Mons. Luchino Cono Del Verme. Il teatro, lo studio, la biblioteca di un vescovo di Ostuni del 1700


 

di Marzia Mola

Luchino Cono Del Verme nasce a Teano, in provincia di Salerno, e dalla chiesa vescovile di Fondi[1]   giunge ad Ostuni il giorno 7 giugno 1720[2].

Uomo dal carattere originale, asseconda la politica della famiglia Zevallos[3] e spesso si scontra con gli amministratori[4] del comune di Ostuni per via di mancate concessioni. Nel 1729 fonda il monastero delle monache Carmelitane con il sostegno economico del nobile sacerdote Giovanbattista De Benedictis; in seguito nel 1744 collabora affinché sia concesso al Capitolo di Ostuni, che i beni dello stesso, anziché essere dati in fitto ad estranei, siano divisi in porzioni uguali tra i Canonici.

Dalle, se pur scarse, notizie che padre Serafino Tamborrino e Ludovico Pepe[5] danno del vescovo si evincono i suoi interessi culturali, specie per le così dette “Accademie Letterarie” e per le rappresentazioni filodrammatiche.

Il Manoscritto F7[6], un composito organizzato che contiene una raccolta di componimenti poetici, conferma la presenza del presule[7] ad una celebre seduta accademica; si tratta dell’adunanza di intellettuali laici e religiosi presso l’abitazione del Principe di San Vito, Fabio Marchese di Belprato, il 5 novembre 1730. Tra i più noti figurano Teodomiro De Leo[8], parente di Annibale De Leo[9], vissuto tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII, e Ortensio De Leo[10].

I suddetti, molti dei quali appartenenti a famiglie nobili salentine, si riunivano in accademia per diletto ed essendo dotti itineranti ogni luogo poteva essere la sede dei loro discorsi.

Nel 1737 si presenta una seconda occasione, tipica di paese, veramente singolare: il vescovo ordina  una rappresentazione teatrale per l’unione in matrimonio di una nobile coppia della sua terra d’adozione. La scena è stata affidata ad una compagnia coordinata da un chierico locale, Luca Giovene[11], il quale, oltre ad essere il primo attore della compagnia si cimenta anche nel ruolo di corifeo. Per un fortuito caso l’interprete quel giorno non giunge sul sagrato della chiesa, luogo deputato per la rappresentazione. Il vescovo e gli invitati, che attendevano in ansia, totalmente all’oscuro del misfatto, si convincono che egli abbia dimenticato di eseguire l’opera prescelta, in realtà il giovane attore è stato rapito da un invidioso contrario al matrimonio. È inutile dire che, naturalmente l’opera quel giorno non viene messa in scena; Giovene, tacciato di incompetenza è fustigato e costretto dal vescovo Del Verme ad un imminente esilio. Il Pepe narra che l’artista approdò in un secondo momento a Napoli, città che gli consentì di intraprendere, nel corso degli anni, una brillante carriera[12]. Segue una breve narrazione del fattaccio:

“Nel 1737 essendo sposato D. Giovanni Ayroldi[13], i preti davanti la Cattedrale[14] facevano un’opera.. Tra comici vi era il clerico Luca Giovene, rappresentando non solo una principal parte, ma pure il canto. Il vescovo era allora monsignor Fili[15] (in realtà è il suo successore mons. Cono Luchino del Verme) aveva preparato un luogo il migliore alli sposi. Il Serio[16] per dispettarli, nascose il giovanetto, né l’opera si potè rappresentare. Il vescovo voleva il ragazzo fustigare ma il Serio lo mandò a sue spese a Napoli al conservatorio della Pietà[17], ove si fece sacerdote. Dopo alcuni anni la corte di Lisbona provvedendosi di musici da Napoli, toccò alla scelta di Luca. Giunto a Lisbona la sua modestia invaghì la Corte cosicchè mai cantò sull’orchestra, fu fatto maestro di lingua italiana degli infanti reali  e si condusse tanto bene che fu decorato dell’onore dell’insigne Ordine dei Cavalieri  di Cristo. Indi Gran Cancelliere dello Stesso.[18]

Dalle carte[19] non sono ancora emerse descrizioni di episodi singolari simili o scenette di vita artistica paesana a cui Del Verme ha preso parte. È invece indiscusso che il vescovo possedeva nella sua abitazione privata una vera e propria biblioteca. Attento lettore e collezionista, sia di classici che contemporanei, si dedicava spesso alla lettura nella sua “Stanza dello studio”. Tali tracce risaltano dall’atto notarile di Tommaso Saverio Baldari che espone il testamento di Cono Luchino Del verme che si spense nel 1747.

Nel lascito del vescovo sono inventariati gli arnesi e gli utensili domestici, ma un’attenzione particolare è data proprio ai volumi conservati nella sua  abitazione.  Dalla lettura del documento è possibile ricostruire la storia della biblioteca privata di un presule del Settecento. La maggior parte dei volumi custoditi erano riposti in una stanza, denominata “Camera dello studio”.

Atto Notarile:

Archivio di Stato di Brindisi

Notarile di Ostuni, Notaio Baldari Tommaso Saverio, 1747

Inventarium Bonorum Mobilium Hereditatis Ill. Mons. Cono Luchino Del Verme

Die decima tertia mensis aprilis eiusdem decime indictioni in civitate Hostunio […] ab istantia et  […] del rev. Can. Don Francesco Greco attual Procuratore del rev. Capitolo e Clero di questa città, acciò avessimo per cagione del nostro pubblico ufficio inventariato tutti li mobili ed altero dell’eredità del quondam Ill. e rev. Don  Cono Luchino del Verme  di questa città con la presenza e l’assistenza non solo di detto canonico don Francesco Greco ma delli rev. Can. Don Felice Cellie e don.Vincenzo Farina e don Pietro Epifani ed altri preti e del Rev. Arciprete don Giacomo Urselli come facimo col inventariare li seguenti beni nel modo infrascripto videlicet.

In primis nella camera attaccata alla Cappella videlicet: cinque quadri di carta tedesca con cornici nere, quattro carte geografiche, una sedia di paglia usata […]

Nella camera vicina a quella del Ponte vidilicet: 3 bache di apeto due piccole e una grande; due sedie di paglia indorate;  […] come anche si trovano li seguenti libri videlicit: Memorie del regno di Catterin; opere del Metastasio in 4 tomi; Bolla d’oro; Istrumentazioni delli confessori di terre e villaggi; Meraviglie di Dio ne suoi santi; Lucidario poetico; Prosodie; Istari volgare Placido; Concilio di Trento: solmon tomi quattro; Stato presente di tutti i paesi; Officio della Beata Vergine; Rubertus Mireus; Sinoppis decreta Sacre Congregationis et immunitatis; Anonimia d’Escobar; Dizzionario Italiano e Francese; Abelis Mendella Theologie parte I; Rime in lode del Card. D. Bernardo maria Conti; Il catechista nelle missioni; Istoria delle rivoluzioni dell’Isola di Corsica; sacro arsenale dell’Inquisizione; Istoria generale des la Rons […]

Nella camera dello studio vi sono i seguenti libri: Lotterio de beni beneficiati t. I e II; Ventriglia pratica Ecclesiastica; Decisioni dell’Afflitto; Vescovo di Mons Sperelli; Monacelli t. 3; Garraba  deficatu officialium; Vita della Ven.le Suor Maria Serio; Teatro della latinità di Geronimo Galà; Abellis maduella teologica t.II; sei regole per sradicare il vizio; il Fasso Istoria del costanzo; Vita di Suor Maria Serio sigillata; della protesta del papa in lingua francesce giovan battista Rinucci Delle Dignità e potestà dei vescovi; Luiggi Albrizio prediche fatte nel suo palazzo Apostolico dell’uso delle bevande calde e fredde; Istruziones criminales forenses di D. Ursaia, Istoria del tumulto di Napoli; De Sanctis genuoensis; David di Giulio Mazzarini cento discorsi; Padre Giuliano Mandrizio Theologia moralis Il Foresti t. 13 Imperio della chiesa; Archivio della Regia Giurisdizione di Napoli; Filosofia morale del Muratori; Muratori carità cristiana; Raggioni cattoliche apostoliche; Viaggi di Pietro della Valle; Beneficio di Dio Nicola Ruggiero; Riflessioni morali sopra l’istoria vicili del regno di Napoli; Ragione istoriate di Mons. Antonio Lucci; Vocabolario  13 Imperi° della chiesa; Archvio della Regia Giurisdizione di napoli; Filosofia morale del Muratori; Muratori carità cristiana; Raggioni cattoliche apostoliche; Viaggi di Pietro della Valle; Beneficio di Dio di Nicola Raggiano; Riflessioni morali sopra l’istoria vichi del regno di Napoli; Ragione istoriate di Mons. Antonio Lucci; Vocabolario Spagnolo e Italiano; Concilio scritto a mano; Supplica a sua Maestà delle due Sicilia; Apolocia dell’Ars. Di Sorrento; L’Amis rettori., La contezza, Sovrani di mondo t. 4; Canterani Stoiltd ella chiesa t. 3; Almaide libro Francese; Riflessioni sopra la storia della Sacra scrittura;i1 vescovo consegna; ‘storia dell’anno 1736; Disquisitiones pulitica; Libro di miniscalcheria manoscritto; Istruzioni de sacerdoti del molina; D. Guisciot della Mangia Calianadro Fedele; (c. 198v)il Re Dionisio di Andrea Genuzio; Tranctatus de correttone fraterna; Francesco Lanieri Istoria gronologica, Rosignoli Meraviglie di Dio e dei suoi santi 3t.; Istituzioni di una famiglia Clmstiana del Padre Giovanni Leonardi; Istoria Fgabrielis Buc.Ilini; Della discrezione de spiriti; Esercitii di pietà ricavata dall’ecc.mo card. Spinelli; Trattato politico in lingua spagnola; Discorso meraviglioso di Caterina de’ Medici in lingua spagnola; Istoria della Beata verginedi Bernardino Conti; Istoria delle febbri maligne; notizie delle lingue universali; Avertimenti cavallereschi; Guisciot della Mangia t.2; Roterod Erasmi.

Della biblioteca privata del presule non è rinvenuto alcun volume, il testamento è l’unica fonte attualmente recuperata che testimonia i suoi interessi culturali e la passione per i volumi da collezione.

Nell’incipit del trafiletto si è già velatamente accennato alla personalità vivace del presule; egli, singolare nei modi, è  noto ai più anche per l’atteggiamento talvolta brusco e gretto, che ha espresso in determinate circostanze. Un evento degno di interesse riguarda la sua ribellione nei confronti della beatificazione di una suora locale.

Nell’anno 1726, era deceduta suor Maria Serio, e il gesuita P. Giuseppe Gentile ne aveva trascritto la vita; il 16 settembre 1741, si sarebbe compiuto il processo di beatificazione della suora, ma Del Verme si oppose. Nel corso degli anni, conscio del fatto che qualcuno avrebbe scritto di lui e, temendo che se ne sarebbe parlato male, decise di ritrattare e tre giorni prima di spirare, si pentì alla presenza del confessore.

Segue il pentimento del vescovo:

Archivio di Stato di Brindisi, Notaio Baldari Tommaso Saverio

Pro Domimo dottor Fisico Aloysio Serio de Ostuni Testimoniale

Rev. don Francesco e don Domenico Ungaro et mag.dott. Fisico Antonio Tamborrino

Die sexta mensis julii eiusdem decime indictioni millesimo septuagesimo quadragesimo septimo (1747)….c. 317r costituti nella nostra presenza li sottoscritti Rev. don Francesco e don Domenico Ungaro e mag. Dott. Fisico Antonio Tamborrino li quali spontaneamente asseriscono…come havendono assistito di notte e di giorno a Monsignor Ill.mo don Cono Luchino del Verme fu vescovo di qs predetta città d’Ostuni nell’ultima sua infermità, sofferta dall’ultimi giorni del mese d’aprile del c.a 1747, in cui di è l’Anima a Dio, mai si scostarono e partirono dall’assistenza al detto prelato, nel qual tempo e precise tre giorni prima che spirasse, cercò ad essi attestati la figura ossia effigie della Ven.bile serva di Dio suor Maria Serio di S. Antonio, la quale pendeva nel pariete della sua camera, e con tenerissima devozione, e fede cieca la prese nelle sue proprie mani ed invocò caldamente (V) lo di lei patrocinio, la baciò più e più volte sel’astrinse al petto, e se l’applicò su la parte destra del medesmo dove pativa, e doppo qualche tempo la rispose nel destro luogo del capezzale del di lui letto, facendovi atti giaculatori, e pregandola, che l’assistesse e l’aiutasse in quel punto estremo; talmente che diceva spesso ad essi attestanti, con tenerezza, pregate, pregate la Venerabile serva di dio suor Rosa Maria per me acciò m’assista, e poco doppo seguitò a dire le sequenti parole: Io sono stato sempre fedele, Io l’ho sempre venerata, Io ogni sera me ci sono raccomandato, ed ho recitato in suo onore un pater , un’Ave e un Gloria Patri; si Io sono stato sempre fedele. Il vicario Palica o Falica di Fasano è stato ancora fedele; però quanto di male si è fatto, detto e scritto contra la detta, si è fatto ob metum iudeorum; e ciò replicando più volte si rivoltava verso la detta Immagine, e faceva atti di venerazione, divozione e dolore,  e con tal costanza di fede e divozione verso la detta Venerabile, essi attestanti asseirscono che perseverò il detto fu Mnons. Del Verme sino all’ultimo di sua vita. Attestandono di più che in detti ultimo giorni, mentre il detto prelato facevali detti atti veso la Venerabile serva di dio veniva anche assistito dal Rev Padre Gabriele da Francavilla minore osservante (328r vecchia e nuova) riformato a chi spesse volto si confessò, e dal detto fu assistito suno all’ultimo di sua vita, e sic testimoniaverunt […]

 Testamentum Filippi Levrano  Ville Montalbani

 

Note

[1] N. Ciraci, Parole di Calce. Percorso attraverso le voci poetiche del dialetto di Ostuni, Martina Franca (Ta), Artebaria Edizioni, 1990.

[2] L. Pepe, Memorie storico-diplomatiche della Chiesa Vescovile di Ostuni, Valle di Pompei, Scuola Tipografica Editrice Bartolo Longo, 1891, p. 162.

[3] Giovanni Zevallos, mercante di origine spagnola, trapiantato a Napoli dove fece fortuna prestando denaro alla regia corte. Nel 1639, benché demaniale, la giurisdizione della città di Ostuni fu venduta a lui, e nel 1644 acquistò su Ostuni anche il titolo di duca, che sarà poi conservato dai suoi discendenti sino al 1804, quando, a causa di debiti non soddisfatti, Carmela Zevallos, ultima duchessa fu spogliata del feudo e dei beni.

[4] In quegli anni al vertice dell’amministrazione comunale erano esponenti delle famiglie Ayroldi, Patrelli, Mileti, e Carissimo; alcuni poi furono costretti all’esilio per via del regime degli Zevallos.

[5] Ludovico Pepe (Ostuni, 1853 -Monopoli, 1901). Fondatore della tipografia “Ennio” di Ostuni, giornalista, storico e insegnante.

[6] Il manoscritto è un composito organizzato che contiene una raccolta di componimenti poetici, che costituiscono la prima unità codicologica, realizzate da varie Accademie tenute a San Vito dei Normanni (Br). La maggior parte di questi autori sono sconosciuti, ma tra i più noti figurano Teodomiro De Leo, parente di Annibale De Leo, vissuto tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII, e Ortensio De Leo; in appendice, la seconda unità codicologica costituita da lettere di Matteo Milo datate 1711.

[7]MF/7 Incipit “ Tenuto in Casa dell’eccellentissimo  Sign.Principe di S.Vito il 5 novembre giorno di domenica nell’anno 1730 dall’intervento dell’illustrissimo Cono Luchino del Verme Vescovo di Ostuni ad ora prima.”

[8] Teodomiro De Leo, fu  un poeta di S. Vito dei Normanni, visse tra la fine del 1600 e l’inizio del 1700.

[9] Annibale De Leo, arcivescovo cattolico ed erudito, appartenente alla nota famiglia nobile sanvitese.

[10] Ortensio De Leo, esponente della famiglia De Leo, nota famiglia nobile sanvitese.

[11] Luca Giovene, giovane chierico ostunese, esperto di musica e nel canto; nel 1737 studia presso il Conservatorio della Pietà di Napoli. Non svolgerà mai l’insegnamento musicale.

[12] Il diciannove dicembre 1750, Giovene fu nominato Cappellano Fidalgo a Lisbona “ossia nobile di mia casa, atteso esser ordinato di Ordini sacri con 450 reis di stipendio ogni mese e 3 quarta di orzo ogni giorno e suo vestimento”. Tale titolo si protrasse nel tempo difatti nel 1776, un suo nipote di nome Luca Giovene venne riconosciuto di tale carica.

[13] Don Giovanni Ayroldi, fu un  uomo appartenente alla nobiltà ostunese del millesettecento.

[14] Insignita, nel 2011, del titolo di  Basilica Minore Concattedrale di Santa Maria Assunta.

[15] Bisanzio Antonio Filo, studioso di latino e filosofia, fu vescovo di Ostuni dal 1707 al 1720, precedentemente vescovo di Oppido.

[16]Marco Antonio Serio, parroco della Chiesa dello Spirito Santo nell’anno 1727.

[17] Antico conservatorio di Napoli, Conservatorio della Pietà dei Turchini, diretto dal 1705 al 1740 da Nicola Fago.

[18] S. Tamborrino, Rudera Hostunen, Ms., BDO.

[19] Nell’archivio capitolare di Ostuni di tutta la documentazione che nel Quattrocento doveva essere custodita presso l’archivio capitolare di Ostuni, oggi ne resta solo una minima parte. Non sono pervenuti né gli atti consiliari né le scritture giudiziarie. Abbastanza cospicuo rimane invece il fondo pergamenaceo.  Il nucleo più antico di scritti è composto da duecentotrentaquattro pergamene, datate dal 1099 al XVIII secolo; vi è poi un fondo cartaceo che raccoglie  atti del Vescovo, del Capitolo, della Curia, della Mensa Vescovile, delle confraternite, dei monasteri di clausura femminili, scritture notarili e platee, accompagnato da materiale cartografico e documentale.

Punto di riferimento per gli appassionati locali e non, è un luogo frequentato al fine di analizzare materiale inedito locale; è stato oggetto di diverse iniziative di riordino e catalogazione.  Nel 2006, in seguito al restauro di tutto il materiale documentario, è stato recuperato un registro tardo-quattrocentesco relativo ai lavori di ristrutturazione della cattedrale di Ostuni. Oggi è l’unico archivio rimasto in città.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (1/7): Ostuni e Carovigno

di Armando Polito

Se l’amicizia reale si nutre anche di vicinanza fisica in omaggio al vecchio detto lontano dagli occhi, lontano dal cuore, quella virtuale, paradossalmente, sganciata in un certo senso dal tempo e dallo spazio, purché basata su comuni interessi e, pur nella diversità di alcune opinioni (da quelle religiose a quelle politiche), nel rispetto (che non significa accettazione) dell’altrui modo, qualunque esso sia (purché non delinquenziale …)  di interpretare la vita, può nutrirsi anche della segnalazione di un semplice link.

Per essere concreto: questa serie di contributi non ci sarebbe stata se l’amico, virtuale, napoletano Aniello Langella, titolare di un interessantissimo sito che invito tutti a visitare (http://www.vesuvioweb.com/it/), non mi avesse fornito, come già successo altre volte, la possibilità di entrare in contatto digitale con il testo da cui io ho solo tratto le immagini relative alla nostra terra  Il testo in questione è L’Italia descritta e illustrata Visione cinematografica 3000 fototipie, Sonzogno, Milano, 1909. Si tratta della seconda edizione; la prima era uscita nel 1908, preceduta nel 1907 da un‘edizione speciale per gli abbonati del secolo. Delle 1000 pagine di cui il volume consta, quelle dalla p. 839 alla p. 854.

Laddove ho potuto, per certezza dell’identificazione e facilità di reperimento del materiale necessario, ho accoppiato ad ogni immagine antica la corrispondente contemporanea.

Ricerche di questo tipo vivono dell’apporto di appassionati e studiosi locali: per questo io, che sono di Nardò, sarò grato a chiunque vorrà integrare questo contributo con foto che attestanti lo stato attuale dei luoghi.

OSTUNI: la concattedrale

 

CAROVIGNO: Il castello

 

 

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Ostuni e due suoi figli immeritatamente dimenticati: Pietro Vincenti e Francesco Trinchera (2/2)

di Armando Polito
Se di Pietro Vincenti, del quale mi sono occupato nella precedente puntata, c’era da aspettarsi, com’è stato, l’assenza di qualche incisione che riproducesse le sue sembianze, per Francesco Trinchera senior (1810-1874), invece, posteriore di più di due secoli, sorprende che l’unico suo ritratto restatoci sia probabilmente quello eseguito del fotografo  Giacinto Arena, che di seguito riproduco da un estratto a firma di Pier Francesco Palumbo, in rete all’indirizzo http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Studi%20Salentini/1979/fascicoli/Francesco%20Trinchera%201810%201874.pdf, dove il lettore troverà una messe d’informazioni

Purtroppo la foto non è corredata di nessun dato (e nemmeno l’estratto ne contiene), anche se mostra il nome dell’autore, il fotografo Giacomo Arena (1818-1906), che fu attivo a Napoli dal 1860 circa in poi. Inoltre, da questa data e fino al 1870, il suo nome appare unito con quello dei fratelli D’Alessandri. Molto probabilmente, considerando anche l’apparente età del soggetto ritratto,  la foto dovrebbe essere successiva al 1870. A partire da tale data l’Arena indicò sul rovescio delle sue foto l’anno di esecuzione, ma, per quel che s’è detto, nessun controllo è possibile senza l’originale.

Io mi limiterò a riportare qui i frontespizi delle opere reperibili in rete (il che è più che sufficiente a dare un’idea dello spessore del personaggio) ed alcuni contributi minori contenenti dettagli interessanti che via via presenterò, non senza dare ragione del senior che accompagna il nome del nostro (1810-1874=, che non è presente non solo sulla scheda di Wikipedia dedicata ad Ostuni ma in tutta l’enciclopedia della rete, che, invece registra suo nipote, Francesco Trinchera junior appunto (1841-1923), giornalista e politico. Nella parte finale di questo post il riferimento ad una sua opera sarà il pretesto (tuttavia, come si vedrà, imprenscindibile) per una riflessione di natura campanilistica, meno frivola di quanto l’espressione appena usata potrebbe lasciar credere e per segnalare una delle tante storie italiane in cui è difficile dire quanto abbiano inciso l’incuria, l’impruedenza, l’incompetenza e, probabilmente, anche il malaffare …

Il Menicone  del conte Giulio Perticari colla vita dello stesso scritta per Francesco Trinchera, De Marco, Napoli, 1836

 

 

1837 Scene del cholera di Napoli, De Marco, Napoli, 1837

La pubblicazione contiene, insieme con quelli di altri autori, tre contributi del Trinchera: La pentita (pp. 7-18), L’usuraio e la croce di onore (pp. 67-76) e Torno alla nave (pp. 133-141).  


Elogio funebre per D. Pietro Consigli, arcivecovo di Brindisi ed amministratore della chiesa di Ostuni
, De Marco, Napoli, 1840


Salvatore Aula, Compendio delle antichità romane (traduzione dal latino, aggiunte e note di Francesco Trinchera), Batelli, Napoli, 1850

 

 

Corso di economia politica (2 volumi), Tipografia degli artisti A. Pons. & C., Torino, 1854

 

Della genesi filosofica e storica del diritto internazionale e suoi fondamenti, Stamperia della Regia Università, Napoli, 1963

 

Codice aragonese, v. I Cataneo, Napoli, 1866; v. II, p. I Cataneo, Napoli, 1868; v.II, p. II, Cataneo, Napoli, 1870; v. III, Cavaliere, Napoli, 1874

Della vita e delle opere del conte Luigi Cibrario, Stanperia della Regia Università, Napoli, 1870

 

Degli archivi napolitani, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1872

 

Schema di una storia dell’econonmia politica, (Estratto dal Vol. IX degli Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche), Stamperia della Regia Università, Napoli, 1873

Studi e bibliografie giuridiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1874 (seconda edizione)

 

Passo ora ai contributi secondari ma contenenti dettagli di particolare interesse documentario.

Nel v.2, n. 4, a. II, 1837, pp. 33-35, del Poliorama pittoresco il Trinchera pubblicò Egnazia ed Ostuni (frammento di un viaggio), corredato in testa della vista panoramica di Ostuni che di seguito riproduco.

Nel v. III, N. 8 (1838-1839, pp. 84-86 dello stesso periodico comparve delnostroun altro bozzetto di viaggio dedicatoa Brindisi con l’immagine che segue.

E nel n. 42 del 24 maggio 1845 dello stesso periodico venne ospitato il necrologio con cui annunciava la morte del fratello Giuseppe; se si vuole una testimonianza privata (qualcuno di rebbe una condivisione facebookiana ante litteram) ma pur sempre un  indiretto riconoscimento della considerazione in cui il nostro era giustamente tenuto.

Ad onor del vero va detto che Ostuni ha onorato degnamente il suo illustre figlio intitolandogli non solo una via ma anche la biblioteca comunale.

 

Siamo così giunti alla nota finale campanilistica e all’ipotetico malaffare, anche se voglio augurarmi che non sia stata la curiosità suscitata da questa parola ad indurre il lettore a sorbirsi quanto finora esposto.

A tale scopo ho lasciato per ultima una delle più importanti pubblicazioni del Trinchera, cioè il Syllabus Graecarum membranarum, Cataneo, Napoli, 1865.

 

Essa raccoglie la trascrizione di antiche pergamene greche e latine (per quelle greche vi è a fronte la traduzione in latino) custodite negli archivi  della Biblioteca reale di Napoli, dei cenobi di Cassino e di Cava, nonché in quello della curia vescovile di Nardò. E qui, col campanilismo,. cominciano  le dolenti note perché proprio le pergamene greche neretine (diciotto secondo una copia, esistente in archivio, del verbale di prelevamento dalla biblioteca del seminario nel 1864, risultano irreperibili). Due di esse furono trascritte, parziale fortuna nella sfortuna, nel Syllabus e sono particolarmente importanti per quanto riguarda il toponimo Nardò e la sua forma tronca contro la piana del Neretum ovidiano (Metamorfosi, XV, 50) e la proparossitona Νήρητον  (leggi Nèreton) di Tolomeo (Geographia, III, 1, 76).

Ecco il dettaglio (tratto da p. 513) della sottoscrizione della prima pergamena, che è del 1134:


(Scritto dalla mano di me chierico Rabdo  e del notaio   … della città di Nardò …. dodicesima indizione  anno 66421)

Da notare l’assenza di accento in νερετου (letture teoriche possibili: nèretu, nerètu e neretù). Il fenomeno è comune  anche a νοταριου, genitivo, evidente prestito dal nominativo latino notarius, che avrebbe dovuto dare νοταρίου(leggi notarìu)  e ad ἰνδικτιωνος, anche questo genitivo, evidente prestito dal nominativo latino indictio (genitivo indictionis) che avrebbe dovuto dare ἰνδικτιῶνος (leggi indictiònos). Non è ipotizzabile che l’estensore del documento avesse l’abitudine di omettere l’accento (circonflesso nel caso di ἰνδικτιωνος e acuto in quello di νερετου) quando esso coinvolge la penultima sillaba, in quanto esso è presente  in casi consimili nel resto della scrittura; meglio nel resto della trascrizione della scrittura e questo amplifica in misura esponenziale il rammarico per la sua perdita, considerando che la moderna epigrafia e filologia in genere di oggi sono sicuramenrte più  raffinate di quelle ottocentesche e che un controllo sull’originale probabilmente avrebbe diradato più di un dubbio.

Non pone problemi, invece, il dettaglio (tratto da p. 531) della seconda pergamena che è del 1227.

(Il giudice Leone da Nardò richiesto per il presente contratto sottoscrisse testimoniando)

Qui compare νερετοῦ  (leggi neretù), sempre genitivo, che suppone un nominativo νερετός (leggi neretòs) o νερετόν (leggi neretòn), da cui sarebbe derivato Nardò, forma, dunque, greca bizantina che avrebbe avuto la prevalenza  sulla latina.

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1 Dalla creazione del mondo, avvenuta, secondo la tradizione bizantina, nel 5509 a. C.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/20/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-12/

 

 

Ostuni e due suoi figli immeritatamente dimenticati: Pietro Vincenti e Francesco Trinchera (1/2)

di Armando Polito

Non è raro trovare nelle schede di Wikipedia relative a paesi e città una sezione dedicata alle persone legate per qualche motivo al luogo. Così, per quanto riguarda Ostuni (https://it.wikipedia.org/wiki/Ostuni), è riportato il quartetto che segue.

Se è motivo di vanto citare Umberto Veronesi come cittadino onorario e come figli della città Ludovico Pepe e Giovanni Semerano, se qualcuno può cogliere un frivolo compiacimento, legato ai valori dominanti nella nostra epoca nella citazione di Andrea Iaia, io, senza aver nulla contro quest’ultimo, mi mostro scandalizzato per l’assenza dei nomi di Pietro Vincenti e di Francesco Trinchera. Non credo che ciò sia dipeso dalla cronologia (come se questa fosse un criterio di merito per il ricordo) perché se per assurdo ciò potrebbe valere per il Vincenti che visse tra il XVI ed il XVII secolo sarebbe ingiustificabile per il Trinchera, che visse dal 1810 al 1874), vista la presenza del Pepe che morì nel 1901. Peccato, perché la scheda è nelle altre sezioni ben compilata, ma queste due  lacune mi sembrano veramente intollerabili. Lascio a chi ne ha tempo e voglia il compito dell’integrazione, che potrà sfruttare, sia pur sinteticamente per motivi facilmente comprensibili, questo post.

Comincio da Pietro Vincenti (nella foto che segue la freccia evidenzia la targa viaria a lui dedicata).

Fu un famoso giurista e archivista della Real Zecca, funzione che quasi sicuramente non è estranea all’accuratezza ed al rigore che contraddistinguono le sue opere, di ognuna delle quali di seguito riporto il titolo e il frontespizio.
Historia della famiglia Cantelma, Sottile, Napoli, 1604

 

Teatro de gli huomini illustri, che furono Protonotarii nel Regno di Napoli, Sottile, Napoli, 1607

 

Teatro de gli Huomini illustri, che furono grand’Ammiragli  nel Regno di Napoli, Roncagliolo, Napoli, 1618

La parte finale  (pp. 83-108)  del testo di Felice Di Gennaro Historia della famiglia Gennara o’ Ianara dell’illustrissimo Seggio di Porto nella inclita,  fidelissima città di Napoli, cavata dalli regij archivij, antichissime inscrittioni & trattamenti de varij cronisti, Roncagliolo, Napoli, 1623 è una vera e propria appendice documentaria a firma del Vincenti.

 

Nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale  De Leo” di Brindisi è custodito un manoscritto del XVIII secolo  (ms_B/3), copia redatta per conto della famiglia De Leo dall’originale che si conserva presso l’archivio del comune di Ostuni, riguardante benefici e giuspatronati che il Vincenti trasse dall’archivio della Real Zecca. Fu pubblicato da Ludovico Pepe in Il libro rosso della città di Ostuni, Scuola Tipografica editrice Bartolo Longo, Pompei, 1888. In questo manoscritto a carta 45r si trova in aggiunta all’edizione del Pepe un privilegio, secondo me mutilo della parte finale, di Federico II in favore della città di Ostuni.

Cristo vince, Cristo regna X. Federico col favore della clemenza divina imperatore sempre augusto e re di Sicilia, considerando la pura fedeltà e la sincera devozione che tutto il popolo di Ostuni manifestò ai nostri predecessori di e a noi ininterrottamente, con l’innata benignità della nostra maestà accogliamo nel nostro demanio la predetta città di Ostuni volendo per il resto tenere ed avere in perpetuo la stessa città nel demanio nostro e dei nostri eredi; concediamo anche che il popolo di Ostuni goda di quella libertà nei trappetti da possedere tra i beni stabili e tutti quelli mobili che la nostra città di Monopoli è solita avere presso la costa. E il popolo del mare non conosce esperienza perché sulle galee alla nostra maestà possa …    

Chiudo con una nota (è proprio il caso di dire …) leggera augurando all’omonimo (chi potrebbe affermare che non sia discendente del nostro?) musicista ostunese1 una longevità maggiore di quella goduta dal giurista-archivista, in modo che fra duecento anni sia intitolata pure a lui una via, magari periferica, e che la scheda citata di Wikipedia veda, lui vivente, la dovuta, duplice integrazione …

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/24/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-22/

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1 https://sites.google.com/pietrovincenti.com/musica/italiano/bio

La Terra d’Otranto ieri e oggi (11/14): OSTUNI

di Armando Polito

Il toponimo

Quanto sia tormentato l’etimo lo mostra già nel XVI secolo l’umanista di Leverano Girolamo Marciano che in Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855 (l’opera uscì postuma e questa è la prima edizione) alle pagine 431-432 così scrive: Scrivono alcuni il nome di questa città Hostuni coll’h, ed altri Ostuni senza l’h. Cristoforo Foroliviense nella sua Cronica la chiama Ustonio, e dice che ella fu edificata da Ustonio II figliolo di Diomede, o come altri vogliono suo nipote,… Tutto ciò disse di questa città il Foriliviense, stimando egli che Ostuni sia città antichissima, ed edificata ne’ tempi di Diomede; il che se così fosse, se ne troverebbe senza dubbio qualche memoria appresso degli antichi, come han detto delle altre città edificate da Diomede in queste parti d’Italia. E però si stima che quanto egli dice della sua edificazione, della presa di Annibale, de’ Romani, de’ Goti, e de’ Longobardi, è tutta sua immaginazione …. E secondo quei che ne scrivono il nome Hostuni, si potrà dire che fu così detta ab hosto, verbo latino, che dinota provento d’olio, del quale si fa molta copia nel suo tenimento, il cui oliveto gira da circa miglia 50, poiché hostus ed hostum secondo Marco Marco Terenzio Varrone, significa quella quantità d’olio che si cava da un fatto, ovvero confettura di olive. Chiamano fatto quel provento, o quantità d’olio, che proviene da una confettura che si fa tutta una volta, che noi chiamiamo pasta, ovvero macina, la quale alcuni facevano di moggia 160, ed altri di 120, e d’indi giudicavansi quanti vasi d’olio, o pur quanta capacità dovevasi avere per tal confettura. Altri derivano il significato d’Ostuni ab Ostia, cioè sacrificio, alcuni ab hoste nemico, ed altri ab hostialis, cioè porticelle e finestre, perché stando essa città sopra di un colle di rimpetto alla marina, la moltitudine di finestre le quali fanno meravigliosa vista nelle sue fabbriche, ed altri palazzi, spiegano vaga e riguardevole prospettiva ai riguardanti, di modo che si vede nell’apparenza una città ornata di vaghe e riguardevoli finestre. Ma perché queste latine etimologie sono dell’ultimo effetto, e non della prima causa, ed Ostuni città greca, edificata come si è detto, dai Greci posteriori, non è da credersi che ella fosse da quelli chiamata con nome latino, sì bene greco Ostuneon, senza l’aspirazione, derivando esso nome dalle greche voci ASTY et NEON, cioè Urbs nova, come Neapolis; onde i Latini, come nota Prisciano, mutando la lettera greca Y in U latino, dicono Astu, ei i Greci, come dice Stefano, per dignità principale chiamano ASTY la città di Atene, siccome i Latini la città di Roma. Onde Terenzio nell’Wunuco dice: An in Astu venis? Del che accortosi il dottissimo nostro Quinto Mario, accomodando il nome greco al buon latino, nomina sempre questa città ne’ suoi scritti Astuneum, ed i suoi popoli Astunienses.  

Bisognerà attendere tre secoli per una nuova proposta, quella avanzata da Nicola Maria Cataldi (1772-1867) studioso gallipolino, che in  Prospetto della penisola salentina, ossia cenno storico degli antichi popoli salentini colla descrizione delle loro città con carta topografica della Iapigia, Tipografia del reale ospizio di S. Ferdinando, Lecce, 1857, pag. 28  identifica Ostuni con l’antica Sturneum o Stuneum, trascrizione latina del greco Στοῦρνοι (leggi Stùrnoi) attestato da Tolomeo (II secolo d. C.) in Geographia, III, 1, 68 e corrispondente, secondo il Cataldi , all’etnico Stulnini attestato  un secolo prima in Plinio in Naturalis historia, III, 11; l’archeologo gallipolino, infine, a corroborare la sua tesi, mette in campo la leggenda ΣΤΥ di alcune monete del II secolo a. C. attribuite a Sturnio già da Domenico Sestini (Lettere e dissertazioni numismatiche, Piatti, Firenze, 1819, tomo VI, pagg. 4-5, da cui è tratta l’immagine di seguito riprodotta).

 

La sufficiente fedeltà del disegno è attestata dalla foto sottostante tratta da http://www.bridgepugliausa.it/articolo.asp?id_sez=0&id_cat=49&id_art=3630&lingua=it

 

Passerà più di un secolo e Ciro Santoro ipotizzerà l’origine messapica di Ostuni in un lavoro che il lettore interessato potrà leggere all’indirizzo http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Studi%20Salentini/1997/fascicoli/Ostuni%20Etimologia%20del%20Nome.pdf

Lo ΣΤΥ (evidenziato con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, sottostante) che si legge nella Mappa di Soleto, ammesso che questa sia autentica, cioè risalente al VI secolo a. C., non contribuisce , con la sua posizione, a fare chiarezza.

 

Pacichelli (A), pag. 177

 

Pacichelli (C), anno 1686 e 1687

Lasciai appresso il lunedì mattina la via di San Vito, terra del Marchese di questo nome, e in collina, sette miglia lungi da Mesagne, e quella di Ostuni, lunga, sassosa e imboschita, di dove a dieci si passa a Martina. Ostuni da San Vito si discosta otto miglia, ed è città vecchia, di grazios’apparenza al di fuori, mal disposta però di dentro, in sito eminente, ove il solo palazzo è memorabile, fatto edificar già dalla infelice Reina Bona di Polonia, che l’avea inchiuso nel Ducato di Bari.

… in 24 moleste miglia, si ascese ad Ostuni, città senza veruna vaghezza, del Duca Zavaglio, abitante in Madrid. Mi prostrai nel vescovado, di poco elegante struttura, ed accellerata la provista del vino dal barile miserabile, a caso capitato da Francavilla, che tirò a sé, con forma di calamita, sitibondi come mosche, per dubbio di restar in un tratto esausti, quantunque i paesani vantasser copia e sostanza fragrante di quell’umore, a misura dell’olio, che vi abonda; visitai fuori i Carmelitani e i Riformati, posando in un misero albergo.

Pacichelli, mappa

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ostuni_in_Puglia.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ostuni_in_Puglia.jpg

A  Palazzo e Chiesa Vescovale (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/wiki/File:Ostuni_-_Palazzo_Vescovile_-_Portone.jpg)

B Convento del Carmine (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/carmine.htm)

G  Francescani (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/sanfrancesco.htm)

D   S. Francesco di Paula (mappa/http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/ostuni/sanfrancescodipaola.htm)

E    Torre Pizzella/Torre Pozzella (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/9c/Torre_Pozzelle_Ostuni.jpg)

F  Castello di Villanova con il Porto (mappa/http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/e/ea/Castello_di_villanova.jpg)

Per quanto riguarda lo stemma nella mappa lo scudo è vuoto. Ecco quello attuale (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ostuni-Stemma.png):

Prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

Terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

Quarta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

Quinta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

Sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

Settima parte:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

Ottava partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Nona parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/ 

Decima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/26/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1014-oria/

 

 

 

 

Cisternino – Ostuni e la strada dei Colli

ulivo, muri a secco

di Gianni Ferraris

 

Sabato 25 c’è stata a Casalini, frazione di Cisternino, un’assemblea affollatissima sul progetto “Strada Dei Colli”.

La storia è tipicamente italiana, infinita. La famigerata “Strada dei Colli” è un tracciato di 5 Km. circa che passerebbe, secondo il progetto, in mezzo a macchia mediterranea, uliveti, e trancerebbe un paesaggio ideale per tracking, biciclette e passeggiate. L’alibi per questa colata di asfalto e cemento sarebbe quello di rendere più agevole il percorso Cisternino – Ostuni completando un progetto concepito, quarant’anni addietro, per collegare la Selva di Fasano con Ostuni, rimaneva scoperto il tratto in discussione. In realtà esistono già due strade Cisternino Ostuni, e nemmeno esageratamente brutte. Occorrerebbe solo una manutenzione ordinaria più accurata, passandoci in una sera di pioggia, come mi è successo proprio sabato scorso, il percorso era ad ostacoli, nessuna segnaletica orizzontale, strisce bianche cancellate, guadi di veri e propri laghi in mezzo alla carreggiata, tutta roba che istiga a “maledire  il tempo ed il governo” giusto per citare De Andrè., Un tempo si diceva “piove governo ladro” qui è il caso di dire che l’amministrazione provinciale è colpevolmente responsabile di mancata manutenzione, la pioggia è naturale, l’incuria non lo è mai.

mappe

La storia della colata d’asfalto iniziò nel 1963, quando l’allora amministrazione comunale fece un primo progetto impugnato da un comitato locale, poi venne fatta una variante, il tutto sospeso ben tre volte dagli organi competenti e definitivamente  e bocciato dal TAR di Lecce. Oggi dopo almeno due generazioni di progettisti, esiste una terza via che, a detta degli amministratori, sarebbe rispettosa dell’ambiente e diventerebbe ameno passeggio in auto nelle campagne. Allo stato delle cose, per le sole progettazioni, dice il comitato NOASF, la sola progettazione è costata 110.000 euro, ai quali si debbono aggiungere gli 80.000 della progettazione bis. Il preventivo di spesa complessivo ammonterebbe a 4 milioni di euro finanziati da tempo. L’amministrazione la presenta come “strada museo” o come “collegamento dei Santuari di San Biagio e Sant’Oronzo”, immaginiamo file di rombanti pellegrini fare la corsa fra un santuario e l’altro alla faccia della via francigena che si vuole riscoprire poco sotto.  Come museo la strada lambirebbe invece alcune masserie storiche, oltre che uliveti con alberi secolari.

fragno pugliavalley com

Peccato che per farla occorre abbattere almeno mille fra ulivi e fragni  secolari, che verranno espiantati pagandoli circa 800 euro caduno, 20 verranno reimpiantati, assicurano i progettisti, bella soddisfazione veramente. A proposito del Fragno (quercus trojana), leggo che esistono esclusivamente in Puglia e Basilicata, in particolare nelle Murge e nella zona di Matera. Per fare un paragone azzardato sarebbe come se in Egitto si spostassero le piramidi per fare un Mc Donalds.  Gli espropri avranno un valore complessivo di 274.000 euro. 6 Km. Di muretti a secco secolari verranno abbattuti e, promettono i progettisti, rifatti. Ovviamente, se non si vogliono stanziare milioni di euro, il rifacimento sarà con strumenti e tecniche moderne, che nulla avranno a che vedere con il fascino e l’importanza storica di quelli antichi. In sostanza, i 63.100 mq. di territorio interessato allo scempio serviranno ad uso esclusivo di una strada che, con le servitù, avrà una larghezza di 15 mt. circa. Per fare il tutto, essendo il terreno con rocce affioranti o poco sotto lo strato di terra occorrerà, recita il progetto, minare o utilizzare adeguati “martelloni”.

striscione

Al momento il comitato ha raccolto 2000 firme contro questo lavoro che definire inutile è riduttivo. Alcuni dubbi sorgono spontanei. I terreni lambiti dalla strada dei colli acquisiranno valore, soprattutto se in futuro resi edificabili. A discapito dei coltivatori che si vedranno tagliati in due i loro terreni e di un turismo “lento” che, a detta di molti, è quello che caratterizza questi luoghi. La domanda prima è proprio su quale tipo di turismo si intende attrarre con la cementificazione che, ben sappiamo, è un male atavico del Salento. Negli anni ’60, quando l’opera venne concepita, c’era una diversa attenzione all’ambiente, era boom economico e arrivava in ogni casa la FIAT 600, oggi le cose sono mutate, prova ne siano l’attenzione per l’ambiente e per la natura che spingono un turismo avveduto e rispettoso a visitare i luoghi che hanno quello specifico  valore aggiunto. E queste scelte eludono l’altro male colpevolmente voluto in tutto il Salento che è la mancanza di mezzi pubblici, di collegamenti fra entroterra e marine.

Nella richiesta di incontro urgente con l’Assessore regionale Barbanente, Alberto Vannetti del comitato NOASF scrive fra l’altro:

 

“…Come Ella saprà con raccolta di circa 2000 firme pari al 20% della popolazione del Comune di Cisternino, i cittadini si sono espressi a sostegno delle ragioni del comitato e contro una previsione stradale che prevede l’espianto di circa 1000 ulivi, alcuni secolari, oltre a fragni e lecci, e la distruzione di centinaia di metri di muretti a secco, assolutamente non ripristinabili per fattura e tipologia, nonostante le supposte previsioni di interventi di “compensazione ambientale”.

L’opera  concepita nel 1963 appare superata ed inutile se si

considera la presenza di tracciati stradali alternativi per i quali non risulta “strategica”, ed abnorme nella sua concezione alla luce della visione del paesaggio maturata in oltre 50 anni di cultura del territorio, oltre che di uno sviluppo compatibile e sostenibile sul piano del turismo che lasci i luoghi inalterati in quanto risorsa. Senza considerare l’impegno di spesa di circa 4 milioni di euro (denaro pubblico), 370 mila dei quali per oneri di progettazione (la lezione del prof. Settis in merito ai conflitti di competenza potrebbe rivelarsi emblematica in questa vicenda, cfr Paesaggio, Costituzione, Cemento. Einaudi)…”.

 

Nel corso dell’assemblea di sabato 25, alla quale hanno partecipato gli avvocati Elda Pastore, Andrea Moreno e Luigi D’Ambrosio, sono stati evidenziati tutti i difetti del progetto, e ne sono stati proposti di alternativi, meno invasivi e soprattutto meno costosi, “il denaro risparmiato si potrebbe utilizzare per manutenzione ordinaria e straordinaria della viabilità di Cisternino e delle frazioni” ha detto l’ex consigliere comunale Arcangelo Palmisano.

Nell’attesa dell’inizio dell’assemblea abbiamo raccolto alcuni commenti sulla tenacia dell’Amministrazione Comunale nel voler procedere a testa bassa, PD, SEL, PSI uniti nella lotta. Le risposte sono state univoche: “non si vogliono perdere i quattro milioni già stanziati e questa amministrazione si vuole appuntare la medaglietta di primi della classe, ultimando un’opera che aspetta dagli anni ‘60”.

Poco veramente, soprattutto quando in giro per il Salento si vedono lottizzazioni selvagge, gruppi italiani e stranieri di ogni provenienza arrembare per acquisire terreni, ettari ed ettari, per cementificare. Succede in agro di Nardò, succede in altre parti. La scelta di tirare i remi in barca e concepire un’evoluzione del paesaggio meno invasiva e più etica forse potrebbe essere vincente. Il Salento è terra scelta da molti che da nord si sono trasferiti a vivere qui, non certo per vedere asfalto, piuttosto per sperare che un modo di vita più “lenta” sia possibile, che tornino a funzionare i trasporti pubblici inesistenti, che si faccia manutenzione ordinaria e straordinaria dei tratturi e delle stradine di campagna, che si lascino in pace alberi che da secoli segnano la differenza di queste terre da altri luoghi.

 

Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari

Libri/ Rossella Barletta, Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari, Capone Editore

 

Pietra su pietra

di Maurizio Nocera

Perché interessarsi ancora (e sempre) dell’architettura rurale pugliese? Perché attraverso lo studio ed il recupero di questa realtà noi possiamo conoscere le origini, i costumi, le tradizioni di chi ci ha preceduto, di chi ha segnato questo territorio con il lavoro e con la speranza di lasciare testimonianze vive e utili alle generazioni che sarebbero venute. Ma anche per tentare, dopo decenni e decenni di abbandono, di progettare per dette aree un loro riutilizzo attraverso una riqualificazione ambientale, e così poter ritornare a rivivere e ad essere utili per i nuovi orizzonti turistico-culturali. Per fare tutto ciò, però, occorre avviare progetti e studi che identifichino e descrivano dettagliatamente le aree rurali, per le quali occorre poi tracciare le necessarie linee di intervento per la riqualificazione ed il loro recupero funzionale.

È importante quindi avere come obiettivo immediato il recupero dei trulli dell’area della Murgia brindisina, barese e tarantina, il recupero delle “pajare” e delle “caseddhe” del Salento, di quelle del foggiano e della Bat, infine occorre recuperare il vasto patrimonio dei muretti a secco che, per migliaia di chilometri, insistono in tutta la regione. Studiare le aree rurali pugliesi significa narrare la loro secolare storia; significa descrivere le loro caratteristiche costruttive; significa conoscere la differenza tra trullo primordiale e trullo evoluto, tra trullo e “pajara” o “furneddhu”, e tra questi e le “caseddhe”. Ciò è per noi importante per capire l’evoluzione della caratteristica struttura abitativa rurale dei pugliesi.

 

Lo “studio” di Giovanni Santini

Oggi però non iniziamo da zero. Nel passato ci sono stati studiosi che hanno dedicato non poche attenzioni al paesaggio rurale. Si pensi, ad esempio, a Luigi Maggiulli, Sigismondo Castromediano, Filippo Bacile di Castiglione, altri ancora. E non molto tempo fa, alla cultura e alle architetture del paesaggio rurale la Società di Storia Patria per la Puglia dedicò due convegni di importanza nazionale. Il primo, su iniziativa della stessa e in collaborazione col “Centro studi sui territori rurali” di Pavullo nel Frignano (Modena), intitolato “Storia e problemi della Montagna Italiana”, ebbe luogo a Pavullo il 21 e 23 maggio 1971; il secondo invece, organizzato sempre dalla Società di Storia Patria per la Puglia e dalla sua Sezione Dauna, con l’adesione della regione Puglia ed ancora del “Centro studi di Pavullo”, intitolato “Distretti rurali e città minori”, ebbe luogo a Lucera (col coinvolgimento anche dei sindaci e delle amministrazioni comunali di Troia e Monte Sant’Angelo) il 17-19 marzo 1974.

Cito questi due eventi perché in essi alcuni studiosi della materia tennero delle relazioni importanti per il loro carattere metodologici come, ad esempio, furono gli interventi di Giovanni Santini, all’epoca ordinario dell’Università di Bari il quale, nella relazione “Ipotesi di lavoro e ricerche interdisciplinari”, riferendosi al paesaggio “civile” italiano, individuò tre aree di “civiltà” storicamente vissute. La maggiore, che è quella dei grandi centri urbani come sono i capoluoghi di provincia. L’intermedia, che è quella caratterizzata dai centri urbani agglomerati del tipo Gallipoli, Ostuni, Martina Franca, Barletta, Manfredonia, ma anche territori rurali con una rilevanza storico-culturale del tipo Parchi letterari (ad esempio, quello intitolato al meridionalista Tommaso Fiore nell’area altamurana); infine, e siamo al dunque, le aree minori o “minime”, quelle cioè in cui Santini, sulla scia del March Bloch de “I caratteri originari della storia rurale francese” (Torino 1973) e del Fernand Braudel degli “Scritti sulla storia” (Milano 1973), individua come aree delimitate da confini ben precisi come, ad esempio, sono le corti, le pievi, i castelli e quant’altro sta nelle loro più immediate vicinanze. Per noi il concetto di aree “minime” vale per le zone rurali che hanno o hanno avuto un’omogeneità colturale e architettonica.

Lo studio del Santini aveva come obiettivo quello dell’integrazione delle aree “minime” con le intermedie e queste ultime, a loro volta, con i grandi centri urbanizzati. «Solo così – egli scrive nella sua relazione – con un grandioso sforzo collettivo di presa di coscienza del passato, potremo programmare il futuro dei territori rurali italiani nel rispetto delle loro tradizioni e della loro personalità storica, oltreché, naturalmente, delle esigenze del presente […]. In tal modo [… sarà possibile] veramente, una rinascita del mondo rurale, rendendolo protagonista del suo rinnovamento» (cfr. Atti del II Convegno “Distretti rurali e città minori”, SSPP, Bari 1977, p. 210). Lo studioso auspicava allora che, per procedere su questa strada, occorreva avviare una fase conoscitiva e scientifica e solo, dopo di essa, sarebbe stato possibile mettere in atto politiche e proposte fattibili capaci di rinnovare il territorio “minimo” raccordandolo e integrandolo col resto del paesaggio urbano e rurale. Sappiamo che da decenni, per non dire da qualche secolo, ciò non è stato fatto, un po’ per un’assurda visione dell’Italia unitaria e post-unitaria, nella quale doveva crescere economicamente solo il Nord, mentre il Sud doveva solo consumare la ricchezza prodotta; un po’ anche per l’incuria e la debolezza dello stesso personale politico-amministrativo dello stesso Meridione, per il quale era sufficiente vivere solo il presente senza preoccuparsi di quello che sarebbe stato il futuro, soprattutto quello delle generazioni che si sarebbero succedute, cioè i nostri figli.

Il recupero delle aree “minime”

Oggi occorre quanto prima tentare di colmare le lacune del passato cercando, sulla scia delle considerazioni del Santini ma anche su quelle di altri studiosi, di contribuire ad un progetto di recupero delle aree “minime”, con l’obiettivo della loro integrazione e raccordo con le aree urbanizzate e culturalmente più attrezzate della regione. Da subito va avviato il recupero dei muretti a secco e dell’architettura dei trulli, delle “pajare” e delle “caseddhe” con l’obiettivo immediato di intervenire per verificare il loro stato di conservazione, e là dove v’è urgenza di un intervento, metterlo in atto restaurando oppure consolidando le strutture dei manufatti. In questo ampio progetto di rivitalizzazione delle aree “minime” rurali pugliesi occorre coinvolgere tutti coloro che vivono in rapporto con la terra, e il riferimento va ai vecchi e nuovi lavoratori agricoli, ai piccoli e medi contadini, agli extra-comunitari e ai giovani italiani in cerca di lavoro, dando loro ovviamente dignità di retribuzione.

Il trullo

Importante è sapere com’è fatta la struttura del trullo, consistente nel “pinnacolo” (l’ultimo esile concio in verticale che si innalza al centro del tetto); la “carrazzola”, altrimenti detta anche “serraglia” (chianca o lastra di pietra circolare che chiude la copertura conica); le “chiancarelle” (mattoncini piatti che ricoprono il tetto costruito in forma di cono con inclinazione di circa 45 gradi); la “intercapedine” (spazio tra le chiancarelle esterne e la linea di pietre a secco che costituiscono la parete interna del trullo, in dialetto salentino chiamata anche “muraja”); la “cannella” (volta costruita ad anelli circolari con diametro decrescente verso l’alto); il “compluvio” (sistema di immissione della acque piovane nella cisterna); l’ “ingresso” (unica porta che permette l’entrata e l’uscita dal trullo); gli “settaturi” (sedili in pietra a ridosso dell’ingresso); il “soppalco” (utilizzato come deposito o posto letto); la “alcova” (parte della stanza contenente il letto e solitamente adibita a dormitorio); la “cisterna” (può essere interna scavata al di sotto delle fondamenta del trullo oppure scavata esternamente e affiancata ad esso). Quando il trullo è in forma trapezoidale (più rara) gli angoli sporgenti vengono costruiti con i cosiddetti “peducci”, che sono pietre più grosse rispetto alle altre usate per le pareti normali. Non poche volte, in Puglia, si incontrano trulli o “pajare” o “caseddhe” circondate da grandi mura perimetrali (“paritoni”) che delimitavano lo spazio dell’aia o degli animali da cortile.

“Pajare” e “caseddhe”

Il tipo di struttura del trullo vale anche per le “pajare” o “furneddhi”, più presenti nel basso Salento, il cui aspetto è in forma tronco-conica o tronco-piramidale (“tholos”) con pareti a secco spesso non intonacate. Nel libro “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento” (Progeca, Tricase 2007), Francesco Calò scrive che «Le costruzioni trulliformi utilizzate come veri e propri ripari di campagna, sono particolarmente diffuse a sud, nel basso Salento, lungo le fasce costiere. Sono ripari stagionali costruiti interamente a secco» (p. 15), precisando che «un’evoluzione dei ripari trulliformi sono le “caseddhe” e le “liàme”, costruzioni in pietra a secco e a pianta quadrangolare, sempre rustiche, ma più stabili e più comode sul campo. Le prime, poco diffuse, hanno una copertura risolta a due spioventi di tegole di terracotta» (p. 38).

Calò nei primi capitoli del suo libro fa opportuni riferimenti storici sull’estensione europea del fenomeno dei ripari costruiti con pietre a secco, ed interessante è l’approfondimento che egli fa sulle origini della struttura architettonica rurale. Nel capitolo “Etimologia dei termini”, egli definisce e chiarisce specificamente termini come “pagliaro” o “pagghiara” e “pagghiarune”; “trullo” (sinonimo di “tholos”), o “truddhu” o “chipuru”, o “furnu” e “furneddhu”; “casella” o “caseddha” o “liàma” o “lamia”. Interessante è pure il capitolo “Procedimento costruttivo e struttura”, nel quale descrive come viene costruito un riparo con pietre a secco. Scrive: «i ripari trulliformi in pietra a secco sono generalmente costruzioni con struttura interna monocellulare, cioè dotate di un solo ambiente, e sono costruite in pietra a secco secondo il più volte citato principio delle “mensole aggettanti”, che permette di realizzare una varietà di pseudo-cupole, specialmente le tholos più classiche. Questo sistema per risolvere la copertura, apparentemente complesso, è in realtà molto semplice, poiché deriva dal sistema del triangolo di scarico, così come la cupola e la volta a botte sono derivate dall’arco a tutto sesto. Il contadino o l’esperto costruttore, dopo aver terminato l’approvvigionamento delle pietre, inizia il procedimento costruttivo scegliendo prima il sito. Successivamente, disegna la planimetria del riparo direttamente sul terreno, che può assumere due forme, quella circolare, più primordiale, o quardrangolare, più recente, differenziando, così, la parte inferiore del volume del riparo. La copertura è risolta solitamente a “tholos”, più raramente, a “piramide” o a “barca” rovesciata» (p. 55).

Il maestro costruttore Donato Pinzetta

Occorre quanto prima prendere coscienza dell’importanza delle architetture rurali pugliesi, soprattutto per un loro riutilizzo in funzione produttiva ed anche in quella turistico-culturale. E in primo luogo occorre attrezzarsi di una legislazione regionale tale che impedisca inutili sconvolgimenti dell’assetto territoriale agricolo, evitando episodi già accaduti che hanno visto distruggere o spostare tali architetture dai siti in cui da secoli e pure da millenni stavano, per trasportarle in ville o in luoghi che non hanno nulla a che vedere con la loro storia di pietre. Occorre seguire le indicazioni di chi sulla terra e tra le pietre di questa terra ci vive con amore e passione come, ad esempio, il maestro costruttore di muretti a secco Donato Pinzetta, di Tricase, e il geometra Antonello Palma, di Montesano, i quali, in un’illuminante intervista condotta da Paolo Palomba, pubblicata su «il Paese nuovo» (8 luglio 2009), hanno difeso con competenza le architetture a secco del Salento. Alla domanda posta dal giornalista Palomba [«Geometra Palma, quali strategie tecniche si sente di suggerire all’opinione pubblica, al fine di preservare tali opere architettoniche, viste come espressione importante della civiltà contadina?»], Palma ha risposto così: «è importante e doveroso che soprattutto il tecnico (geometra, ingegnere, architetto) sensibilizzi e stimoli l’opinione pubblica a prevenire qualsiasi alterazione delle costruzioni rurali; spesso, purtroppo, questi reperti del passato vengono modificati impropriamente, con materiali diversi da quelli originari. Più che il tufo o il cemento armato, deve essere garantita la struttura nativa di siffatto patrimonio dell’umanità, nonché espressione architettonico-culturale del Salento. Si tratta di “guardare il vecchio per fare il nuovo”, suggerendo la presenza di codici e regolamenti che tengano conto della memoria storica, in vista dell’emanazione di nuovi ed efficaci piani regolatori territoriali».

L’umanesimo della pietra

Comunque, sul terreno della difesa delle strutture architettoniche rurali, qualcosa è cominciato a muoversi. Nel 2000 fu Nico Blasi, studioso a quel tempo attivo nell’associazione martinese “Umanesimo della Pietra”, che si interessò dell’importanza delle costruzioni trulliforme rilasciando una intervista a «Quotidiano di Lecce» (14 luglio 2000), raccolta da Anita Preti. In essa, Blasi afferma che «Si può fare di tutto con i trulli. L’importante sarebbe conservare il tempo per amarli e rispettarli». E sull’appello del Blasi, non pochi studiosi e molti pugliesi innamorati del nostro paesaggio stanno oggi lavorando per ridare dignità alle antiche architetture rurali. Come di recente ha fatto Rossella Barletta, con la pubblicazione di un suo libro intitolato “Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari” (Capone Editore, Cavallino 2009, pp. 96, euro 8), che si presenta con due stupende immagini (entrambe scatti dell’archivio della Casa editrice) di copertina (in prima un “pajarone” e in ultima un muretto a secco dalle caratteristiche pietre ad incastro verticale-orizzontale-obliquo).

Il libro di Rossella Barletta

Di immagini bellissime è colmo l’intero libro, che è introdotto dalla Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, Maria Rosaria De Lumè, che scrive: «L’architettura rurale […] è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo un determinato luogo, esito visibile di numerosi fattori culturali […]. C’è un altro modo per definire l’architettura rurale: muretti a secco, “pajare”, “pagghiare”, “furneddhi”, fanno parte di quella che viene indicata ‘architettura vernacolare, con cui si intende quel tipo di costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale e tecnica. È, per questo, un’architettura consolidata che non presenta segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall’esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Per questo, proprio perché è collegata all’ambiente, i materiali sono quelli del luogo, pietre su pietre, senza collanti. Muretti a secco, terrazzamenti, costruzioni a forma di capanna che assumono nomi diversi, masserie costituiscono un mare di terre e pietre, e non solo nostro. […]. L’architettura di pietre a secco nei paesi del Mediterraneo ha avuto certamente origini differenziate per quanto riguarda tempo e forse anche per gli usi. Non si esclude infatti che le costruzioni a cono richiamino strutture funerarie presenti in Grecia e nell’isola di Pantelleria. Sappiamo con certezza che l’architettura a secco delle nostre regioni è certamente più tarda di quella della Grecia o dell’Egitto. Ma il filo che lega le capanne che davano riparo ai contadini della Mesopotania già nel III millennio a. C. ai nostri trulli, “pagghiare”, ecc. è sempre il medesimo, un filo di pietra» (p. 5).

Il paesaggio e la pietra

Nel prologo, la Barletta fa riferimento al paesaggio salentino, affermando che a dominarlo è «l’albero d’ulivo così estesamente presente da infoltire autentiche foreste che si perdono a vista d’occhio», l’altro aspetto è dato dalla roccia calcarea, assai diffusa, tanto da far derivare da essa perfino alcuni giuochi che allietavano le nostre passate generazioni; e fa l’esempio del giuoco dei cinque sassolini (in dialetto salentino “tuddhri”, o “patuddhri”, “pituddhri”, paddhri”, e “vota manu”). Bello il riferimento che fa l’autrice alla forma della pietra. A p. 28, scrive: «A volte la pietra grezza si presenta con forme modellate senza alcun intervento dell’uomo, erose dal vento e dalla pungente salsedine portata dai venti di scirocco; nella maggior parte dei casi è stata assemblata dando vita ai “murieddhri”, muretti, dai contadini tenaci e caparbi, quando hanno conquistato un palmo di terra che, ripulito, ha accolto ortaggi, leguminose, filari di vite, piante di capperi oppure alberi d’ulivo, di fico, di carrubo o di mandorlo, organismi vegetali che resistono alla scarsa umidità del terreno, oppure sono servite per delimitare le proprietà terriere o i percorsi di campagna, separare appezzamenti della stessa masseria diversamente coltivati, stabilizzare le scarpate, sostenere i terrazzamenti che hanno interrotto l’acclività del terreno e, talvolta, hanno consentito di praticare le più idonee coltivazioni».

Tutto vero. Chi qui scrive è nato in uno di questi “furneddhi” posto al centro di un’estesa cava di tufo del Salento, delimitata sui suoi alti confini da muretti a secco aventi la funzione di circoscrivere protettivamente l’argine del precipizio. All’interno della cava, tutt’intorno appunto alberi di fico, ficodindia, allori, mirti, filliree, lentischi, corbezzoli, e timo a più non posso tra tufi e pietraglia disseminata un po’ ovunque.

I muretti a secco

La Barletta fa poi un’utile descrizione dei muretti a secco definendoli “pariti” o “parieti” utili a recingere un appezzamento di terreno; chiama “lu quataru” o “quadaru” il varco che, ad un certo punto, si apre per accedere nel campo; oppure chiama “jazzu”, “ncurtaturu” o “curtale” il muretto a secco che recinge un ovile; “paritone” o “limitone” chiama invece il muraglione, che aveva la «funzione esclusivamente difensiva […] composto da grossi massi informi sovrapposti a secco». A questo punto doverosi sono gli opportuni riferimenti che l’autrice fa agli studi di Antonio Costantini, uno dei massimi esperti del paesaggio rurale salentino e delle architetture in pietra a secco, nello specifico “limitoni” e “paretoni”.

Interessante è la tecnica di costruzione dei muretti a secco indicata da Rossella Barletta. Scrive: «Per costruire il muro è preliminare raggiungere il banco di roccia o lo strato di terreno più solido e compatto sul quale si traccia talvolta uno scavo, una specie di fondamenta, in gergo denominato “scarpa”, sulla quale si pongono due file parallele di pietre di grossa pezzatura, facendo combaciare il più possibile il profilo col terreno […]. Sulle prime pietre vengono poggiate le altre, di dimensione inferiore, a mano a mano che il muro sale verso l’alto; si allineano seguendo una guida costituita da due cordicelle annodate a pali mobili, posti all’esterno del muro, che si spostano come cresce il muro. Lo spazio che si crea tra le due file di pietre, in gerco “cassa”, viene colmato con pietrame informe» (p. 40-42). Vengono poi descritte varie dimensioni di muretti a secco e varie esecuzioni di chiusura degli spazi interstiziali come della copertura. Interessante il capitolo “Muretti con nervature litiche”, che tratta dei vari modi di rinforzo dei muretti a secco, facendo un escursus storico sulla loro origine; come interessati sono i riferimenti agli attrezzi (“li fierri”) utili al “patitaru” o “truddhraru” (costruttore) per costruire i muretti: “lu zzeccu”, o “zzoccu” o “zueccu” (piccone); le “puntazze” (chiodi grandi e rustici). Interessante è anche le denominazioni che l’autrice dà delle differenti costruzioni rurali, che qui, riprendendo anche quelle già citate, ritrascrivo: «“pagghiara”, “pajara”, “pajaru”, “tuddhru”, “suppinna”, “furnu”, “furnieddhru”, “càvalaci”, chipùru” (questi ultimi due usati prevalentemente nei centri della Greca), “caseddhra”, “liama”, “ruddo” (nella campagna di Muro Leccese e Santa Cesarea Terme), “umbracchiu”, dal latino “umbraculum”, riparo, riposo (p. 63). Ad ognuna di queste denominazione corrisponde un’area entro cui essa viene usata dai locali come, ad esempio, «“caseddhri” (termine preferito dagli abitanti» della costa ionica.

Le architetture di supporto

Il libro della Barletta si conclude con i capitoli relativi agli architetti delle costruzioni rurali e alle architetture di supporto, quali: l’aia (“aiara”), il pozzo (“puzzu”), il pollaio (“puddhraru”), la pila (“pileddhra”), la cisterna (“matrìa”). L’autrice infine si auspica che venga istituita una «”strada della pietra” che colleghi i luoghi dove prevalgono muretti e casolari in pietra o, ancora meglio, l’istituzione di uno specifico eco-museo che fornisca ai cittadini […] consapevolezza di questo patrimonio paesaggistico-storico-culturale, perché comprendano la tenace ostinazione di chi continua a volere vivere a contatto della pietraia ed a volere custodire la propria autonomia e […] perché prendano atto che i manufatti in pietra […] assumono una funzione di straordinaria attualità» (p. 93).

Alle pp. 80-81 è possibile vedere le differenti immagini (scatti del foto-scrittore Lorenzo Capone) delle tipologie delle “pajare” e di alcune loro architetture di supporto, tra le quali una sola immagine appare animata (la n. 11). Tra i testi allegati, è possibile leggere la poesia “Sono uno di loro” (p. 22) di Ennio Bonea; “Opus incertum” (p. 37-38) di Alfonso Acocella; “Muri a secco” (pp. 45-46) di Riccardo Venturi; e la poesia “Contadine del Capo” (p. 68) di Donato Moro.

( da Paese nuovo del 26/2/2010)

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