Insuccessi

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di Nino Pensabene

 

Sapessi tu di tutti i miei insuccessi,
delle delusioni,
di tutti i miei dolori.

Sapessi tu quanto ho desiderato
che “verità” e “vittoria”
non rimanessero
parole separate di un vocabolario
ma si accoppiassero
fondendosi in sussurro o grido
sulla bocca di tutti gli uomini del mondo.

Sapessi tu quanto ho lottato e lotto
perché “giustizia”
non sia
solo parola
scritta in fronte ai tribunali
ma sia anche gemma
che sboccia
nel profondo di tutte le coscienze.

E cosa dirti ancora
dei sogni e delle aspettative
da me appuntate sulla parola “pace”?
Sulla parola “amore”?
Sulle parole “fame” “diritto” “libertà” e “lavoro?

Sapessi tu di tutti i miei insuccessi,
delle delusioni,
di tutti i miei dolori.

 

13 febbraio 2005
Da “POCO MENO DEGLI ANGELI”

Un bigliettino per Nino da Vaste

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Dall’epistolario manoscritto “Bigliettini per Nino”

 

Carissimo Nino,

ti sei mai accorto di quanto sei felice

quando ci troviamo nella necropoli di Vaste?

Rondone che calato a picco

increspa l’immoto delle tombe aperte a libro

ti fondi ogni volta al fiato dei millenni,

quel fiato

che mentre gronda offerta

per chi è lesto

a vibrare al tocco degli enigmi,

per altri diventa avaro e inocula paura,

voce che insidia

la troppo umana prosopopea

di chi s’illude di possedere il tempo

come asino prono ai suoi comandi.

Giulietta

Copertino, 12 agosto 1998

 

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La notte e il giorno

 

Giovanni Segantini, "Le due madri", ossia la vita secondo natura
Giovanni Segantini, “Le due madri”, ossia la vita secondo natura

 

 

di Nino Pensabene*

Dedico a Elio Ria questa poesia della mia Giulietta, estrapolata dall’epistolario a me dedicato “Bigliettini per Nino”. Me la sono ricordata leggendo, appunto di Elio, “Una volta d’estate la notte” e mi piace pubblicarla a conferma che la notte è stata sempre amata da tutti i poeti, che l’hanno difesa come si può difendere il grembo della propria madre, fonte di vita come lo è appunto la notte, il cui magico buio partorisce la luce, i cui silenzi di pace partoriscono  i brusii vitali dell’alba e i rumori operosi del giorno, spazio di tempo creato in contrapposizione ai riposi notturni di tutta la natura.

 

Carissimo Nino,

 

chiamala pure utopia, se vuoi,

ma io credo che verrà un tempo

in cui le sere

ritorneranno ad essere colombe,

le notti riavranno per vigilessa l’Orsa

e all’alba i galli sanciranno regole

che riattesteranno il giorno voluto dal Signore.

Regole salutari

come latte munto alla mammella delle capre,

dolci come favo di miele

scovato sotto la corteccia di un ulivo.

 

                                                                         Giulietta

*pubblicata il 11 giugno 2011 su Spigolature Salentine

Montata lattea

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MONTATA LATTEA

 

 

di Nino Pensabene

 

“Terra pietrosa, terra d’uliveti

terra profonda, terra di vigneti”.

 

Ma tu, sofferta

ventosa e arsa  campagna salentina,

non conosci soltanto queste glorie:

terra russa o terra neura,

terra ti sciardinu o terra furitana,

pagine di storia in tutto il mondo

sono le tue bionde gigantesche macchie

punteggiate dal rosso dei papaveri.

 

Sì, i campi di grano,

ma anche le distese fiorite di tabacco

o, nel ricordo,

quelle bianche di lino e di cotone.

E poi i ficheti, i pescheti e i mandorleti,

le siepi di fichidindia,

senza dimenticare

i sorbi, i carrubi, e i melograni

o gli ortaggi

in seno ai quali sono un immenso mare aperto

le piantagioni di angurie e di melloni.

 

Oh, terra salentina,

montata lattea della mammella di  Dio!

In questa civiltà del non amore,

in questo progresso dell’ingratitudine,

capisco perché i  maltrattati

ma puri di cuore  contadini

religiosamente

si chinavano a raccogliere una zolla:

stringendola forte

la sbriciolavano piano fra le dita

come se, sorbendone con voluttà gli umori,

volessero amare

tutti i  misteri del creato!

 

Ciao Nino

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Caro Nino,

sapessi quanto mi è difficile scrivere queste righe. Riuscirò a dire l’amaro che lasci andandotene così? Riuscirò a colmare con le sole parole il vuoto in cui l’animo scosso sprofonda? Macché amico mio, la penna non va oggi, non scorre nulla da queste mani. “Il peggio è passato” mi hai detto al telefono l’ultima volta, con una voce finalmente allegra che annunciava un imminente ritorno dalla capitale e dall’incubo in cui l’improvvisa malattia ti aveva condotto, un incubo da far annegare e cancellare definitivamente in quel primo caffè che avremmo dovuto goderci al tuo ritorno. Sappiamo entrambi come sarebbe dovuta andare poi, tu dopo il caffè avresti preteso una camminata, ed io avrei preteso un sigaro al sole, Marcello, invece, la sua bionda multifilter. E alla fine, come sempre, saremmo giunti al solito tacito compromesso, avremmo cioè camminato per poche decine di metri fino al muretto che circonda il castello e lì, per un’ora o fino all’imbrunire, avremmo parlato di Giulietta, dei vostri anni romani, delle ricerche etnografiche a cui avete dedicato la vostra intera esistenza, avvolta in quella condivisa e laboriosa solitudine. Mi avresti poi parlato delle tue e delle sue poesie, e di queste ultime mi avresti recitato qualche verso a memoria, fino al verso che, così ogni volta, ti avrebbe fatto piangere. Con quale fulmineo rivelarsi sarebbero sgorgate quelle lacrime, e quanto rapidamente le avresti asciugate, con pudore, come a chiedere scusa, tirando fuori un fazzoletto dalla tua borsetta scura. Poi mi avresti guardato con un sorriso tra quella tua barba lunga di cui andavi così fiero, vanitoso e buffamente dandy come sapevi essere, e che solo la malattia impietosa ti avrebbe potuto sottrarre; a quel punto avremmo iniziato a guardare come sempre al futuro e ai progetti da realizzare, ai meravigliosi inediti di Giulietta da far conoscere al pubblico, alle trascrizioni e alle ricerche da farsi su quei dannati fogli ingialliti che custodivi con l’amore di marito e con la cura di un padre. Invece no, amico mio, nulla di tutto ciò ci è stato concesso. Non tornerai mai più da noi, nemmeno per farti condurre al tuo sepolcro, accanto alla tua Giulietta come credo tu avresti preferito. Andrai nella tua città natale ci hanno fatto sapere, la Reggio Calabria dei tuoi sereni ricordi d’infanzia, a dormire per sempre cullato dal dondolio del mare che si frange sullo stretto. Forse è giusto così, o forse no, non saprei, ma quaggiù, noi, Marcello, Giovanna, Fabrizio e tutti gli altri amici che ti hanno voluto bene, dove mai potremo andare a riporre un fiore per te? Sai Nino, mi ha chiesto Marcello, per telefono, nel pomeriggio – dopo avermi annunciato quanto non avrei mai voluto sapere – di scrivere un doveroso necrologio da pubblicare sul sito. Certo, ho compreso subito quanto fosse doveroso, ma in quel momento non ho potuto immaginare quanto sarebbe stato doloroso. Me lo hai sempre rimproverato che sono troppo facilone nel prendere gli impegni, e devo darti ancora una volta ragione. Ogni lettera e ogni parola, mentre scrivo, si trasformano in uno scenario, un’immagine, un ricordo preciso collocato nel tempo trascorso con te, e questo soffermarsi consapevole e lento sui ricordi a cui mi costringe la scrittura si sta rivelando uno strazio. Sono passate sei o sette ore da quella telefonata, ed eccomi ancora qua a tentar di dire malamente, a balbettare parole che non potrai mai leggere. Un’ora fa ho dovuto prendere la macchina, così ne ho approfittato per svoltare nella piazza dove si affaccia il vicolo che porta a casa tua. Tra i rumorosi bar frequentati da ciurme di ragazzi e ragazze pieni di vita e di speranza, solo uno scorcio di veduta sul vicolo di casa tua, avvolta dal buio e dal silenzio greve, forse lambito soltanto dai sospiri di qualche coppia di giovani innamorati nascosti all’oscurità. Ci hai lasciato da quasi due giorni a quanto mi dicono, ma non un manifesto ancora, né un fiore ho intravisto per te. Mi è venuta in quell’istante in mente l’immagine che ci fece incontrare la prima volta, quell’affresco della Madonna del Buon Consiglio che io mi ero avvicinato incuriosito a guardare, affissa lì, proprio in quel vicolo, accanto all’ingresso di casa tua, la casa dei Poeti. Ripensare oggi a quel momento non è stato facile Nino, accidenti! Ricordo che d’un tratto poi  fuoriuscisti dal monumentale portale d’ingresso, con una pesante vestaglia rosso porpora, una lunga barba da eremita, la faccia tanto severa da intimorire, il volto scuro, impenetrabile e pensieroso di chi non è più abituato alle persone da anni. Don Nino, o il Professore, come ti chiamano ancora in questo paese, in tutta la sua (presunta) austerità e nel suo alone misterioso si rivelò in carne ed ossa di fronte a me, ed io ero imbarazzato come un mocciosetto scoperto a curiosare in casa altrui. Chissà quanti anni erano trascorsi dall’ingresso di qualcun altro prima di me nel tuo palazzo. Vi entrai verso le tre di pomeriggio credo. Me ne andai di sera, dopo le nove. Ci mettemmo un attimo a riconoscerci già amici, e dopo due attimi eravamo addirittura in cucina (il posto vietato da sempre a qualunque ospite), dove mi recitasti poesie e mi leggesti lunghe pagine delle vostre ricerche. Ricordo che stetti tutto quel tempo senza osar fumare, e quando mi offristi un bitter non ce la feci proprio più, azzardai la richiesta di un accendino. Con un sorriso mi dicesti “Perché non l’hai chiesto prima? Chissà come avrai sofferto tutto questo tempo, anche io fumavo sai?!…”. Quella cucina, così modesta al cospetto delle antiche sale del palazzo, non ti serviva tanto a preparare pietanze, ma a lavorare, era divenuto il tuo studio da quando Giulietta se n’era andata. Ricordo che rimasi  di stucco nel vedere che trascrivevi i manoscritti giallastri e dal forte odore di umido con quella Olivetti nera. Non vedevo una macchina da scrivere da quando ero ragazzino. Chi l’avrebbe mai detto che ti avrei convinto mesi dopo a comprare un pc? E chi l’avrebbe detto che ti saresti trasformato addirittura in un vero e proprio smanettone in grado di usare posta elettronica, social network, forum e tutto il resto? Ricordo quando andammo a comprare il mobile per il pc e, tornati a casa tua, montai e collegai monitor, stampante e tutto il resto. Finalmente eravamo pronti per iniziare il tuo battesimo nella nuova era. Accesi il pc, aprii una pagina bianca del programma di scrittura e ti chiesi di prendere il mouse. Lo stringesti in mano intimorito e quando ti chiesi di provare a muovere il cursore sollevasti al cielo entrambe le braccia  e mi guardasti con una faccia da pesce lesso: me la feci quasi addosso dal ridere, e al contempo mi disperai, pensando a quale lungo tirocinio informatico ci avrebbe atteso.

 

Porto Cesareo 1974, Nino e Giulietta
Porto Cesareo 1974, Nino e Giulietta

 

Caro amico, nella tua vita romana che tanto amavi raccontarmi, hai conosciuto grandi poeti, famosi scrittori e dottissimi professori, una folla che avrebbe saputo davvero scrivere un necrologio all’altezza dei tuoi meriti e della tua persona, una massa di maestri della parola che avrebbero saputo soffermarsi con freddezza, perizia e con dovuti dettagli sui tuoi lavori, sulla intensa attività culturale svolta negli anni vissuti con Giulietta nella capitale, sui riconoscimenti ottenuti con le poesie, sui risultati delle vostre successive ricerche etnografiche. E invece nulla, accidenti, è toccato a me questo compito, che non sono né grande né dotto ed anzi non riesco oggi nemmeno ad organizzare il pensiero per tratteggiare che so, almeno una pallida idea della persona, dello studioso e del poeta che sei stato. Mi spiace Nino, ma certe responsabilità non dovrebbero toccare agli amici intrappolati dal dolore e faciloni, questi, al più, ti sanno scrivere un’ultima lettera. Oggi vorrei solo abbandonarmi al ricordo del tuo sorriso quando si andava a spasso o per i caffè pomeridiani, quando ti liberavi per qualche momento del peso di quelle tue carte e inspiravi profondo come a fare scorta di ossigeno prima di tornare allo sfibrante lavoro in quel tuo amato e odiato antico palazzo, il santuario polveroso della memoria della tua Giulietta, custodita con quasi ossessa pignoleria. Non stare in pena per il vostro  lavoro, non preoccuparti per quel mondo di memorie faticosamente consegnate alle lacere carte, Marcello ed io non le lasceremo sprofondare in quell’oblio che tanto ti atterriva pensando a cosa sarebbe successo dopo la fine dei tuoi giorni. Te lo prometto amico mio, faremo di tutto per portare avanti il tuo progetto, custodirlo e rinnovarlo, se soltanto ce ne daranno modo. Sarà questo il fiore che noi vorremmo portare un giorno sulla sua tomba, il fiore più gradito e importante per te, come ben sa chi ti è stato accanto, il fiore che tu e Giulietta avete curato fino all’ultimo respiro e che noi tutti ci sentiamo in obbligo di tenere in vita e portare allo splendore della luce che merita. Tu, intanto, pensa a riposare in pace amico mio, quel caffè ce lo berremo quando sarà tempo, semmai vorrai affacciarti a trovarmi nel bar dei dannati, sulla terra c’è ancora molto da fare per me e per gli altri nel tuo nome e in quello di Giulietta. Spero che esista davvero quel dio di cui pure mi parlavi ogni tanto, spero che esista soprattutto quel suo paradiso, lo spero per te Nino, perché vorrei saperti finalmente stordito, invasato, posseduto e ubriaco fradicio di quella felicità che soltanto l’abbraccio della tua Giulietta potrebbe donarti. Ciao Nino.

Tuo Paolo

 

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Nino Pensabene. Un altro amico se n’è andato

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Meno di due settimane fa ci siamo sentiti per telefono. Da Roma, dove si trovava per motivi di salute da qualche mese, sarebbe tornato a Copertino per sorseggiare  il solito caffè al bar vicino la piazza. Mi avrebbe raccontato le sue vicissitudini trascorse tra un reparto e l’altro del policlinico romano, pronto per riprendere antichi progetti, accantonati per quella lenta meditazione di cui abbisognava.

L’inaspettato epilogo lascia sgomenti. Un altro amico se n’è andato. Ancora un amico che aveva voglia di vivere e che lascia il campo per altre praterie…

 

Nino è deceduto il 28 settembre a Roma, alle ore 9. I funerali si svolgeranno a Reggio Calabria il 2 ottobre, dove sarà sepolto nella tomba di famiglia.

 

 

Copertino. Considerazioni estive da un belvedere

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di Nino Pensabene

 

Nessuno immagina la ‘rabbia’ e nello stesso tempo l’affettuosa invidia che d’estate provo nel vedere i turisti che, con i polmoni saturi d’ossigeno, se la danno a  passeggiare per il centro storico di Copertino godendosi tutte le meraviglie architettoniche e artistiche  della città. Loro non dormono in  paese: a conclusione dei tours,  organizzati o non,  si ritirano o nei paesi di mare da dove si spostano per le escursioni turistiche o, se villeggiano in paese, negli alberghi o nei bed & breakfast  situati nelle periferie, dicat all’aria aperta, quasi in campagna.

veduta del centro storico di Copertino dalle terrazze (ph N. Pensabene)

Il centro storico di Copertino, anticamente racchiuso nelle mura di cinta, delizioso nella sua architettura medioevale e caratteristico nella sua proporzionata piccolezza, tanto da sembrare una bomboniera posata nell’aperta campagna, oggi è imprigionato in una morsa di cemento, sprofondato come in una valle irrespirabile per mancanza d’aria, tanto da essere guardato – da chi ci vive stabilmente – come abitato da una folla di martiri che agonizzano in una fossa di leoni.

La campagna che lo contornava, avvolgendolo di aromi e profumi, e facendolo apparire come l’abitazione plurifamiliare in un’enorme villa, è ormai un ricordo lontano, sostituita da grandi e alti palazzoni che non solo tolgono il respiro financo ai tufi o a lli liccìse che decorano la parte nobiledell’antico borgo, ma ne  influenzano lo stato di buona conservazione,  determinandone, addirittura, affrettatamente, la corrosione attraverso il morboso inquinamento.

Chi scrive  ne parla con cognizione di causa, essendo  uno dei ‘martiri’ che  d’estate, pur trascorrendo le serate (o le notti) sulle più alte terrazze di casa, si trova a non respirare come se vivesse in fondo ad una valle o peggio ancora in una fossa. E inutile sarebbe salire ed affacciarsi alla torretta belvedere, elemento che, neanche a farlo apposta, ha seguito la decadenza di tutte le nobiltà sociali, comprese le aristocrazie civili, militari ed ecclesiastiche. Per via della nuova allargatissima pianta urbanistica della città, la torretta è andata in pensione,  perdendo tutte le  funzioni che la caratterizzavano fino alla prima metà del Novecento, quando ancora, salendo, la si poteva sfruttare sia nella versione terapeutica respiratoria sia in quella  paesaggistica naturale.

Finché è vissuta la Giulietta vi salivamo una volta l’anno, e precisamente l’ultima sera della festa di San Giuseppe, quando l’altezza ci aiutava a goderci meglio lo spettacolo dei meravigliosi fuochi pirotecnici, nella cui fabbricazione gli artigiani salentini sembra siano dei veri maestri specializzati.

Ma chi può immaginare  cos’è  stata la torretta per le generazioni che ci hanno preceduto, quando appunto, oltre le mura di cinta, Copertino  era ancora tutto campagna?   Il bisnonno Giuseppe*, tanto per fare qualche esempio, la sfruttava tangibilmente tutte le volte che – tramite messaggio di un servitore arrivato, qualche giorno prima, a piedi o a dorso di mulo –  sapeva di stare a ricevere la visita della figlia Amalia (la nonna di Giulietta), la quale, avendo alla fine dell’Ottocento, sposato un signore di Salice (Don Felice Capocelli*) , era andata a vivere in quel paese.  Con un bel binocolo in mano,  da sopra la torretta  ne vigilava così l’arrivo in carrozza; cosa che faceva anche per il viaggio di ritorno, per lo meno fino a Leverano,  e – alberi permettendo – anche per qualche altro tratto fuori dal paese.

Torrette, carrozze, binocoli:   lussi da signori, nel contesto di un mondo privo di cellulari o telefoni fissi, di mezzi motorizzati o di strade illuminate, non dimenticando oltretutto che siamo in un’epoca quando i briganti derubavano  quei pochi che si azzardavano ad affrontare la strada, per cui il viaggio si doveva concludere entro l’imbrunire non solo per motivi logistici ma anche per paure legate alla sopravvivenza. Oggi non abbiamo l’idea di quante difficoltà fosse costellato il vivere in quel tempo, e già mi riferisco a persone privilegiate che potevano appunto permettersi tutte quelle comodità che  facilitavano il correre dell’esistenza, prima fra tutte la possibilità di avere altri esseri umani come servitori.

Non mi è stato detto, né credo potesse essere attribuito alla condotta degli appartenenti a questa famiglia, tramandata  come dotata di virtù benefiche nei confronti del prossimo, ma parlando di difficoltà esistenziali e differenze di classe il mio pensiero  corre  alla torretta, al binocolo e ai contadini che lavorando nelle vicinissime campagne potevano essere controllati alla stregua di chi si trovasse a lavorare con il padrone accanto, intimorito e  condizionato pure nel desiderio di raccogliere un frutto per mangiarlo.

Non posso non concludere queste note senza fare ancora una volta riferimento ai turisti: è vero, loro di giorno si godono i centri storici e di  notte respirano all’aria aperta, ma è pur vero che io, incallito eremita, dalle mie terrazze, mi godo un paesaggio a loro precluso: le tre torri, quella campanaria, quella dell’orologio e quella di palazzo Verdesca Zain (dalla Giulietta ribattezzato “Casa dei Poeti”);  tre torri che, stando a pochi metri una dall’altra, fanno quasi da sentinelle (una al centro, una a destra e una a sinistra) all’antica “Piazza” di Copertino, ma che soltanto da pochissime terrazze si offrono in  uno spettacolo unico, soprattutto quando – all’imbrunire – le rondini,  impazzendo di  gioia, ti fanno volare con loro da una torre all’altra, dando  conferma – per chi non lo sapesse – che questo è il paese del Santo dei Voli.

 

* Ho citato i nomi, esclusivamente per dei riferimenti storici: il nonno Felice, così come parecchi appartenenti alla famiglia Capocelli sono citati nei libri di Storia Salicese, così come il bisnonno Giuseppe è citato nel libro  “Tre santi e una campagna”.

Le strade di Otranto

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LE STRADE DI OTRANTO

 

                                                                             Ogni Uomo è una strada… 

 Ogni strada un dono per il comune traguardo.

                                                                     (Giulietta Livraghi Verdesca Zain)

di Nino Pensabene

 

Hanno tutte

un nome e cognome scritti a sangue

le ottocento strade

che rompendo ogni confine

da Otranto si diramano

nel mondo.

 

Non sono larghe e neanche rettilinee

– e non sono neppure lastricate –

le ottocento strade

che, affollatissime, a Otranto ritornano

accompagnando uomini

felici d’aver risposto “Si”.

 

 

Nino Pensabene


NOTE BIOGRAFICHE

Tratte  in parte dal “Dizionario degli Scrittori Italiani d’Oggi” (Pellegrini Editore, Cosenza, 1975):

Scrittore, poeta, critico, nato a Reggio Calabria il 18-6 1942; res. a Copertino (Lecce), Piazza del Popolo, 32.

Dal 1961 al 1971 è vissuto a Roma, dove con la collaborazione della consorte, la poetessa, scrittrice e antropologa Giulietta Livraghi Verdesca Zain, ha dato vita ad una organizzazione culturale tra le più importanti diquel decennio romano:

Direttore della Rivista Internazionale d’Arte e Cultura “LA PRORA”

Fondatore del “VINCOLO EUROPEO GIOVANI ARTISTI” (con il quale, nella lungimiranza ne fu precursore e nella contemporaneità si propose come attivo sostenitore dell’Europa Unita).

Condirettore  del Periodico di Letteratura e Filosofia “IL NUOVO EON”.

Segretario generale dell’ Accademia di Lettere, Scienze e Arti “PACEM IN TERRIS”.

Delegato per il Lazio dell’Accademia “GLI AMICI DEI SACRI LARI” (con presidente onorario il grande critico Francesco Flora, autore della “STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA”).

Istitutore dei Premi di Poesia “VEGA” e “COLOSSEO”;

Membro di giuria in diversi concorsi di pittura e di poesia, fra i quali il Premio intestato al medico-poeta Tiberio Gulluni, organizzato dal Comune di Colonna in collaborazione con l’Accademia “Pacem in Terris”. (Alla giuria,assieme a lui, si sono alternati: Enrico Falqui, Giorgio Petrocchi,, Giuliano Manacorda, Massimo Grillandi, G. Livraghi Verdesca Zain, Luciano Luisi, Libero De Libero, Renzo Frattarolo, Arnaldo Bocelli, Francesco Grisi, Gaetano Salveti, Geppo Tedeschi e Olga Prior).

Altro Premio importante che lo ha visto membro di giuria per più di una edizione è il “SICILIA ‘80” (con presidente Massimo Grillandi, Premio “Bancarella” per il volume “LA CONTESSA DI CASTIGLIONE”, edito da Rusconi).

Nel Salento è stato membro di giuria all’ESTEMPORANEA DI PITTURA “SETTEMBRE COPERTINESE”.

Sia a Roma che a Lecce è stato promotore di incontri e manifestazioni culturali.

Membro d’onore di alcune accademie italiane e d’oltralpe.

Ha pubblicato: “IL COLLOQUIO” (Poesie), 1963

Ha collaborato alla ricerca e compilazione del volume di etnoantropologia “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico- Religiosi  nel Salento fine Ottocento, Laterza, 1994, di Giulietta Livraghi  Verdesca Zain.

Raccolte di poesia inedite:

“CONOSCERE IL CIELO”, 1963 – 1966

“15^ STAZIONE”, 1966 – 1970

“DALLE TASCHE DI ABRAMO”, 1982 – 1992

“SOTTO IL LENZUOLO DEL LETTO GRANDE DI DIO”, 1999 – 2000

“L’AGOGNATA FESTA” 2001

“L’AMORE OFFESO”, 2000 – 2002

“LE BENDE AGLI OCCHI”,  2002 – 2003

“ONDE ANOMALE”, 2003 – 2004

“CON LE UNGHIE E CON I DENTI”, 2004

“POCO MENO DEGLI ANGELI”, 2004 – 2006

“UOMINI CIGNO”, 2006 – 2007

“RETE FERROVIARIA”, 2006 – 2007

“POESIE PER GIULIETTA”, 2001 – 2007

“ORA CHE NON CI SEI”, 2009 – 2010

“DOVE NON USAVAMO CALENDARI”, ( Giulietta e L’Eremo “La Corte”), 2010

In passato, della sua attività si sono interessati i seguenti giornali, alla maggioranza dei quali ha anche  collaborato con scritti  di vario interesse:

QUOTIDIANI:

L’Aquilone – L’Avvenire di Calabria – Il Tempo – Il Messaggero  – Il Giornale d’Italia – Il Quotidiano – Il Corriere del Giorno – La Gazzetta del Sud – La Gazzetta del Mezzogiorno -Il Secolo d’Italia – L’Osservatore Romano – Il Giornale di Bergamo – Il Globo – Il Popolo – La Notte – L’Eco di Bergamo – Roma – Mattino –  L’Ordine    – La Nazione.

SETTIMANALI:

Il Corriere di Roma – Il Corriere della Valtellina – Gazzettino –  Cronaca di Calabria – Attualità della Settimana – La Voce di Calabria.

QUINDICINALI:

Finestra sul Mondo – Unione per il Progresso degli Italiani in America – I Quattro Canti – Il Foglietto – Voce Latina – L’Incontro – L’Arena di Pola – Fiuggi – La Voce Bruzia.

AGENZIE STAMPA:

Agenzia Europea Stampa – Artinformazione – Le Arti e gli Spettacoli – AILA – Orbis – Mondo –  Euroma – Ecomond  Press – L’Araldo della Stampa –

MENSILI E PERIODICI SPECIALIZZATI:

Auditorium – La Nuova Sorgente – La Procellaria – Italia Intellettuale –  Realismo Lirico – Arti e Professioni Unite – Gli Amici della Scuola – Calabria Letteraria – Il Narciso – Il Mondo Libero –  Il Carabiniere – Selva – Omnia – Cimento – Vivere  – Il Letterato – Controvento – La Famiglia Italiana – Il Premio – Verso il Duemila – Calabria Domani – Silarus – Kursal – Orizzonti di Gloria – Il Duemilista – Il Ragno – La Nuova Italia Letteraria – Forze Nuove – Fiorisce un Cenacolo – La Voce dell’Unione – Artis Templum  – Convivio Letterario – La Lampada – Il Giornale Letterario – Luce Serafica – Via Maestra –  Voci Nuove  – Resurgo – Alla Bottega – Poeti e Canti d’Italia – Retroscena – Il Santo dei Voli – L’Amitié par la plume – Il Carmelo – Pizzico – Poeti e Canti d’Italia –  Il Giornale della Daunia – Telearte – Fiaccole – Miscellanea Storico Salentina – Lares – Bollettino Storico della Basilicata – L’Annunzio – Mondo Lirico – Rondini d’Amore – Mese – Relations Latines – Nullis Secundus – Il Pungolo Verde – Cronache dell’INA – Lytyerses – Risveglio del Molise – La Voce dei Calabresi – Arti e Professioni Unite – L’Italia che Scrive – Realismo Lirico – Quaderni Delfici – Vento Nuovo – Aspetti Letterari – Italscambi  – Traguardo d’arte – Il Delfino – Pensiero e Arte – Battaglia Letteraria – Voci del Nostro Tempo – Quaderni dell’ASLA – La Sonda – Nuovi Orientamenti – Uomo e Immagini – La Cultura nel Mondo –  Piccolissimo – Deloika Tetpadia – Il Giornale dei Poeti – Teleuropa – Scena Illustrata – Spicillegìa Sallentina.

Sue poesie, pubblicate su riviste letterarie sono state tradotte in  francese, spagnolo, greco e inglese.

E’ incluso in alcune antologie e il suo nome è citato in dizionari, almanacchi e repertori bio-bibliografici.

Nel 1962 ha vinto il I Premio “L’ANNUNZIO”

Nel 1963 ha vinto il I Premio “POETI E CANTI D’ITALIA”

Nel 1964 ha vinto il II Premio “ CITTA’ DI TORINO”

Nel 1964 ha vinto il II Premio “LA PROCELLARIA”

Nel 1964, assieme a Claudio Allori, Giovanni Arpino (Premio Strega 1964 col romanzo “L’Ombra delle Colline”), Vittorio Bodini, Giuseppe Villaroel e Umberto Luigi Ronco, è stato segnalato dai lettori per il Premio “LA COMUNICATIVA”.

Nel 1965 ha vinto il I Premio “VOCI DEL NOSTRO TEMPO”

Nel 1965 ha vinto il Premio Speciale “CITTA’ DI ROMA”

Nel 1966 ha vinto il II Premio “FRANCESCO D’OVIDIO”

Nel 1966 è stato premiato dall’Associazione “KASTRUM KARALIS” con la seguente motivazione: “Quale riconoscimento all’intensa opera svolta a beneficio della cultura in Italia”.

Nel 1968 ha vinto il  I Premio  “CITTA’ DI BARDONECCHIA”.

Nel 1968 ha vinto il II Premio   “CITTA’ DI VERONA”.

Nel 1968 ha vinto il II Premio “NICOLA SCARANO”

Nel 1975 ha  vinto il I Premio “IL TEDOFORO D’ORO”

Nel 1975 ha vinto il Premio Speciale “CITTA’ DI MORTARA”

Numerose coppe, targhe, medaglie e diplomi di merito.

Ha curato su “TELEUROPA”  la rubrica “La pagina dei Poeti”

Suoi pseudonimi sono: Saverio Nipe e Nipen.

Della sua attività si è occupata la RAI, la TV, il CINEGIORNALE, giornalisti, scrittori e critici.

Ha tenuto dizioni di poesie, brani teatrali o comunque letterari, in varie città italiane (Roma, Napoli, Firenze, Genova, Torino, Milano), formando con la moglie, Giulietta Livraghi Verdesca Zain, una delle coppie più affiatate della storia letteraria. Se la Livraghi teneva una conferenza su Pirandello, lui ne interpretava i brani (Nota era nella Capitale la sua prestazione recitativa di un monologo tratto dall’Enrico IV); se la teneva sulla poesia Negra, lui ne interpretava le poesie; e così per Pavese, per Lorca, ecc., fino agli autori più contemporanei, che a loro si affidavano per la presentazione dei propri libri.

Attività, questa del dicitore, che Pensabene svolgeva anche con lo scrittore Padre Fernando Bortone, quando questi teneva lezioni bibliche presso l’Hotel Massimo D’Azeglio di Roma o nei palazzi o nelle ville dell’alta aristocrazia.  Praticamente, Pensabene leggeva i brani della Sacra Scrittura che il famoso Gesuita aveva o stava per commentare.

Note sono pure le sue dizioni qui nel Salento.

Pittore d’arte per diversi anni, è stato anche assiduo collaboratore della moglie nell’arte della scultura. A lui si devono infatti le stupende patinature bronzee (nella dinamica delle varie tecniche [bronzo da interno e bronzo da esterno, a volte  con relativa finta corrosione di ossidazione]) e le pitture ceramiche a freddo di tutte le opere di terracotta.

 CENNI CRITICI:

Giorgio Tellan  (“Minosse”, 13 febbraio 1965):

“Nino Pensabene: chi è? Forse il solito imbrattacarte, il giovane “à la page”  frequentatore dei salotti letterari, l’illuso che spera la ricchezza nella poesia? No, Nino Pensabene è un vero artista: fantastico nella sua sobrietà; profondo nella sua levità; incisivo nel suo alludere. Infatti chi se non un artista di purissima razza, un poeta per vocazione e per diritto avrebbe potuto scrivere: “Volevo recidere tutta la campagna / per vedere la terra completamente nuda, / pulita / come un’anima senza peccato. / Volevo estirpare tutte le radici / e seminare soltanto / parole di poeta. / Volevo scavare nel cuore di ogni uomo / con il piccone che m’ha dato Dio / e con le vene / formare una grossa catena / per farli salire a conoscere il cielo” (“Conoscere il Cielo”)?

La sua poesia non è mai fine a se stessa, suscita pensieri, genera fermenti, ci avvicina all’eterno.

Vediamo quindi il Pensabene, uomo del suo tempo, conscio dei propri limiti, proteso verso l’eternità, legittima aspirazione di ogni mente sana. Questa sua disposizione lo pone al di sopra della vita quotidiana e gli consente una più vasta visuale e nel tempo e nello spazio.

I suoi problemi sono i problemi del mondo, le sue ansie quelle di tutti, le sue aspirazioni quelle dei migliori.

Universalità, quindi, ecumenismo in nome della poesia che venera come fonte di pace, amore, vita.

…Noi che conosciamo personalmente il poeta e sappiamo delle notevoli affermazioni da lui ottenute in questi ultimi tempi e sin dall’inizio della sua attività letteraria, possiamo affermare in tutta serenità di spirito che vi sono in  lui le premesse fondamentali per divenire uno dei più rappresentativi poeti della nostra letteratura”.

Intervistato da Rocco Cambareri per “La Voce Bruzia” (28 gennaio 1968), alla domanda “Esiste una valida ed incisiva letteratura cattolica? Quale è il suo peso? Quali gli uomini più significativi?”, Nino Pensabene rispose:

Abbiamo una valida letteratura cattolica che però non è incisiva quanto dovrebbe essere. Viviamo in un tempo che ha attuato un capovolgimento di valori e questo dilagare di sbagliate ideologie non ha trovato un bastevole argine nelle penne cattoliche o, per essere più esatti, non c’è stata quella fusione di intenti e coordinamento di azione che potesse consentire una adeguata difesa del patrimonio spirituale”.

Da ”Eco delle Riviste” (Dicembre 1966):

“LA PRORA, Periodico Internazionale d’Arte e Cultura, Anno VII  n. 3, si presenta per veste editoriale e profondità di argomenti, come uno dei più importanti d’Italia.

In questa era di disorientamento letterario, Nino Pensabene e Giulietta Livraghi Verdesca Zain fanno brillare il sole in mezzo all’oscurantismo tecnico-sociale”

Da “PROFILI DI CONTEMPORANEI” di Maria Busillo (I Supplementi della Rivista “La Prora”, Roma, febbraio 1968):

“…Cresciuto ed educato in un ambiente di sani principi morali, pone questi a base del suo lavoro, contrassegnato da onestà e serietà d’intenti. Schivo e modesto non ama il rombo della grancassa e non si piega al servilismo di idee partigiane. Connaturato alla sua sensibilità poetica è il senso infinito della libertà, quella libertà che è nel respiro del poeta, abituato all’aria pura delle vette, dove gli orizzonti non vengono chiusi da barriere e il cielo si fa più vicino.

Spontaneo e profondamente sincero, non concepisce esitazioni nell’affermare la verità, anche se nel mondo in cui viviamo spesso la verità non è un frutto accettato.

Tenace, diremmo ferreo nella volontà, non si è lasciato intimorire dagli ostacoli e dalle difficoltà che il cammino artistico può offrire. Sa che la vita è spesso una lotta e veste, con dignità e consapevolezza, la divisa del combattente, convinto che l’uomo se non  passa attraverso la fornace della prova è un metallo mal cotto.

Questa sua fortezza  la ritroviamo nella vivezza espressiva delle sue liriche, dove il pensiero è scandito dalla sincerità d’un sentimento che segna validità di canto.

Nello scintillio delle immagini Nino pensabene cesella il suo lavoro meditativo, forgiando con linguaggio incisivo versi martellanti che, nella trasfigurazione lirica del concetto, ritmano moderni accenti. Uno stile personale di indiscussa efficienza, nell’ampiezza di un motivo che, superate le barriere del tempo, si adagia in un respiro di eterno. Una poesia tanto simbolica quanto filosofica, che a volte si avvicina al surrealismo, creando nel lettore u n pathos particolare e suscitando l’evolversi di una catena di immagini scaturite dal rapido oggettivismo del concetto.

Una poesia ricca di malinconica pensosità che pur quando celebra inni di resurrezione non può fare a meno di ancorarsi al dolore, sia pure soltanto trovato nel riemergere delle memorie:

“Sul mio nuovo diario / non scriverò le pene / delle pergole afflitte, / né scriverò la storia delle processioni / che ho seguito / con la tunica lacerata / e le mani inchiodate alle candele / che si scioglievano in pianto”.

 

Si sente nel tono musicale la gioia del riscatto e, nello stesso tempo la radicata amarezza ricondotta dal ricordo:

“Nessun cipresso / disegnerò sulla copertina / perché troppe volte sono morto dopo aver ubriacato i miei occhi  / con la neve impaurita dai fulmini. // Lamenti di organo / hanno sempre festeggiato / le mie nozze con il dolore / ma ora che le lampade del cielo / hanno luci di resurrezione, / foglie di papavero / saranno le pagine del mio diario / per sprigionare nel cuore una musica jazz”.

 

Nel crescendo lirico il pensiero si snoda in pienezza d’immagini, mentre sincopate sensazioni lampeggiano quasi a creare un gioco pirotecnico:

“Avrò penne di vetro e calamai di stagnola / per scrivere sull’intonaco del tempo / il riscatto di un’aurora ventilata. // Avrò incenso di memorie / per benedire le ragnatele della cotta annerita. // Avrò silenzi di luna nella bocca / per tratteggiare il perdono / seccato al sole di un’assenza, / ma il mio diario avrà biancori di sorrisi / come la luce dei cimiteri foderati di brina”.

 

E la parabola ascendente si chiude nella dolcezza di un sentimento d’amore. Dopo le immagini sfolgoranti e forti, incisive e originali, l’ultima visione si adagia nel verde, nel raggiungimento di una pace interiore e nel possesso d’una vera essenza di vita:

“Solo nell’ultima pagina / costruirò un altare sul tronco di una quercia / e fra le sofore  poserò il  ‘tabernacolo’ / per custodire il ricordo / di chi mi ha voluto bene”.

Una proprietà di linguaggio ed una completezza di contenuto che scoprono il vero poeta, il possessore di quel dono divino che gli permette di creare tutto un mondo di trasfigurata realtà.

Non per vano gioco di ambizione, ma per intimo bisogno di effusione, Nino Pensabene forgia i suoi versi, alternando il lavoro di creazione (letteratura e arte) a quello di organizzazione. La sua casa romana è una fucina, dove l’arte è di famiglia e dove il tempo è scandito dal passo che, sempre più sicuro, si avvicina alla vetta.

Un calabrese che fa onore alla Calabria è Nino Pensabene, e di lui si fa gloria la sua terra, la terra bruzia forte e gentile, dove la poesia non è un sogno, ma una realtà di vita, un qualcosa che si respira insieme all’odore del mare e all’aria pura delle montagne e all’argenteo chiarore che si scorge al vago ondeggiare degli sconfinati uliveti che ricoprono la Piana Calabrese”.

Da “Minosse” del 3 febbraio 1965:

“Nel corso di una conferenza del “Giornale Parlato”, tenuta il 24 gennaio c.a. nell’Aula Magna del Centro Studi Manieri di Roma, la giornalista Vanna Armeni ha intervistato il poeta Nino Pensabene, organizzatore del Gran Premio Internazionale di Poesia “VEGA”, il quale, dopo una interessante conversazione sulla poesia contemporanea e i giovani poeti, ha fatto ascoltare ad un pubblico selezionato le sue poesie “Ma le campane stiano zitte”  e “Dove la terra ha palpiti di vita”.

Italo Carlo Sesti su “Scena Illustrata”, marzo 1966: “Queste poesie di Nino Pensabene rivelano un impegno che non si esaurisce nella padronanza del linguaggio, ma che si esprime in una ricerca di valori umani, in un’esigenza di verità intimamente sofferte.

… (la) pena segreta dell’uomo in conflitto con sé stesso e con la realtà della vita dimostrano in sintesi il mondo poetico di Nino Pensabene”.

Da “Via Maestra”, giugno 1967:

La Voce di Calabria pubblica un articolo su Nino pensabene.

Questo messaggio affettuoso da quella Reggio che gli diede i natali, commuove più di ogni altro ed è un giusto tributo di amore. E’ anche molto importante per la biografia di Nino Pensabene perché ce lo mostra sui banchi di scuola, dove la sua vecchia professoressa, dopo aver letto una sua lirica, gli dice: “Peccato che sono vecchia e non potrò leggere le tue opere… Lo sento… diventerai un grande poeta!”.

L’articolo è inoltre importante, perché ci racconta anche come nel cielo dell’arte italiana, la meteora Nino Pensabene e la meteora Giulietta Livraghi Verdesca Zain si sono incontrati e sposati”.

Dall’antologia poetica “OMAGGIO A DANTE ALIGHIERI”, a cura di G: La Rocca Nunzio, Bergamo 1965:

“NINO PENSABENE e GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN: noti poeti, conosciuti e apprezzati in Italia e all’estero, vivono da anni a Roma, dove fra una riunione letteraria e l’altra, hanno tessuto il loro idillio, coronato all’altare. Così, uniti nell’amore e nell’arte, fondono le loro energie in una vasta attività organizzativa, trincerati in una passione artistica che suscita ammirazione negli ambienti culturali della Capitale…

…Entrambi vantano un lungo cammino, costellato di riconoscimenti che hanno sempre premiato la loro produzione, di alta elevatura lirica e aperta a vasti orizzonti, ampiamente discussa e favorevolmente giudicata dalla critica”.

Mario Di Nola, “Il Nuovo Eon”, N° 1, 1968:

“… E in quell’ultraragione vagheggiante che Pascal chiamava ésprit de finesse , si strutturalizza attraverso la profondità dell’analisi psicologica l’ossatura morale del carattere di Nino Pensabene nella stretta aderenza delle immagini alla realtà vissuta. La potenza plastica e il senso del colore trascendono nelle nuove più ampie dimensioni dell’io l’essenza stessa del linguaggio.

La terra di Calabria mai avrebbe potuto trovare vate più canoro in Nino Pensabene, rapsode errante di omeriche tradizioni nel nomade cammino dell’umanità”.

Saveria e le sue trecce alla “scaunizzu”

LETTERATURA GASTRONOMICA

LE TRECCE ALLA “SCAUNIZZU”

di Nino Pensabene

Le trecce alla “scaunizzu” Saveria le preparava d’inverno, vicino al camino acceso. A semicerchio intorno alla fiamma disponeva le pigne, affinché, sciolta al caldo la resina, fosse agevole recuperare i pinoli e, nel frattempo, si dava a preparare l’impasto.

Metteva in una padella, a bordo alto, un litro di vincotto al quale aggiungeva mezzo chilo di fichi secchi tritati, tre etti di mandorle pestate, due etti di noci sminuzzate, tre cucchiaiate di mostarda, una manciata di uva passa, un po’ di cedro candito tagliato a dadini e un pizzico di cannella. Faceva bollire a lungo, amalgamando col mestolo di legno, poi passava sulla spianatoia a raffreddare. A parte preparava la sfoglia con mezzo chilo di farina, due etti di strutto, una presa di sale e un pizzico di lievito sciolto in un bicchiere di marsala.

Le sfoglie le tirava lunghe e sottili, le tagliava a nastri larghi cinque dita e le riempiva del composto, chiudendole solo a tratti, a pizzicotti, come una giacca male abbottonata. Poi le intrecciava a due a due e, dove la sfoglia si allargava, lasciando intravedere l’impasto, tracciava un disegno con i pinoli. Le infornava, sorvegliandone attentamente la breve cottura. Tirate fuori al punto giusto, si presentavano croccanti, con un aroma spiccato e un gusto delizioso.

Erano in parecchi a mangiare le trecce dolci di Saveria, ma da un po’ di tempo a questa parte, è inutile attenderne l’offerta. No – afferma decisa -, non ne preparo più. Le facevo per gli amici ed era una gioia, ma ho avuto modo di constatare che oggi la parola “amicizia” è qualcosa di astratto, una parola che appartiene ad una lingua che non si parla più. Me li chiami forse veri amici gli opportunisti, i falsi, i traditori?

Una amara constatazione la sua che diviene amara meditazione per noi ogni qualvolta il profumo delle “trecce alla scaunizzu” riempie la casa di Saveria e dilaga financo sulla strada, perfido come una tentazione e pesante come una condanna.

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 76

San Cesario. Lu santu scarbatu

RELIGIONE POPOLARE NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

Tutti presenti meno che San Cesario,

“lu santu scarbàtu”

di Nino Pensabene

Leggo fra gli appunti etnologici di Giulietta – e trascrivo quasi testualmente – che

“Per festeggiare la vita esorcizzando la morte, il primo di novembre –  periodo propizio per la facilità di raccolta – era di uso fra la popolazione salentina mangiare funghi. E tanto profondamente era sentito l’atto devozionale che, nel mettere la pietanza a tavola, automaticamente si salutavano tutti i santi, la cui presenza era assicurata, esclusa  quella di San Cesario, che per tanta defezione veniva chiamato “Lu santu scarbàtu” (“Il santo sgarbato”).

La ragione – si diceva – stava nel fatto che ricorrendo la sua festa proprio il 1 novembre ed essendo la stessa soppiantata da quella più importante di tutti i Santi, il ribelle, sentendosi defraudato della propria celebrazione, si ‘ncazzàa (si incavolava) e anziché partecipare al banchetto mannà tutti a ddhru paése (mandava tutti all’inferno) andandosene  a raccogliere funghi.

I più pii, invece, non attribuendo mai ai santi atti di ribellione o scortesie di sorta, correggevano la versione piuttosto laica  – opera ti lu tiàulu – ed asserivano che san Cesario era assente dalle tavolate perché, generoso com’era, andava a funghi pur di unirsi agli altri raccoglitori e vigilare sugli stessi affinché non avessero a sbagliare nello scarto fra commestibili e velenosi.

Secondo costoro, per questo motivo invece c’era l’uso di mangiare funghi il primo novembre, per rendere cioè onore a San Cesario, che per il bene altrui annualmente si privava della festa collettiva”.

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiara

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nella prima quindicina di giugno, quando l’ingrossare delle angurie e l’inturgidirsi dei fioroni annunziavano l’imminenza ti la riccòta (del raccolto), le famiglie contadine – quelle che non vivevano stabilmente sul podere – abbandonavano il paese e si trasferivano in campagna.

Era tempo di mettere a frutto il lavoro di tutta un’annata, e se di giorno la permanenza dell’intera famiglia sul campo assicurava un maggiore rendimento lavorativo, la presenza notturna s’imponeva per sventare possibili furti. Tanto più sui fondi a mezzadria, dove il colono, al danno subìto in proprio, doveva aggiungere quello di refusione al padrone, sulla cui comprensione ed eventuale abbuono raramente si poteva contare.

Non va infatti dimenticato che in sede contrattuale il colono veniva nominato, oltre che coltivatore, custode dei prodotti della terra, della cui integrità doveva perciò rendere conto al padrone, autorizzato dalla legge a rifarsi di ogni danneggiamento (furto, incendio, incuria nei tempi di raccolta), detraendone l’ammontare dall’aliquota mezzadrile o, se la superava – in caso di danno considerevole -, mettendo in conto il rimanente sulla raccolta successiva o convertendolo in prestazioni di manodopera. Un vero e proprio scatafàsciu (disastro), ossia una perdita irreparabile che precipitava la famiglia nella miseria, privandola del sostentamento invernale.

Ben pochi però avevano la fortuna di poter disporre fra i campi una casupola in muratura, e i più dovevano industriarsi a costruire con le proprie mani un rifugio stagionale, la pagghiàra  appunto, utilizzando il materiale che la campagna stessa offriva – rami d’albero, canne, strami, steli di graminacee – e al cui recupero si provvedeva sempre all’ultimo momento, in un clima di ricerca affannosa paragonabile solo al frenetico svolazzare degli uccelli intenti a racimolare paglia per le cove.

A tracciare il cerchio, necessario ad assicurare la circolarità della pagghiàra, era sempre il capofamiglia, e lo faceva servendosi di una lunga canna che sistemava a spiàsciu (obliqua), conficcandone un’estremità nel terreno e l’altra puntellandosela al petto, in modo che, ruotando su sé stesso, anche la canna – sostenuta dalle mani – avesse a ruotare. Un compasso primitivo che obbligava a una rotazione lenta, ripetuta tre volte a meglio incidere la traccia del cerchio, e durante la quale l’uomo si metteva a cantare scegliendo uno stornello prettamente estivo, quasi sempre Lu suspìru ti la riccòta (il sospiro del raccolto):

Lu ranu bbiunnéggia e llu culùmmu mpénne

jò so’ bbissùtu a ffare la riccòta

l’aucèddhri mia stà mméntinu li penne

la manu mia no ppòte stare sota.

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!…

 

Tégnu l’aucéddhri mia c’anu ccriscìre

e ppane masticàtu nn’àggiu ddare:

lu celu nn’à uardàre e bbinitìre,

la terra m’à ssintìre e mm’à iutàre…

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!

 

Il grano biondeggia e il fiorone pende, / io sono uscito per raccogliere; / i miei uccelli stanno mettendo le penne, / la mia mano non può stare ferma. // Datti da fare, datti da fare / cento bocche debbono mangiare / datti da fare, datti da fare!… // Tengo gli uccelli miei che debbono crescere / e pane masticato debbo dar loro: / il cielo ci deve guardare e benedire, / la terra mi deve sentire e mi deve aiutare… // Datti da fare, datti da fare / cento bocche  debbono mangiare / Datti da fare, datti da fare!

Canto che l’uomo interrompeva di colpo non appena il cerchio appariva interamente e correttamente tracciato: scavalcandone il segno con un piccolo salto (per superstizione qualsiasi cerchio non andava mai calpestato) si allontanava di qualche passo, per meglio guardarlo e valutarne l’ampiezza, che doveva risultare ben calibrata al numero dei componenti la famiglia; poi, se la risultanza lo soddisfaceva, annunziava trionfante: “Lu funnu ti lu panàru ete fattu” (“Il fondo del paniere è fatto”). Al che tutti i presenti, segnandosi di croce, rispondevano in  coro: “Ddiu cu nni bbiùnna” (“Dio che ci abbondi”). Un botta e risposta che lascia chiaramente intendere come nella costruzione della pagghiàra, al di là della contingente necessità di un rifugio, si innestassero componenti di ordine propiziatorio, in base ai quali l’atto stesso della edificazione si tramutava in un accampare diritti sul raccolto, anzi in un prenotarsi all’abbondanza. Se infatti la definizione “funnu ti panàru” presa da sola potrebbe apparire come semplice riporto alla forma geometrica, nell’associazione con la risposta “Ddiu cu nni bbiùnna”, tenendo presente la peculiarità di un linguaggio perennemente allusivo, non può non essere intesa nella sua ambivalenza di significato e messa automaticamente in rapporto con i desideri – chiamiamoli pure intendimenti – che erano a monte dell’azione.

Il perseguimento dell’abbondanza era un punto fermo nella parabola contadina, si inseriva di diritto nel rapporto uomo-terra-lavoro, anzi ne era la logica derivanza, facendo sì che il frutto della terra non fosse visto soltanto come soddisfazione di una necessità materiale, ma anche come conseguenza gratificante di un culto, coronamento verticale di una dedizione orientata a riattestare il fluire delle benedizioni celesti. In tale contesto il paniere veniva a porsi come il più concreto degli elementi significanti la sperata grazia di raccolto, e non è perciò azzardato ritenere la scelta della sua immagine implicata in principi di valenza magico-religiosa, quasi una verbalizzazione dell’atto propiziatorio che si intendeva compiere, e che del resto trovava riaffermazione nelle successive fasi di lavorazione.

I quattro tronchetti che, conficcati nella terra, si facevano convergere a piramide incastrandoli e legandoli fra di loro al vertice, malgrado fossero sempre massicci e quindi non rispondenti alla comparazione, venivano chiamati ìnchjuri  ti mànicu, ossia identificati con i flessibili giunchi che, nella lavorazione dei panieri, avevano la funzione di reggere l’intreccio e farsi base del manico.

Altra definizione impropria – anche questa chiaramente adottata per non tradire  l’immagine del paniere – riguardava l’intelaiatura: perché definirla  ‘nfiettatùra (intrecciatura), quando i rametti sottili con i quali si eseguiva non venivano affatto intrecciati fra di loro come nella intessitura dei panieri, ma semplicemente appoggiati e fermati con legacci ai quattro tronchetti portanti? Libera trasfigurazione, quasi licenza poetica, imposta sì da una fedeltà alle iniziali determinazioni figurative, ma da intendersi anche come necessario supporto alla progressione del concetto, appunto a quella maggiorazione di simbolo che scattava nel momento finale della lavorazione, cioè quando tutte le fòffule ti cacchiàme (mazzetti di steli d’orzo) erano state sistemate sull’intelaiatura in un’accorta sovrapposizione di scalature (atte ad assicurare lo sgrondo della pioggia) e queste a loro volta ricoperte da manate di ristu (resta) che, facendo strato, assicuravano l’impermeabilità.

Come se, nel completamento della costruzione, i termini della sottintesa impetrazione avessero subìto un processo di lievitazione, con un improvviso quanto significativo  scavalco di limiti, l’immagine del paniere veniva infatti soppiantata da quella della canìscia, ossia cestone; oggetto ancora più adatto a significare la sperata abbondanza, poiché se il paniere rappresentava il recipiente immediato del raccolto, la canìscia rappresentava l’accumularsi della provvidenza, perché capace di inglobare il contenuto di più panieri.

A proclamare, diremmo quasi a ufficializzare, questa maggiorazione di simbolo era ancora il capofamiglia il quale, covando con lo sguardo la pagghiàra appena finita – tutta d’oro nel battere del sole sopra lu ristu -, commentava soddisfatto: “Cu lla ràzzia ti Ddiu nn’imu ppruntàta la canìscia” (“Con la grazia di Dio, ci siamo preparato il cestone”). E come stesse a compiere un rito che lasciava intendere imprecisati motivi scaramantici, la inaugurava con un triplice entrare e uscire attraverso l’unica bassa apertura ad arco, ogni volta ripetendo: “Ddiu bbinitìca sta canìscia mia”, quasi a consacrarla nella sua intesa funzione. Funzione da ritenersi duplice, poiché anche in questa ultima definizione giocava l’ambivalenza del linguaggio: se oggettivamente per canìscia  s’intendeva il più grande dei recipienti di raccolta eseguiti con giunchi e canne, contemporaneamente col nome di canìscia veniva anche ironicamente definito un posto di fortuna nel quale poter dormire. Una definizione impropria che traeva spunto dall’industriosità delle giovani madri contadine, molte delle quali, durante l’estate, impegnate com’erano per intere giornate a lavorare nei campi, approntavano una culla di fortuna per i loro lattanti, coricando sul fianco una canìscia e coprendone l’imboccatura con un pezzo di stoffa, teso a mo’ di cortina. Agevolate dalla leggerezza, le donne se la potevano trascinare dietro, da albero ad albero, da solco a solco, e il piccolo, al riparo dalle mosche e soprattutto dalle vespe, tanto pericolose nei loro pungiglioni, poteva dormire pacificamente.

Considerata nella circolarità della sua forma, soprattutto vista di fronte, così sferica nell’imboccatura, la pagghiàra poteva dare, sia pure adottando delle licenze, l’idea di una canìscia coricata sul fianco, e tenendo presente la sua utilizzazione a esclusivo rifugio notturno, non si può dire sfuggisse del tutto all’appropriazione del termine. Termine che soprattutto – lo ripetiamo – si prestava a giocare sul sottinteso, cioè ad ampliare la recondita allusione all’abbondanza.

Come i due intendimenti coesistessero e quanto si intersecassero in un’unica verità esistenziale, lo si può desumere da qualche canto popolare incentrato sulla costruzione della pagghiàra .

Quasi sempre, finito il lavoro di edificazione (che del resto veniva esplicato alla svelta, in poche ore, le prime ore del mattino), si cedeva all’euforia, e nell’intendimento di comunicare a tutto il circondario l’avvenuta realizzazione si esplodeva nel canto:

La pagghiàra imu ppruntàta

a ccantàre nni mintimu:

la bbunnànzia imu chiamàta,

       mo’ cantàmu e ppoi ccugghìmu!…

 

Il capanno abbiamo approntato, / a cantare ci mettiamo: / l’abbondanza l’abbiamo chiamata, / adesso cantiamo e poi raccogliamo!…

Gli abitanti delle casupole e pagghiàre vicine, a quell’ora già tutti a lavoro nei campi, raccoglievano il messaggio. Dopo il tramonto, finito il lavoro, sarebbero tutti convenuti ad ammirare (o criticare) la pagghiàra, a salutare i nuovi arrivati e a portare lu lotu ti lu icinàtu, cioè un  simbolico dono di benvenuto, consistente in  tre cocche ti frise t’uérgiu (tre paia di ciambelline d’orzo) o una fazzolettata di pomodori o qualche spiuréddhra (mellone spurio maturato anticipatamente); intanto non facevano i sordi, e attraverso le terse sonorità della campagna filtrava la loro strofa di saluto-risposta:

Lu postu pi ddurmìre tu nci l’ài:

ci gghéte curtu pi lla stinnicchiàta

no nci pinsàre: pàssanu li uaj…

basta ca puéti inchjre la rrancàta!…

 

Il posto per dormire tu ce l’hai: /se è corto per la stiracchiata / non ci pensare: passano i guai… / basta che puoi riempire la manata!..

Strofa che voleva essere d’incoraggiamento e augurio per quel riferimento a “inchjre la rrancàta”, cioè raccogliere a piene mani.

La strofa successiva, spesso intonata da un  gruppo diverso, magari sito nell’altro versante del campo, s’intendeva rivolta alla madre di famiglia, e nasceva scherzosa, quasi a inaugurare la serie di piccole burle e ingenui scherzi che, alternativamente ricevuti e restituiti, avrebbero piacevolmente costellato di risate le sere estive:

Statte ‘ttenta a lla pagghiàra:

gghé ccanìscia e gghé ssipàle:

ci ti mpanni, la sacàra

  ti la ttruéi an capitàle

Statti attenta al capanno: è cestone ed è rifugio di serpi: / se ti addormenti, la sacàra  / te la ritrovi sul guanciale…

Allusione scherzosa solo sino a un certo punto, essendo imperniata su un pericolo reale che ad ogni estate si riproponeva in termini di gonfiatura di rilievo statistico. Lo stesso raffronto fra pagghiàra  e sipàle conferiva peso all’avvenimento, portando alla ribalta quello che, nel caso, era l’elemento a rischio del contesto ambientale, lu sipàle, appunto.

(…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994 (pagg. 62 – 68)

Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale

 

 

CULTI MAGICO-RELIGIOSI  NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

TI LA MMACULATA L’ACQUA SERVE SULU PI LLI PUCCE

 

 Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.

Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:

Pi’ lla Matònna ti li razzie,

ssetta li roddhre, scupa la lliàma

e mminti lu limmu sott’a llu canàle,

scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.

Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.

Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante  il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.

Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.

Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:

A Mmatònna rriàta,

furnìta la spaccata…

Stà rrusce lu mmuddhràtu…

ncanìscia lu siccàtu,

ccuégghi lu siccatiéddhru

e lli littére mìntile a ccastiéddhru.

L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.

Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:

La tìa ti li ràzzie

no ffranca la mmuddhràta:

scigghiàmu la pagghiàra

e ffacìmu scapuzzàta.

Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.

 

A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale  dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione  – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.

Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza  che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).

Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:

Ti la paratùra e ddi lu innimàre

Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.

Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.

   L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.

Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il  Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio  e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.

A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.

Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non  offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo,  per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.

Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria  spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu  patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.

Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e  rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).

L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.

Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.

Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.

Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:

Sangiséppu no tti nni scirràre

mantiéni lu tiémpu

pi’ ttuttu lu innimàre.

 

S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.

 

Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.

C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili”  (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).

Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:

Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale

no cchiòe fenca a Nnatale.

Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.

 

Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:

Fiàcca nnata si para nnanti

ci ti tutti li Santi

la nuégghia no cchiànge

e lla gnofa no rrufa!…

Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…

Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:

Ti Santu Martinu

la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia

comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.

 

Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.

 

     Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e  più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.

Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne  la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.

Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:

Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde

tinne croce fatta;

ca ci nno rria jùtu ti limòne

nni tocca lu maru ti lu fele.

Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].

 

Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.

Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:

Ci chiòe ti Santa Bbibbiana

quarànta sciùrni e nna simàna.

Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.

 

     Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente  tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non  si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.

Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.

Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.

Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.

E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con  S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.

L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in  buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:

Ci uéi bbegna nna bbona nnata

Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.

Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.

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[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.

[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373

Le panchine

Alessandro Giolo, “Panchina nel parco”

Simbolo di stanchezza e di riposo, di pausa, di sosta e di attesa, ma anche di solitudine e di problematiche esistenziali

 

di Nino Pensabene

Simbolo di stanchezza e contemporaneamente di riposo è la panchina. Simbolo di sosta, di pausa e anche di attesa: attesa per un gioioso appuntamento o nella speranza che qualcuno passi e gratifichi – sia pure con un semplice sorriso – la persona che, seduta e attraverso particolari atteggiamenti o comportamenti , rende vitale quella solitudine di cui la panchina vuota potrebbe esserne la rappresentazione.
Simbolo anche di problematiche esistenziali è la panchina, e a proposito – pensando appunto a tutte le problematiche dalle quali per forza maggiore si lascia coinvolgere – si può ben dire sia un personaggio non soltanto simbolico nella vita degli uomini, ma reale, addirittura familiare, alla stregua quasi del proprio letto, di una sedia o di una poltrona di casa.

Chi può asserire che per un motivo o per l’altro non ha mai avuto rapporti con una panchina? Oh, se parlassero le panchine dei giardini pubblici! E superficialmente si potrebbe pensare che hanno condiviso soltanto stanchezze fisiche facendosi donatrici di riposo, in certi casi supplendo alla propria sdraio o al proprio letto. Ma quante stanchezze psichiche hanno placato?! Chissà quante persone in un momento di disperazione si sono “buttate” su una panchina, rialzandosi poi e riprendendo serenamente il proprio cammino nella vita!

Io le panchine le paragono a dei confessionali, confessionali religiosi e nello stesso tempo laici, confessionali simbolico-spirituali e confessionali operativamente materiali, trasformati, cioè, in campo operativo del “peccato” stesso. Come infatti avranno silenziosamente risposto alle “Ave Maria” di qualche pia donna, sedutasi per godersi in pace il suo rapporto spirituale col Cielo, così avranno fatto finta di non sentire tutti i pettegolezzi espressi fra comari o le bestemmie di qualche povero infelice che non sapeva – poverino – dove sbattere la testa.
Se potessero parlare le panchine, chissà quante cose avrebbero da dire! Quanti segreti da svelare! Spaccio di droga, ideazioni o complotti di furti, speculazioni politiche o commerciali, ricatti a carattere sessuale o di qualsiasi tipo – a noi inimmaginabile -, meditazioni di vendetta o aperte promesse… e – a proposito di promesse – c’è da chiedersi a quante false promesse matrimoniali hanno assistito e a quante felicemente andate in porto attraverso una convivenza “eterna”.

Monumenti sono le panchine, e nel pronunciarne la parola mi tornano in mente i “mezzi busto” e le panchine di Villa Borghese a Roma: a quante tenere effusioni e a quanti squallidi rapporti sessuali hanno assistito nelle buie serate invernali quando ancora la lontananza del boom economico non consentiva un’autonomia riparata facendo dei parchi tanti teatri di incontri illeciti? Conosceranno tutte le parole dolci e tutte le bugie, conosceranno tutte le posizioni del Kamasutra e le scelte sessuali di parecchia parte di umanità. Prostitute, gay, travestiti, coppiette innamorate, amanti furtivi e amanti dichiarati, e tutti, tutti tutti con le proprie problematiche esistenziali al di là del momento godereccio, non escluse quelle contingenti della necessità di un rapporto protetto o di un coito interrotto o quelle involontarie – anzi non desiderate – di una eiaculazione precoce o di una squallida impotenza.

Povere panchine, macchiate di lacrime, di sangue, di sperma, di sputi e di bestemmie! Ma per contrasto, beate panchine, complici e disinteressate sensali di unione di solitudini, testimoni di sorrisi, di risate, di festosi giochi infantili, d’innocue confidenze e di sincere parole d’amicizia, di speranza e d’amore!

Vanno amate le panchine. E vanno amate non solo come utilissimo bene pratico collettivo, ma perché, come tali, è come se fossero parte integrante delle esperienze del vissuto quotidiano, è come se fossero un tutt’uno col nostro prossimo, è come se ci rappresentassero, controfigura di ognuno di noi in quanto membri dell’umanità potenzialmente usufruente. E non sembri assurdo se invito, passando davanti a una panchina vuota, a rivolgere lo sguardo con tenerezza, con affetto: chissà se qualche volta non ha accolto le membra di una persona a noi cara o non ha raccolto i suoi dolori o le sue gioie. Chissà se non è intrisa di fluidi a noi congeniali perché trasmessi da persone che avevano le nostre stesse caratteristiche, le nostre ansie o problematiche varie. Chissà se non voglia invitarci a sedere per trasmettere, attraverso un nostro rilassamento psichico, una positività, un incoraggiamento a perseverare nel bene o raccontarci che la vita è una lotta e va affrontata con coraggio.
Sì sono mute le panchine, ma parlano e perciò capisco che qualche volta possano anche inquietare, tanto che egoisticamente, e in contrasto con quanto ho testé consigliato, ci si vorrebbe girare dall’altra parte per non essere coinvolti e quasi plagiati o addirittura “infettati” da tutto il loro passato che può essere sì di bene e di gioie, di promesse mantenute e di glorie avverate, ma anche di sconfitte e di trame perverse.
In ogni caso fanno parte del tempo che va e che non si sottrae alla sua trasformazione in verità storica, perché mentre gli uomini nascono e muoiono, esse, nella maggior parte, rimangono – ignorate testimoni – ad aggiungere note su note ad ogni transitare, comprese quelle delle nostre eventuali fragilità. E a proposito di fragilità e di confessionale, quale amico più sincero che offra tanta discrezione, anzi fedeltà, ai segreti implicitamente confidati e sia pure consistenti solo in delle delusioni o stanchezze?
Rifacendomi ancora al “vissuto quotidiano” e ai sentimenti appena citati, quelli cioè a cui muove una panchina vuota – amore e inquietudine –, mi piace ora proporre all’immaginazione del lettore una piazza o meglio il viale o lo slargo di un giardino pubblico dove sono collocate parecchie panchine.
Un vero e proprio studio antropologico si potrebbe fare, in quanto aggiungendo alle soste rappresentative della vita sociale a largo raggio il ribaltamento scenografico della vita familiare, ovverosia trattando ogni panchina “occupata”come fosse anche l’interno di un’abitazione, si avrebbe la dimensione oggettiva della realtà esistenziale degli “occupanti”, dei vari tipi di menage o, andando più nello specifico, dei vari momenti d’incontro interpersonale.

La giovane madre che gioiosamente porta i bambini al parco o tutta la famiglia riunita per un pranzo a sacco; un gruppo di amiche che al pari del salotto di casa si scambiano qui le loro confidenze e pareri; gli anziani genitori che discutono fra di loro sul comportamento dei reciproci figli; la giovane coppia che litiga portando a galla la necessità di un divorzio; nonni che nostalgicamente raccontano ai nipotini le loro esperienze giovanili; donne frivole che parlano di moda o di chirurgia estetica e donne meno frivole che, lavorando a maglia, vicendevolmente si scambiano ricette della propria cucina o antichi rimedi per procacciarsi la buona salute.
Insomma ho voluto immettere visivamente il lettore in tutto questo più o meno festoso bailamme per potere meglio far risaltare il concetto di “panchina vuota” nell’immaginifico delle abitazioni e di riflesso della vita privata di ognuno di noi: non l’allegrezza ma la malinconia, non la solitudine ma il deserto, non la vita ma la morte, e questo quando il vivere da soli non è dovuto a una scelta da parte di una persona giovane ma condizione coatta vissuta da un uomo anziano che ha perduto ogni affetto.

A questi uomini io penso al mattino quando, a conclusione del mio trekking, mi fermo nel verde piazzale della “Grottella” [1] per fare qualche esercizio appoggiato alla spalliera di una panchina vuota. A costoro, penso, e a quanti su quella panchina si sono nel tempo seduti portando con sé il dolore di uomini crocifissi o la sofferenza con la quale, da cireneo, hanno contribuito a portare la croce altrui.
E non sembri ridicolo a nessuno se congedandomi, prima di salire in macchina per tornarmene a casa, metaforicamente trasferisco sulla spalla di tutte queste creature la manata di saluto che affettuosamente batto sulla spalliera di quella vuota panchina. Una pacca onesta e sincera che, di rimando, mi piacerebbe venisse da qualcuno data idealmente a me come a un uomo senza volto e senza storia, come a un uomo simbolo di tutti gli anziani a cui la morte ha tolto il bene terreno più prezioso: l’amore della propria compagna.

[1]
Santuario Santa Maria della Grottella, situato fuori dell’abitato di Copertino.

(Le immagini qui rappresentate sono prese in prestito da Internet)

Dal canto gregoriano agli echi ancestrali degli stornelli di lavoro e d’amore della campagna salentina

Alfredo canta all’Ergife a Roma per gli emigranti italiani

ALFREDO ROMANO CANTANTE

 Voce formata allo studio severo del canto gregoriano nei cinque anni di permanenza presso il Seminario diocesano di Nardò e contemporaneamente plagiata dagli echi ancestrali degli stornelli di lavoro e d’amore della struggente campagna salentina

 

di Nino Pensabene

     A primo acchito sembra si riagganci molto alla Scuola dei Cantautori Genovesi, il modo di cantare di Alfredo Romano, anche se la particolarità del timbro vocale – tanto poderoso da espandersi in echi cavernosi e sofferto da scivolare nel nenioso – riporta più specificamente a quello di Umberto Bindi e in qualche passaggio a quello di Marino Barreto jr.

Ad un’analisi più approfondita, però, ascoltandolo, cioè, e riascoltandolo nelle interpretazioni di più vasta tematica e pluralità di registri musicali, ci si accorge che si tratta di  una voce tanto particolare da risultare difficile una collocazione ben precisa. Sicuramente c’è l’appartenenza vocazionale ad una “scuola”, quella appunto dei “Cantanti genovesi” degli anni ’60, più che altro il voler caparbiamente seguire un indirizzo che affascina e che nel tempo ha conquistato parecchi interpreti, ma secondo me nella raggiunta autonomia (avvenuta, immagino, in modo inconscio nel cantante) ci sono due elementi

Guardare tutto a filo di zolla

RIFLESSIONE DEL PROTAGONISTA DI UN ROMANZO-SAGGIO

GUARDARE TUTTO A FILO DI ZOLLA

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

(…) Ma a proposito di politica, di leggi e di poltrone, qual è la realtà agricola del Salento? Me lo chiedo con lo struggimento di un innamorato che sa la sua amata maritata male, e mi torna alla mente l’immagine di don Filippo mentre batte col dito sul tacco della scarpa e mi dice: “Il Salento è questo: la parte più bassa dello stivale, il tallone, costretto a un impatto perenne con la zolla. Per conoscerlo non basta guardarlo dall’alto: occorre posare la guancia fra l’erba e guardarlo a filo terra… solo così ne scopri la profondità delle rughe…”.
Questa considerazione l’ho sempre ritenuta il mezzo migliore e forse insostituibile per accedere a una ragionata valutazione del problema, ma ogniqualvolta la rivango mi dico ch’è un consiglio che meriterebbe una più ampia collocazione. Esulando dalle problematiche agricole e dai suggerimenti geografici di una regione, dovrebbe essere scelto a metro e rimedio universale di un male che tutto e tutti sta minando nella dissociazione di ogni valore, nello spacco profondo delle incomprensioni e delle solitudini.

Incomprensioni e solitudini che nascono appunto dalla non conoscenza che l’uomo ha dell’uomo, dal rifiuto a curvarsi sul cammino degli altri e viverne in fraternità le serpentine.
Guardare il tutto a filo di zolla può essere il mezzo più sicuro per non scoprirsi estranei al mondo, e anch’io, più volte, fiaccato da un rimorso di incomunicabilità, ho desiderato di ritrovarmi steso fra l’erba e trasformarmi in un granello di terra per meglio penetrare nei talloni di chi passa e testimonia la vita attraverso le orme.
Per un gioco di rimbalzo, ogni volta mi attardo a immaginare di quanta pienezza deve essere stata la sorpresa di Robinson Crusoe quando, sulla spiaggia della sua isola deserta, scoprì la presenza dell’uomo attraverso le impronte lasciate da piedi sconosciuti. Mi spingo a ricercare una concorrenza di significazioni fra i solchi delle mani e quelle dei piedi e mi dico che se, nei secoli, ci si è ostinati a ricercare rivelazioni nell’apertura del palmo, uguale indagine poteva benissimo essere incentrata sulla pianta del piede. Forse non una divinazione su ciò che ancora è da bruciare, ma una conferma su ciò che si è stati, forse anche sui fluidi carpiti alla terra nella pressione dell’impatto.
“Mostrami il piede che hai e ti dirò come hai camminato”. Una frase da battage che potrebbe lanciare l’idea di un nuovo studio sulle tendenze e le rispondenze dell’uomo, sulle sue possibilità e i suoi condizionamenti. Ma c’è da prevedere che in pochi se ne occuperebbero e la stessa frase finirebbe con l’essere assunta da qualche lavoratore di pelli, a sostegno consumistico di una scarpa più o meno comoda.
Il ricordo della scarpa mi annulla l’idea di un’analisi umana attraverso il piede e mi riempie lo sguardo di piante e dita deformate, costrette dalle mode che alle zeppe fanno succedere i tacchi a spillo, ai tagli quadrati le punte a triangolo.
Mi accorgo sempre più che lo studio dell’uomo porta inevitabilmente alla condanna della società, e la stessa realtà della vita s’imbastardisce, si adatta alle forme coatte dei modelli voluti o, a volte, semplicemente immaginati.
L’uomo spesso guarda alla realtà come a una dimensione sbagliata, poiché nella sua presunzione si convince che la verità sia nelle sue ipotesi e non tiene conto che, la stessa, non può nascere da una o da cento ipotesi, ma da migliaia e migliaia di vedute diverse, e tutte le distanzia e tutte le annulla. Ma nessuno rinuncia a dirsene possessore e, appena acquisisce una delle sue tante parvenze, s’illude di una conquista totale e si ostina a vedere l’esile filo che marginalmente lo tocca come un solido ponte, viadotto personale che gli consenta l’accesso alla città dei suoi desideri.
Tutto un mondo di cercate suggestioni, come quelle di Santuzzu, un ragazzino sbrindellato che passava il suo tempo a raccattare fogli di carta straccia con la quale, pazientemente, si costruiva dei cannocchiali. A lavoro compiuto, vi inseriva dei ritagli di stagnola, e impiegava ore a guardare con un occhio solo e a lanciare grida di meraviglia per ciò che riusciva a vedere.
“Guarda”, mi supplicava eccitato, “c’è un mare e un bastimento meraviglioso!”
Per farlo contento, accostavo l’occhio al foro della carta, ma altro non riuscivo a vedere che un mucchio di stagnola ritagliata.
“E’ stupendo!”, affermavo restituendo il cannocchiale, e sorridevo della sua illusione bambina.
Ora mi accorgo che non dissimile è l’illusione che governa gli adulti e li gioca sul filo delle emozioni.
Se una differenza c’è, sta nel vizio acquisito dell’ipocrisia che inevitabilmente s’innesta nelle parole, deteriorando la stessa semplicità delle reazioni, suscitando in chi ascolta, non il sorriso indulgente, ma la risata ironica che, pur se comprende, non perdona.
Quella risata che si beccò un certo sottosegretario, sceso nel Salento a inaugurare la sede rimodernata di un istituto di suore.
Al termine della cerimonia, lo accompagnarono in corteo nella piazza grande del paese, dove, coincidendo l’annuale ricorrenza dei festeggiamenti a S. Antonio Abate, era già pronto il tradizionale falò.
Fin dal primo mattino, le donne erano affluite in processione, ognuna recando la sua fascina di sarmenti, raccolti nel proprio vigneto o chiesti in elemosina: una massa enorme di legna che gli uomini avevano sistemato in forma cilindrica, ponendovi in cima un fantoccio da bruciare a simbolo della rinnegazione del male.
Mentre sette ragazzi spingevano nella catasta di legna carte incendiate, le donne facevano cerchio, invocando a gran voce un marito sano e forte per le loro figlie; un cerchio che si slargò al primo divampare alto delle fiamme, cedendo il posto a un gruppo di vecchie, ieratiche nei loro scialli neri. Quest’ultime si diedero a lanciare nelle fiamme grani di vecchi rosari e manciate di sale, quasi evocassero, in un rito magico, delle forze
sconosciute, delle potenze misteriose rimaste sino a quel momento in esilio, oltre il muro delle superficialità quotidiane.
Quando il falò, sfavillando, si accasciò su sé stesso, ci fu una corsa sfrenata all’accaparramento delle braci che, trasportate nelle case con antichi catini di rame, dovevano servire a cuocere sottili fette di maiale, l’animale immondo che, a simboleggiare le tentazioni, viene raffigurato ai piedi del Santo.
Questa coreografia, un po’ paganeggiante, quasi legata a perpetuazioni ancestrali, piacque al signor sottosegretario. E poiché in ognuno di noi, almeno in certi momenti, riaffiora un desiderio di costruzioni poetiche, come regressione verso uno stadio d’infanzia, come rifiuto di quel cinismo innestato dalle forme sibilline della vita, o come disperazione del già perduto, si arrese alle seduzioni ambigue dell’illusione, proiettandosi al di fuori del razionale. Tanto che, al ritorno, transitando sulla camionabile per Taranto, che si snoda attraverso i poderi della vecchia riforma di Arneo, si trovò ancora intriso di umori vergini, ancora disposto a parcheggiare in sentimenti idilliaci. Ciò lo portò a ritenere falò di devozione anche i fuochi che le prostitute, rifugiatesi nelle case abbandonate della riforma, accendevano ai margini della strada per segnalare la loro presenza.
Il suo discorso, che nell’indice di quelle fiamme celebrava un popolo progredito ma saldo nei sentimenti di fede, mise a disagio la professionale stratificazione intuitiva del vescovo che gli sedeva accanto – e al quale era bastato un solo sguardo per un quadro sinceratore -, ma arricchì gli altri accompagnatori di uno spunto inatteso per brillanti conversazioni.
Tramutato in barzelletta, l’episodio rimbalzò di bocca in bocca, suscitando la risata grassa anche di chi, sulle illusioni di una certa politica, non è più disposto a ridere.
Io, più che ridere, sorrido sempre delle illusioni, anche quando, pungendomi il sospetto di una origine ipocrita, vorrei gridarne il pericolo o la vergogna. Forse perché considero l’illusione un’ombra dalla quale l’uomo non può disgiungersi, una incapacità congenita a essere sempre presenti e reali fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Questa mia disponibilità a sorridere di tutte le illusioni, potrebbe essere, dopo il doloroso sfaldamento della mia vita, l’unico punto fermo rimastomi; ma forse è un’illusione essa stessa, e se l’accetto e in qualche modo me ne compiaccio, è perché, se non un senso di superiorità mi dona, almeno mi costringe a un pareggio.
Riconosco ch’è sempre così difficile scoprirsi uomo pareggiato agli altri uomini, accettarsi unificato, se non nei pregi, nei difetti che ognuno di noi si porta in giro con naturalezza, come il neo che si può coprire ma non cancellare, come il pelo che si può radere ma non eliminare.
Ognuno di noi è portato a sentirsi diverso, ma c’è sempre un’inconfessata superbia nell’amarezza di dichiararsi isole, poiché in ciò s’innesta un inconscio desiderio di superiorità, anche se la stessa, una volta inventata, ci disarma, ci umilia nella confusione di un’ellittica fatta di bene e di male.
Mi accorgo che la forgiatura di queste presunzioni porta, per contrasto, all’emersione delle proprie miserie; mi ripeto che, nell’essenza dell’uomo, vittoria e sconfitta s’incidono l’una nell’altra e che è un lavoro ingrato andare alla ricerca di un basamento di granito sul quale appollaiarsi e dal quale decidere una collocazione.
Il gioco delle autovalutazioni è pericoloso, ti porta a tuffi improvvisi in un tempo avulso dalle cronologie del reale, un tempo da fondale marino: tutto appare sospeso, ingigantito, e anche il guizzare dei pesci può essere ingannevole, convulso, come una danza disperata fra il nulla e l’infinito.
E’ proprio nella convergenza battagliera di questi due termini estremi che cerco di innestare il mio equilibrio, ma non per tentare la radiografia di una mia dimensione, ma per scavare la ragione delle cose, riuscire a penetrare nei perché delle reazioni, nel come
delle conclusioni.
Un discorso complicato che sgomitolo nelle notti di veglia quando, accovacciato di fronte a una tela ancora bianca, vago nella ricerca di una sintesi che mi aiuti ad accenderla di colori. Un discorso che non potrei convertire in parole, poiché quest’ultime le ritengo, oltre che mezzo povero, elemento imbastarditore del pensiero. Con quella loro compattezza infeltrita, mi riportano alla mente i pezzi di muschio che, per ordine del parroco, nell’approssimarsi del Natale, andavo a staccare dai tronchi degli ulivi e che, spruzzandoli d’acqua, disponevo a più strati in un cesto. Servivano a creare, nel presepe, l’illusione di un prato, sul quale sospendere l’illusione della scena.
Sì, le parole sono una pianta parassita sul tronco del pensiero, né le assolve il fatto che, a volte, lo vellutano, poiché appunto vellutandolo, lo camuffano, ne vietano la genuina trasmissione.
Forse per questo il silenzio risulta più pieno, più libero, più significante; e inclino a credere che, più che un lungo discorso, può essere più valido un breve sguardo. Me ne sono accorto tutte le volte che ho cercato di sintonizzarmi con il prossimo attraverso il dialogo e ne sono uscito deluso, forse per quella mia cronica incapacità a manovrare i selettori, a fermarli sulla frequenza giusta e nel momento opportuno. Colpa di un’inquietudine che mi blocca nel terrore di assistere alla pietrificazione dei verbi, alla loro trasformazione in roccia, quella roccia…

Stralcio del romanzo “I SASSI DEVIATORI”, 1978

Appello per salvare la campagna salentina dall’abbandono

Proponendo la poesia di Giulietta Livraghi Verdesca Zain “Saggio sulla “morte” del  contadino”, SOS  per lo stato di abbandono in cui versa la campagna

di  Nino Pensabene

Il titolo stesso della poesia “Saggio sulla ‘morte’ del contadino” lascia già da sé immaginare che il testo non tratti un tema di semplice natura sentimentale, quale la delusione per un amore perduto, la nostalgia  per un figlio lontano o il dolore per la scomparsa di una persona cara.

L’etnoantropologa salentina, lasciando  per un attimo la narrazione e lo studio della civiltà contadina di fine Ottocento,  ridiventa cittadina inserita a tutti gli effetti nel contesto sociale dell’oggi e, riappropriandosi della sua entità giornalistica e attraverso i mezzi poetici – i primi con i quali si è affacciata al mondo dello scrivere – lancia un S.O.S. a favore dell’agricoltura,  mettendo implicitamente in luce  lo stato di abbandono in cui ancora oggi versa la campagna. Sì, la poesia è stata scritta nel 1995 ma a questo punto possiamo dire “peggio!” perché da allora le cose non solo non sono migliorate ma sono addirittura precipitate: man mano  sono venuti a mancare quei pochi contadini anziani rimasti sulla breccia (la Giulietta li chiamava “gli eroi dell’oggi, gli ultimi eroi”) e la terra langue in un’agonia alla quale sembra nessuno di noi voglia partecipare.

Cosa utile, necessaria e meritoria – credendo, però, forse, sia questa l’unica forma di fare cultura –  siamo tutti  con lo sguardo rivolto al passato: con un binocolo in mano andiamo alla ricerca del monumento dalla pietra caduta, dell’altare dall’angolo scalfito, dell’affresco sbiadito per il troppo sole o la troppa pioggia, di un libro antico fra le cui pagine possiamo trovare un insetto, dalle culture e tradizioni in genere delle popolazioni passate, ma tralasciamo molti dei problemi che assillano il presente sociale (che – si badi bene – non si esaurisce alla visione turistico-ambientale) e dei quali, un giorno, i nostri figli potranno chiederci conto. Cito, tanto per fare qualche esempio, la spaventosa immigrazione di massa con la relativa miseria, alla quale si aggiunge la miseria  di casa nostra a causa della dilagante disoccupazione giovanile; l’inquinamento dei mari e dell’aria con annesso programma di orientamento  energetico-nucleare; e non ultimo, ma fra i più importanti per il nostro Salento e il Sud tutto, il disinteresse assoluto –  come se non facesse parte della nostra realtà quotidiana ed esistenziale –  nei confronti dell’agricoltura e, intrinsecamente, della campagna.

Per tornare al tema della poesia in oggetto, i tempi di “Arneo” sono ormai Storia consolidata, e storici sono pure i cortei attraverso i quali – facendo demagogia al fine di accaparrare voti – si prometteva ai contadini il miraggio di realizzare il loro atavico sogno: quello di coltivare un pezzo di terra in proprio, senza sottostare al giogo crudele e sfruttatore di un padrone ripetendo all’infinito: “Fatìu, fatìu, pi lla scòrsa ti l’uéu” (Non faccio che faticare per avere in ricompensa soltanto il guscio dell’uovo).

Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…

Coloro che come me non sono più giovani ricorderanno l’affannosa e studiata strategia di questi affascinanti cortei, caratterizzati  dai due elementi più plagianti nei confronti di un popolo schietto quanto non istruito e desideroso di riscatto sociale: coreografia e tono vocale , cioè, il secondo, caratterizzato dalla perfetta cadenza del tuonante sglogan “Abbasso i padroni… la terra è dei coloni…” e, il primo, dal teatrale avanzare con passo anch’esso cadenzato, quasi militare, accompagnato dall’altrettanto teatrale esibizione delle enormi bandiere rosse svolazzanti da chilometrici bastoni.

Perché il progetto politico è fallito? Perché è fallito il sogno dei contadini? Perché inutile sarebbe stato dare la terra ai contadini senza restituire i contadini alla terra, ovverosia senza una rivoluzione programmatica di migliorie che inserisse i futuri padroni-contadini, dicat coltivatori diretti, nel contesto sociale attuale. Inutile sarebbe stato dire: “Questo pezzo di terra è tuo: ora sei anche tu un proprietario… cavatela da solo, cerca di fare da infermiere a questa moribonda che è l’agricoltura!”, quando già si era avuto l’esperienza di Arneo! Se si voleva agricoltori  riscattati, non più visti nella declassante accezione di contadini schiavi come vengono descritti dalla Giulietta nei suoi lavori di etnoantropologia di matrice ottocentesca, bisognava sì creare degli uomini  liberi, proprietari della terra che coltivavano, ma operatori di un’agricoltura – aggiornata,  sostenuta da leggi promotrici –  nel cui contesto le emancipazioni economiche e i diritti civili venissero ad essere equiparati a quelli di cui godono, faccio per dire, gli impiegati del Catasto o gli infermieri di un qualsiasi ospedale, i bidelli che operano nella scuola o  gli operai che lavorano in fabbrica.

Sì, è sotto gli occhi di tutti, che ci sono ancora persone che si dedicano alla terra, e guai per tutti noi se non ci fossero; ma la maggior parte lo fanno come hobby, svolgendo altrove un  altro lavoro ben remunerato (magari impiegatizio), alla lontana di preoccupazioni o prese di coscienza agricole; altri, che magari si dedicano alla coltivazione degli ortaggi, sono dei pensionati che lo fanno  per passatempo e per arrotondare; e gli uni e gli altri con il validissimo supporto coadiuvante degli extracomunitari.  La terra, però, non vuole dopolavoristi interessati solo al valore del prodotto, così come non sa che farsene dei frettolosi economisti impiegati della zolla… la terra vuole gli innamorati della zolla, così come lo erano gli antichi contadini, quelli che con le loro mani callose l’accarezzavano carpendone tutti gli umori e le potenzialità sia  di domande concimatorio-nutritizie  che di risposte produttivo-redditizie. E se la terra rispondeva è perché ne percepiva la trasmissione amorosa di animi semplici e votati al rispetto di ogni primordiale sacralità, sacralità che andrebbe ripristinata attraverso il rispetto dell’ecosistema, per prima cosa combattendo il già avanzato stato di inquinamento con una forte, anzi assoluta, rivalutazione dell’agricoltura biologica: niente dunque diserbanti, ma niente più anche pesticidi, antiparassitari o anticrittocramici.  Tutto ciò che è “chimico” dovrebbe essere bandito dalla campagna, e sì per amore della terra, ma di riflesso per amore dell’uomo, della società in cui viviamo, di noi stessi. A tua madre o a tuo figlio daresti mai del veleno? E inoculandolo nella terra o spargendolo sulle erbe o sugli alberi o sui frutti non è come avvelenare tua madre, tuo figlio, tuo fratello o suicidarti? Ci siamo reso conto che di pari passo all’impoverimento dell’ozono, si è impoverita la terra? La terra è priva di sali, è priva di zuccheri, la terra  è morente! Basta assaggiare un frutto per accorgersene che  non ha per niente il sapore di una volta!

La terra va amata, la terra vuole essere amata, perché, non dimentichiamolo mai, rientra di diritto in quel complesso operativo che è l’amore cosmico, l’amore che non può che generare amore. Chi dei giovani sa  qual’era il rapporto fra uomo e terra, fra il seme che s’imbuca e l’occhio che ne aspetta il germoglio, fra la mano che versa l’acqua del secchio e la zolla assetata che la beve e, rispondendo, appunto, al motto latino Ut Ameris amibilis esto, avvertendo cioè  l’amore dell’uomo, lo ricambia attraverso lo slancio produttivo?! E chi, anche fra gli adulti,  sa coscientemente quanti sono i fondi rustici che non vengono più coltivati? Fondi ereditati da persone che non essendo in grado di dedicarsi alla campagna vorrebbero venderli senza però trovare alcun acquirente, in quanto – per i suddetti motivi – nessuno dei giovani  vuole più  – con tutte le ragioni – avere da fare con la terra?

Fatevi qualche passeggiata a piedi nelle campagne e ditemi se la terra di questi fondi abbandonati  non sembra stia a piangere, se non sembra voglia tendervi le mani supplicandovi di ararla, di rinvigorirla, d’ingravidarla, di riportarla agli antichi splendori!

Al di là del rapporto agricolo, ci siamo dimenticato cosa è stata, per millenni, la terra per l’uomo e l’uomo per la terra ? Quale simbiosi fra le due energie vitali c’è stata nella pregnanza del dare e avere? Adesso i cimiteri sono pieni di scatoloni di cemento in cui veniamo tutti sigillati, ma ricordiamoci quel tenero quanto profondo interscambio d’amore dove, se la terra diventava grembo materno per accogliere in estremo e dare pace all’involucro carnale dell’uomo, l’uomo, mediante i suoi resti, si faceva a sua volta humus, rinata e depurata energia per ngrasciàre (nutrire, ingrassare) la terra affinché questa potesse, in lenti, millenari ma continui assorbimenti veicolanti, meglio produrre facendosi – nell’avviato ingranaggio – alimento per l’umanità vivente!  Non a caso son voluto scivolare in questa apparentemente inappropriata divagazione: se l’amore degli uomini  per la terra era così forte, molto si deve a questa magia naturale, che agendo positivamente sul  flusso e riflusso di energie vitali, condizionava felicemente l’uomo ad essere presente nel mondo come il primo giorno della creazione: fusione completa fra terra, uomo e animali, tenendo presente come e quanto questi ultimi partecipassero attivamente al suddetto  flusso e riflusso attraverso il lavoro nei campi e la concimazione biologica.

COPERTINO, LECCE, BARI, ROMA.

Io – umilissima voce – sono convinto che in seno all’umanità ci sono  moltissime persone,  e soprattutto giovani,  con quella ricchezza interiore ancora in grado di amare la terra come e forse meglio dei nostri amati defunti contadini, ma sta agli Assessorati Regionali, allo Stato, a tutti gli Organi Competenti, insomma, risvegliarsi da questo torpore mentale  legato alla vergogna della terra e ricreare una giovinezza agricola degna dei tempi emancipati in cui viviamo. Ormai abbiamo dimostrato a tutti di non essere furèsi, di non essere cafùni, di non essere poveri, di non appartenere, insomma, a quella tanto disprezzata civiltà  di “terroni”. Ormai, con la sicurezza di un pezzo di carta in mano, possiamo testimoniare non solo all’Italia ma al mondo intero di essere tutti dottori, per cui, superato il complesso dell’appartenenza a un popolo ignorante, si potrebbe ritornare alla terra a testa alta, così come si sta facendo già col dialetto.

Voi, genitori degli attuali giovani, ricordate negli anni 70-80 del Novecento? Era segno di retrività e ignoranza non solo parlare in  dialetto ma anche semplicemente citare un proverbio… Coloro che erano appartenuti al mondo campagnolo dovevano parlare in italiano per dimostrare di essere persone civili e istruite, non importava con quali storpiature e ridicolaggini varie, l’importante era  sembrare gente evoluta, e c’era anche chi calcava nell’accento come appena arrivato da Milano o Torino, alla stregua, appunto, delle donne che d’estate andavano a lavorare negli alberghi delle zone turistiche del Nord. In questo quadro, guai se i figli, tornati a casa, pronunciavano un verbo dialettale: mazzate! Il parlare in dialetto veniva visto come opera del diavolo, nel contesto di un mondo in cui si erano e si sono invertiti i termini di bene e di male. A Londra o a Parigi si facevano andare i figli affinché, tornando,  potessero fare gli snobs snocciolando qualche parola delle lingue straniere, ma ai nonni contadini era severamente vietato parlare per non far sentire ai pargoli ‘impure bestemmie’. Oggi, al contrario, una volta dimostrato che sappiamo parlare la lingua italiana, stiamo man mano – non importa se per il momento è solo motivo di curiosità, sciccheria o stupida snobaggine – tornando al dialetto.

Io sono sicuro che superate le frange degli ultimi complessi d’inferiorità, ognuno sentirà la gioia di ritrovare la spontaneità nell’esprimersi con la lingua madre; il dialetto trionferà, così come un giorno ci sarà il trionfo della terra. Tutte le migliaia di giovani disoccupati, che – se si perseguiterà nel mito della laurea – col tempo aumenteranno, dovranno in qualche modo trovare lavoro, e la terra potrà ritornare ad essere madre, l’importante che gli organi competenti ne prendano coscienza riscattandola dallo stato di vedovanza in cui l’hanno imprigionata e, tornando a rendere grazie alla tanto rinnegata Provvidenza, sappiano sfruttare le parole di Cesare Beccaria ricreando la nuova civiltà agricola.  Solo così potremo debellare la disoccupazione nel Mezzogiorno, solo così potremo dire di essere una nazione economicamente evoluta, un popolo libero, non schiavo di pregiudizi e complessi.

Ecco la poesia

“SAGGIO SULLA ‘MORTE’ DEL CONTADINO

 

Reperto non catalogato

nei vanti della storia

non hai museo da dove avanzare

i tuoi diritti alla primogenitura

del sudore convertito in  pane

eppure le tue radici

sono intrecciate a quelle di Dio

fin dal terzo giorno della Genesi

quando – a precorrere il tuo cono d’ombra –

sul muto proscenio della terra

esplose il canto della clorofilla.

* * *

Come Agamennone

anche tu ti sei portato dietro

una maschera d’oro

– cesellata dal sole fra le biade –

ma la tua “Micene”

non interessa agli archeologi di Stato

incapaci di valutare

i tesori di una reggia

d’alberi d’ulivo

e già delusi

al pensiero di scoprire una porta

non vigilata da leoni a lamine lucenti

ma da buoi

inghirlandati solo di spighe e grappoli d’uva.

(“L’arte dunque di dirigere e incoraggiare

gli uomini, acciò cavino il migliore

partito possibile dalle terre, sarà la base

fondamentale d’ogni operazione economica;

quest’arte chiamasi agricoltura politica:

primo oggetto di economia pubblica” 

– diceva Cesare Beccaria

mai pensando allo specchietto deformante

che il futuro avrebbe appeso

all’architrave dei compromessi…).

 

Tu che non conoscevi altre vocali

se non quelle dei semi

e ogni giorno

scrivevi la tua pagina col vomere

affidandone ai grilli la lettura

oggi avresti geroglifici di fuoco

da incidere

– a tatuaggio di vergogna –

sulla fronte di quanti

hanno manomesso l’ago della bussola

consegnando le sorti della zolla

alla rotta funeraria delle sabbie mobili.

* * *

Dio

l’uomo

la terra

il sudore

il pane.

Sulla regalità di questo atavico organismo

è caduta la nebbia della favola

e si è scoperto che la Bibbia

ha mani ruvide

inadatte alla setosa carezza delle banconote

– unica credenziale

per essere elevati agli onori della tutela.

(giugno 1995)

                                                

Al di là della razionalità espositiva e dello studio del problema – che l’autrice presenta con competenza pur se celato nella metafora -, questa poesia è un grido di dolore che nasce  dal suo aver dedicato quasi tutta l’esistenza al mondo agricolo (nel senso metaforico, per gli studi etnoantropologici condotti sulla civiltà contadina, e nel senso reale per essere stata nell’arco di più di mezzo secolo  titolare [in un rapporto di fraternità e giustizia con tutti i dipendenti] di un’azienda agricola* a Copertino); è un manifesto, riprendo, che i giovani delle popolazioni salentine – per la maggior parte di discendenza contadina – dovrebbero appendere nelle loro case in rispetto alla terra che ci nutre,  in memoria del sangue di sudore versato fra le zolle dai loro antenati, e come segno di lutto per un potenziale lavoro sottratto alle necessità  giovanili e comunque  popolari.

Da un punto di vista ecologico-ambientale ed economico-mercantile è pure un manifesto che interessa tutta la storia locale:  a condanna? a giustificazione? E di chi? Dipende da ciò che ci riserverà il futuro.

*

Affinché non sembri che a spingermi a scrivere questo articolo siano stati interessi a carattere personale, preciso di non possedere un solo centimetro di terra.

Fra le mura di un antico palazzo a Copertino

QUANTE COSE NASCONDE QUESTO SALENTO!

FRA LE MURA DI UN ANTICO PALAZZO, LA RIPRODUZIONE IN MINIATURA DELL’ALTARE MAGGIORE DELLA CHIESA MATRICE DI COPERTINO

di Nino Pensabene

Chi ha avuto modo di leggere il libro di Giovanni Greco sul pittore copertinese Gianserio Strafella* avrà notato – se ricorderà – che fra le opere attribuibili al grande manierista del Cinquecento c’è la cosiddetta “Madonna della Cappellina”, a proposito della quale così ha formulato il suo giudizio: “…se l’attribuzione allo Strafella è probabile, il dipinto si potrebbe datare di poco dopo la “DEPOSIZIONE”, quando cioè il pittore acquisisce appieno l’ideale della bellezza raffaelliana”.

Un giudizio che, data la sconvolgente e raffinata bellezza dell’opera (olio su pergamena, cm. 28,5 x 37,5) avvalora altra tesi, secondo la quale, se non dovesse appartenere alla mano dello Strafella (e se lo fosse, in effetti rappresenterebbe l’apice della sua ascesa pittorica), potrebbe essere attribuita a colui che fu il suo maestro, lo stesso Raffaello, appunto.

Certo, Strafella o Raffaello, non va dimenticato che “…perentoria è l’affermazione di Luigi Tasselli, padre cappuccino di Casarano, il quale dice: “discepolo di Rafaele d’Urbino riuscì così eccellente pittore che avanzò il maestro””.*

Che la paternità dell’opera fosse, anzi sia, dello Strafella è stata sempre suffragata dal fatto che il possessore che l’ha portata a palazzo Verdesca Zain, sposando, appunto, una donzella della nobile famiglia, fosse un pronipote del nostro artista, un tal Vincenzo Strafella, dal quale – generazione dietro generazione – è giunto fino a noi che Gianserio amasse particolarmente questo dipinto da tenerlo gelosamente a capo del letto.

Il tema raffigurato, la Vergine Maria (di una soavità raffaelliana), ha fatto sempre da scudo sulle probabili recondite ragioni che hanno accompagnato il dipinto: lo Strafella, lo amava così tanto per il fattore devozionale o perché era stato eseguito dal suo maestro Raffaello, a ricordo del quale gli era stato donato lasciando la bottega per tornare a Copertino?

E i Verdesca Zain hanno costruito la cappellina barocca in rapporto al culto mariano – coprendosi, appunto, dal fatto che ne erano appassionati – o per proteggere dai ladri il dipinto del quale avevano consapevolezza del grande valore?

Va detto infatti che l’opera pittorica, pur creando delle sproporzioni prospettiche, era stata posta come pala d’altare, peraltro non come quadro appeso ma incastonandola in un gioco di tavole inchiodate e ricoperte – a mo’ di intonaco – da una lavorazione in cartapesta.

Se il lettore guarderà una delle foto relative a quando il dipinto faceva ancora corpo unitario con la costruzione barocca, si accorgerà che il volto della Vergine è grande quasi quanto tutto l’altare, mentre per essere visto dal basso, ad occhio dei fedeli, dovrebbe essere più piccolo di quello del celebrante o del loro stesso volto, cioè di quello delle altre statuine che li rappresentano. In verità questo mio contributo non nasce con lo scopo preciso di parlare dell’opera pittorica dello Strafella quanto per mettere in luce, attraverso qualche immagine, il prezioso gioiellino d’arte barocca che l’ha ospitata fino al 1968, quando – mentre noi abitavamo a Roma, e quasi per miracolo lasciando indenne il dipinto – un’umidità perniciosa ha danneggiato la parte frontale della cappellina unitamente a quanto fungeva da abside sopra l’altare.

In pietra leccese scolpita e legno lavorato, la chiesetta in miniatura è stata realizzata in uno spazio ricavato all’interno di una muraglia, da poter chiudere con una porta, anticamente tutta in legno, così da sembrare – in simmetria con un’altra porta – un varco d’ingresso.

Datata fine Settecento-primi Ottocento, riproduce l’altare maggiore che si trovava nella chiesa matrice di Copertino fino all’avvento del Concilio Vaticano II, quando in moltissime chiese di tutto il mondo sono stati compiuti crimini d’arte.

Rientrati da Roma e completato il restauro della casa, nel 1975 la cappellina non ha più avuto sull’altare il suo antico quadro dello Strafella: al di là dei motivi di ordine artistico-prospettico che ci ha visto riottosi nel ricollocarlo, non erano più i tempi quando, se il denaro si nascondeva sotto i materassi, le opere d’arte di grande valore – quelle cioè che si volevano proteggere – si dovevano quasi murare alle pareti. Altri sono oggi i sistemi o i luoghi di sicurezza.

Per una diecina d’anni, sull’altare ha trovato posto un antico quadro avente sotto vetro una preziosissima seta riproducente “La Pentecoste”, mentre dal 1987, a sistemazione definitiva, c’è “La Vergine della Rivelazione”, un manufatto della Giulietta realizzato per un oratorio pubblico in un seminterrato e a chiusura del quale io, per motivi affettivi, ho voluto associare alla storica cappella in miniatura. Storica nel vero senso della parola, perché al di là dei valori artistici riguardanti la costruzione monumentale appartenente a un’epoca ben precisa, ancora più storica è divenuta oggi per dei particolari antropologici che al momento della realizzazione gli autori hanno eseguito in perfetta semplicità d’intenti, rispettando cioè la realtà socio-ambientale in cui vivevano.

Mi riferisco alla parte animata del piccolo tempio: al di là del motivo religioso attraverso il quale i giovani possono scoprire la dinamica della celebrazione eucaristica (la Messa in latino) prima della recentissima riforma liturgica del Concilio Vaticano II, ciò che più è interessante – e che oggi sconvolge o sconcerta – è la visione dell’assemblea che vi partecipa, formata dalle tre categorie socialmente più rappresentative dell’epoca: i nobili e quindi latifondisti, gli artigiani e i contadini.

L’etno-antropologia illustrata nel nostro saggio “Tre Santi e una Campagna” trova le sue basi proprio guardando queste affascinanti figure in cartapesta e stoffa, rudimentalmente realizzate in casa dagli antenati Verdesca Zain.

Ogni categoria è rappresentata nel più rigoroso rispetto ai dettami gerarchici, inquadrati non solo in ciò che viene palesato nell’assunto esteriore attraverso segni inequivocabili di appartenenza ma anche nell’atteggiamento interiore che conferma – con le sue sfumature etico-comportamentali – lo stato sociale che il personaggio rappresenta.

Pur nella dignità cristiana che li accomuna, vediamo la contadina e il contadino eccellere per la loro umiltà, frutto della nobiltà della terra; l’artigiana e l’artigiano per il contegno dovuto alla consapevolezza della maestria nel loro lavoro; i signori per la cosciente affermazione di uno stato di superiorità a carattere non economico-volgare ma educativo-sapienziale.

Da un punto di vista esteriore, nel rispetto ad un protocollo classista, le differenze sono più marcate, ma nella loro palpabile visibilità si fanno un tutt’uno con i moti interiori del vissuto spirituale: la contadina con il facciulittòne e llu mantile, l’artigiana, di ceto già superiore, non col facciulittòne ma con la scialla (sciarpa) e senza grembiule, mentre la signora con il velo di pizzo, e così come l’artigiana si permette la corona del rosario, lei ha il messalino in mano con la custodia poggiata sulla sedia, fonte anche quest’ultima di dichiarazione classista nella raffinatezza della sua impagliatura.

Il contadino, inginocchiato, con il copricapo di foggia diversa e qualità inferiore a quello dell’artigiano, che già, nel rispetto dei momenti liturgici, si sente autorizzato a stare in piedi. Anche le due popolane, a marcatura simbolica della gerarchia sociale, le vediamo inginocchiate, in contrasto alla signora che si può permettere invece di stare seduta, come il signore d’altra parte, entrambi elegantemente abbigliati, con una nota di galateo religioso che vede la signora, in chiesa, priva di borsetta, cappello e ventaglio.

A proposito di abbigliamento e accessori mi piace far notare come l’epoca privilegiava in assoluto gli uomini: al gentiluomo, infatti, non è stato negato nulla: la bombetta e il bastone con l’impugnatura d’argento, il fermacravatta con il rubino come pietra preziosa, e l’orologio nel taschino del gilet con la sua bella catena d’argento.

Tutti particolari che al di là delle dissonanze e discrepanze sociali, al di là delle vanità e sovrastrutture umane, tornano a vantaggio di coloro che, per realizzare l’opera, hanno pazientemente trascorso le loro serate lavorando alla fioca luce dei petroli o delle lucerne ad olio, chi con l’ago in mano ricamando i paramenti sacri; chi con una pinza per torcere il filo di ferro e infilare perline al fine di creare i lampadari o le ampolline per l’acqua e per il vino; chi con le mani impiastricciate di colla per realizzare li pupi in cartapesta; chi con lo scalpello in mano per trasformare la pietra in armonia attinta dal creato.

E nella nota dei particolari in miniatura, nell’esecuzione di questo lavoro a conduzione familiare, da non sottovalutare calici e cartegloria, candelieri, croci e crocette, messali e messalini vari.

Dovrei dire sacrifici? No, in quel tempo i sacrifici erano quelli di chi zappava la terra! Direi piuttosto appagamenti devozionali e realizzazioni o soddisfazioni artistiche, pacatezze familiari e gioie lavorative in un tessuto esistenziale vissuto – come obby aristocratico – dalla classe per così dire evoluta di quel tempo, uomini sicuramente non emancipati come noi ma, nella saggezza, forse, superiori a noi… a noi che, a dispetto della loro paziente operosità, possiamo lavorare con lampadine accese che ci offrono una luce più che a giorno… a noi che non soltanto abbiamo la macchina da cucire e l’automobile e l’aereo e il treno, ma anche il telefono fisso e il cellulare, il PC e la posta elettronica, una facilità di vita, insomma, inimmaginabile all’epoca (e se immaginata, dai contadini sicuramente giudicata opera del diavolo), avviata con la conquista dell’energia elettrica e giunta a noi con tutti i confort che la tecnologia ci offre su un vassoio d’argento, tentando (ahinoi) di trasformarci in uomini robot.

* Giovanni Greco, “GIANSERIO STRAFELLA, (XVI SEC.), PITTORE COPERTINESE”, Edizioni Pro Loco, Copertino, 1990.

Sembra strano a dirlo, ma è così

di Pier Paolo Tarsi

È tanto piccolo questo Salento, eppure è troppo vasto. Sembra strano a dirlo, ma è così. Ci sono giorni che, per caso, si incontrano i tanti fili di una ragnatela che senza alcun senso si tesse col vivere. Quanti paradossi si creano o si sciolgono ai nodi, là, dove i sentieri si intersecano. Alcune strade si sono intrecciate pure oggi. E nessuna di queste ha una direzione precisa presa a sé.

Mi sono alzato tardi, ho l’amaro in bocca e nell’anima. È uno strano periodo questo. Sarà pure primavera, si, ma il mio è stato un risveglio nel più cupo autunno. Sarà che ho alzato un po’ il gomito ieri sera, sarà che c’è troppo disordine in casa, in me, intorno. È terminato ieri il corso di formazione che mi ha impedito qualunque altra attività per due mesi e più. Dovrei ordinare e pulire casa, pertanto decido di uscire. È da un po’ che non vedo Nino, il mio amico poeta. Non ho voglia di vedere nessuno in realtà e dunque lo chiamo, gli dico che passo a prenderlo per fare due passi: sembra strano detto così, eppure è così. Prima di arrivare da lui mi fermo a prendere un caffè e mi passano accanto uomini e donne su biciclette adornate di bandierine gialle con stampata una sigla: FIAB. So cos’è questa FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta), tre, quattro, forse cinque anni fa, in qualche modo venni in contatto attraverso la rete con “I Cicloamici”, il gruppo FIAB che se ne va pedalando per il Salento qua e là. Ricordo che scrivendo nel loro gruppo proposi persino di organizzare un itinerario per loro nei pressi di Torre Lapillo. A qualcuno però piacque per davvero l’idea e così pensai bene di non scrivere più in quel gruppo pedalante. “I CICLOAMICIIII???” grido a uno di loro mentre scendo dalla mia auto per andare al bar, questi rallenta, sorridente, “SIIIIII!” mi urla dapprima, e poi, avvicinandosi e frenando, aggiunge fiero e orgoglioso “Hai visto? Anche con questo tempo incerto siamo usciti!”. Mi piace assai questo tipo, vivo come non mi sento oggi io, frizzante come non so essere oggi io. Ci presentiamo, ma non ricordo il suo nome, forse si chiama Giulio.

Gli chiedo dove vanno e mi risponde che pedalano verso Leverano per visitare qualcosa, ma non capisco cosa.

Ci salutiamo e il forse-Giulio riparte con una bella ed energica pedalata. Io invece pigramente mi rimetto in auto, vado a prendere Nino, senza neanche prendere più il caffè, mi tengo l’amaro in bocca, nel cuore, dappertutto.

Quando Nino monta in auto, senza neanche veramente volerlo, guido verso Leverano, sono solo tre/quattro chilometri da noi. L’amico poeta mi fa notare che sono tre mesi che non ci vediamo, da quando l’avevo accompagnato ad acquistare una macchina fotografica digitale che non ha mai neanche acceso. Aspettava me perché gli mostrassi come si fa. Gli avevo promesso che lo avrei fatto e poi lo avevo un po’ dimenticato. L’ha portata dietro con sé. Scendiamo dall’auto.

A Leverano è tutto un tripudio di fiori che colorano le vie del centro storico, le cantine delle case, le chiesette, gli angoli delle corti. Ecco dove andavano difilati i Cicloamici, alla “festa dei fiori”. La festa ci viene incontro, proprio come l’occasione giusta per imparare ad usare una digitale. Qualche volta i paradossi si sciolgono. Allora è tutto un fotografare, un affacciarsi nelle chiese mai visitate, negli anfratti mai visti. Quante volte sarò venuto qui? Cento? Mille? Diecimila? Eppure non ho mai incontrato questo paesino. È   tanto piccolo questo Salento, deve essere piccolo se, uscendo da casa, incontri i Cicloamici che avevi conosciuto in rete, e tuttavia deve essere immenso se a soli tre chilometri da casa c’è tanta bellezza che ti è sempre sfuggita. Un paradosso emerge, e poi un altro si scioglie. Viaggiare forse non ha niente a che vedere con il movimento, è semplicemente stare, saper stare fermo, per prendere quanto ti viene incontro. Ecco, sembra strano a dirsi, eppure deve essere così.

Prendiamo finalmente il caffè. Paga Nino, ci tiene veramente a pagare lui, gli fa piacere e lo lascio fare, così ogni volta. Faccio un po’ di foto pure ai Cicloamici, qualcuno di loro mi guarda un po’ sospettoso. Fa nulla, vallo a spiegare che sono un quasi-cicloamico senza nessuna voglia di mettermi su una bicicletta per andare a Torre Lapillo o chissà dove. “Come hai detto? I ciclamini??” mi chiede Nino. Beh, comprensibile che abbia capito male quanto da me farfugliato, contornati come siamo da miliardi di fiori. “Cicloamici Nino, cicloa-m-i-c-i!” scandisco stavolta. Intanto continuo a fotografare artistiche composizioni floreali sparse per il centro storico, i fiori attorcigliati sui lampioni, negli angoli, nei cortili delle vecchie abitazioni, sulle scalinate, ed anche Nino prova a fotografare: “Non devi infilare l’occhio nello schermo, non è un obiettivo Nino!” Si deve liberare dell’automatismo del maneggiare una qualunque vecchia macchina fotografica che lo porta a ficcarsi col naso sulla digitale. Credo che presto ce la farà. Intanto s’è fatta ora, ce ne andiamo. Ci salutiamo, promettendoci di vederci molto presto.

L’amaro in bocca è ancora intenso, non ho fame, ma voglio andare a mangiare lo stesso. Sembra strano a dirlo, ma è così.

Ed è altrettanto strano continuare a ripetermi che non sono affatto innamorato di lei, perché l’avrei voluta accanto a me, sempre, da quando l’ho lasciata, ieri sera, e l’avrei voluta accanto a me prima, tra tutti quei fiori, ed ora, mentre scrivo, oggi, il giorno dopo la fine di un corso nel quale l’ho conosciuta, il giorno in cui mi accorgo che un altro sentiero della ragnatela è appena terminato. Sembra strano a dirlo, ma è così?

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