che patirono martirio nella città d’Otranto l’anno 1480, editore P. Micheli di Lecce. E’ il primo centone antologico che riunisce brani <<raccolti da varii autori impressi, e manuscritti>>.

Apre la raccolta proprio A. De Ferraris, il Galateo, con un brano estratto da Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480, tradotto in volgare da G. Michele Marziano, nel 1612, che racconta la presa di Otranto e la sua riconquista nel 1481.

Della presenza nel Salento nel 1480 del Galateo non si è certi; ma egli era ad Otranto l’anno seguente, dopo che nel settembre Alfonso d’Aragona riuscì a riconquistare Otranto.

Dopo questa impresa il padre di Alfonso, Ferdinando I re di Sicilia, scriveva da Bari, l’11 settembre 1481, al papa Sisto IV che era: <<assicurato il mio regno, liberata l’Italia e tutto il mondo cristiano prosciolto dall’imminente pericolo>>.

La testimonianza di un contemporaneo come l’umanista galateano sarebbe stata decisiva e probante, anche se venata dalla partecipazione di un lutto familiare per l’eccidio dell’arcivescovo Stefano Agricoli, suo parente, nel coro della Cattedrale dove, scrive il Galateo nel De situ Iapygiae, <<adorno delle insegne pontificali, fu sgozzato sulla sua stessa sedia dai Turchi che irrompevano nel tempio>>.

Seguono alcuni capitoli tratti dalla Historia de los Martires de la ciudad de Otranto, Napoli, 1631 di Francisco de Araujo. Quindi, con la premessa di una dichiarazione del notaio Angelo Stefanachi che attesta avere egli il 3 aprile 1660 visto aprire l’archivio del capitolo sito nella sacrestia della Chiesa Metropolitana e trovare un volume vecchissimo, manoscritto in folio di 56 pagine, dal titolo: Historia della Città d’Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini: fatta per Giovanni Michele Laggetto della medesima città, sono riporta

Su questa storia ancora oggi gravano dubbi e riserve, perchè, andato perduto il manoscritto originale, le varie copie sono ritenute modificate o contraffatte. Comunque nel 1924, a Maglie, presso la Tipografia Messapica fu pubblicata, nella trascrizione di una copia del manoscritto ritenuta autentica, una edizione della Historia, del canonico Luigi Muscari e trent’anni più tardi, una nuova edizione fu compresa in Otranto – Testi e monumenti, (Galatina, Editrice Salentina, 1955, pp.8-89) di Antonio Antonaci.

La seconda parte del volume riporta le <<informazioni>> sui martiri iniziate a raccogliersi tra la fine e l’inizio dei secoli XV e XVI ed altri brani estratti da cronache e storie e si chiude con De reliquiis martyrum hydruntinorum Hierotopochronica enarratio di Pompeo Gualtieri.

Per concludere questo brevissimo excursus storiografico sulla presa di Otranto, cito ancora di Pompeo Gualtieri Relatione de’ Santi Martiri della Città d’Otranto et apparitioni meravigliose, Lecce, P. Micheli, 1677, per sottolineare come l’episodio storico col trascorrere del tempo sia sia confuso con l’agiografia e l’esaltazione martirologica che hanno reso più tormentato e incerto il processo lunghissimo e, va riconosciuto, serio e dibattuto presso i tribunali ecclesiastici per la beatificazione degli ottocento decapitati. Costoro, stando alle non contrastanti cronache, furono gli scampati alla strage dei dodicimila cittadini di ogni età, condizione e sesso, i quali o non poterono riscattarsi per denaro o non vollero abiurare alla fede.

Di questo secolare dibattito A. Antonaci fornisce una raccolta puntuale di documenti e di indagini in I processi nella causa di beatificazione dei Martiri di Otranto, Galatina, Ed. Salentina, 1962.

La grande storiografia settecentesca e quella successiva, ricorda soltanto per inciso o per citazione la <<guerra otrantina>>, relegandola ad avvenimento marginale e locale, non incidente nello scontro che il centro-Europa visse nel corso dei secoli XV – XVI con il colosso islamico.

Nella storiografia degli ultimi anni del secolo XX° si nota positivamente un nuovo e più moderno orientamento. Lo dichiara Alessandro Laporta nella introduzione al volume Otranto 1480, Cavallino, Capone Editore 1980, in cui sono raccolti studi e contributi di valenti studiosi.

“A differenza della tradizione ottocentesca – egli afferma – che ha fatto sempre capo a fonti piuttosto tarde rispetto all’evento otrantino, e le cui uniche eccezioni sono rappresentate dal Laggetto, dal D’Acello, da Vespasiano da Bisticci e dal Marziano, gli studi del nostro secolo, sia pure accettando senza sottoporli, nella maggioranza dei casi, ad alcuna revisione critica, questi autori, hanno piuttosto cercato di recuperare materiali nuovi e principalmente coevi o immediatamente posteriori alla vicenda, con l’intento, anche, di scavalcare l’anno 1539, che per essere stato data del primo processo informativo sulla via della beatificazione dei martiri di Otranto, può aver segnato, in senso negativo, tutta l’intera tradizione successiva”.

I risultati fin a quel momento conseguiti sono piuttosto soddisfacenti, anche se non possono pretendere di essere definitivi, per quanto si sia cercato di arrivare fino al 1980 con un corredo pressocchè completo di materiali. motivo questo per cui non si vorrebbe che tante lodevoli iniziative poste in essere con questo fine, avessero ad esaurirsi con il centenario, ma, stabilizzate, portassero all’acquisto di una sempre maggiore documentazione.

Su questa vicenda otrantina, tra le pubblicazioni criticamente valide dell’ultimo cinquantennio si collocano quelle di tanti valenti studiosi che andrebbero esaminate e approfondite. Basti pensare ad A. Antonaci, A. Vallone, G. Vallone, A. Laporta, V. Zacchino, A. Saracino, P. Ricciardi, F. Cardini, D. Moro e tanti altri.

Mi limito a qualche esempio.

  1. Saracino nel volume Otranto baluardo dell’Occidente Cristiano edito a Roma nel 1981, porta un illuminato contributo sul tanto discusso episodio otrantino.

Un lavoro il suo che rievoca in forma semplice e chiaramente accessibile, ma sulla base di una accurata documentazione, il sacrificio di una città che, col suo martirio, ha di fatto salvato l’Italia dall’invasione e la civiltà cristiana da un dominio che, se realizzato, avrebbe potuto quanto meno modificare il corso della storia. E l’aspetto centrale che Saracino esamina nei diversi momenti dei fatti otrantini e che costituisce il filo conduttore del suo pregevole lavoro, è quello di dimostrare come Otranto rappresenti il primo esempio tipico di un popolo che si ribella alla inefficienza dei capi e che non esita a sacrificarsi fino all’ultimo uomo per la difesa della libertà e della fede.

In Otranto si incentra il momento cruciale della lotta tra due civiltà. Ne sono indice la preparazione accurata della spedizione fatta da Maometto II da un lato e lo sforzo compiuto dal papa Sisto IV dall’altro, per neutralizzare quel tentativo.

In questo senso, la guerra di Otranto va oltre i limiti – già di per sè molto validi – di una storia locale, per inserirsi nel quadro più ampio della storia della civiltà.

Otranto rappresentava – e questo emerge da tutta l’esposizione del Saracino – la testa di ponte ideale, da cui Maometto II contava di partire per la conquista, e soprattutto per la scristianizzazione dell’Italia: era convinto infatti che la sua stessa grandezza doveva nascere dalla conquista della civiltà occidentale, che si poteva realizzare solo attraverso la distruzione del cattolicesimo. Ed avrebbe certamente raggiunto il suo scopo se non avesse trovato nella Fede e nella forza d’animo degli Otrantini quell’ostacolo imprevedibile che, bloccando per quindici giorni le sue forze sulle rive del Canale, permisero a Papa Sisto IV di inviare i suoi appelli accorati a tutti i potentati, e a Ferdinando di Napoli di organizzare le prime difese.

Maometto II puntava alla conquista dell’Italia e quindi di Roma centro del Cristianesimo: e questo considerava il coronamento più alto dei suoi sogni.

Da tenere presente inoltre che il Saracino ha rinvenuto e pubblicato una importante bolla <<Cogimur iubente altissimo>> di Papa Sisto IV, da molti ritenuta perduta, intorno sempre alla guerra d’Otranto del 1480-81, bolla che il Pastor definisce <<nobilissima>>, che tutti i contemporanei tennero in grande considerazione e che lo stesso Saracino non esita a definirla il <<grido di un’anima>>.

Illuminante lo studio di A. Vallone L’eccidio otrantino (1480) tra canoni retorici e invenzione narrativa dal XVIII° secolo ad oggi in Otranto 1480, Galatina, Congedo 1986.

Otranto, afferma questo critico, già città fiorente e poi borgo silenzioso in una estrema provincia frontiera del Sud, resta staccata dalle ridde letterarie e si affida prevalentemente e via via sempre più decisamente dal Seicento in poi ai cantori locali. Anche in questo caso, pur di fronte ad avvenimenti di stragrande rilevanza politico-religiosa, la eccentricità storico-geografica della città è una inesorabile condanna.

I locali agiscono come possono. Le loro opere si muovono con tutti gli impacci di un episodio non solo staccato dagli interessi dei lettori, ma anche lontano nel tempo e peraltro sovrastato da fatti o eterni o compresenti nella coscienza media o aggressivi e suggestivi come cronache correnti. È fervore di fede di monsignori e ambizione di arcadi provinciali a tenere desto l’episodio otrantino.

Può dirsi che la vicenda di Otranto dal Diciottesimo al Ventesimo secolo, attraverso cronache in versi, esercitazioni teatrali ed epiche, rime varie, trova solo nell’età nostra interpreti isolati ma degni, come De Dominicis e Corti, che pur fermi nel rispetto della fede e della pietà, rigenerano l’episodio nella luce della poesia.

Amaramente si può concludere col dire che chi poteva scrivere la vera e genuina storia di Otranto, nel dramma della fede e della morte, non la scrisse e la tenne in seno, nascosta come patrimonio spirituale e umano da trasmettere a voce.

Di fatto la storia lasciata in mano ai conservatori cioè ai maestri di scuola, ne uscì irrimediabilmente contraffatta e sclerotizzata.

Originale nell’impostazione e ricco di riferimenti storico-documentari lo studio di G. Vallone Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire di Otranto (1480) pubblicato su Archivum historiae pontificiae n. 29, 1991 dove si mette in nevidenza la vera identità storica della figura dell’arcivescovo otrantino martirizzato nell’eccidio.

Insostituibili e punto di riferimento gli studi di D. Moro (Galatina 1924-1997), riuniti nel 2012 in due tomi di un unico volume che a dire del curatore, G. Pisanò, “sono il frutto della sua vita spesa nella ricerca storico-culturale, nella cura filologica di testi legati all’umanesimo meridionale, nella lettura critica delle dinamiche ideologico-formali sottese allo sviluppo dell’età moderna, attività, queste, tutte riconducibili a un filo ideale, a un unico tema, a un preciso e concreto “luogo della storia: Otranto”.

Si tratta di numerosi contributi, fra saggi ed articoli, scritti in un arco di tempo fra il 1971 e il 1996.

Tali studi offrono agli studiosi di storia patria, nazionale ed europea uno strumento completo e complesso per i molteplici risultati ordinati in un quadro unitario e cronologicamente definito.

Tutta la vicenda otrantina è infatti compresa in pagine ricche di documenti e di citazioni bibliografiche indispensabili per chi voglia misurarsi ancora con essa.

Di tale vicenda sono messi in evidenza gli aspetti letterari e civili, le fonti salentine, le registrazioni umanistiche.

Si prenda, ad esempio, la ricerca Otranto nel 1480-81. Due preziose fonti, fra le più antiche, mai fino ad oggi individuate come tali contenute nel primo tomo della pubblicazione citata, per rendersi conto delle direzioni di lavoro e di approfondimento con cui si è mosso il critico.

Faccio questo solo esempio per dimostrare come siano fondamentali gli studi di D. Moro che forniscono elementi sempre più chiarificatori sulla complessa problematica riguardante il tanto discusso episodio idruntino.

Le preziose fonti, pubblicate in Appendice cui si riferisce nel titolo sono: la copia della presa d’Otranto da Turchi ne l’anno 1480 – relazione d’Acello – e la relazione fatta dal segretario Ferdinando a’ Prencipi d’Italia – rifacimento otrantino: la copia è “documento di notevolissimo valore” e sta a monte del Rifacimento.

L’autore fornisce la descrizione del codice contenete la Copia (Cod. 2350 – già XIV.52 – della Biblioteca Casanatense di Roma) e ne indica l’autore – pur con qualche margine di dubbio sulla forma del cognome – in un Giovanni Antonio d’Acello che ne avrebbe avuto l’incarico da Alfonso di Calabria.

Interessante il tessuto linguistico-stilistico della Copia: in questa è riscontrabile “un fondo linguistico che rispecchia la koinè meridionale pienamente attestata alla fine del ‘400; e l’autore esemplifica questa koinè meridionale con una serie di parole e sintagmi tra cui è rilevabile fando come “probabile apporto salentino” e sicilianismi quali defenseriano, moririano accanto a usi ascrivibili al napoletano illustre del secondo ‘400.

Complessivamente si tratta di “un impasto linguistico caratteristico di un’epoca e di un clima culturale che possono assumere occasionalmente anche qualche nuova forma dialettale assorbendola in un ideale di scrittura curiale e cortigiano”; sul fondo del linguaggio cancelleresco del periodo aragonese si introducono filamenti toscani, qualche alterazione notevole (diriopiato per dirupato) o qualche termine di uso amministrativo (dispiaciò per dispacciò: da dispacciare) che andava attestandosi in area italiana.

Anche del Rifacimento il Moro dà la descrizione del manoscritto che lo contiene. Il testo, pur derivando dalla Relazione d’Acello, fu profondamen­te alterato (soppressione degli otto paragrafi iniziali sostituiti dall’autore con una propria narrazione degli avvenimenti otrantini, rielaborazione o modificazione anche notevole a volte dei paragrafi seguenti); la stesa di­gnitosa veste letteraria dell’originale è sopraffatta nel Rifacimento e quella che poteva essere una compendiosa annotazione nella Relazione (l’episodio della morte di Giulio Antonio Acquaviva) si dilata ad ampiezza di rac­conto anche se, nel seguito, spie di una resipiscenza di fedeltà all’originale, riappaiono dei gerundi coniugati al plurale (« fortificandonosi, trovandonosi, ottenendono, vendendonosi ») riscontrati, nella Relazione d’Acello, come appartenenti al napoletano illustre del secondo Quattrocento.

Dovuto alla penna di un « uomo alla buona e poco colto », quale il Moro ipotizza dovesse esserne l’estensore il Rifacimento appare « un’ibrida mescolanza linguistica, caratterizzata qua e là da forme dialettali salentine».

Prestigio del potere regio e degli uomini d’arme, fedeli al sovrano e a Dio, risaltano nella Relazione del d’Acello; protagonista del Rifaci­mento, dalle cui pagine affiora un sotteso agiografismo, è la cittadinanza. Il fervore religioso che percorre il Rifacimento induce a intravvedere nel suo estensore un sacerdote. Il Rifacimento è importante non solo perché consente di ricostruire nei contenuti la Relazione d’Acello, ma soprattutto perché informa sulle vicende interne di Otranto e nel periodo tragico della sua caduta in mano ai Turchi e in quello immediatamente seguente alla liberazione.

Lo stesso documento e l’analisi di alcuni passi dei Successi del Mar­ziano consentono all’autore di portare prove inequivocabili sull’originalità degli stessi Successi che non possono essere assolutamente considerati tra­duzione di un’opera latina del Galateo. Se questo prima era sospetto no­tevole di biografi e studiosi del De Ferrariis, oggi, nel saggio di Donato Moro, la questione è sufficientemente chiarita e i Successi risultano non aver niente a che fare con lo scritto galateano.

Ci sarebbe da domandarsi se il Rifacimento è collocabile oppure no all’epoca (1494-95) cui lo attribuisce Donato Moro. In sostanza tale data­zione riesce persuasiva se si tiene conto di alcune considerazioni che è giusto fare. A parte le condizioni di questo testo e la relativa vicinanza a noi del manoscritto da cui è stato tratto, la collocazione è convincente, in quanto la tradizione martirologica in esso contenuta rappresenta una forma embrionale molto elementare rispetto a quella più complessa e arti­colata che si verrà via via costituendo con l’ Informatio del 1539, con il Marziano poi (1583), con il Laggetto (fine del ‘500).

Sarebbe infatti assai azzardato pensare ad un confezionamento otran­tino posteriore a questi scritti e documenti in epoca cioè in cui in Otranto nessuno avrebbe osato mettere in discussione punti ormai acquisiti allo schema agiografico (data della decapitazione avvenuta di domenica, cadaveri trovati intatti dopo tredici mesi, fatti miracolosi, ecc.).

L’abbondantissima messe di informazioni, le sottili congetture, il lumeggiamento dei documenti esaminati, la valori zzazione del secondo rimasto ignoto o trascurato per tanto tempo, rendono lo studio di Donato Moro un fondamentale punto di passaggio per chi vorrà riprendere l’argomento. Se si tiene conto poi che all’indagine propriamente storica si aggiunge quella lingustica dei testi il1ustrati (specie del primo) – ed è questo, nell’insieme del saggio, un momento di notevole forza – s·i vedrà come sia possibile ri f ondare su basi nuove e con mezzi scientifici, i nserendole in una prospett iva di ricerca storica tout -court, quelle ricerche di « storia locale un tempo pales ra di orecchianti o di spravveduti, quanto bene intenzionati, ricercatori .

Ben a ragione lo storico Mario Spedicato ha osservato che questa “rinnovata attenzione alle fonti e l’allargamento dello sguardo alla dimensione nazionale ed internazionale rappresentano risultati storiografici dei quali la ricerca di settore più accreditata non ha potuto fare a meno di poter ulteriormente avanzare nella conoscenza”.

pubblicato su Anxa, sett.-ott. 2018, pp. 6-9

La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

assalto-a-otranto

Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (I parte)

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

Recentemente, ho riletto l’opuscolo “Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)” [Estratto da «Japigia», Rivista Storica di Archeologia, Storia e Arte; Anno II, 1931 – IX (Fascicolo II) – Società Editrice Tipografica, Bari] di Salvatore Panareo (Maglie 1872 – Roma 1961), storico, folclorista, linguista e poeta dialettale che, per molti anni insegnò Storia al Capece di Maglie, poi fu preside nei Licei di Agrigento (1922-3), Molfetta (1923-6) e nella stessa Maglie (1926-37), dove fu preside anche del Tecnico Commerciale e dell’Istituto Magistrale.

Gli scritti di S. Panareo sono molti conosciuti in Salento, e il suo nome non sfugge a chi si interessa di storia salentina in quanto collaborò con diverse riviste, fra cui «Maglie Giovane», «Japigia», «Rinascenza salentina», «Archivio per le tradizioni popolari», «Archivio storico pugliese», «Rivista Storica Salentina» (di cui fu direttore nel 1922-3). Panareo fu autore anche di diversi saggi, dei quali ecco alcuni titoli: “Fonetica del dialetto di Maglie in Terra d’Otranto” (1903), “Dileggi e scherni fra paesi dell’estremo Salento” (1905), “Puglia” (Torino 1926), “Il Comune di Maglie dal1901 in poi” (1948). Ancora oggi il suo nome e la sua memoria sono presenti nella Biblioteca comunale di Maglie, dove un importante fondo è intestato al suo nome, perché prevalentemente composto dai libri provenienti dalla sua biblioteca privata.

Ma veniamo al testo. Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle relazioni dei memorialisti del tempo e grazie anche agli studiosi che si sono interessati e continuano a interessarsi di quell’evento. Ricordo qui solo gli studiosi antichi.

Antonio De Ferraris detto il Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), riconosciuto grande umanista salentino, scrisse “Il Liber De Situ Japigiae” (1512-1513), fonte certa e probante, all’interno della quale, sia pure in modo breve e sintetizzato, fa riferimento alla guerra di Otranto. Donato Moro (Galatina 1924-1997), che delle vicende otrantine fu grande cultore per

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