Aradeo. La truffa degli Olivetani

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di Alessio Palumbo

Aradeo è un paese pressoché privo di centro storico. Degli antichi monumenti, delle sedi dell’amministrazione civile e giudiziaria, delle vecchie dimore nobiliari e soprattutto delle numerose chiese[1] quasi nulla è rimasto, grazie soprattutto alla scellerata politica edilizia dell’ultimo secolo. Oltre a questa spiegazione legata alla storia contemporanea del paese, è necessario prenderne in considerazione un’altra, derivante dalla storia moderna. La Terra di Aradeo da fine Quattrocento fino al 1806 fu feudo di un ordine monastico (gli Olivetani) che per secoli la governò da lontano, ovvero da Galatina, sfruttandola come fosse una piccola colonia. Tale ordine non dimostrò alcun interesse ad arricchire il feudo con edifici ed opere d’arte di particolare rilievo, fatta eccezione, come vedremo, per un breve periodo intorno alla metà del Seicento, ovvero il periodo del “governatorato”.

Ad oggi, dunque, tra le testimonianze artistiche ed architettoniche più rilevanti del passato cittadino si possono segnalare la colonna dedicata a San Giovanni Battista ed il limitrofo palazzo baronale (attuale palazzo Grassi). Per ironia della sorte i simboli di uno dei momenti più bui della storia cittadina, ossia l’età della totale sottomissione di Aradeo allo strapotere feudale degli Olivetani. Una sottomissione che ebbe il suo momento di non ritorno in un determinato anno: il 1533, l’anno della “truffa”. Ma procediamo con ordine.

In età bizantina (ma anche normanna e sveva) Aradeo fu un chorion (ovvero un centro urbano con proprie mura) culturalmente attivo e vitale. Afferma Hoffmann: “Aradeo fu, a cavallo dei secoli XIII e XIV, un punto di riferimento per la coscienza nazionale dei Greci in Terra d’Otranto, sotto il duplice aspetto di fedeltà al culto bizantino e alla lingua greca, e di ritorno alla letteratura greca classica e profana”[2].

Come molte altre terre fu poi oggetto di spartizioni, cessioni ed infeudamenti. In particolare, ad inizio Quattrocento, Raimondello Orsini del Balzo donò il feudo di Aradeo al monastero ed ospedale di Santa Caterina in Galatina, allora retto dai francescani. Nel 1494 questi ultimi furono estromessi ed il controllo del monastero passò agli Olivetani. Sotto i nuovi feudatari iniziò per Aradeo un lento ma inesorabile declino.

Fino ad allora il “casale” di Aradeo aveva goduto di una notevole autonomia nei confronti dei propri signori. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Università[3] (concretizzatasi oltre che nella libertà di elezione di sindaci, uditori ed altri amministratori, soprattutto nell’operato di un vero e proprio parlamento cittadino), l’esenzione dal pagamento delle decime alla camera baronale (fatta eccezione per quelle relative al vino, grano ed orzo) ed una serie di altre franchigie avevano garantito lo sviluppo di una marcata coscienza civica e di un forte spirito libertario. Con gli Olivetani tutto ciò venne messo in discussione.

I monaci “servendosi dei loro ministri, si proposero di controllare l’Università, volendo fare riunire le assemblee non più nella chiesa maggiore del casale, ma nella «casa del ditto Monasterio» cioè nella dimora che i monaci possedeva ad Aradeo”[4]. Gli aradeini si opposero fermamente, ma siamo solo all’inizio della lenta opera di erosione delle autonomie cittadine posta in atto da quello che alcuni storici hanno definito lo “Staterello di Santa Caterina”. Ben presto, i monaci ottennero il controllo oltre che della giurisdizione civile (a loro spettante con l’infeudazione) anche di quella criminale (jus gladii) acquistandola nel 1530 dal duca di Galatina. I magistrati, prima dimoranti in Aradeo, ora iniziarono a risiedere nella stessa Galatina e anche la corte e le carceri, ben presto,  furono trasferite in questa città[5]. A queste ragioni di contrasto si aggiunsero infine dei motivi economici e fiscali: i monaci cercarono di abolire la libertà di pascolo fuori dalle mura, tentarono di imporre il pagamento dell’erbatico, cominciarono ad esigere dazi sulle strade e altri balzelli, richiesero prestazioni lavorative gratuite nelle proprie terre, ecc… Gli aradeini si opposero con decisione, ma la situazione degenerò nel 1533, annus horribilis per la storia di Aradeo.

Per capire cosa successe, dobbiamo fare un passo indietro di cinque anni. Nel 1528 un tentativo di invasione francese squassa il regno di Napoli: è la cosiddetta guerra di Lautrec. Nel corso delle operazioni belliche ad Aradeo vengono alloggiate delle truppe albanesi a spese del casale. Per far fronte a tali spese la comunità si indebita per 2.217,3 ducati con il notaio gallipolino Gabriele Nanni e per 228 ducati con Giovanni Staivario della Costa: debiti cui l’Università aradeina non può far fronte. È qui che scatta la “truffa” degli Olivetani. Nel 1533, di fronte ad un notaio leccese, i monaci si assumono l’onere del debito contratto dagli aradeini, ottenendo in cambio “la decima delle Olive, Grano, Orzo, Vene, Fructi, invernini, ed estivi, Fagioli, Dolega, Ceci, Cipolla, Agli, Zafferana, Olii, Vini, Musti, Lupini, Fichi, ed erbe, Borracana, ed altro”[6].

Con questo atto notarile gli aradeini di fatto firmarono la rinuncia alla secolare autonomia economica e fiscale nei confronti dei propri baroni. Un clamoroso gesto autolesionistico, insomma. Quando gli aradeini si accorsero dell’errore commesso era ormai troppo tardi. Dopo vani tentativi di recuperare alcune decime ed il controllo di trappeti e masserie, nel 1555, spinti dalla disperazione, decisero di intentare causa agli Olivetani.

Secondo gli storici la risoluzione dell’Università di adire alle vie legali contro i propri baroni è il sintomo di una situazione oramai insostenibile: “gli Aradeini accettarono dunque la lotta per salvaguardare il loro lavoro, per assicurarsi la libertà di commercio, per garantirsi il pieno possesso della terra e dei suoi frutti e per premunirsi dai danni provenienti dal sistema feudale. Essi inoltre agirono, perché la propria università liberamente continuasse a nominare i magistrati, perché la comunità non perdesse il possesso del demanio cittadino e perché non fosse privata di quelle franchigie economiche, che la consuetudine aveva garantite”[7]. L’avvocato nominato dall’Università giustificò la cessione delle decime come semplice donazione (e non vendita come sostenevano i monaci), causata delle incresciose conseguenze della guerra di Lautrec e, soprattutto, dall’opera di estorsione violenta posta in essere dagli abati. Gli Aradeini, quindi, “tentarono di invalidare il medesimo contratto, innanzitutto perché non avrebbe avuto le «solennità» richieste, in quanto non era stato stipulato nell’abitazione che l’ospedale galatinese possedeva nel casale, e poi perché gli olivetani, per estorcere il consenso ai contraendi, avrebbero pigliato «li homini et citatini de ditta terra et li amminaziavano che havessero fatto lo detto contenso Contracto de decime et li carceravano»”[8].

Nel processo che si svolse in territorio neutro, ossia a Parabita, i monaci ottennero che a testimoniare fossero uomini privi di proprietà immobiliari nella terra d’Aradeo, ciò al fine di evitare possibili conflitti di interesse. Nondimeno i testimoni provenienti soprattutto da Seclì, Soleto e Parabita accusarono i monaci di aver danneggiato in vario modo Aradeo, attentando alle sue tradizionali autonomie, minando la stessa economia, danneggiando la proprietà privata[9], maltrattando i cittadini, ecc. Nonostante la forza di tali testimonianze il processo si arenò, tant’è che nel 1753 la causa risultava ancora pendente presso il Sacro Regio Consiglio.

Gli Olivetani poterono quindi assoggettare completamente Aradeo. Essi misero “in atto il loro disegno: quello di ridurre le libertà amministrative e giudiziarie di Aradeo, inasprendo il sistema fiscale e attentando al piccolo Parlamento cittadino”[10]. Gli aradeini cercano di mantenere la propria autonomia politica edificando un sedile (sede del parlamento) fuori dalle mura, ma fu un successo effimero. Gli Olivetani rafforzarono il proprio controllo economico (acquistando tutti i mulini, trappeti e la gran parte della masserie[11]) e amministrativo. A tal fine, dal 1636, si avvalsero di una nuova figura: il governatore. A quest’ultimo il monastero di S.Caterina affittava, con contratto probabilmente biennale, i pieni poteri sul feudo.

Fu proprio il primo di questi governatori, padre Giovanni da Napoli, ad avviare un’eccezionale opera di rifeudalizzazione, che ebbe anche una sua veste artistica ed architettonica. La colonna di San Giovanni ed il palazzo baronale sono per l’appunto i simboli del baronaggio rampante degli Olivetani ad Aradeo. Giovanni da Napoli, infatti, “acquistò diverse abitazioni tra cui alcune dirute, che utilizzò come suolo edificatorio. Nel 1655 innalzò dalle fondamenta la nuova villa baronale, sede del governatorato olivetano, con la sala di rappresentanza, camere, magazzini, stalla, cucina, due cellari, uccelliere e una cappela. Nei pressi del medesimo stabile comprò anche diversi giardini, vigneti e altri terreni, che cinse con un muro di protezione, formando un unico grande giardino […] inoltre di fronte alla nuova sede baronale entrò in possesso di altri caseggiati, che poi fece abbattere per aprire una piazza, «et in mezzo ci hà eretto la statua di Santo Giovanne, et à torno, à fatto fare cornici di pietra di lecciso, et comprate tutte le case che s’includono in detta piazza»”[12]. Un grandioso piano di rinnovamento edilizio che portò anche all’ingrandimento del “vecchio castello” e all’innalzamento della chiesa dello Spirito Santo: un’eccezionale opera edificatoria volta a sancire il trionfo del baronaggio ecclesiastico sulla piccola e oramai completamente assoggettata università aradeina[13].

 


[1]Ad inizio cinquecento oltre alla chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola, erano presenti edifici di culto dedicati a S. Antonio (due chiese), S. Stefano, S. Giorgio, S. Angelo, S. Maria dell’«Annunciata», S. Maria e S. Salvatore. Altre chiese e cappelle si aggiunsero nei secoli a seguire.

[2] P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 65

[3] Per Università, in età medievale e moderna, si intende l’attuale “comune”

[4] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, vol. II, Galatina, Congedo, 1980, p.74

[5] Una testimonianza aradeina del 1555 riporta “comu li ditti Abate cellari et monaci voleno che il capitanio et Mastro de atti de ditta terra facciano residentia in Santo Pietro in Galatina et voleno che per qual si voglia causa tanto civile come criminale in prima instantia li homini di detta terra vadano adligati in Santo Pietro dove voleno tenere li carcerati” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f.169 r. in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 77)

[6] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 80

[7] Ivi, p. 84. La straordinarietà dell’atto del 1555 emerge anche dal modo in cui le fonti descrivono gli abitanti di Aradeo, mansueti e obbedienti ai propri signori: “li citatini et homini della ditta terra di Aradeo sonno stati et sono persone rustice, bonate, e da bene; persone che vanno alla bona et poco prattichi et experti de cautele et scritture persone obedientissime alli superiori loro che mai li contradicono a cosa alcuna” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f. 175r, in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 83).

[8] Ivi, p. 81

[9] Alcuni testimoni ad esempio accusarono i monaci di aver fatto pascolare le proprie mandrie sui terreni posseduti dagli aradeini senza risarcire i danni procurati dagli animali.

[10] G. PISANÒ, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia,  in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 46

[11] Nel 1556 edificano la Corte, probabilmente una vecchia torre bizantina, riconvertita in azienda agricola

[12] Ivi, p. 111

[13] Il termine “piccola” non è casuale, visto che nel corso del seicento la popolazione cittadina diminuì considerevolmente passando dai 105 fuochi di fine Cinquecento agli 82 del 1648 e 80 del 1669. Una tendenza di certo in linea con il generale decremento demografico del sud Italia in questi anni, ma che spicca se paragonata ai flussi demografici di altri paesi limitrofi (le cifre relative ai fuochi di Seclì nelle stesse date sono 106, 132, 145). Ciascun fuoco contava circa 4-5 individui. Dati tratti da M. A. VISCEGLIA, Territorio Feudo e Potere locale:Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1998)

Buccio di Ranallo e La leggenda di Santa Caterina d’Alessandria

di Angela Beccarisi

 

In questo breve articolo riprendo alcuni ipotesi già espresse nella pubblicazione Nel segno della stella a sedici punte (Editrice Salentina) per evidenziare maggiormente i contorni di una ricostruzione storico-artistica attorno alla chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Galatina, in relazione alle maggiori famiglie committenti presenti all’interno della stessa.

Come proposto nel 2012, avanzavo una diversa lettura in merito alla fondazione del tempio cateriniano, vale a dire l’esistenza di una chiesa intitolata a Santa Caterina de Veterjis  a cui legavo il nome di Raimondo del Balzo (prozio del più famoso Raimondello) e della seconda moglie Isabella d’Eppe[1]. Trovo conferma nella lettura del saggio di Michela Becchis[2], che consiglio vivamente  per il confronto proposto tra gli affreschi quattrocenteschi galatinesi e pittori dell’area siculo-catalana. Resta a monte che nelle trame artistiche e religiose della chiesa galatinese del 1385, vi sia un rimando anche esplicito a Raimondo del Balzo, sebbene in un’ottica di lettura differente proposta nel mio piccolo saggio.

Sempre Nel segno della stella a sedici punte, evidenziavo il legame esistente tra la chiesa di Casaluce ad Aversa, fondata da Raimondo del Balzo, intorno alla fine degli anni Sessanta del XIV secolo,  e l’ordine dei Celestini, ordine che prese possesso del convento e della chiesa sotto il regno di Giovanna I. L’evento venne celebrato dalla campagna decorativa in cui è presente Celestino V assiso in trono attribuita al maestro toscano Niccolò di Tommaso che operò nel napoletano in quegli anni[3].  

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Celestino V, attribuito a Niccolò di Tommaso, anni Settanta del XIV secolo, Casaluce

 

Allo stesso ordine Maria d’Enghien-Brienne era particolarmente legata. Il Cutolo nella sua biografia, infatti, ci informa del fatto che il confessore della contessa fosse un celestino[4]. D’altronde la notizia è in linea con le dinamiche sociali ed artistiche dell’epoca nella città di Lecce, poiché Santa Croce, la chiesa fondata a metà del XIV secolo da Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e zio di Maria (lo stemma è ancora visibile a destra del portale maggiore, nell’edificio ricostruito nel XVI secolo su progetto di Gabriele Riccardi) era anch’essa guidata dai Celestini. Necessariamente questo forte legame con i Celestini conduce le nostre ricerche ed analisi in Abruzzo e in particolare a l’Aquila, dove si conserva il corpo di Celestino V, all’interno dell’abbazia di Collemaggio.

Nel 1392[5], un anno dopo l’arrivo dei francescani della Vicarìa di Bosnia, a Galatina a Santa Caterina, si stipula un gemellaggio tra il tempio cateriniano e l’abbazia di Collemaggio. Per cui trovo molto curioso ed interessantissima quanto leggo e ‘riscopro’ in un testo che a mio avviso dovrebbe essere studiato nelle scuole superiori italiane. E mi riferisco al bellissimo Storia della letteratura meridionale del professore Aldo Vallone.[6] Per quel che concerne la poesia epico-religiosa tra XIV secolo e XV secolo, uno dei maggiori centri di  produzione di versi in volgare era Aquila negli Abruzzi ed il poeta per eccellenza era Buccio di Ranallo (Poppoleto, oggi Coppito, fine XIII sec.-1363) la cui produzione era una “fluente maestosità di celestinismo e francescanesimo, certo il più suggestivo e completo dell’area abruzzese”.

Lo stesso Buccio componeva nel 1330 la Leggenda di Santa Caterina d’Alessandria, versi in volgare che illustravano la storia della santa martire di Alessandria d’Egitto, con una spiccata descrizione della santa, donna colta,  a discapito dell’imperatore Massenzio, in cui il poeta “imposta il colloquio e lo atteggia secondo temi e moduli francescani”.

Vollio che ad celo guardi,

c’- olle soe paramenta;

lu sole co’-ll luna

che tanto lume duna;

et anche delle stelle

che [so’]lucide e belle

che mai fieta non fanno.

 

Potremmo immaginare che l’opera di Buccio di Ranallo non fosse estranea alla corte di Napoli, allo spirito culturale ed artistico inaugurato nella capitale partenopea da Roberto d’Angiò insieme alla moglie Sancia de Mallorca che in quegli anni (1328-1333) erano alle prese con la decorazione della francescana chiesa di Santa Chiara ad opera di Giotto. Corte frequentata da Raimondo del Balzo, gran Camerlengo del regno di Napoli e signore delle terre di Soleto.

Altri elementi quindi possono essere utili a rileggere la grande fabbrica galatinese in cui gli affreschi ‘parlano’ con grande eloquenza di un sostrato impercettibile di scelte figurative che rimandano alla metà del XIV secolo e alla corte di Napoli. Ritengo che Raimondo del Balzo e la moglie Isabella d’Eppe siano stati attori non protagonisti nelle scelte architettoniche di  Galatina e Soleto, a cui si aggiunsero Niccolò Orsini, Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien-Brienne.

Riporto in questo articolo un bel confronto di  immagini che mi è stato segnalato da Valentina Primiceri, dopo aver letto Nel segno della stella a sedici punte. Le due Vergini annunciate, a Galatina e nell’abbazia di Collemaggio, a rimarcare lquesto rapporto, questo dialogo, non solo religioso, ma anche artistico tra la contea di Soleto, in particolare Galatina, e la città dell’Aquila.

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A sinistra: Vergine annunciata, abbazia di Collemaggio, XV secolo- Aquila

A destra: Vergine annunciata, chiesa Santa Caterina d’Alessandria, XV secolo–Galatina

 


Bibliografia             

A. Beccarisi, Nel segno della stella a sedici punte, Galatina, 2012 anche per la relativa bibliografia e ultimi contributi.

M. Becchis, Santa Caterina a Galatina:i suoi committenti e alcune strade per i suoi pittori, in (a cura di) P.F. Pistilli, F. Manzanari, G. Curzi, Universitates e baronie, arte e architettura in Abruzzo e nel regno al tempo dei Durazzo, 2008.

F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli: 1266-1414 e un riesame dell’arte fridericiana, Roma, 1969.

A. Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina, 1977

 

 G. Vallone, 1992. Ancora riproposto in (a cura di),  A. Cassiano. B. Vetere, Dal giglio all’orso, i principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel salento, Galatina, 2006.

 

 A. Vallone, Storia della letteratura meridionale, Napoli, 1996, pp. 41-54.

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (II parte)

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di Alfredo Sanasi

 

…Il cosiddetto “Codice di Maria d’Enghien” riunisce tutte le norme a cui si richiamava il Concistorium Principis e che regolavano quattro materie politico-amministrative della città di Lecce: i dazi, le tasse su uomini e animali, l’ordine pubblico, la manutenzione delle mura e dei fossati.

Certo la contessa-regina non ebbe diretta parte nella compilazione di tale codice, che risale a vari anni dopo la sua morte, ma è fuor di dubbio che la figura di lei domina ovunque con precisi riferimenti; i bandi appartengono al suo governo o sono da lei ispirati: si legge infatti spesso in essi l’espressione “de voluntate et comandamento de la maiesta de Madama Regina Maria”.

Quegli anni di pace, che Raimondello e Maria dedicarono soprattutto al buon ordinamento politico-giudiziario e alle opere d’arte, quali degni antesignani dei principi più illuminati del Rinascimento italiano, dovevano finire allorché i due principi ruppero fede al re Ladislao e si riaccostarono al partito angioino, seguendo Luigi II d’Angiò.

Raimondello si rese conto che il re Ladislao avrebbe espresso la sua indignazione con un atto di guerra e perciò preparò un forte esercito per difendere il suo principato, ma proprio allora , all’inizio del 1406, egli morì a Lecce. Maria d’Enghien non si perse d’animo. Occultò per il momento la morte del marito e affrettò i preparativi di guerra, per fronteggiare risolutamente l’attacco di Ladislao d’Angiò Durazzo. Anticipando coraggiosamente l’eroismo di Giovanna d’Arco di alcuni decenni, infiammò arditamente gli animi dei suoi sudditi vestendo una pesante armatura e spronandoli alla difesa della patria. L’esercito napoletano cinse d’assedio Taranto, ma ben presto il re Ladislao si doveva rendere conto che Maria d’Enghien era pressocchè imprendibile, tanto era solida la difesa della città dai due mari, a cui avevano portato aiuto i Sanseverino, ora alleati di Maria contro il comune nemico, quel re Ladislao che pochi mesi prima aveva messo a morte e lasciati insepolti quattro signori Sanseverino. L’assedio si protrasse per tutto l’anno 1406 con varie vittoriose sortite dei Tarantini, a tal punto che il re, scornato dalle continue vittorie d’una donna, se ne tornò a Napoli, lasciando il comando delle truppe a don Antonio Acquaviva, duca d’Atri. Anche al duca la principessa inferse delle sconfitte e ottenne da Luigi II d’Angiò l’investitura del principato di Taranto per il figlio Giannantonio Orsini del Balzo; se questi fosse morto senza figli, il principato sarebbe passato al fratello Gabriele e, nel caso d’un decesso di quest’ultimo, alle sorelle Maria e Caterina. Poi la principessa si ritirò ad Oria ad attendere le mosse di Ladislao. Nel marzo dell’anno successivo 1407, Ladislao tornò con un esercito potentissimo di cavalieri, fanti e navi. Quando tale notizia giunse alla principessa Maria, ella lasciò Oria e alla testa di alcune centinaia di cavalieri passò attraverso le file degli assedianti e rientrò a Taranto, sostenendo fieramente l’assedio, che si annunciava lungo e difficile.

Gentile da Monterano, consigliere del re Ladislao, ad un certo punto suggerì di risolvere quell’assedio snervante e forse dall’impossibile riuscita, proponendo al suo re una inaspettata soluzione: sposare Maria d’Enghien! Il re approvò e Maria accettò l’offerta del re. L’indomita amazzone accolse Ladislao sulle porte di Taranto non vestita d’oro e d’argento tra i broccati, ma in completa armatura e le nozze si celebrarono il 23 aprile dello stesso anno 1407 nella cappella di San Leonardo del Castello Aragonese di Taranto, dove ogni anno si svolge ancora oggi una rievocazione in costume di quell’evento storico. Sicuramente varie molle spinsero Maria d’Enghien ad accettare l’offerta del re sino a ieri suo implacabile nemico: il fasto della corte napoletana, il desiderio di eguagliare o addirittura offuscare famose regine di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Margherita di Durazzo, un conscio o inconscio calcolo politico. Neppure i timori instillati in lei dai Sanseverino valsero a trattenerla, anzi ad uno di loro, che le aveva detto che il re , una volta avutala, l’avrebbe messa a morte, rispose sicura:”non me ne curo, perché se moro, moro regina”.

Il mese successivo la regina Maria partì da Taranto alla volta di Napoli, ma sola, perché Ladislao resto in Puglia per la sistemazione del nuovo grande possesso. E’ certo veramente che ella venne accolta dal popolo napoletano con grandi festeggiamenti e tra grida di gioia accompagnata sino alla mole di Castelnuovo, ma da quel momento cominciarono per lei le delusioni. La favorita del re, Maria Guindazzo, continuava a dimorare a Castel dell’Uovo e altre due amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, per ordine del re, si insediarono a Castelnuovo, allorché nel mese di giugno Ladislao rientrò finalmente a Napoli. Trascorsero sette anni di lotte e guerre condotte dal re con alterne vicende, prima nel tentativo di riprendersi il trono d’Ungheria, poi guerreggiando a Roma, in Toscana ed in Umbria fino al 1414, quando perì tragicamente, forse avvelenato dai Fiorentini. Quegli anni Maria trascorse in Castelnuovo quasi dimenticata e quindi non si prese neppure in considerazione, alla morte del re, una sua successione, anzi, secondo il Coniger, Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao, avrebbe allora fatto rinchiudere in carcere Maria e i suoi quattro figli.

Se non proprio prigioniera Maria d’Enghien fu comunque trattenuta a Napoli dalla regina Giovanna II e solo l’anno dopo, nel 1415, potè rientrare nel possesso della contea di Lecce, conservando il titolo di regina. Fu questo per Maria il periodo più attivo e fattivo nei confronti dei sudditi e dei suoi possedimenti, che ad uno ad uno riuscì a riconquistare o con le armi o con le trattative amichevoli, anche grazie agli interventi  di un grande cavaliere francese, Tristano Chiaramente, duca di Calabria e conte di Copertino, che ella volle quale sposo della figlia Caterina Orsini del Balzo. Per il regno di Giovanna II questo fu un periodo torbido e convulso di lotte, che raggiunse il suo culmine quando ella sposò Giacomo de la Marche, che tra gli altri dispiaceri arrecati alla regina aggiunse, non potendolo difendere, la vendita del principato di Taranto a Maria d’Enghien e a suo figlio Giannantonio. Giovanna II dovette, suo malgrado, riconfermare il Principato agli Orsini del Balzo. Maria d’Enghien iniziava una grande nuova ascesa, rafforzata ancor più dalle nozze nel 1417 del figlio Giannantonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V. Giannantonio eguagliò il valore e l’ardimento del padre Raimondello e nelle lotte tra Angioini e Aragonesi per la successione al regno di Napoli finì con l’appoggiare apertamente Alfonso d’Aragona.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina

per la prima parte si veda

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

Da contessa di Lecce a regina di Napoli.

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

 

di Alfredo Sanasi

 maria d'enghien

Se questa domanda venisse posta ai Salentini, anche di non modesta cultura, molti di essi sarebbero in difficoltà a rispondere circa questa nobile e grande figlia del Salento, che segnò di sé la storia antica del meridione d’Italia e che anticipò le grandi eroine dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata: l’Ariosto e il Tasso avrebbero tanto gioito di conoscerla personalmente (ma chi può escludere che un eco del suo grande animo non giunse veramente alla fantasia dei nostri grandi poeti del Rinascimento?).

Il suo animo eroico ella mostrò in varie circostanze e operazioni di guerra; ma qual era fisicamente questa nobile Salentina, prima contessa di Lecce e poi principessa di Taranto e regina di Napoli?

È molto difficile dirlo con esattezza, perché non esistono pitture del tempo che la ritraggano realisticamente e poco ci fanno intravedere un medaglione scolpito sul portale del castello di Copertino (l’ultimo a destra) e una piccola immagine scultorea sul basamento della tomba del figlio, Giannantonio Orsini del Balzo in S. Caterina di Galatina. Forse qualcosa di più possiamo dedurre da alcuni affreschi nella basilica di S. Caterina, che, se pure ritraggono altri personaggi, probabilmente riproducono le fattezze di Maria d’Enghien, a cui allusero indirettamente i frescanti del ‘400, grati verso la munificenza della loro mecenate. Almeno tre degli affreschi di S. Caterina s’ispirano alla figura di Maria d’Enghien.

In primo luogo nella volta dei Sacramenti la splendida figura coronata nella scena del matrimonio: la sposa (“forse un ricordo della nobile regina committente”, dice Marisa Milella, direttore storico dell’arte della Sopraintendenza di Bari e Foggia) indossa la pellanda, maestosa sopravveste a maniche ampie foderata di vaio, caratteristica proprio degli ultimi decenni del Trecento e nel primo Quattrocento.

Sempre nella seconda campata della navata centrale, in basso a sinistra, è raffigurata S. Caterina: anche questa figura coronata, coperta da un mantello rotondo, senza maniche, lungo fino ai piedi, foderato di vaio, nei lineamenti e nell’abbigliamento, fa pensare alla nobile committente.

Terza probabile immagine di Maria d’Enghien possiamo intravedere in uno dei Re Magi che rendono omaggio alla Sacra Famiglia a Betlemme nella navatella destra di S. Caterina a Galatina.

Una delle tre figure ha tratti decisamente femminili, al centro tra i due Magi barbuti: un paggio le solleva la corona dai biondi capelli, perché evidentemente ella vuole genuflettersi dinanzi al Bambino Gesù, come ha  fatto il più anziano dei Magi. Gli Orsini del Balzo (in questo caso i tre Magi sarebbero Raimondello, Giannantonio e Maria) vantavano la loro discendenza proprio da uno dei Re Magi (Baldassarre) e quindi non sarebbe tanto strano che il frescante, in omaggio alla munifica committente, avesse sostituito ai tre personaggi antichi i tre grandi discendenti Orsini del Balzo.

Fra le tre figure che abbiamo ipotizzato possano riferirsi ai tratti somatici di Maria d’Enghien v’è inoltre una notevole somiglianza, che ci convince sempre più che il modello di riferimento sia proprio la contessa di Lecce. Molti critici in passato l’hanno timidamente e vagamente pensato, noi lo sosteniamo con maggior convincimento dopo i recenti restauri del 2000-2004, che ci permettono di vedere e confrontare le tre immagini con notevole chiarezza. Né è da supporre, come aveva fatto qualcuno in passato, che la somiglianza fosse dovuta al fatto che si sarebbe impiegato lo stesso cartone di base, perché notevolmente differenti sono le dimensioni e la posizione della testa e del collo.

Se è difficile delineare l’immagine fisica di Maria d’Enghien altrettanto vaghi e imprecisi sono i fatti della sua adolescenza e prima giovinezza. Noi vorremmo almeno precisare come a lei pervenne la contea di Lecce.

Gualtiero VI di Brienne, duca d’Atene e conte di Lecce, morendo da prode nella battaglia di Poitiers nel 1347 non lasciò alcun diretto successore, quindi erede universale dei suoi vasti domini divenne la sorella Isabella, che fin dal 1320 aveva sposato il nobile francese Gualtiero III d’Enghien. Dei suoi vari possedimenti Isabella assegnò al figlio Giovanni la contea di Lecce e da costui e da Sancia del Balzo, principessa reale, tale contea passò prima al figlio Pietro e, una volta morto costui nel 1384 senza eredi, passò quindi alla figlia Maria. Ecco come Maria d’Enghien a soli 17 anni si trovò contessa di Lecce, sotto la tutela del barone di Segine, Giovanni dell’Acaya.

Siamo in un periodo di scismi e di lotte tra papi e antipapi. L’Italia meridionale sotto il regno di Giovanni I fu dilaniata dalla guerra civile, perché i signori feudali di Puglia si divisero a seguire gli uni il papa, gli altri l’antipapa e Luigi I d’Angiò, adottato da Giovanna I, regina di Napoli.

I d’Enghien si schierarono con gli Angioini e quindi il re Luigi I, non appena Maria d’Enghien entrò in possesso del suo vasto feudo, comprendente larga parte del Salento, volle darla in sposa ad un suo nobile e valoroso guerriero, Raimondo Orsini del Balzo, che da poco aveva lasciato il papa ed il suo protetto Carlo III d’Angiò Durazzo ed era passato alla parte angioina di Luigi I.

Le nozze furono celebrate un anno dopo che Maria era diventata contessa di Lecce, non certo gradite ai Leccesi, che anzi inscenarono una sommossa contro Raimondello, sedata, secondo un cronista leccese, soltanto dopo svariati arresti. Seguirono anni di guerra continua tra gli Angioini e i Durazzeschi, durante i quali Raimondo Orsini oscillò tra le due parti, finchè nel 1399 egli non passò apertamente dalla parte di Ladislao Durazzo, succeduto a Carlo III e il giovane re investì l’Orsini del principato di Taranto. Raimondo e Maria d’ Enghien fecero il loro solenne ingresso nella città dei due mari, prendendo pieno possesso di quel principato che spettava loro di diritto per una legittima successione, perché Raimondello era il più diretto discendente di Maria del Balzo, sorella di Giacomo, che era stato l’ultimo principe di Taranto, morto senza eredi.

Il principato di Taranto, al tempo degli Angioini e in parte anche degli Aragonesi, è da considerare quasi “un regno nel regno” (come è stato spesso definito da vari storici), era costituito da un vastissimo territorio che si estendeva dallo Ionio, da Policoro e Matera, sino all’Adriatico con Ostuni e Brindisi e scendendo sino ad Oria, Nardò, Gallipoli, Ugento.

Dopo le nozze di Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien il principato di Taranto si estese ancora di più, comprendendo anche Lecce, di cui, come abbiamo detto, era contessa Maria, oltrechè Soleto e Galatina, già feudi di Raimondello.

Questo “regno nel regno” e i successi politici e militari di Raimondello attirarono su questo principe gli odi di molti baroni ed in particolare dei Sanseverino, potenti signori di tanti feudi e di notevoli città, come Nardò e Conversano.

Anche il re Ladislao d’Angiò Durazzo ad un certo punto non vedeva più di buon grado lo strapotere degli Orsini del Balzo, che addirittura quasi superava il suo potere e le sue rendite. I due principi Maria e Raimondo anzi avevano istituito un vero tribunale feudale che col figlio Giovanni Antonio fu un vero Concistorium principis, perché costui fino alla morte, che avvenne nel 1463, si arrogò il potere di giudice d’appello, che era una prerogativa spettante solo al re.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

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