Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (terza parte)

Veduta di Oria (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato)

 

di Mirko Belfiore

 

Le numerose residenze risultano interessanti anche per lo studio delle fasi progettuali intercorse per la loro realizzazione che videro all’opera diverse maestranze. In primis il leccese Mauro Manieri, consulente di fiducia degli Imperiale, presente in buona parte delle fabbriche commissionate dalla dinastia.

A questi vanno aggiunti alcune interessanti figure come il romano Filippo Barigioni, stretto collaboratore del Cardinale Giuseppe Renato e il napoletano Ferdinando Sanfelice, affermato architetto sulla scena partenopea.

L’incrociarsi di questi tre nomi, nelle occasioni offerte dal programma di opere pubbliche e di gestione del patrimonio culturale varato dagli Imperiale durante i due secoli di governo è il dato più significativo di questa fase tarda del Barocco pugliese.

Anche se la cronica carenza di documenti non ha consentito sinora di distribuire con decisione la responsabilità per la progettazione e l’edificazione di una buona parte di questi palazzi, resta fondamentale l’opportunità verificatasi da questo incontro, inserito in un ambiente dove si rintraccia un orientamento culturale che fa da ponte fra Barocco e Neoclassico ma, allo stesso tempo, radicato ancora nel Manierismo e suggestionato da spunti Rococò.

Il nome del Manieri è presente in tutte le fabbriche più importanti come la residenza urbana di Francavilla e la Collegiata, il castello di Manduria o il palazzo di Latiano, a dimostrazione del fatto che in questo artista i feudatari trovavano piena fiducia per l’espressione del proprio gusto e dei propri desideri. Il possibile incontro con il Sanfelice viene ipotizzato dal De Dominici, il quale afferma che, durante il soggiorno giovanile a Napoli del Manieri o la presenza del napoletano a Nardò per le progettazioni di alcuni edifici sacri durante i primi decenni del Settecento presso il fratello vescovo Antonio (o, come afferma il Cantone, la presenza simultanea dei due nella fabbrica della Cattedrale di Salerno), possano essere stato il momento in cui essi abbiano potuto scambiare idee e suggerimenti.

Naturalmente, in queste occasioni, il Sanfelice aveva la parte del maestro vista l’età più tarda mentre al Manieri toccava la parte dell’interlocutore, in un ruolo tutt’altro che provinciale.

In questo sodalizio architettonico resta ancora da quantificare l’inserimento di una figura affermata come quella del Barigioni, il quale come architetto aveva grande credito presso il Cardinale Giuseppe Renato e che con molta probabilità fu il progettista del disegno a pianta centrale della Chiesa Matrice di Francavilla, disegno realizzato in occasione della ricostruzione dell’edificio dopo il terremoto del 1743.

Negli articoli successivi verranno presentate le varie residenze della famiglia Imperiale disseminate in terra d’Otranto e analizzate attraverso piccoli excursus storico-artistici e architettonici.

(continua)

Antica carta geografica della Terra d’Otranto (Antonio Zatta , 1774, disegno su carta, 405 x 308 mm, Venezia)

 

BIBLIOGRAFIA

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Per la prima parte:

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (prima parte)

Per la seconda parte:

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (seconda parte)

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)

primo piano nobile di palazzo Imperiale a Genova

 

di Mirko Belfiore

La figura che più di tutti contribuì con le proprie azioni al consolidamento del potere economico e politico della famiglia fu Vincenzo Imperiale (1518-1567), riconosciuto uomo di cultura e titolare, già verso la fine del Quattrocento, di un florido banco.

Vincenzo, uno dei massimi esponenti dell’aristocrazia mercantile genovese, seppe allargare velocemente le maglie finanziarie della famiglia, risultando in molte aree (Roma, Napoli, Sicilia, Bologna, Milano e persino in Spagna) proprietario di rendite, assegnatario di appalti e commerci vari. Vincenzo, si servì dei proventi dei suoi affari, investendo in una delle sue passioni principali: la cultura della Grecia antica. Le sue competenze e i suoi interessi spaziavano dai grandi volumi d’età classica, come Plutarco e Ovidio, primo nucleo della biblioteca di famiglia, ai dipinti di celebri artisti, il tutto conservato presso il Palazzo signorile fatto costruire nel 1560, in un angolo della succitata Piazza Campetto, dall’architetto Giovan Battista Castello detto il Bergamasco e affrescato nei decenni successivi da Luca Cambiaso e Bernardo Castello, affermati artisti locali.

Famiglia Imperiale di Genova. Nella tela è raffigurato Giovanni Vincenzo Imperiale con la sua famiglia(Domenico Fiasella-Giovanni Battista Casoni, 1642, olio su tela, Genova,

 

A testimonianza ulteriore, della poliedricità del ricco finanziere e della profondità di interessi e di amore per la “Grecità”, troviamo la serie di Viri Illustres, gruppo scultoreo di notevoli dimensioni e di pregevole fattura, allestito nella Villa suburbana di Sampierdarena, detta la Bellezza, caratterizzato dalla presenza di statue di grandi uomini dell’antichità greca e modelli d’opere d’arte antica, ulteriore conferma di una tendenza di gusto, che si confermerà nelle generazioni successive.

Gio. Giacomo, figlio di Vincenzo e primo esponente della famiglia che salì alla carica di Doge della Repubblica di Genova, rappresenta il prototipo dell’uomo politico, impegnato nel governo della Cosa pubblica e sempre attento agli affari di famiglia. Fece tracciare, nel 1587, Via Imperiale, oggi Via di Scurreria, acquistando e riqualificando l’area prospicente il palazzo di famiglia e creando un tracciato, in asse con il portale dello stesso, che, ancora oggi, conduce alla Cattedrale di Genova. A Gio Giacomo, succedette Gian Vincenzo, sublime punto di incontro di tutte le anime in cui era caratterizzata la famiglia: politica, finanza e cultura. Seppe coniugare, con risultati eccellenti, le caratteristiche che ogni buon patrizio genovese doveva incorporare, l’abilità negli affari e la predilezione verso le diverse forme d’arte. Gian Vincenzo, oltre a saper raccogliere le redini finanziarie del patrimonio economico lasciatogli dai suoi predecessori e ampliandone ulteriormente i profitti, fu un riconosciuto poeta e un attento collezionista di opere pittoriche e letterarie. Figura di spicco dei circoli letterari cittadini e amico di alcuni dei più importanti uomini di lettere della Genova Cinque-Seicentesca come il Chiabrera, il Grillo e il Cebà, quanto di autori di fama internazionale come Torquato Tasso. Gian Vincenzo accumulò un ingente patrimonio e una collezione artistica fra le più importanti dell’epoca, che annoverava nomi di artisti del calibro di P.P. Rubens, A. Van Dick, Raffaello, il Veronese, Giulio Romano, Correggio, Annibale Carracci, Tintoretto, Parmigianino, Guido Reni e artisti locali come Luca Cambiaso, Domenico Piola e Bernardo Castello.

Ritratto di Giovanni Vincenzo Imperiali (Anthony Van Dick, 1625, olio su tela, U.S.A., Washington D.C., The National Gallery of Art)_

 

Attenti alle oscillazioni del mercato finanziario europeo e vigili su quelle che erano le dinamiche politiche della Corte  spagnola, gli Imperiale seppero destreggiarsi nell’accaparramento di quei mercati finanziari che, all’interno dell’Impero spagnolo, risultavano fra i più redditizi. Il re spagnolo Filippo II, travolto dai debiti e indebolito dall’annosa guerra contro le Sette Province Unite, dovette ricorre spesso alle finanze liguri. Questo solido monopolio, impostosi con forza durante i decenni centrali del XVI secolo, già verso la fine dello stesso secolo e gli inizi del successivo mostrò però i primi segni di cedimento: le palesi difficoltà della Corona nella restituzione dei capitali prestati spinse l’élite genovese a rivolgere gradualmente i propri interessi verso ambiti più sicuri; ed è proprio in questa fase che il Mezzogiorno d’Italia divenne “terra di conquista” per chiunque detenesse cospicui capitali, permettendo agli imprenditori della Repubblica di radicarsi senza ostacoli e prepotentemente nel Viceregno napoletano. La “diaspora” di questa ricca oligarchia, che del resto fu fortemente voluta dallo stesso Governo spagnolo, desideroso non solo di nuova liquidità, ma anche di allentare la radicata feudalità locale, dimostrò come i genovesi seppero approfittare, con lungimiranza, della difficile congiuntura asburgica di fine secolo.

Lapide dedicatoria, sintesi operato famiglia Imperiale nell’edificazione, ampliamento e arricchimento del Palazzo di Genova

 

Il progressivo accaparramento delle attività più redditizie dell’epoca, come l’acquisto di cariche civili ed ecclesiastiche, la gestione delle finanze pubbliche e bancarie, la compra-vendita di feudi e, soprattutto, dei titoli nobiliari ad essi connessi, consentì a questo potente gruppo di potere di conquistare un intero apparato economico come quelle del Vicereame, rivaleggiando con l’antica nobiltà meridionale.

Sala della Gerusalemme Liberata- Bernardo Castello 1617

 

Sala delle Gesta di Cimone l’Ateniese, Palazzo Imperiale di Piazza Campetto 8

 

Ed è in questo nuovo scenario che si muove Davide Imperiale (1553-1586), figlio di Andrea, a sua volta fratello di Vincenzo, il quale si rese illustre nella battaglia di Lepanto del 1572. Egli partecipò allo scontro con la sua squadra di galee, distinguendosi per il suo eroismo nel proteggere, con una delle sue navi, l’ammiraglia dove si trovava il comandante delle forze cristiane, Marcantonio Colonna, alla quale l’Imperiale, salvò la vita. Secondo la vulgata, Filippo II, entusiasta e impressionato dal coraggio del genovese, gli lasciò in dono il titolo di una serie di feudi situati Vicereame spagnolo, il marchesato della città di Oria e le proprietà dei feudi di Francavilla e Casalnuovo, in Terra d’Otranto. In realtà Davide entrò in possesso di questi territori nel 1575, pagando moneta sonante, prototipo di quei genovesi con cui Filippo II continuò a barattare per tutto il ‘500, vendendo terre, uffici e donativi in cambio di buona moneta, con la speranza di poter risollevare le finanze spagnole ormai allo stremo. Inizialmente, fra le condizioni presentate nell’accordo, era previsto uno dei tanti sgravi fiscali dell’epoca, la cosiddetta clausola del “retro vendendo”, patto che consentiva al venditore, quando credeva più opportuno, di riprendersi il feudo restituendo un importo pari a quello pattuito nell’atto di vendita. L’Imperiale non si fece né sfruttare né circoscrivere dal Re e utilizzando la sua dimestichezza negli affari, dettò le sue regole, si impose nell’acquisto di queste terre e approfittando a sua volta del bisogno indispensabile di denaro della Spagna asburgica, arrivò ad ottenere il feudo libero da ogni obbligo. Con queste premesse Davide divenne padrone senza limitazioni, esercitando diritti non solo sulla tassazione di ogni reddito e attività locale, ma anche sulla giurisdizione penale e civile.

Sala Gesta di Cimone l’Ateniese – Luca Cambiaso 1560-62

 

La struttura economica commerciale si basava totalmente sull’appalto di tutte le attività più redditizie: sale, carne, olio e farina mentre le funzioni di polizia urbana che riguardavano l’ordine, l’esattezza dei pesi, le licenze, ecc. venivano garantite da un catapano che aveva il compito di vigilare la piazza assistito da due baglivi, mentre la giustizia veniva amministrata da un giudice di nomina feudale. Nelle loro mani il potere feudale seppe coesistere con innovazioni e riforme di ogni genere finalizzate al miglioramento del tenore di vita delle classi più povere tramite l’istituzione di opere e lasciti benefici, la promozione dell’istruzione pubblica attraverso l’introduzione dei Padri Scolopi e lo sviluppo di un programma edilizio volto all’ammodernamento strutturale dei feudi. Il governo di Davide non durò tantissimo anche perché lo stesso morirà accidentalmente, nel giugno del 1575, per le ferite provocategli da Giovanni Battista Doria durante una rissa scoppiata a Finale Ligure nel monastero di Monte Oliveto, tra un gruppo di fuoriusciti della nobiltà vecchia genovese.

Stemma degli Imperiale

 

L’erede al feudo Michele I (1565-1616), secondo marchese di Oria e Casalnuovo, nato a San Pietro in Galatina il 17 agosto 1616 e sposato con Maddalena Spinola di San Luca, figlia di Filippo, ebbe parecchi figli (testò il 14 dicembre 1590 notaio L. Chiavari). Dimorò a Genova fino al 1593, anno in cui quasi certamente si trasferì nel suo feudo pugliese, se già nel gennaio del 1594 ritroviamo notizia, nei Libri Battesimali della Matrice di Francavilla, della nascita di suo figlio Filippo, battezzato dall’arciprete Vinciguerra e tenuto in fonte dal nobile napoletano Vespasiano Caracciolo.

Si deve a Michele I, uno dei primi ampliamenti del castello di Francavilla, attuato per accogliere degnamente la famiglia e la sua corte. La nuova residenza venne ingentilita con alcune trasformazioni che poi diverranno radicali nel secolo successivo, portando la struttura originaria da fortezza difensiva a residenza nobiliare. Dopo un ventennale governo di relativa pace e prosperità, alla morte di Michele, Francavilla conobbe un periodo di incertezze.

Infatti, Davide II (1594-1623), terzo marchese, sposo della cugina Veronica Spinola figlia di Giovanni Battista, battezzato a Francavilla nel 1592, non riuscì a governare a lungo, poiché venne ucciso a Napoli il 9 aprile 1623 da un sicario del Marchese di Pescara e di Vasto, nemico degli Imperiale.

Egli lasciò come suo erede il figlio Michelino, nato il 27 luglio dello stesso anno e battezzato a Francavilla. Proprio per la minore età dell’erede, la tutela spettò alla nonna Maddalena Spinola, sostenuta dagli zii del piccolo marchese: Carlo (?-?), Giovanni Battista (1596-1668) e Agostino (?-?), insieme al cardinale Lorenzo, i quali, anche se non introdussero novità rilevanti, dimostrarono una forte sensibilità sociale e culturale operandosi per rendere meno dura la triste condizioni della popolazione. Lorenzo, infine, introdusse arti e mestieri facendo giungere in città orefici, calderari, tessitori, vasai, etc. Uscito di minore età, Michele II (1623-1664), cercò di seguire l’esempio datogli dagli zii, creando i presupposti di una politica fondata non solo sull’agricoltura, ma anche su iniziative di carattere artigianale e commerciale che avrebbero potuto risollevare in modo effettivo e dignitoso le sorti della popolazione. Queste iniziative avrebbero di certo fruttato molto di più, se non fosse sopraggiunta nel Regno di Napoli una particolare situazione politica, caratterizzata da un’intollerabile pressione fiscale e da numerose insurrezioni popolari, di cui la più importante si rivelò quella di Masaniello del 1636.

In questo frangente Michele: “si dimostrò prode cavaliere, correndo nel 1648 in difesa delle province di Bari e Terra d’Otranto e con mille pedoni e trecento cavalli mise alla strette Matteo Crispano, sovvertitore di popoli e ribellatosi contro il governo di Lecce”, imponendosi ai rivoltosi e portando la pace nella regione. Sebbene per questa sua fedeltà alla monarchia spagnola avesse ottenuto nel 1639 il titolo di Principe di Francavilla, tuttavia egli dovette affrontare serie difficoltà. La Spagna, non potendo colpire direttamente la Francia, retta dal cardinale Giulio Mazzarino e avversaria di sempre, decise di scagliarsi contro Genova, ritenuta alleata dei francesi, emanando il 7 maggio 1651 un provvedimento che prevedeva il sequestro di “tutti i luoghi et anco burgensatici che hanno i Genovesi in questa Provincia di Terra d’Otranto”. L’Imperiale fu costretto a dimostrare, sulla base di prove circostanziate, la sua devozione alla Corona ed “espose come avesse aiutato il Viceré nelle passate rivoluzioni; come avesse presa Taranto e come per tali servizi fosse stato nominato Gran Guardasigilli, Gran Camerario e Maggiordomo Maggiore”. Riuscendo a dimostrare la sua innocenza e soprattutto la sua devozione piena e quella della sua famiglia, il nobile rientrò, subito in possesso dei suoi titoli e dei suoi possedimenti.

 

Per la prima parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (6/7): Oria e Francavilla Fontana

di Armando Polito

ORIA

Il castello
immagine tratta da http://news.oria.info/abusi-al-castello-il-comune-di-oria-chiedera-i-danni/201532084.html

 

FRANCAVILLA FONTANA

Il castello degli Imperiali

 

 

 

 

 

immagine tratta da http://www.itriabarocco.net/web/guest/home/articolo?p_p_id=pis11_articolo_WAR_pis11&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&p_p_mode=view&_pis11_articolo_WAR_pis11_f=index_articolo.jsp&_pis11_articolo_WAR_pis11_articleid=59635

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

 

 

 

 

(CONTINUA)

 

(CONTINUA)

Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria

In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà

Fig. 1 - Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata
Fig. 1 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata

 

UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA

di Marcello Semeraro

Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…

Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale
Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale

IL LUOGO

Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].

L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].

Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.

A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].

Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].

Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.

LO STEMMA PAPALE

Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).

Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)
Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)

 

Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26], può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29] (figg. 4, 5).

Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem
Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem

 

L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».

Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627
Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627

 

L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso (fig. 6).

Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794
Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794

 

Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).

Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.

Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V
Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V

 

Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.

Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

CONCLUSIONI

Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39] (figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40] (figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.

Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del papapetto negli anni 1726-1730
Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del parapetto negli anni 1726-1730
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina

 

In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina:   un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.

Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi
Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi

 

Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina
Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina

 

[1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.

[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città in Provincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono Giuseppe Lombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.

[3] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 28.

[4] Ivi, pp. 25-26.

[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.

[6] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 62-63.

[7] Tra il 1807 e il 1810 tutti i monasteri celestini caddero sotto i colpi delle leggi napoleoniche (Paoli, Fonti per la storia cit., p. 83).

[8] Cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento, Roma 1978, p. 285.

[9] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 59.

[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.

[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.

[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).

[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.

[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.

[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.

[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.

[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone e l’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.

[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.

[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.

[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.

[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 94.

[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.

[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale di araldica cit., p. 19.

[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.

[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).

[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.

[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.

[28] Gorra, L’arma cit., p. 560.

[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.

[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stesso e fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.

[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.

[32] V. supra, nota 27.

[33] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[34] Ibid.; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 93.

[35] V. il blasone riportato da X. Barbier de Montault, Armorial des Papes, Arras 1877, p. 15.

[36] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.

[38] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 76.

[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.

[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.

 

Oria e la damnatio memoriae del Fascismo: l’insegna civica di Palazzo Martini

di Marcello Semeraro

 

Durante il ventennio fascista il regime individuò nell’araldica pubblica un valido strumento di consenso e di propaganda politica. A partire dal 1933 negli stemmi dei comuni, delle province e degli enti morali fece la sua comparsa il famigerato fascio littorio, emblema dello Stato fascista (fig. 1).

Fig. 1 - Moneta d’oro da 100 lire del 1923, sul rovescio l’emblema del fascio littorio
Fig. 1 – Moneta d’oro da 100 lire del 1923, sul rovescio l’emblema del fascio littorio

 

Non è questa la sede per disquisire della storia di questo antichissimo simbolo, del suo utilizzo nel corso del tempo e dello stravolgimento che ne fece il fascismo. Qui mi limito pertanto ad osservare che si tratta di una figura di origine etrusca, passata poi alla civiltà romana, dove divenne insegna e simbolo dei magistrati dotati di imperium. I fasci romani erano costituiti da verghe di olmo e di betulla, tenute insieme di strisce di cuoio rosse, con una scure inserita lateralmente. Erano portati sulla spalla sinistra dai lictores – una sorta di scorta che precedeva i magistrati in numero diverso a seconda della loro importanza – e simboleggiavano la dimensione coercitiva dell’imperium: le verghe richiamavano infatti la pena della fustigazione, mentre la scure quella della decapitazione.

Come è noto, il fascismo si considerò il naturale continuatore dell’antica Roma e ne mutuò non solo la terminologia (soprattutto in ambito militare e politico) ma anche i simboli. È proprio dall’antica Roma fu attinto quello che sarebbe diventato il principale simbolo del regime: il fascio littorio. Fu il Regio Decreto n. 2061 del 12 dicembre 1926 ad elevare il fascio ad emblema di Stato, disponendone la diffusione su ogni genere di distintivo pubblico. Sette anni dopo fu la volta del Regio Decreto n. 1440 del 12 ottobre 1933, che ne disciplinava l’uso da parte dei comuni, delle province e degli enti morali, stabilendone l’inserimento all’interno dello scudo, nella forma della figura araldica del capo (pezza che occupa la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo, delimitata da una linea orizzontale).

Nacque così il cosiddetto capo del littorio: di rosso (porpora), al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali (fig. 2).

Fig. 2 – Riproduzione del capo del littorio
Fig. 2 – Riproduzione del capo del littorio

 

Il capo è la pezza più importante dell’araldica italiana. Una delle sue funzioni principali è di indicare l’appartenenza a una determinata fazione politica (sono noti, ad esempio, i capi d’Angiò e dell’Impero, rispettivamente distintivi della fazione guelfa e di quella ghibellina). Riprendendo l’uso medievale tipicamente italiano di esprimere l’appartenenza a una fazione politica attraverso il capo araldico, il regime volle così arricchire l’iconografia di Stato introducendo nelle insegne civiche un elemento visivo che rappresentasse l’indissolubile legame tra gli enti territoriali italiani e il fascismo.

La presenza di questa raffigurazione nell’araldica italiana durò tuttavia solo pochi anni. Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvò un ordine del giorno che sfiduciò Mussolini, provocandone la caduta. Già a partire dal giorno successivo, centinaia di persone si riversarono nelle vie delle città italiane e, armati di picconi e scalpelli, iniziarono a cancellare i simboli fascisti (fig. 3).

Fig. 3. Milano, 26 luglio 1943, distruzione dei fasci littori, immagine tratta da http://anpi-lissone.over-blog.com/article-25-luglio-1943-53789826.html
Fig. 3. Milano, 26 luglio 1943, distruzione dei fasci littori, immagine tratta da http://anpi-lissone.over-blog.com/article-25-luglio-1943-53789826.html

 

Il Decreto Luogotenenziale n. 313 del 26 Ottobre 1944 soppresse poi il fascio littorio da ogni documento ufficiale, compresi gli stemmi. Molti comuni italiani seguirono alla lettera le disposizioni del decreto e, pur eliminando il fascio (talora sostituendolo con figure diverse), mantennero tutto il resto (i rami decussati e il nastro). Oria non fu immune da questa furia iconoclasta, i cui effetti sono ancora oggi visibili sullo stemma civico scolpito sulla facciata di palazzo Martini. Dopo essere stato a lungo dimora dell’omonima e illustre famiglia oritana, nel 1933 il palazzo fu ceduto, in cambio del castello svevo, al comune di Oria, di cui fu sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 4). La funzione pubblica svolta dall’edificio in quel lasso di tempo spiega quindi la presenza dello stemma cittadino, in uso almeno dal XVI secolo (fig. 5).

Fig. 4. Oria, palazzo Martini, facciata, particolare dello stemma civico
Fig. 4. Oria, palazzo Martini, facciata, particolare dello stemma civico

 

L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico racchiuso da una cornice cuoriforme ornata da cartocci e foglie di acanto. Al di sopra dello scudo compare una corona muraria merlata alla ghibellina, timbro che allude al titolo di comune di cui si fregiò Oria fino al 1951, allorché assunse quello di città, acquisendone la corrispettiva insegna, ovvero la corona turrita. Osservando bene la parte superiore del manufatto, si nota con molta chiarezza, in mezzo ai due rami, il particolare del fascio “raschiato”, vittima di quella iconoclastia che si scatenò anche ad Oria dopo la caduta di Mussolini. Dell’emblema di Stato, simbolo del potere fascista, non restarono che il capo e le figure più neutrali (i rami di alloro e di quercia), svuotati di ogni connotazione coercitiva. Come quasi sempre accade dopo rivoluzioni e conquiste, al cambio di regime corrisponde anche una cancellazione dei simboli e degli emblemi del potere precedente.

Fig. 5. Oria, facciata del Sedile, stemma civico (XVIII sec.).
Fig. 5. Oria, facciata del Sedile, stemma civico (XVIII sec.).

 

Nel caso del fascismo, questa damnatio memoriae fu ancora più dissacrante se pensiamo che esso fu un sistema politico che assegnò ai riti e ai simboli una centralità assoluta. Se adeguatamente interpretato, lo stemma civico di palazzo Martini costituisce quindi un manifesto visivo dalla valenza polisemica, rappresentativo dell’evoluzione dello status del comune di Oria nel periodo che va dal 1933 alla fine del regime fascista.

Come tale, non va analizzato come un esemplare a sé stante, ma piuttosto come parte di un contesto più vasto, frutto di una precisa realtà storica e sociale. Solo attraverso la ricostruzione del sistema di appartenenza e del vincolo che lo ha creato e poi dissolto, si può comprendere il messaggio che lo stemma ci trasmette: un messaggio di libertà e di democrazia, valori faticosamente conquistati dai nostri avi dopo anni di feroce dittatura.

 

BIBLIOGRAFIA

M.C. A. GORRA, Il valore simbolico del fascio, dagli Etrusci ad oggi, in “Cronaca Numismatica”, n° 234, novembre 2010, pp. 63-67.

  1. Neubecker, Araldica. Origini, simboli, significati, Milano 1980.
  2. POPOFF, Le “capo dello scudo” dans l’héraldique florentine XIII-XVI siècles , in “Brisures, augmentations et changements d’armoiries”, Actes du 5e colloque international d’héraldique, Spolète 12-16 oct. 1987, Bruxelles, Académie Internationale d’Héraldique, 1988.
  3. S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, XVIII, n° 6, giugno 2013, pp. 6-13.

Araldica del Regno d’Italia a Oria: il caso dello stemma Martini-Carissimo

Fig. 1 - Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo
Fig. 1 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo

 

di Marcello Semeraro

Il decoro araldico oggetto di questa investigazione si trova scolpito sul fastigio del portale d’ingresso della tenuta Martini-Carissimo, sita a Oria in prossimità del Santuario di San Cosimo alla Macchia (fig. 1). Si tratta della stessa proprietà che nel 1908 fu oggetto di una visita guidata da parte di Cosimo De Giorgi e dei suoi alunni, che ne ammirarono il pionieristico sistema d’irrigazione realizzato dall’allora sindaco di Oria Gennaro Carissimo (*1846 †1927).

Le insegne araldiche sono quelle delle antiche famiglie Martini e Carissimo, rappresentate sotto forma di due scudi appuntati e accollati in consorteria, felice locuzione blasonica, quest’ultima, che indica lo stato di alleanza matrimoniale fra due casate, espresso accostandone le rispettive insegne (fig. 2).

Fig. 2 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo, particolare dello stemma di Giuseppe
Fig. 2 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo, particolare dello stemma di Giuseppe

 

Gli scudi sono timbrati da un unico elmo aperto, rabescato, fregiato di gorgieretta e posto in terza, ornato di lunghi svolazzi che si protraggono fino ai lati dei due scudi e di cercine. Su quest’ultimo è posta una corona nobiliare, composta da un cerchio gemmato e rialzato da otto perle (cinque visibili). Sebbene il manufatto non rechi indicazioni cromatiche, siamo in grado di ricostruire in parte il blasone dei Martini e in tutto quello dei Carissimo: d’azzurro, partito: nel 1° tre monti, moventi dalla punta, sormontati da tre gigli, ordinati in fascia; col capo caricato di una stella d’argento; nel 2° un leone d’oro, accompagnato in capo da tre stelle d’argento, ordinate in fascia [Martini] (fig. 3); troncato: nel 1° d’azzurro, al cuore d’argento, sormontato da tre stelle male ordinate dello stesso; nel 2° d’argento, a tre sbarre d’azzurro [Carissimo] (figg. 4 e 5 ).

Fig. 3 - Stemma della famiglia Martini di Oria, un tempo visibile all’ingresso della loro residenza estiva, attualmente di proprietà delle famiglie Desiato-Spina (foto di Ubaldo Spina).
Fig. 3 – Stemma della famiglia Martini di Oria, un tempo visibile all’ingresso della loro residenza estiva, attualmente di proprietà delle famiglie Desiato-Spina (foto di Ubaldo Spina).
Fig. 4 – Francavilla Fontana, Villa Carissimo, particolare dello stemma. Cfr. R. POSO, F. CLAVICA (a cura di), Francavilla Fontana: architettura e immagine, Galatina 1990.
Fig. 4 – Francavilla Fontana, Villa Carissimo, particolare dello stemma. Cfr. R. POSO, F. CLAVICA (a cura di), Francavilla Fontana: architettura e immagine, Galatina 1990.

 

Fig. 5. Stemma Carissimo (Martini-Carissimo), riprodotto nell’Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.
Fig. 5. Stemma Carissimo (Martini-Carissimo), riprodotto nell’Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.

 

Non è nota la valenza semantica dell’insegna Martini, mentre qualcosa in più si può dire per quella dei Carissimo, che appartiene alla variegata tipologia delle armi parlanti (così chiamate perché contengono figure che alludono al nome del portatore), presenti all’incirca nel 20/25% degli stemmi europei. Si noti, in particolare, come le raffigurazioni contenute nel primo quarto dello stemma evocano il nome di famiglia attraverso un ideogramma: Carissimo=cuore+stelle. Gli araldisti classificano questo tipo di armi come parlanti allusive, perché la relazione che si stabilisce fra le figure e il cognome non è di tipo diretto, cioè non si basa sulla mera traduzione grafica del nome (una scala per i Della Scala o una colonna per i Colonna, ad esempio), ma piuttosto sull’idea che esso evoca (come si vede, per esempio, nell’arma della famiglia napoletana Nunziante, recante una colomba con un ramoscello d’ulivo).

Quanto alla disposizione delle insegne, va osservato che l’impiego di due scudi contigui per rappresentare un’alleanza matrimoniale è un procedimento che cominciò ad affermarsi a partire dal XVIII secolo. Solitamente a destra (sinistra per chi guarda) veniva posto lo stemma del marito, mentre a sinistra (destra per chi guarda) quello della consorte. Tuttavia, l’esemplare oritano mostra una disposizione diversa, legata a ben precisi motivi ereditari.

Il 10 maggio del 1891 il senatore Tommaso Martini (†1893), appartenente a una delle più antiche e cospicue famiglie di Oria, con testamento olografo lasciava in eredità al primogenito dei suoi nipoti tutti i suoi averi, a patto che quest’ultimo anteponesse il cognome Martini a quello proprio. L’eredità spettò a Giuseppe Carissimo (*1889 †1955), patrizio di Benevento (1910), proveniente da un’antica famiglia che si vuole di origini bolognesi, con ramificazioni nel beneventano, in Sicilia e in Terra d’Otranto. Figlio del già ricordato Gennaro (*1846 †1927), patrizio di Benevento, e di Maria Annina Martini, nel settembre 1911 Giuseppe ottenne per decreto reale l’autorizzazione a fare uso del doppio cognome, divenendo così il capostipite dei Martini-Carissimo di Oria. Conformemente alle disposizioni testamentarie dell’avo Tommaso, Giuseppe fece precedere le proprie insegne agnatizie da quelle dei Martini, che così sopravvissero non solo a livello onomastico ma anche araldico.

Va ricordato che in epoca sabauda l’araldica italiana fu soggetta a una regolamentazione normativa molto precisa. Con l’Unità d’Italia, infatti, l’ordinamento araldico e nobiliare sabaudo fu esteso a tutto il paese dalla classe dirigente piemontese, senza tenere conto delle specificità storiche dei vari Stati preunitari. Questa codificazione, avviata con la costituzione della Consulta Araldica del Regno d’Italia nel 1869, prevedeva una serie di norme precise riguardanti le insegne di dignità (elmi, corone, manti) corrispondenti al grado del titolare.

Tuttavia, il sistema di differenziazione degli elmi e delle corone in base al titolo del possessore non sempre trovò piena applicazione nella pratica araldica. Istruttivo è, sotto questo punto di vista, il caso dell’esemplare in esame, che presenta una corona da nobile – titolo che il nostro Giuseppe portò fino al 1940, allorché fu insignito del titolo comitale – a cui avrebbe dovuto corrispondere un elmo posto di profilo anziché in terza verso destra.

Quello presente all’ingresso della tenuta di famiglia non è comunque l’unico stemma Martini-Carissimo superstite. Un altro esemplare, del tutto simile al primo, si trova scolpito su una lastra rettangolare visibile nella piazza d’armi del castello di Oria, del quale Giuseppe entrò in possesso nel 1933, per effetto di una permuta con la quale cedette al Comune il settecentesco palazzo Martini, che divenne sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 6).

Fig. 6 – Oria, piazza d’armi del castello, particolare dello stemma di Giuseppe Martini-Carissimo
Fig. 6 – Oria, piazza d’armi del castello, particolare dello stemma di Giuseppe Martini-Carissimo

 

La famiglia Martini-Carissimo è presente nell’Elenco storico della nobiltà italiana, edito nel 1960 dal Sovrano Militare Ordine di Malta e compilato in conformità ai decreti, alle lettere patenti originali e agli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica. Come si vede nell’illustrazione (fig. 5), lo stemma ivi riprodotto presenta la sola insegna agnatizia dei Carissimo.

Per quanto lontani dalla semplicità dell’araldica delle origini, gli esemplari monumentali che abbiamo esaminato costituiscono comunque dei reperti interessanti che vanno letti come campioni rappresentativi dello stato dell’araldica durante il Regno d’Italia e come l’espressione visiva degli ultimi vagiti di una nobiltà ormai ridotta a mero titolo, priva di ogni prerogativa giurisdizionale, ma comunque bisognosa di strumenti di rappresentazione del proprio status sociale. Giuseppe Martini-Carissimo morì nel 1955, ma già sette anni prima del suo decesso il quadro giuridico della nobiltà italiana era cambiato drasticamente.

La XIV disposizione transitoria della Costituzione, entrata in vigore l’1 gennaio 1948, stabilì infatti il non riconoscimento dei titoli nobiliari, limitandosi a prevedere la sola cognomizzazione dei predicati esistenti prima del 28 ottobre 1922. Fu così che le ambizioni nobiliari dei Martini-Carissimo si infransero con l’affermazione dei principi liberali e democratici che regolarono e regolano tuttora la legge fondamentale dello Stato italiano.

 

BIBLIOGRAFIA

Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.

Notize storiche della famiglia Catissimo, Lecce 1911.

P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003

CASTILIONUM INSIGNIA: alla riscoperta di Donato Castiglione e della sua antica famiglia

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Donato Castiglione, detto l’Argentario.

 

di Marcello Semeraro

Donato Castiglione, detto l’Argentario, medico, filosofo e umanista vissuto fra il XVI e il XVII secolo, è uno dei tanti personaggi illustri della storia di Oria. Qui nacque, probabilmente fra il 1530 e il 1540. Conosciamo il nome del padre (Mariano) e quello del fratello (Giulio Cesare). Non ancora ventenne, si recò a Napoli per studiare medicina, disciplina nella quale egli divenne espertissimo e che si prodigò ad insegnare al suo rientro ad Oria.

Uomo dottissimo e versatile, la sua preparazione e sua fama erano tali che gli valsero la nomina a precettore “in tutte le dottrine” di Alessandro Mattei, conte di Pamariggi, e di altri signori del reame napoletano. Dopo la morte di Quinto Mario Corrado (1575) – il grande umanista oritano del quale l’Argentario fu allievo e parente – fu chiamato a sostituirlo alla guida del Seminario di Oria, ma, stando a quanto scrive il Matarrelli Pagano, “per essere di differente professione non vi fece profitto che si ne sperava. Ci è ignota la data del suo decesso, ma sappiamo che morì ad Oria, ottuagenario.

Fra i suoi scritti più noti va annoverato il De coelo uritano, un’opera in tre libri che purtroppo è andata perduta, nella quale il Castiglione disquisì di storia, topografia, clima e salubrità del territorio oritano. Scrisse inoltre gli argumenta del De Lingua Latina e del De Copia Latini Sermonis di Quinto Mario Corrado, con cui ebbe altresì un’intensa corrispondenza epistolare, ben testimoniata dalle lettere presenti nell’Epistolarum libri VIII.

Della sua famiglia e delle sue origini si sa pochissimo. Le uniche informazioni sono quelle riportate dallo storico Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685) in una pagina del suo celebre manoscritto intitolato Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. La famiglia de’ Castiglioni assai antica e nobile in Oria, originaria della Francia sin dal tempo di Carlo primo d’Angiò che da Argentona, città della Francia donde si partì, lasciato il primitivo cognome de’ Castiglioni hoggi si dice degli Argentoni si come appare da un’iscrizione posta sotto le armi et imprese nel loro palaggio in Oria”. Ai  tempi in cui lo storico oritano scrisse la sua opera, questa famiglia era quasi estinta, “non vi essendo rimasti che alcun pochi, li quali fanno la loro Stanza nel villaggio, over Castello di Erchie, ove possedono molti loro poderi”.

Grazie agli studi di Pasquale Spina sulla toponomastica oritana, siamo riusciti a localizzare il luogo dove anticamente sorgeva il palazzo di famiglia del quale parla l’Albanese. Si tratta dell’edificio ubicato fra via Milizia (l’antica via Santa Lucia) e vico Barletta,  attualmente di proprietà di Mario Sartorio. Fortunatamente il palazzo, nonostante i rimaneggiamenti e i cambi di proprietà a cui è stato soggetto nel corso dei secoli, conserva ancora intatte le “armi et imprese” e l’epigrafe descritte dall’Albanese, che appaiono murate sulla parete della terrazza del primo piano.

Lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata ed è racchiuso in una lastra rettangolare delimitata da una cornice modanata, al di sotto della quale compare un’iscrizione in lettere capitali che recita così:  CASTILIONUM INSIGNIA / QUIBUS  AB ARGENTONA/  GALLIARUM URBE UT MI / GRARUNT ARGENTONI / BUS COGNOMEN  FUIT.

Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.
Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.

 

Lo stemma reca un’aquila monocipite, al volo abbassato e coronata (fig. 2). Un esemplare simile, ma di dimensioni minori e in uno stato di conservazione non ottimale, è invece scolpito sulla parete del piccolo giardino del primo piano, sempre all’interno di uno scudo ovale munito di cartocci (fig. 3).

Fig. 3 - Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.
Fig. 3 – Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.

 

Diversamente da quanto dovette essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di indicazioni cromatiche e costituiscono le uniche attestazioni a noi note dell’arma alzata da questa famiglia, il cui nome, è bene precisarlo, non va confuso con quello di altre famiglie omonime, ma dotate di stemmi diversi. Circa la cronologia d’esecuzione dei manufatti in esame, l’analisi storico-araldica ha evidenziato fattezze stilistiche riconducibili a un periodo compreso fra seconda metà del XVI  e la prima metà del XVII secolo. Alcuni atti notarili riportati da Pasquale Spina mostrano che in quel lasso di tempo il palazzo appartenne effettivamente a Donato Castiglione e ai suoi discendenti, perlomeno fino al 1656 (terminus ante quem per la datazione degli stemmi e dell’epigrafe), quando Tomasina e Isabella Argentone vendettero l’edificio, che all’epoca era costituto da “una casa a volta con tre terrazze e scala in pietra”.

Come abbiamo visto, l’epigrafe e il passo tratto dall’Albanese accennano al passaggio del cognome di famiglia da quello primitivo (Castiglione) a quello derivato dal toponimo francese (Argentone). L’analisi delle fonti scritte coeve mostra che, finché visse, Donato Castiglione venne individuato ora con la forma cognonimale primitiva, ora con quella toponimica, mentre quest’ultima caratterizzò i suoi discendenti ed è rimasta ancora oggi in un toponimo rurale di Oria. Pasquale Spina ha individuato in Argenton-sur-Creuse, un comune francese situato nel dipartimento dell’Indre, nella regione Centre-Val de Loire, la località di origine della famiglia, ma questa ipotesi è tutta da dimostrare, anche alla luce dell’abbondanza di toponimi simili riscontrabili in Francia (Argenton-Château, Argenton-l’Église, Argenton-Notre-Dame ecc.).

Nel 1899 una delibera del consiglio comunale dedicò a Donato Castiglione due strade (una via e un vico), la cui denominazione si conserva ancora oggi. Da allora, tante cose sono cambiate e oggi presso le nuove generazioni la memoria dell’Argentario, della sua famiglia e della sua dimora sembra essersi persa.

Anche la storigrafia locale, se si eccettua il lodevole contributo di Pasquale Spina, non è da meno. L’auspicio è che questa indagine stimoli la curiosità di qualcuno e, magari, dia avvio a nuove e più approfondite ricerche.

BIBLIOGRAFIA

  1. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/15, 1750.
  2. Amorosi, A. Casale, F. Marciano, Famiglie nobili del Regno di Napoli in uno stemmario seicentesco inedito, Roma 2011.
  3. M. Corrado, De lingua Latina ad Marcellum fratrem libri XIII, Bologna 1575.
  4. M. Corrado, De copia Latini sermonis libri quinque, Venezia 1582.
  5. M. Corrado , Epistolarum libri VIII, Venezia 1565.

G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965.

  1. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.

D.R. Greco, Memorie biografiche sui letterati oritani, Napoli 1838.

  1. Matarrelli Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, Oria 1976.
  2. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003.

I segni del potere borbonico: lo stemma del Sedile di Oria

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di Marcello Semeraro

Il Sedile è il palazzo simbolo di Piazza Manfredi. L’attuale edificio, di forma quadrata e stile barocco, risale alla seconda metà del XVIII secolo ed è il risultato del rifacimento di una precedente costruzione adibita a carcere criminale e civile1. Poiché non era più decoroso per l’immagine della città esibire una struttura carceraria nella piazza principale di Oria, si ritenne opportuno cambiarne la destinazione d’uso, trasformandola, con le opportune modifiche, nella sede del Decurionato. “Quindi, non è proprio esatto dire che in questo periodo fu costruito il Sedile, ma piuttosto che ci fu un rifacimento del vecchio edificio preesistente, magari con la costruzione della sola facciata”2. In seguito il palazzo ospitò il Comando della Polizia municipale e attualmente è utilizzato come punto di riferimento turistico e, talvolta, come location per l’allestimento di mostre di pittura. Oltre che per motivi storici e architettonici, il Sedile riveste una certa rilevanza anche dal punto di vista araldico.

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Fig. 1 . Oria, Sedile, facciata, stemma dell’Universitas
Fig. 3
Fig. 2. Oria, Sedile, atrio, stemma dell’Universitas

Sulla facciata e nell’atrio, infatti, fanno bella mostra di sé tre importanti esemplari, due dei quali raffigurano l’arma dell’Universitas oritana3 (figg. 1  e 2), mentre il terzo mostra uno stemma borbonico (fig. 3) che, vuoi per la sua complessità, vuoi per una prosaica questione di noncuranza, non ha ancora attirato l’interesse degli studiosi locali. La nostra indagine si propone, dunque, di (ri)scrivere una pagina di storia alla luce del fatto che questo stemma, col suo messaggio cromatico-figurativo, costituisce l’espressione visiva dell’appartenenza a una realtà storica ben precisa, caratterizzata dal dominio borbonico in Oria e, più in generale, in Terra d’Otranto e nel Regno di Napoli.

Fig. 3
Fig. 3. Oria, Sedile, atrio, stemma di Ferdinando IV.

 

Lo stemma borbonico

Con la sua gradevolezza estetica, la sua complessa iconografia e il suo enorme impatto visivo, lo stemma in argomento domina e nobilita l’atrio del palazzo, palesandosi come chiaro segno del potere regale. Uno scudo sagomato con contorni tipicamenti settecenteschi, accompagnato da una serie di ornamentazioni esterne (su cui torneremo), racchiude un blasone smaltato e in buono stato di conservazione, attribuibile a Ferdinando di Borbone (*1751 †1825), IV di Napoli e III Sicilia, e databile al periodo precedente l’unificazione politica delle due corone avvenuta nel 18164. Figlio terzogenito di Carlo di Borbone (*1716 †1788) e di Maria Amalia di Sassonia, Ferdinando salì al trono nel 1759, succedendo al padre che col nome di Carlo III andò a regnare in Spagna. Oltre al titolo di Rex utriusque Siciliae, egli ereditò dal padre anche lo stemma (fig. 6), secondo l’ampliamanto che quest’ultimo a sua volta operò sull’arma paterna5 (fig. 7).

Fig. 6
Fig. 6. Stemma di Carlo di Borbone (da AA.VV., Divisas y antiguedades: l’esercito napoletano di Carlo VII, Rivista militare europea, 1988).
Fig. 7
Fig. 7. Stemma di Filippo V (da Collezione Borgia, Napoli, Carte araldiche e genealogiche, II, 24, in L. Borgia, op. cit., p. 58).

Lo stemma di Ferdinando (fig. 5) non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile, ma fu sottoposto a un notevole numero di varianti che, tuttavia, ne lasciarono inalterata la riconoscibilità6.

Fig. 5
Fig. 5. Stemma di Ferdinando IV (da S. Vitale, op. cit., p. 35).
Fig. 4
Fig. 4. Oria, Sedile, atrio, particolare dello stemma di Ferdinando IV

Una di queste varianti è rappresentata proprio dall’esemplare oritano oggetto si questo studio (fig. 4). Tale blasone contiene complessivamente ventuno quarti7 che, a seconda del significato che assumono nello scudo, sottolineano domini, pretensioni, eredità, insegne gentilizie. Si tratta di uno stemma molto complesso, la cui lettura, tuttavia, può essere semplificata se si considera che esso, in realtà, nasce dall’unione di cinque insegne autonomamente preesistenti che si sono venute aggregando insieme in conseguenza di una serie di eventi storici e sulla base di precise motivazioni giuridiche. La conoscenza delle singole armi e delle modalità storico-araldiche con cui esse furono incluse nello stemma borbonico si rivela decisiva ai fini di una correta lettura del manufatto araldico. Va premesso che nella descrizione dei singoli quarti ci siamo attenuti alla loro blasonatura standard, indicandone di volta in volta, nelle apposite note di chiusura, le differenze riscontrate con quelli contenuti nell’esemplare oritano. La maggior parte della sezione centrale dello scudo è occupata dai quarti della linea asburgica spagnola che Filippo V ereditò da Carlo II (*1661 †1700), ultimo sovrano spagnolo della Casa d’Asburgo8 nonché discendente dell’imperatore Carlo V9 (*1500 †1558), suo trisavolo paterno (fig. 8).

Fig. 8
Fig. 8. Madrid, Plaza Mayor, Casa de la Panadería, stemma di Carlo II

Dall’alto in basso troviamo, infatti, le insegne di origine spagnola10, vale a dire i punti Castiglia e León (Castiglia: “di rosso, al castello d’oro, torricellato di tre pezzi, aperto e finestrato d’azzurro”; León:  “d’argento, al leone di rosso (originariamente di porpora), coronato, lampassato11 e armato d’oro”12), di Granada (“d’argento, alla melagranata di rosso, stelata e fogliata di verde”13), d’Aragona (“d’oro, a quattro pali di rosso”14) e d’Aragona-Sicilia (“inquartato in decusse: nel 1° e nel 4° d’oro, a quattro pali di rosso; nel 2° e nel 3° d’argento, all’aquila spiegata15 e coronata di nero”16), nonché quelle di origine asburgico-borgognona17, ovvero i punti di Borgogna antica (“bandato18 d’oro e d’azzurro; alla bordura di rosso”19), di Fiandra (“d’oro, al leone di nero, lampassato e armato di rosso”20), di Brabante (“di nero, al leone d’oro, lampassato e armato di rosso”21), del Tirolo (“d’argento, all’aquila spiegata di rosso, le ali legate a trifoglio d’oro, coronata, rostrata22 e membrata dello stesso”23), d’Austria (“di rosso, alla fascia d’argento”24) e di Borgogna moderna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro; alla bordura compostad’argento e di rosso”25). Al centro, al di sopra dei punti asburgico-borgognoni, compare l’arma propria del reame partenopeo, aggiunta da Carlo III quando nel 1734 salì sul trono di Napoli. E’ formata dal quarto d’Angiò-Napoli (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello26 di rosso di cinque pendenti”) partito con quello di Gerusalemme (“d’argento, alla croce potenziata27 d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso”), secondo una modalità rappresentativa risalente ai tempi della regina Giovanna I d’Angiò28 (*1326 †1382). Sul fianco destro e nella parte destra del capo dello scudo appaiono, invece, le armi del ducato di Parma e Piacenza, incluse nello scudo di Carlo III in quanto successore del prozio Antonio (*1679 † 1731), ultimo duca della dinastia farnesiana29 (fig. 9).

Fig. 9
Fig. 9. Stemma di Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza (da La Croce oroscopo di vittorie…[dedicata a] Francesco Farnese, Parma 1717).
La sovranità carolina su questo Stato fu però di breve durata (dal 1731 al 1736), perché al termine della guerra di successione polacca, per effetto del Trattato di Vienna (1738), egli dovette cedere il ducato, già occupato nel 1736 dalle truppe imperiali guidate da Giorgio Cristiano, principe di Lobkowitz, all’imperatore Carlo VI d’Asburgo30. Le insegne ducali presenti nello stemma di Ferdinando IV assumono, quindi, la funzione di armi di pretensione: tali sono i quarti di Farnese (“d’oro, a sei gigli d’azzurro, posti 3, 2, 1”31), di Portogallo (“d’argento, a cinque scudetti d’azzurro, disposti in croce, caricati ciascuno di cinque bisanti32 d’argento, posti in croce di Sant’Andrea; con la bordura di rosso, caricata di sette castelli d’oro, torricellati di tre pezzi, aperti e finestrati d’azzurro”33), d’Austria e di Borgogna antica34 (vedi supra). Proseguendo nella lettura delle singole insegne, osserviamo la presenza, nel fianco sinistro dello scudo, dell’arma medicea del granducato di Toscana, entrata nello stemma di Carlo III in quanto discendente di Margherita di Cosimo II de’ Medici (moglie del duca Odoardo Farnese, suo trisavolo materno) ed erede, col titolo di Gran Principe di Toscana, di Gian Gastone (*1671 †1737), ultimo dei Medici35 (fig 10).

Fig. 10
Fig. 10. Verso stemmato di una moneta di Gian Gastone, granduca di Toscana.

Tuttavia, in seguito ai già ricordati mutamenti provocati dalla guerra di successione polacca, Carlo dovette rinunciare alla successione toscana in favore di Francesco Stefano di Lorena36, ma conservò la pretesa su quei territori, rappresentandola araldicamente con la celebre arma medicea “d’oro, a cinque palle37 di rosso, poste in cinta38, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata di tre gigli d’oro, 2, 1”39. Tale pretensione rimase inclusa nello stemma di Ferdinando e dei suoi successori. Infine, nella posizione tecnicamente detta sul tutto, appare l’arma gentilizia dei Borbone-Napoli: “d’azzurro, a tre gigli d’oro, 2,1; con la bordura di rosso”. Vale la pena spendere qualche parola in più sull’origine e l’evoluzione di quest’arma40. La linea di Borbone del ceppo capetingio si originò con Roberto (*1256 †1317), conte di Clermont, figlio cadetto del re di Francia Luigi IX (*1215 †1270) e padre di Luigi (*1279 †1341), il quale, per eredità materna, nel 1327 divenne primo duca di Borbone. Dovendo differenziare la propria arma da quella reale di Francia (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”41), i Borbone brisarono lo stemma capetingio con una banda di rosso attraversante sul tutto. A partire dal regno di Carlo V di Valois (1364-1380), i gigli dell’ arma reale di Francia furono ridotti a tre42: lo stesso fecero i Borbone, continuando tuttavia, per esigenza di brisura, a far attraversare il campo e i gigli da una banda di rosso. Quanto, a seguito dell’assassinio di Enrico III di Valois (1584), Enrico IV divenne il primo sovrano borbonico di Francia, la brisura formata dalla banda dovette ovviamente essere rimossa da scudo reale. Naturalmente i cadetti della nuova casa reale di Francia continuarono a differenziarsi araldicamente attraverso il sistema delle brisure. In particolare, i titolari dell’Angiò, seguendo una tradizione risalente al 1290, anno in cui Carlo (*1270 1325), conte di Valois, ottenne la contea angioina, utilizzarono una brisura costituita da una bordura di rosso: tale la portò, come abbiamo visto, Filippo V, duca d’Angiò, re di Spagna e figlio cadetto di Luigi il Gran Delfino, e tale la mantennero i suoi successori.

Torniamo ora ad occuparci dell’esemplare oritano. Dall’analisi dettagliata dei quarti che abbiamo poc’anzi descritto emerge una netta corrispondenza fra il contenuto blasonico dello scudo e la titolatura che assunse il nostro Ferdinando: FERDINANDUS IV. DEI GRATIA REX UTRIUSQUE SICILIAE, HIERUSALEM, HISPANIORUM INFANS, DUX PARMAE, PLACENTIAE, CASTRI, AC MAGNUS PRINCEPS HEREDITARIUS HETRURIAE ETC. ETC. Ciò dimostra quanto sia stretto il nesso fra rappresentazione araldica e status giuridico del titolare. Altre preziose informazioni si ricavano altresì dall’osservazione della disposizione dei quarti propriamente napoletani (Angiò-Napoli e Gerusalemme) i quali, contrariamente a quanto si vede nello stemma riprodotto nella fig. 5, non risultano relegati nella punta dello scudo, bensì posti al di sopra dei punti asburgico-borgognoni. Riteniamo che questa posizione più onorevole non sia un dettaglio secondario, ma assuma il significato un messaggio politico e iconografico ben preciso finalizzato a conferire maggiore visibilità e importanza alle insegne proprie del reame partenopeo.

Volendo sinteticamente blasonare lo stemma del Sedile, esso può essere descritto nella maniera seguente: “Partito di tre43: Il primo gran partito, di Portogallo, al capo44 di Farnese. Il 2° gran partito, troncato di tre45: a) interzato in palo46 d’Austria, di Borgogna antica e troncato di Castiglia e León; b) di Angiò-Napoli; c) tagliato ritondato47 di Borgogna antica e di Fiandra; d) d’Austria. Il terzo gran partito, troncato di tre: nel 1° interzato in palo: a) troncato di León e Castiglia; b) d’Aragona; c) d’Aragona-Sicilia; al di sotto dell’inquartato di Castiglia e León, innestato in punta di Granada; nel 2° di Gerusalemme; nel 3° trinciato ritondato48 di Brabante e del Tirolo; nel 4° di Borgogna moderna. Il quarto gran partito, dei Medici. Sul tutto di Borbone-Napoli”.

Fig. 11
Fig. 11. Oria, Sedile, particolare della croce patente e biforcata

Molto interessante si rivela anche lo studio delle ornamentazioni esterne49. Lo scudo è timbrato50 da una corona chiusa (indice di sovranità), formata da un cerchio gemmato e diademato da quattro archi che si congiungono ad un globo privo della consueta croce. L’accollatura51 visibile dietro lo scudo è formata da un insieme eterogeneo di elementi a richiamo militare (vessilli, cannoni, trombe e tamburi), noto come trofeo d’armi. Infine, al di sotto della punta dello scudo, notiamo una crocetta patente52, biforcata e forata al centro (fig. 11) che probabilmente è ciò che resta del pendente del collare dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro. Tale Ordine fu istituito da Carlo III il 3 luglio del 1738, giorno del suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, dalla cui unione nacque Ferdinando. La decorazione consisteva in una croce biforcata, accantonata da quattro gigli, recante al centro, al di sopra del motto IN SANGUINE FOEDUS, l’effigie di San Gennaro, protettore di Napoli, con la mano destra benedicente e tenente, con la sinistra, il vangelo, le ampolle del suo sangue e il pastorale (fig. 12). La croce pendeva da un collare formato da maglie con gigli, leoni, castelli turriti, lettere C (iniziali del fondatore), simboli della fede e del Santo, alternati fra loro53.

Fig. 12
Fig. 12. Croce dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro

Conclusione

Sopravvissuto alla damnatio memoriae del periodo napoleonico e ai mutamenti provocati dalle epoche successive, lo stemma che abbiamo analizzato è uno più importanti e mirabili esempi di araldica borbonica riscontrabili nell’ex provincia di Terra d’Otranto. Attraverso la corretta interpretazione del linguaggio figurato in esso contenuto, è possibile intraprendere un affascinante viaggio storico attraverso il susseguirsi delle dominazioni cui è stato soggetto il Sud Italia e i rapporti fra queste ultime e alcune fra le più importanti casate europee. Oltre a testimoniare il ruolo decisivo che assunse l’araldica nella comunicazione politica per immagini, quest’arma rappresenta, dunque, un prezioso documento visivo di una storia che è allo stesso tempo locale, provinciale, mediterranea ed europea. Ma c’è dell’altro. L’attribuzione e la datazione dello stemma ci consentono di collocare la realizzazione e la sistemazione di quest’ultimo e di quello civico visibile sulla facciata nella seconda metà del XVIII secolo, dopo i lavori di completamento del Sedile cui abbiamo accennato in precedenza. Sarebbe interessante incrociare questi dati, frutto di evidenze araldiche, con quelli derivanti da uno studio specifico sull’esatta cronologia della costruzione dello storico palazzo oritano. Spesso, infatti, la corretta interpretazione di uno stemma riprodotto su un edificio o su altri supporti diventa un’arma segreta in grado di fornire allo storico e allo storico dell’architettura informazioni decisive per la conoscenza del contesto di cui esso è l’espressione visiva.

L’evoluzione dell’araldica dei Borbone di Napoli e Sicilia fu completata nel 1816 con la creazione del celebre stemma del Regno delle Due Sicilie (vedi infra, nota 4), il più complesso fra tutte le insegne araldiche degli Stati italiani preunitari (fig. 13).

 

Fig. 13
Fig. 13. Decreto di approvazione dello stemma reale delle Due Sicilie (Archivio di Stato di Napoli, Decreti originali, 114, 4049).

 

1. Il vecchio carcere fu costruito sul suolo dove prima sorgeva la chiesa di San Pietro Rotondo. Per una parziale ma accurata disamina della storia e dell’evoluzione dell’edificio, si rimanda all’ottimo saggio sulla toponomastica oritana di P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003,  pp. 176-178.

2. Cfr. ivi, p. 178.

3. Si tratta di due testimonianze significative e imprescindibili per la conoscenza del significato e dell’evoluzione dello stemma civico oritano, sul quale ci riserviamo di ritornare in futuro con un’apposita ricerca.

4. Ricordiamo che l’8 dicembre 1816 Ferdinando di Borbone  emanò un decreto con il quale divenne I delle Due Sicilie, diventanto così lo stipite del ramo Borbone-Due Sicilie. Una norma del 22 dicembre, inoltre, decretò l’unificazione politica dei due reami di Napoli e Sicilia, distinti sin dal 1282, anche se spesso riuniti nella persona di un comune sovrano. Con un decreto del 21 dicembre dello stesso anno Ferdinando I definì lo stemma, la corona e le insegne cavalleresche esterne allo scudo: era nato lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Per un’esaustiva trattazione sull’origine e l’evoluzione dell’arma duosiciliana, si rimanda a L. Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2000,  e a S. Vitale, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Origini e storia, Morcone 2005.

5. Carlo era figlio primogenito di Filippo V (*1683  †1746), primo sovrano borbonico di Spagna, e della sua seconda moglie Elisabetta Farnese (*1692 †1766).

6. Alcune di queste varianti e modificazioni sono documentate dal Borgia (op. cit., pp. 75-77).

7. Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché  ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

8. Va ricordato che una volta estintisi gli Asburgo di Spagna con la morte di Carlo II, le armi di quest’ultimo rimasero ad indicare la corona spagnola e, come tali, furono ereditate da Filippo V,  che provvide a modificare la collocazione sia di alcuni quarti di origine asburgico-borgognona, sia del punto di Granada. Inoltre, essendo un Borbone, pose in uno scudetto sul tutto il proprio stemma gentilizio. Da Filippo V, tramite Carlo III, tutte le armi iberiche furono ereditate da Ferdinando e dai suoi successori. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 17.

9. Carlo V riunì nel suo scudo le insegne propriamente spagnole, ereditate dalla madre Giovanna d’Aragona (*1479 †1555), figlia dei sovrani Cattolici Ferdinando II (*1452 †1516) e Isabella di Castiglia (*1451 †1504), e quelle asburgico-borgognone, che gli giunsero tramite il padre Filippo il Bello (*1478 †1506), figlio dell’imperatore Massimiliano I e di Maria di Borgogna, ultima dei Valois borgognoni. Il suo successore, Filippo II di Spagna (*1527 †1598), provvide a ridurre lo stemma ereditato dal padre, con l’aggiunta nel punto d’onore di uno scudetto recante l’arma del reame portoghese, ereditato dalla madre Isabella d’Aviz. Tale stemma passò, poi,  ai suoi successori fino a Carlo II, il quale, dopo il Trattato di Lisbona (1668), rimosse dal proprio scudo l’insegna reale portoghese. Cfr. S. Vitale, op. cit., pp. 24-26.

10. Questa rappresentazione delle armi spagnole risale a Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, le cui nozze, contratte nel 1469, furono alla base dell’unificazione dei vecchi Stati spagnoli. Lo stemma dei sovrani Cattolici, infatti, era formato da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto gran quarto un controinquartato di Castiglia e León, nel secondo e nel terzo un partito d’Aragona e d’Aragona-Sicilia, mentre l’insegna di Granada era incuneata nella punta dello scudo (innestato in punta).

11. Dicesi lampassatoil quadrupede  con la lingua di smalto diverso.

12. Le armi parlanti di Castiglia e di León comparvero per la prima volta  verso gli inizi del XII secolo, periodo in cui i due regni erano separati. Ferdinando III (*1200 †1252), re di Castiglia e di León, fu il primo a inquartare il proprio scudo con gli stemmi dei due reami. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 12. Va segnalato che nell’esemplare oritano, probabilmente per ragioni di spazio,  i castelli di Castiglia sono rappresentati come torri merlate.

13. Tale arma fu introdotta dai sovrani Cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492, anno della presa di Granada e della fine della dominazione islamica in Spagna. Cfr. ivi, p. 13.

14. Probabilmente di origine provenzale, tali insegne giunsero in Aragona in seguito alle nozze celebrate nel 1151 fra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e la sovrana aragonese Petronilla. Nei sigilli del predetto conte e in quelli di suo figlio Alfonso II (1162-1196) si trovano i più antichi esemplari recanti i pali aragonesi. Cfr. ivi, p. 12.

15. Uccello con le ali distese e volte verso l’alto.

16. Tale disposizione risale a Federico II (*1271 †1337), re di Sicilia, figlio di Pietro III d’Aragona e di Costanza di Svevia. Il suddetto sovrano, infatti, utilizzò uno scudo inquartato con le insegne paterne e materne, creando così un’arma che per secoli indicherà la terra siciliana. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 12-13. Si noti come nello stemma oritano l’aquila sia raffigurata col volo abbassato.

17. L’aggregazione delle insegne asburgico-borgognone risale a Filippo il Bello, figlio di Massimiliano I e di Maria di Borgona. Egli, infatti,  utilizzò uno scudo inquartato recante i punti d’Austria, di Borgogna moderna, di Borgogna antica e di Brabante, ponendo sul tutto uno scudetto di Fiandra, spesso partito con l’arma del Tirolo. Cfr. ivi, p. 16.

18.  Scudo coperto interamente da bande alternate di metallo e colore, ordinariamente in numero di sei.

19. Il punto di Borgogna antica risale agli inizi del XIII secolo. Indica la prima linea borgognona del ceppo capetingio, originata da Roberto I (*1011 †1076), duca di Borgogna, figlio di Roberto II il Pio. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 15. Si noti come nell’esemplare oritano, per un errore da parte dell’esecutore,  il punto di Borgogna antica sia rappresentato con quattro bande azzurre su campo d’oro, anziché come un bandato di sei pezzi alternati d’oro e d’azzurro.

20. I punti di Fiandra e Brabante entrarono negli stemmi dei duchi di Borgogna in seguito al matrimonio fra Filippo II l’Ardito (*1342 †1404), stipite della seconda linea borgongona del ceppo capetingio, e Margherita (*1350 †1405), contessa di Fiandra, duchessa di Brabante e del Limburgo. Cfr. ibidem.

21. Vedi nota 20.

22. L’aquila col becco di smalto diverso.

23. La contea del Tirolo giunse agli Asburgo per via ereditaria tramite Rodolfo IV d’Austria (*1339 †1365), nipote abiatico di Alberto I, duca d’Austria e re dei Romani, e di Elisabetta del Tirolo (†1312). Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 16. Si noti come nell’esemplare oritano l’aquila sia rappresentata col volo abbassato.

24. Una delle più note armi del blasone europeo, alludente,  secondo una leggenda, alla tunica del duca Leopoldo di Babenberg intrisa del sangue degli “infedeli” nel corso della battaglia di Tolemaide (1191) e rimasta bianca intorno alla vita perché protetta da un cinturone. A seguito dell’estinzione della casa margraviale di Babenberg, divenuta poi ducale,  e con la cessione del ducato d’Austria ad Alberto I d’Asburgo (*1248 †1308), si posero le basi per l’ascesa della casata, la quale abbandonò l’arma primitiva (“d’oro, al leone di rosso, coronato, lampassato e armato d’azzurro”) sostituendola con la celebre fascia d’argento in campo rosso dei Babenberg. Cfr. ivi, p. 14.

25. Punto relativo alla seconda linea borgognona del ceppo capetingio, il cui stipite fu Filippo II l’Ardito, figlio terzogenito di Giovanni II di Valois, re di Francia. L’arma di questo cadetto dei Valois era quella paterna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”, antica insegna dei capetingi) brisata, cioè differenziata, da una bordura composta d’argento e di rosso. Dopo aver ottenuto il ducato di Borgogna, Filippo II inquartò la sua arma con quella di Borgogna antica. Cfr. L. Borgia, ivi, p. 15. Per gli ampliamenti successivi,  vedi supra, note 20, 17 e 9.

26. Pezza costituita da un listello orizzontale scorciato (cioè che non tocca i lati dello scudo) e munito inferiormente di sporgenze chiamate pendenti. Spesso è indice di brisura, cioè di un’alterazione dell’arma originaria al fine di distinguere i vari rami della famiglia, come si vede nel noto stemma di Carlo I d’Angiò (*1226 †1285), figlio ultrogenito  del re di Francia Luigi VIII (*1187 †1226).

27. A forma di T.

28. In realtà l’associazione del punto angioino con quello gerosolimitano risale a Carlo I d’Angiò. Pur non avendo mai cinto effettivamente la corona di Gerusalemme, nel 1278 Carlo inaugurò uno scudo partito, ponendo a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna di Gerusalemme e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia, creando un’arma che per secoli indicherà il Regno di Napoli e la pretensione, ad esso collegata, al trono di Gerusalemme. A partire dal regno di Giovanna I, invece, si assiste ad un inversione dei due punti summenzionati. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 19-21.

29.  Cfr. ivi, p. 31.

30. Cfr. ivi, pp. 39-40.

31. In origine l’arma Farnese era formata da un numero variabile di gigli d’azzurro in campo d’oro (da un minimo di uno fino ad arrivare alla disposizione in seminato). Più tardi essi diventeranno stabilmente sei, disposti  3, 2 e 1. Cfr. ivi, p. 32.

32. Tondino di metallo.

33. I cinque scudetti con i bisanti vengono chiamati quinas. L’origine dell’arma portoghese risale al XII secolo, durante i regni di Alfonso I (1139-1185) e di Sancio I (1185-1211). Inizialmente priva della bordura con i castelli, quest’ultima venne aggiunta da Alfonso III (1248-1279) con riferimento alle armi di Castiglia, la dinastia a cui appartenevano la  madre e la moglie Beatrice, figlia del re Alfonso X di Castiglia. Fu proprio a partire dal regno di Alfonso III che lo stemma reale portoghese cominciò a fissarsi progressivamente nella forma che poi diventerà classica. Cfr. S. Signoracci, L’arma reale del Portogallo nel corso dei secoli, in Nobiltà, rivista di araldica, genealogia, ordini cavallereschi, anno I, n. 4, Milano luglio-settembre 1994, pp. 395-399. L’arma portoghese entrò nello scudo dei duchi di Parma a seguito del matrimonio fra Alessandro (*1543 †1592) e Maria del Portogallo (*1538 †1577). Ranuccio, nato dal predetto matrimonio, inserì nello stemma ducale il quarto portoghese per manifestare la sua pretensione a quel trono.  Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 34. Nello stemma oritano, per motivi di spazio (vedi anche supra, nota 12), la bordura è caricata non da castelli, bensì da torri, il cui numero, però, risulta superiore a sette. Inoltre, i bisanti che caricano gli scudetti sono disposti 3, 2 anziché in croce di Sant’Andrea.

34. L’inserimento dei quarti d’Austria e di Borgogna antica nello stemma ducale risale al matrimonio fra Ottavio Farnese (*1525 †1586) e Margherita d’Austria (*1522 †1586), figlia naturale dell’imperatore Carlo V. Cfr. ivi, p. 33. Si noti come nello stemma in esame il punto di Borgogna antica sia privo della bordura di rosso: ciò succedeva quando esso era associato al punto d’Austria.

35. Cfr. ivi, p. 29.

36. Cfr. ivi, p. 39.

37. Figura tonda ombreggiata per mostrarne il rilievo.

38. Più figure poste in giro nello scudo, ad eguale distanza dal bordo, nel senso della cinta.

39. In origine l’arma medicea ebbe un numero variabile di palle, compreso fra un minimo di tre ed un massimo di undici. Nel 1465 Luigi XI di Francia concesse al “carissimo amico” Piero di Cosimo de’ Medici il cosiddetto ampliamento di Francia, cioè uno scudetto con tre gigli d’oro su campo d’azzurro, che venne poi trasformato in una palla,  figura abituale nell’araldica toscana che conferiva allo stemma mediceo una maggiore euritmia. Nel periodo a cavallo fra i secoli XV e XVI lo stemma mediceo assumerà la conformazione definitiva “d’oro, a cinque palle di rosso, poste in cinta, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata  di tre gigli d’oro, 2, 1”. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 36-39.

40.  Cfr. ivi, p. 46.

41. La più antica testimonianza araldica di uno scudo capetingio cosparso di gigli è del 1211. Si tratta di un sigillo del principe Luigi (*1187 †1226), figlio del re di Francia Filippo Augusto. Cfr. M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014,  p. 92.

42. Il passaggio, avvenuto tra il 1372 e il 1378, dall’antico seminato, che alludeva alla protezione mariana accordata al re e al regno, ai tre gigli intendeva sottolineare “la particolare affezione della benedetta Trinità per il regno di Francia”. Cfr. ivi,  pp. 94-95.

43. Scudo diviso in quattro parti da tre  linee verticali e parallele.

44. Pezza onorevole occupante la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo. Per un errore da parte dell’esecutore, l’arma farnesiana è contenuta in un capo, mentre avrebbe dovuto essere raffigurata nel primo quarto di un troncato.

45. Scudo diviso in quattro parti da tre linee orizzontali  e parallele.

46. Scudo diviso in tre parti da due verticali e parallele.

47. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di sinistra in alto a quello di destra in basso.

48. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di destra in alto a quello di sinistra in basso.

49. Tutti quei componenti che, posti  esternamente allo scudo, contribuiscono alla formazione dello stemma.

50. Il timbro è l’ornamento esterno posto sopra lo scudo, indicante la qualità del possessore dell’arma.

51. Tutto ciò che è posto dietro lo scudo (aquile, croci, trofei d’arme, pastorali, chiavi, spade ecc.)

52.  Croce con le braccia che vanno allargandosi verso le estremità.

53. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 65-66.

Una vacanza da sogno nel Salento da amare, lungo la via Appia e sulle spiagge joniche dal mare cristallino

Torre Lapillo
Torre Lapillo

di Paolo Rausa

 

 

Lungo la Via Appia, regina viarum, ora SS 7, che da Roma conduceva merci e truppe romane a Brindisi per imbarcarsi in direzione Oriente, si incontrano nell’immediato entroterra del porto pugliese città d’arte e rinomati centri storici, una campagna fertile di ulivi e di viti, e un mare, a sud, sullo Jonio, dai colori sfuggenti, verdi, turchesi, blu. Una vacanza ideale in questa zona del Salento, dopo aver scelto la propria spiaggia del cuore, per es. a Torre Lapillo, una torre di guardia del ‘500,  nel lido La Pineta, oppure le spiagge dorate di Campomarino al lido Fuori Rotta, lasciandosi sedurre dai prodotti agricoli di questa terra generosa e dalle sagre, le feste paesane religiose o gli eventi tradizionali.

Centro storico di Oria
Centro storico di Oria

A Oria fervono i preparativi per celebrare il 9 e il 10 agosto il Torneo dei Rioni, giunto alla sua 48ma edizione, che rievoca l’arrivo in città di Federico II, soprannominato puer Apuliae, nel 1225 per attendere la sua sposa Jolanda di Brienne, in viaggio dall’Oriente. 800 figuranti in abiti medioevali a cavallo si sfidano nelle giostre in rappresentanza dei  quattro rioni di Lama, Castello, Giudea e San Basilio.

A due passi la cittadina di Francavilla Fontana, cosiddetta per il rinvenimento di una fonte sacra durante una battuta di caccia, ad appena 5 chilometri da Oria. Lungo i suoi viali alberati e le ampie piazze si affacciano splendidi palazzi, barocchi e neoclassici, e il castello degli Imperiali. La devozione religiosa si  esprime nella chiesa madre, con cupolone – il più alto del Salento – , la chiesa dei padri liguorini con  altari e i fregi in oro zecchino e la chiesa di Santa Chiara, che conserva le 14 statue in cartapesta dei Misteri, che sfilano per le vie della città durante la suggestiva processione del Venerdì Santo, evento che si configura fra i riti della Settimana Santa. Qui si trovano fra le prelibatezze il confetto riccio, una mandorla ricoperta di zucchero e lavorata ancora artigianalmente, e la pampanella, una ricotta avvolta in foglie di fico, dette pàmpane. D’estate la si porta al mare, perché disseta con il suo sapore fresco.

Ci spostiamo di poco, a nord ovest, per raggiungere Villa Castelli, un borgo rurale, che si eleva su una gravina, un’acropoli costruita su un asse viario centrale, il decumano,  ai cui estremi si fronteggiano i simboli del potere religioso con la chiesa madre e del potere civile con la palazzina estiva degli Imperiali, ora ristrutturata magnificamente dal Comune che vi ha posto la sede amministrativa e uno spazio museale etnografico-archeologico. Sorge al limitare delle civiltà fiorite sul suo territorio, la messapica, la magno-greca e la peucetica. ‘Tutto merito della campanula versicolor, un fiore in via di estinzione che ha trovato il suo abitat qui e in Attica!’ – ci dice con orgoglio il sindaco  Vito Antonio Caliandro. Una tappa d’obbligo, se non altro per gustare i dolcetti di pasta reale, unione riuscita di mandorla e zucchero, al Bar La Sfornata. La terra dell’ulivo e del vino, il Salento, in questa zona si esprime nelle eccellenze delle produzioni in stabilimenti condotti da giovani imprenditori agricoli: l’Azienda Dantona, con annesso b&b di charme e le sue tre etichette di olio extravergine, ma gusterete anche il gelato all’olio di oliva; l’Azienda Melillo, una masseria didattica (www.melillo.biz), che produce vino di qualità e in particolare il Nereo, un primitivo dal gusto dolce, e il frantoio oleario Cassese.

Anche questo è Salento: arte, storia e buoni prodotti della terra! Diverse le possibilità di pernottamento a Oria, nel centro storico, modalità albergo diffuso: La Tana del Lupo o le Antiche Dimore, la Domus Frumenti,  il B&b Messapia, il B&b Torre Palomba e il Bb Nonna Pina; cibo di qualità secondo tradizione al Ristorante Fuori Porta di Oria.

Un bagno ristoratore al mare, al Lido  La Pineta di Torre Lapillo e al Lido Fuori Rotta di Campomarino concluderà degnamente la vostra vacanza.

 

 

La Terra d’Otranto ieri e oggi (10/14): ORIA

di Armando Polito

Il toponimo

La forma più antica in assoluto è la messapica ORRA che si legge su alcune monete (anche se di epoca romana).

immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/hyria/SNGANS_817.jpg
immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/hyria/SNGANS_817.jpg

 

La forma greca più antica del toponimo, ῾Υρίη (leggi Urìe), è attestata in Erodoto (V secolo a. C.), Historiae, VII, 170: Λέγεται γὰρ Μίνων κατὰ ζήτησιν Δαιδάλου ἀπικόμενον ἐς Σικανίην τὴν νῦν Σικελίην καλευμένην ἀποθανεῖν βιαίῳ θανάτῳ. Ἀνὰ δὲ χρόνον Κρῆτας, θεοῦ σφι ἐποτρύναντος, πάντας πλὴν Πολιχνιτέων τε καὶ Πραισίων ἀπικομένους στόλῳ μεγάλῳ ἐς Σικανίην πολιορκέειν ἐπ᾽ ἔτεα πέντε πόλιν Καμικόν, τὴν κατ᾽ ἐμὲ Ἀκραγαντῖνοι ἐνέμοντο. Τέλος δὲ οὐ δυναμένους οὔτε ἑλεῖν οὔτε παραμένειν λιμῷ συνεστεῶτας, ἀπολιπόντας οἴχεσθαι. Ὡς δὲ κατὰ Ἰηπυγίην γενέσθαι πλέοντας, ὑπολαβόντα σφέας χειμῶνα μέγαν ἐκβαλεῖν ἐς τὴν γῆν· συναραχθέντων δὲ τῶν πλοίων, οὐδεμίαν γάρ σφι ἔτι κομιδὴν ἐς Κρήτην φαίνεσθαι, ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας. Ἀπὸ δὲ Ὑρίης πόλιος τὰς ἄλλας οἰκίσαι … (Si dice che Minosse alla ricerca di Dedalo giunto in Sicania, quella oggi chiamata Sicilia, morì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi per istigazione di un dio, tutti eccetto i Policniti e i Presi, giunti in Sicania con una grande flotta, assediarono per cinque anni la città di Camico che ai miei tempi abitavano gli Agrigentini. Infine, non potendo né prenderla né restarvi sopportando la fame, rinunziando partirono. Come navigando furono davanti alla Iapigia una grande tempesta dopo averli sorpresi li sbattè a terra; essendo andate distrutte le navi non si vedeva ormai per loro possibilità di tornare a Creta e lì si stabilirono dopo aver fondato la città di Oria e cambiando diventarono iapigi messapi invece di cretesi e furono continentali invece che isolani. Dopo la città di Oria ne fondarono altre …)

 

La forma romana più antica (Uria) è in un frammento delle Antiquitates rerum humanarum di Varrone (II secolo a. C.-I secolo a. C.)  tramandatoci dallo Pseudo Probo (III secolo d. C.) nel suo commento In Vergilii Bucolica, VI, 31. Ho riportato l’intero frammento in una delle puntate precedenti dedicata a Castro; qui riporterò solo il periodo che ci interessa: Ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis Locros appulit. Vacuata eo metu urbe ibidem possedit aliquot oppida condidit, in queis Uria et Castrum Minervae nobilissimum (Dopo che la città [Locri] per la paura era stata evacuata lì egli [Idomeneo]se ne impadronì e fondò parecchie città tra cui Uria e la famosissima Castrum Minervae).

La variante greca Οὐρία (leggi Urìa), pure con un riferimento al passo di Erodoto prima riportato, è in Strabone  (I secolo d. C., Geographia, VI, 3, 6: Τὰ μὲν οὖν ἐν τῷ παράπλῳ πολίχνια εἴρηται. Ἐν δὲ τῇ μεσογαίᾳ Ῥοδίαι τέ εἰσι καὶ Λουπίαι καὶ μικρὸν ὑπὲρ τῆς θαλάττης Ἀλητία· ἐπὶ δὲ τῷ ἰσθμῷ μέσῳ Οὐρία, ἐν ᾗ βασίλειον ἔτι δείκνυται τῶν δυναστῶν τινος. Εἰρηκότος δ᾽ Ἡροδότου Ὑρίαν εἶναι ἐν τῇ Ἰαπυγίᾳ κτίσμα Κρητῶν τῶν πλανηθέντων ἐκ τοῦ Μίνω στόλου τοῦ εἰς Σικελίαν, ἤτοι ταύτην δεῖ δέχεσθαι ἢ τὸ Ὀυερητόν (Si è parlato delle piccole città sulla costa. Nell’interno invece ci sono Rudie e Lupie e più vicina al mare Alezio; al centro dell’istmo Oria, nella quale si mostra ancora la reggia di uno dei dinasti. Quando Erodoto dice che c’è nella Iapigia Oria fondata dai Cretesi erranti dopo la spedizione di Minosse in Sicilia, di certo è necessario che essa sia intesa come tale o come Vereto); VI, 3, 7: … ἐν ταύτῃ δὲ πόλις Οὐρία τε καὶ Ὀυενουσία, ἡ μὲν μεταξὺ Τάραντος καὶ Βρεντεσίου, ἡ …(su questa [la via Appia] vi sono le città di Oria e di Venosa, una a metà strada tra Taranto e Brindisi, l’altra …).

Nella Tabula Peutingeriana (IV secolo), VI, 5 compare la forma Urbius (in basso a sinistra evidenziato nell’ellisse verde).

 

Nell’Anonimo Ravennate (VII secolo), Cosmographia, IV, 35 è attestata la forma Urias: Item civitas quae dicitur Locupissandas, item Samnum, Urias, Anxia … ( … poi la città che è detta Locupissanda, poi Samno, Oria, Anxia …).                                                                                                       

In Guidone (XII secolo), Geographia,  49 è attestata la forma Ories: Ories in qua reliquiae sanctorum martirum Crisanti et Dariae sunt (Oria nella quale ci sono i resti dei martiri Crisanto e Daria).

Dopo questa ubriacatura di varianti sarebbe azzardato proporre l’etimo definitivo del toponimo, anche perché del messapico ORRA non si conosce il significato. Mi limiterò, perciò a riportare le opinioni altrui. Il Pacichelli proprio all’inizio del brano subito dopo riportato, forse condizionato dall’Ories di Guidone, mette in campo un Oreas, cioè la ninfa dei monti Oreade, dal greco Ὁρειάς (leggi Oreiàs), a sua volta da ὅρος (leggi oros)=monte.

Gasparo Papatodero  in Della Fortuna di Oria, Fratelli Raimondi, Napoli, 1775 affronta quest’argomento nelle pagg.  1-15 dove preliminarmente passa in rassegna, confutandole, alcune etimologie (peccato che non ne riporti la paternità): Hyria da Iris, iride, arcobaleno che, in aggiunta presso altri, sarebbe apparso ai Cretesi sul luogo dove avrebbero poi fondato la città; Hyria da Iris che in messapico significherebbe pace; Oria da ὅρος (è questa l’etimologia del Pacichelli). A questo punto il Papatodero, partendo dal fatto che  un ῾Υρία (la cui trascrizione in latino sarebbe, appunto Hyria), in Omero è una città delle Beozia, in Esiodo moglie di Nettuno, ritiene non improbabile che que’ Cretesi , che fondaron Oria (come a suo luogo vedrassi) abbian dato a quella un nome di qualche oriental paese come ora anche soglion fare nell’America gli Europei; ovvero un nome di qualche loro Dea: poiché i Cretesi, come si vedrà avanti, sbattuti da una fiera tempesta, edificaron Hyria detta forse dalla Dea Hyria moglie di Nettuno, alla quale forse ascrissero la loro salvezza da quell’orrida sofferta tempesta.  

Subito dopo l’autore dopo aver fornito  convincente ragione fonetica della trafila  Hyria>Uria>Oria, avanza un’altra ipotesi:  Hyria potrebbe derivare dalla parola Ebrea Hur, che vuol dire excitare, onde i dotti credono esser nata la parola altra Ebraica Hir Civitas.  Ed in fatti a tal proposito dice il dottissimo maestro di lingua Ebraica Giovanni Bustorsio nel suo Lessico Ebraico nella suddetta parola “Hir, urbs, Civitas, quidam ad Hur referunt, quod hominum afflictionibus et operis excitata fit”; possiamo dunque credere, che, come attesta Erodoto, essendo stata Oria la prima Città da’ Cretesi fondata; perché quella era il loro edificio, e la loro prima opra, l’avessero perciò detta Hyria, partecipando l’Y dell’U, e dell’I.  

Se debbo esprimere la mia opinione, con tutto il rispetto mi vien da dire che questa seconda ipotesi mi sembra un’arrampicata sugli specchi e che il supporto del Bustorsio mi appare come una scala traballante: Come si fa, infatti, a collegare solo in base ad analogie fonetiche, urbs con Hir tentando poi di rimediare con una motivazione semantica che mi appare assolutamente campata in aria quando il Bustorsio afferma che (traduco alla lettera) certi riportano Hir urbs e civitas ad Hur, poiché viene fatta venir fuori dalle sofferenze e dall’opera degli uomini.

Pacichelli (A), pagg. 175-177:

 

Pacichelli (C, anno 1686)

Era Mandura confederata con Taranto ed Oira, con Roma e con Brindisi. Da Oira (che altri forse meglio dicon Oria, dalla voce latina Uria), della qual città scrive qualche cosa Donato Castiglione, De Coelo Uritano, in sei miglia, mi vidi alla Torre, casale con l’Arcipretura in un bel tempio, e co’ Padri Conventuali.

Pacichelli (mappa)

A  Castello (mappa/http://www.toninocarbone.it/2012/08/oria-nei-suoi-monumenti.html)

B  Vescovato (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

C Palazzo del Vescovo (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

E   S. Giovanni Monastero Celestini/S. Giovanni (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/chiesa-sangiovanni-battista1.JPG/image_large)

 

F  S. Domenico (mappa/http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/chiesa-di-san-domenico)

 

G  S. Francesco di Paola (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/chiesa-sanfrancesco-di-paola.JPG/image_large)

 

H   Porta di Taranto/Porta Taranto o Porta degli Ebrei (mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/porta-degli-ebrei.JPG/image_large)

 

I   Porta di Lecce/Porta di Lecce o Porta Manfredi

(mappa/http://eneaportal.unile.it/sul_cammino_di_enea_it/brindisi/media/foto/oria/porta-manfredi.JPG/image_large)

 

K   Torre Palomba (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

 

M   S. Francesco d’Assisi (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

Per quanto riguarda lo stemma nella mappa appaiono due scudi vuoti; quello attuale è nell’immagine che segue tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/1/17/Oria-Stemma.png

Prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

Terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

Quarta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

Quinta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

Sesta partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

Settima parte:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

Ottava partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Nona parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/ 

 

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

museo-gallipoli-248

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Oria. La cripta delle Mummie, unico caso di laici mummificati

di Franco Arpa

Sotto la Basilica  Cattedrale di Oria è situata la cosiddetta cripta delle Mummie, unico caso di laici mummificati.

Secondo la tradizione locale la cripta venne realizzata nel 1484 come luogo di preghiera e di memoria di tutti coloro che non erano tornati dalla battaglia contro i turchi in Terra d’Otranto (1480-1481). Apprendiamo da fonti documentali (AVO, Congrega della Morte, cartella 123. Oria 1896/97, fasc. n.38, riportata in LE CONFRATERNITE IN ORIA del C.R.S.E.C.N°21 – Ceglie M/ca)  che

…[nell’autunno del 1481,il re Ferdinando d’Aragona approfittando di un momento di debolezza delle Falangie Turche di Macumetto II, spedì suo figlio Alfonso con molta armata, che a sè unita aveva parte di quella del Papa e della Repubblica genovese che ripresero con vittoria l’afflitta città di Otranto. Disfatti i Turchi molti di essi si sbandirono per la provincia in piccole guerriglie che saccheggiavano e incendiavano i villaggi, chiese e rapinavano donzelle. Prima che partisse il re Alfonso, lasciò in provincia Giulio Bonifaci che col suo naviglio in Otranto avea recato per compervi alcuni incarichi regi. Il Bonifaci, dopo aver compito al real mandato, mal tollerando le brigantesche compagnie turche che si eano sbandato dietro la disfatta di Otranto, istituì qui in Oria assieme ad illustri cittadini una colonna mobile di Crociati per disfare i pochi nefandi Turchi che si appellò: “Crociati fede o Morte”.

 
mummificazione ben riuscita

Alla patriottica impresa promossa dal Bonifaci, tra gli illustri oritani che si arruolarono si distinse Beltrando Landi. Così per opera di molte compagnie di Crociati furono disfatte le bande turche. Quando approssimandosi la primavera, il dì 14 marzo 1484, secondo venerdì del mese, che di già s’era compiuta in Italia la pace tra i principi, tutti i Crociati si ritirarono nei rispettivi paesi, ma la principale era quella di Oria.

 

Giunta nelle vicinanze della città, il vescovo Mons. Francesco De Arenis, di nazione portoghese, assieme al molto clero di quel tempo, uscirono incontro a quella crociata per riceverla trionfalmente a condurla in Chiesa ove il predetto vescovo benedisse e impose il titolo di Compagnia del SS. Crocefisso, facendo premettere quello di “Fede o Morte”. Così si mantenne fino al 1576. Nel 1598 Mons. Del Tufo, primo vescovo dopo la separazione della chiesa di Brindisi da quella di Oria, pose la Compagnia sotto la protezione e titolo di Maria SS. del Carmine, appellandola Confraternita della Morte, sotto il titolo del Carmine]…

Lungo i lati maggiori della cripta furono ricavate 22 nicchie, nelle quali avrebbero preso  posto i corpi mummificati dei confratelli che ne avessero fatto richiesta, a partire dai reduci della crociata contro i turchi, al fine di dare loro una sorta di visibilità eterna.

emblema dipinto sugli stalli del coro dei confratelli

Dai molti documenti si rilevano le testimonianze degli stessi confratelli che esprimevano la volontà di essere poi sistemati nel soccorpo della cattedrale, nella cripta. Uno dei tanti documenti così riporta: “…Ogni confratello che voleva essere imbalsamato doveva dichiarare e documentare la sua volontà in presenza di una riunione assembleare non inferiore di quaranta fratelli, nonché la presenza dei familiari dopo il rito funebre, rivestito della sua divisa che gli servì da Professo nella compagnia e messo in una nicchia… avendo cura i familiari delle pulizie entro il mese di Ottobre per la commemorazione dei defunti…”.

Il 12 giugno del 1804 la Francia di Napoleone Bonaparte adotta l’Editto di Saint Cloud (recepito nel 1806 nelle repubbliche napoleoniche italiane), con il quale, fra l’altro, si vietano le mummificazioni, che ad Oria però continuarono, forse clandestinamente, se si considera che delle 11 mummie presenti solo una è risalente all’anno 1871 e quindi ad epoca antecedente all’editto napoleonico. Le altre 10 mummie recano data successiva al 1804 e l’ultimo confratello che ha subìto il processo di mummificazione è Michele Italiano, deceduto nel 1858.

Il cadavere da mummificare veniva eviscerato ed aspirata la materia cerebrale dalla narici, al posto degli organi interni veniva messa una miscela di sali disidratanti insieme a calce vergine polverosa, e poi ricucito e calato in una vasca in cui c’erano le stesse sostanze messe all’interno del corpo. Perchè avvenisse la completa disidratazione e disinfezione il cadavere rimaneva in detta vasca  per un periodo di tempo (due anni, due anni e mezzo) che variava in base  alla corporatura del confratello. Dopodiché, alla presenza obbligatoria di almeno due familiari, il cadavere ormai disidratato, mummificato, veniva ripescato, ripulito, trattato con degli unguenti, ricoperto con la tunica personale e posto in una delle nicchie.

Non sempre il procedimento di mummificazione andava a buon fine, in quanto essendo la calce caustica l’operatore, per evitare danni all’apparato scheletrico ed alla pelle (che doveva rimanere integra), doveva fare molta attenzione a dosarla in modo ottimale in rapporto al peso ed alle caratteristiche del cadavere.

la botola

Sul pavimento delle cripta sono visibili delle botole che portavano ad un cunicolo di collegamento con la Torre Palomba,  volgarmente chiamata anche “Torre Carnara” perché fino al XVIII secolo è servita da ossario dell’antico camposanto che occupava Piazza Cattedrale. All’interno della Torre vi erano anche le vasche e gli strumenti chirurgici per la mummificazione.

In una di dette botole sono tuttora custoditi i resti di un “priore” della confraternita della Morte e di sua moglie, che l’attuale “priore” ha intenzione di rendere visibili ai visitatori apponendo una lastra di vetro.

particolare mummificazione ben riuscita
Viapiana, l’attuale priore della Congrega

 

Le foto della cripta sono di Franco Arpa

A proposito del castello di Oria

Il castello di Oria, di origini sveve o normanne?

Costruito o ampliato da Federico II°?

di Franco Arpa

Pur nella consapevolezza che a qualcuno può dare fastidio che da un pò di giorni continuo a parlare del castello di Oria, non posso non pubblicare alcune considerazioni che ho fatto dopo aver letto articoli di diversi storici vissuti in varie epoche. A mio parere ci sono molti elementi che fanno credere che il castello, oggi di proprietà della famiglia Romanin-Caliandro, è stato solo ampliato per ordine di Federico II° e non costruito di sana pianta fra il 1227 ed il 1233.
Fra l’altro in molti scritti si legge che “secondo tradizione il castello è stato costruito da Federico II°…  o addirittura da suo figlio Manfredi”.

Tradizione …  questo termine mi ricorda alcuni scritti presenti anche su internet circa il Torneo dei Rioni: “…. secondo la tradizione ha origine nel 1225 con Federico II di Svevia, il quale decise di insediarsi nel territorio di Oria in attesa della promessa sposa Isabella (detta anche Jolanda) di Brienne. ” Tutti noi oritani sappiamo che ciò non è vero in quanto prima del 1967 (ovvero prima della geniale idea avuta da Gino Capone, supportata da dirigenti della Pro Loco di allora, di inventare i giochi de lo torneamento) nessuno ha mai parlato o scritto del Torneo di Oria e del relativo Bando di Federico II°.

Quindi… per analogia è probabile che nel corso dei secoli si è tramandato qualcosa di sbagliato circa le vere origini del castello di Oria.

A conforto della mia ipotesi riporto stralci di documenti di tre esperti:

1) – Gennaro Basile di Castiglione (1865-1920), ingegnere e scrittore di cose d’arte, nel suo libro CASTELLI PUGLIESI così scrive:
« Il castello, strumento potentissimo dell’Autorità Regia, residenza signorile e spesso sontuosa di chi — Governatore o Preside, Castellano o Feudatario quell’autorità rappresentava — vide sempre entro l’ambito delle sue mura le sorti supreme della città e della terra » .
Con intendimenti non certo diversi Federico II di Svezia giudicò opportuno che si fortificassero le città di Puglia, dove costruì i castelli di Bari, di Trani e di Brindisi, e aumentò le opere difensive di Oria, perchè — come dice Cantù — « trovando continuamente rivoltose le città soggette, egli volle frenarle con lo spediente dei tiranni: le fortezze ».

2)- Il contemporaneo Benedetto Vetere, Professore Ordinario di Storia Medievale presso la Facoltà dei Beni Culturali dell’Università del Salento, a proposito di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, suocero di Federico II°, per l’Enciclopedia TRECCANI ha scritto : “Era evidente che con il matrimonio di Jolanda con Federico di Svevia il controllo della situazione passava all’imperatore di Germania, re di Sicilia nello stesso tempo. La cerimonia di nozze fu, ad ogni modo, celebrata nella cattedrale di Brindisi agli inizi di novembre del 1225 con il fasto che si addiceva a una coppia imperiale. Con uguale magnificenza la regina e il suo seguito erano stati accolti all’arrivo in città, dove ad attenderli vi erano il futuro sposo e il padre che, intanto, avevano soggiornato nel castello di Oria.”

3)- Antonio Diviccaro, esperto in storia dei castelli federiciani, su una pagina web così scrive:
[Lo svevo vi fece costruire con certezza la più imponente torre dell’edificio al vertice sud-ovest, che ne costituisce anche la parte più antica attualmente visibile. Il torrione quadrangolare ricalca la tradizionale pianta e possenza dei donjon normanni, nuclei centrali di molti castelli di Puglia e del Mezzogiorno.]

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

 

 

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Oria. Non si può!

chiesa di s. Francesco d’Assisi – Oria (ph Franco Arpa)

di Franco Arpa

Oria ha una storia di oltre tremila anni ed è uno dei centri della provincia di Brindisi che vanta numerosi Beni Culturali, Archeologici, Architettonici, etc. Purtroppo l’azione dell’uomo nel corso dei secoli è stata in molti casi dannosa per detti Beni. Molte volte si è trattato di incuria più o meno colpevole. Altre volte in modo consapevole sono stati perpetrati dei veri e propri scempi.

L’esempio più eclatante si è verificato nel 2002 allorquando è stata distrutta un’antica necropoli messapica, in area ex conventuale e sottoposta a tutela

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