Olive Celline. Perchè questo nome?

Lu cilìnu

di Armando Polito

È una delle varietà di olivo più diffusa, e da tempi certamente non recenti, nel territorio di Nardò. La voce nel vocabolario del Rohlfs è registrata solo nel volume (terzo) che funge da supplemento all’opera, il che potrebbe far supporre che l’illustre studioso a suo tempo si concesse una pausa di riflessione perché aveva dei dubbi sulla sua etimologia o perché la voce stessa gli era in un primo momento sfuggita. Tuttavia, se si tratta del primo caso, va detto che ogni dubbio poi è svanito se leggo “ha preso il nome dal paese di Cellino”. A questo punto, direbbe l’amico Pier Paolo Tarsi, scatta la teoria di Occam. Ho già avuto occasione di contestarla e la voce di oggi mi fornisce un’ulteriore occasione per dimostrarne, quanto meno, la discutibilità. Insomma, siamo veramente sicuri che Cellino San Marco sia la patria del cilìnu? A questo punto mi si obietterà che è inutile negare l’evidenza, tanto più che proprio un albero di olivo compare nello stemma della città. È vero, ma qual è la testimonianza più antica di questo stemma? In attesa che qualche lettore cellinese cultore di queste cose si faccia vivo, io parto, al solito, da molto lontano.

Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, VI: In agro crasso et caldo oleam conditivam, radium maiorem, Salentinam, orchitem, poseam, Sergianam, colminianam, albicerem. Quam earum in his locis optimam dicent esse, eam maxime serito. Hoc genus oleae in XXV aut in XXX pedes conserito. Ager oleto conserundo,qui in ventum favonium spectabit et soli ostentus erit, alius bonus nullus erit. Qui ager frigidior et macrior erit, ibi oleam Licinianam seri oportet. Sin in loco crasso aut caldo severis, hostus nequam erit et ferundo arbor peribit et muscus ruber molestus erit. (In terreno grasso e caldo [pianta] l’oliva da conservare, l’oliva lunga, la salentina, l’orchite, la sergiana, la colminiana, l’albicera. Pianterai soprattutto quella che dicono essere la più adatta al luogo. Pianta questo tipo di olivo a 25 o trenta piedi di distanza l’uno dall’altro. Sarà adatto all’impianto dell’oliveto il campo esposto al Favonio e al sole, nessun altro sarà adatto. laddove il terreno è piuttosto freddo e magro, lì conviene che sia piantato l’olivo liciniano. Se invece lo pianterai in un luogo grasso o caldo il raccolto sarà di cattiva qualità e il muschio rosso lo danneggerà).

Plinio, Naturalis historia, XV, 3: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano, eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta haec palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit. (L’italia in questo [nella produzione di olio] ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nell’agro di Venafro in quella parte di esso dove si produce l’olio liciniano: per questo enorme è la fama dell’oliva liciniana. Hanno dato questo pregio gli oli col loro odore gradevolissimo. Lo ha dato anche il gusto col suo sapore alquanto delizioso. Inoltre nessun uccello è ghiotto delle bacche dell’oliva licinia).

Non a caso qualche decennio prima Il geografo greco Strabone (circa 64 a. C.-19 d. C.), Geografia, V, 3 aveva notato: …Venafro, dove l’olivo è bellissimo.

E c’è da meravigliarsi se l’olivo di Venafro trova la sua celebrazione anche presso i poeti?

Orazio (I secolo a. C.), Carmina, II, 6, 13-16, manifestando all’amico Settimio il desiderio di trascorrere gli ultimi anni a Tivoli o a Taranto: Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro (Quegli angoli della terra mi sorridono più di ogni altro, dove il miele non ha nulla da invidiare a quello dell’Imetto e la bacca gareggia col verde Venafro); Satire, II, 4, 68-69, descrivendo la composizione di una salsa raffinata:  insuper addes/pressa Venafranae quod baca remisit olivae…(aggiungici olio spremuto  dalla bacca di oliva di Venafro).

Columella (I secolo d. C.), De arboribus, 17: Optima est oleo Liciniana (La liciniana è ottima per la produzione di olio).

Giovenale (I-II secolo d. C.) , Satire, V, 80-82: ipse Venafrano piscem perfundit, at hic qui/pallidus adfertur misero tibi caulis olebit/lanternam…(…lui [Virrone, il padrone di casa] annega il pesce nell’olio di Venafro, ma questo pallido cavolo che a te viene servito puzza di olio di lanterna…).

Il lettore si starà da tempo chiedendo: “Ma questo, dove vuole arrivare?”.

Gli rispondo immediatamente con una gragnuola di domande: E se cilìnu fosse, per metatesi e abbreviazione, deformazione di liciniànu(m), cioè una varietà antica e non relativamente recente (domanda nella domanda: qual è la prima attestazione, necessariamente scritta, di cellìno?). È un caso che l’olivo liciniano (ancora oggi coltivato) e il suo frutto sono straordinariamente simili ai nostri? E le denominazioni cellina di Nardò e cellina barese1 sono veramente figlie di una varietà importata da Cellino? Come mai, in una tendenza alla geminazione delle consonanti, Cellino in dialetto fa Cilìnu?

E non è finita! In una pergamena barese del 10952 si legge, con inequivocabile riferimento ad una varietà di olivo, hocellina e in un’altra del 11593 tucellinus. Può darsi che quest’ultimo sia lettura (o scrittura?) errata del primo che potrebbe essere una forma aggettivale dal latino tardo aucèllus=uccello, con riferimento alla predilezione che l’animale mostrerebbe per il frutto, secondo un tipico condizionamento semantico delle forme aggettivali. Il che contrasterebbe con il dettaglio finale del passo di Plinio.

Se si trattasse di uva mi attenderei almeno una risposta da Albano; in questo caso me ne dovrei attendere almeno mezza da Massimo Cassano, ma credo che passerò invano molte notti insonni…

Per chiudere:  la foto di testa ed il dettaglio si riferiscono ad uno dei miei alberi di olivo che non possono certo competere con i “patriarchi” riprodotti in questi ultimi giorni sul sito per i motivi che, ormai, tutti conoscono; ma,  almeno finché vivrò io, vivranno anche loro, tutti…

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1  Estrapolando dai nomi correnti delle cultivar nazionali che contengono un riferimento sicuro al territorio di origine ottengo per le due varietà un tempo non lontano più diffuse nel territorio neretino (cilìna e ugghialòra) in esame questi risultati:

CELLINA   Cellina di Nardò, Cellina barese.

OGLIAROLA Ogliarola garganica, Ogliarola del Vulture, Ogliarola di Lecce, Ogliarola del Bradano, Ogliarola seggianese;.e per altre: Rapollese di Lavello, Oliva Cerignola, Bella di Cerignola, Cima di Bitonto, Cima di Mola, Cima di Melfi, Termite di Bitetto, Tonda di Strongoli, Dolce di Rossano, Grossa di Cassano, Grossa di Gerace, Pignola di Arnasco, Aurina di Venafro, Cerasa di Montenero, Olivastra di Montenero, Olivastra seggianese, Saligna di Larino, Nera di Gonnos, Nera di Oliena, Nocellara del Belice, Nocellara etnea, Nocellara messinese, Tonda iblea, Ascolana tenera, Nostrale di Rigali.

In tutti i nomi surriportati una parte si riferisce ad un dettaglio (colore, forma, etc.) del frutto, l’altra al luogo di origine o diffusione. Uniche eccezioni: Rapollese di Lavello e  la nostra Cellina di Nardò. È sufficiente accomunare le due reali o presunte eccezioni e concludere che le rispettive varietà vennero importate a Lavello da Rapolla e a Nardò da Cellino, considerando irrilevante la distanza minore nel primo caso (15 km.), maggiore (55 km.) nel secondo?

2 Codice diplomatico pugliese, V, 21, 18.

3 Codice diplomatico pugliese, V, 117, 23.

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