Salve. La Grotta Montani e le stalle dei Neanderta(ita)liani

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

 di Marco Cavalera

 

Le pietre raccontano storie millenarie di epoche remote in cui l’uomo raccoglieva i doni della terra e combatteva contro gli animali battaglie quotidiane per la sopravvivenza, mentre le donne svolgevano le faccende domestiche e, come oggi, nutrivano di amore materno la prole.

L’Uomo di Neandertal, il predecessore di Sapiens, non era molto diverso dall’uomo moderno; la corporatura più bassa e tozza gli consentiva di svolgere lavori più fisici che intellettuali.

La forza fisica l’aveva ereditata dall’Homo heidelbergensis ma, allo stesso tempo, aveva sviluppato un cervello più grande che gli permetteva di comunicare, usare il fuoco e scheggiare la dura pietra che utilizzava per molteplici attività. Aveva evoluto anche una buona capacità di pianificazione delle operazioni, ossia poteva immaginare che da un ciottolo informe di materia prima si potevano produrre tanti strumenti di più ridotte dimensioni.

Circa 70mila anni fa una lunga stagione calda stava gradualmente lasciando il posto ad una molto  fredda e rigida. Neandertal, avvezzo a non subire i mutamenti della natura, non aveva sofferto particolarmente questo cambiamento climatico. Anche la corporatura si era adattata al clima più freddo con un accorciamento degli arti superiori e inferiori.

Prima che il suo ramo evolutivo si estinguesse definitivamente, aveva convissuto una decina di migliaia di anni con il nostro predecessore Homo Sapiens. Ci fu convivenza, non promiscuità.

Sarebbe mai riuscito l’uomo moderno, autodefinitosi impropriamente Sapiens Sapiens, a convivere con i membri della stessa specie oltre 10mila anni?

Immaginiamoci se fosse esistito già 40mila anni fa: altro che 10mila anni (secolo più secolo meno) di vita in comune, sarebbe riuscito ad eliminare il suo coinquilino in pochi decenni, così come è successo – ad esempio – alle tribù indigene della foresta amazzonica o dell’Africa equatoriale.

Ma la presunta superiorità intellettuale dell’Uomo (in)Sapiens in(Sapiens) ha colpito, a distanza, anche i suoi più antichi antenati. L’arma è stata la più micidiale: l’oblio della Memoria attraverso la distruzione di interi siti archeologici in nome di un progresso che è regressione della civiltà umana, incapace di guardare al futuro (consumo sfrenato di risorse naturali) e ugualmente miope nei confronti del passato.

Facciamo un passo indietro nel tempo di 70mila anni. Nel deserto roccioso e boschivo della penisola salentina, Neandertal aveva scelto Salve.

Il territorio, infatti, presentava tutte le caratteristiche che gli garantivano una sicura sussistenza: ruscelli di acqua dolce, caverne e ripari sotto roccia con vista mozzafiato, tanta selvaggina. Elefanti, iene, rinoceronti, cervi e altre specie di mammiferi ed ungulati scorrazzavano su e giù tra canali e pianori, facendo letteralmente impazzire il povero neandertaliano. La madre dei suoi figli aspettava impaziente l’arrivo del “marito” con la succulenta cena.

grotta Montani (foto Nicola Febbraro)
grotta Montani (foto Nicola Febbraro)

Grotta Montani a Salve, così denominata in epoca moderna per il diffuso affioramento di roccia (“munti”), era nel Paleolitico Medio un ottimo rifugio per neandertaliani. Si trattava di un complesso di cavità costituito da un ambiente centrale, da cui si diramavano quattro cunicoli lunghi e stretti, all’interno dei quali il nostro ominide si riparava dal freddo e consumava i pasti.

Il primo ambiente aveva un’enorme apertura rivolta verso il mare, ampio e bene illuminato dalla luce del sole che entrava copiosa nelle ore centrali del giorno. Qui Neandertal scuoiava gli animali e scheggiava meticolosamente nuclei di selce, giunta fino all’estrema propaggine del Capo di Leuca da chissà dove attraverso chissà quali scambi e baratti, da cui ricavava strumenti di pietra di piccole e medie dimensioni che utilizzava per le sue attività quotidiane.

pietra zoomorfa (foto marco cavalera)
pietra zoomorfa (foto marco cavalera)

Rinvenire tracce, dirette o indirette, del passaggio dell’Uomo di Neandertal è come trovare un ago in un pagliaio. Nel Salento meridionale, ad esempio, sono state individuate alcune cavità frequentate dai primi uomini della Preistoria salentina: grotta del Bambino a nord – ovest di Santa Maria di Leuca, grotta del Cavallo e di Capelvenere presso Nardò.

Grotta Montani, 40 anni fa (nel 1973), fu oggetto di scavi archeologici che avevano messo in luce una notevole quantità di strumenti in selce e calcare utilizzati da Neandertal, associata ad un numero elevato di frammenti di ossa alcuni dei quali appartenenti ad elefanti, rinoceronti, iene, cinghiali e conigli. Prelibate prede che, probabilmente, insieme ad altre peculiarità come la presenza di sorgenti di acqua dolce per dissetarsi e distese boschive per la raccolta di frutti spontanei, hanno contribuito alla scelta del luogo.

Migliaia di anni dopo sono state altre caratteristiche geo-morfologiche ad attirare l’uomo: la sabbia dorata finissima e il mare turchese limpido, paragonati a celeberrime isole esotiche dell’Oceano Indiano.

stalle neandertal (1)
stalle neandertal (1)

Sul pianoro che sovrasta la grotta – recentemente – sono state realizzate delle abitazioni in funzione di “case agricole”, “stalle” per animali di grossissima mole, con vista mare mozzafiato.

stalle neandertal (2)
stalle neandertal (2)

Alcuni “ambientalisti” hanno ritenuto che le case siano state realizzate come residenze per turisti danarosi, sfruttando dei regolamenti provvisori (da 30 anni) che permettono di costruire “stalle” e depositi di attrezzi agricoli anche laddove non vi sono terreni utilizzabili a questi scopi ma, guarda caso, distanti solo un chilometro e mezzo dalla sabbia finissima e dal mare limpidissimo.

Non dubitando della buona fede dei costruttori, verrebbe a questo punto da pensare che le abitazioni di località Montani siano state realizzate per ospitare la famiglia di Neandertal, con i suoi elefanti e rinoceronti…vissuti però, a Salve, oltre 70mila anni fa.

 

stalle neandertal (3)
stalle neandertal (3)

 

Bibliografia di riferimento:

Arsuaga J. L., I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, Milano 2001.

Febbraro N., Archeologia del Salento. Il territorio di Salve dai primi abitanti alla Romanizzazione, Tricase 2011.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/18/grotte-nel-territorio-di-salve-lecce/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/dalluomo-di-neanderthal-allhomo-insapiens-il-triste-destino-di-localita-montani-salve/

 

Grotte nel territorio di Salve (Lecce)

GROTTE  IN  LOCALITÀ  MACCHIE   DON CESARE  NEL  TERRITORIO  DI  SALVE

 

di Marco Cavalera – Nicola Febbraro

ingresso di Grotta Febbraro

Un programma di ricerca avviato, fra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, dal gruppo speleologico salentino “P. de Lorentiis” di Maglie, in collaborazione con l’Istituto di Archeologia e Storia Antica dell’Università di Lecce, ha interessato diverse aree del Capo di Leuca e fra queste alcune del territorio di Salve. Le ricerche di superficie hanno portato all’individuazione di un cospicuo numero di ripari sottoroccia, grotte e siti all’aperto, caratterizzati dalla presenza di depositi ad interesse paletnologico.

Fra le scoperte effettuate, rientrano alcune grotte individuate e segnalate, nel 1973, dai fratelli Antonio e Francesco Piccinno, in località Macchie Don Cesare (Salve); si tratta delle grotte denominate “Speculizzi I, II, III e IV”.            

Prendendo spunto dalle notizie d’archivio e bibliografiche a disposizione, è stata svolta una ricerca di superficie con lo scopo di individuarle e posizionarle più precisamente, integrandone  la documentazione. Fra le quattro citate sono state localizzate solo quelle note come “Speculizzi III e IV”.

 

Grotta Febbraro

Alla cavità denominata “Speculizzi III”, considerando l’incertezza sulla località di pertinenza, è stato assegnato il nome del proprietario del fondo dove è ubicata diventando, pertanto, Grotta Febbraro. Essa si sviluppa  nelle

Il fenomeno dei dolmen nella Puglia meridionale

 

Dolmen Scusi (Minervino di Lecce). Foto N. Febbraro

di Marco Cavalera, Nicola Febbraro

Intorno alla fine del IV millennio a.C. (Neolitico finale) si assiste ad un lento processo di differenziazione nell’organizzazione sociale dei gruppi umani che assumono, sempre più, la forma di comunità sedentarie, dedite all’agricoltura e alla pastorizia.

L’evoluzione culturale e sociale coinvolge anche la sfera dell’aldilà, con la conseguente esigenza di rivolgere maggiore attenzione ai defunti e alle loro ultime “dimore”. A tal proposito si iniziano ad utilizzare piccole cavità artificiali come sepolture collettive, fenomeno che avrà grande diffusione nell’età del Rame, per culminare poi nell’età del Bronzo con una maggiore articolazione e complessità delle tombe a grotticella costituite da una pianta rettangolare, corridoio (dromos) di accesso (non sempre attestato) e cella funeraria vera e propria; quest’ultima si caratterizza per la presenza di un gradino – sedile che corre su tre lati, di nicchie scavate nelle pareti e caditoie sulla volta[1].

Nel Salento meridionale una tomba a grotticella è stata individuata e indagata nel territorio comunale di Specchia, nel sito archeologico di Cardigliano. Lo scavo, condotto nel 1989 dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia in località Sant’Elia, ha permesso di rinvenire alcuni vasi ad impasto frammentari, provenienti dall’ambiente ipogeico scavato sul fianco di un basso costone roccioso ed utilizzato come sepoltura collettiva[2]. La struttura era costituita da una cella sepolcrale pressoché quadrangolare, fornita di una banchina sul lato est e di un letto sul lato nord, alla quale si accedeva da un vestibolo mediante tre rozzi scalini. La cella presentava sul lato sud un piccolo vano sub-circolare, dal quale vennero recuperati resti scheletrici umani. Tra il materiale fittile rinvenuto, riferibile all’età del Bronzo medio, vi è un’olla con anse tubolari verticali e una ciotola carenata con ansa a nastro verticale[3].

Alla stessa epoca di utilizzo delle cavità artificiali a scopo funerario risale la realizzazione dei monumenti megalitici noti come dolmen, termine di origine

Piccolo approdo di età romana in località Lido Marini (Ugento)

di Marco Cavalera, Nicola Febbraro

Lido Marini, località balneare divisa tra i comuni di Salve e di Ugento, si caratterizza per un tratto di spiaggia, che si alterna tra sabbia finissima e bassa scogliera.

Lungo la costa rocciosa, a sud della marina, dove l’acqua diventa improvvisamente fredda e dolce – per la presenza di alcune sorgenti subacquee – si conservano significativi resti di costruzioni associati ad abbondante materiale ceramico. Si tratta di una struttura muraria parallela alla linea di costa, lunga circa 17 metri, perpendicolarmente alla quale se ne sviluppano altre tre lunghe circa 2 metri.

I resti murari sembra che un tempo definissero una serie di ambienti in seguito intaccati dall’azione erosiva del mare, che ha determinato il continuo arretramento della linea di costa.

I ruderi – conservatisi in alzato per un’altezza di circa 40 cm- sono costituiti da pietre calcaree informi, di piccole e medie dimensioni, poste in opera direttamente sul banco roccioso e da numerosi frammenti ceramici (in prevalenza laterizi), il tutto coeso con malta.

Alle strutture sono connessi depositi archeologici; l’erosione marina, infatti, ha messo in luce alcune sezioni di sedimento terroso ricco di frammenti ceramici.

Poco distante dalle costruzioni si individua un tumulo artificiale, di pietre calcaree informi e terra, eroso anch’esso dall’azione del mare. In sezione è presente un significativo strato di frammenti ceramici che poggia direttamente sul banco roccioso. Molto probabilmente si tratta di una base per il sovrastante allineamento di blocchi e pietre calcaree, in opus caementicium.

La datazione delle strutture dipende dall’inquadramento cronologico degli

Il territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione

ARCHEOLOGIA DEL SALENTO

Il Territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione

di Sandra Sammali

Siamo nati in Africa circa 5 milioni di anni fa. Nel tempo, ci siamo evoluti: dal primo ominide siamo arrivati all’Homo Sapiens, circa 30.000 anni fa. Allora vivevamo di caccia e raccolta, spostandoci di volta in volta lì dovela Terraci offriva nuovi frutti e materie prime, dominati dalla natura e inconsapevolmente vincolati ai suoi mutamenti.

Poi, circa 8.000 anni fa, è avvenuto il cambiamento epocale: siamo passati a modi di vita sedentari e alla produzione di cibo per mezzo dell’allevamento e dell’agricoltura, dalla pietra scheggiata alla pietra levigata e ai minerali metallici.  Da quel momento, la nostra evoluzione non si è più arrestata e ci ritroviamo, oggi, in quella che il Nobel Paul Crutzen ha definito l’era dell’ “Antropocene”, già..perché oggi è proprio l’uomo, anthropos, a dominare prepotentemente su tutto il resto.

Paleolitico, Mesolitico, Neolitico, età dei Metalli, età iapigio – messapica ed età romana: 2.000.000 di anni, è questo l’arco di tempo racchiuso e raccontato tra le pagine di Archeologia del Salento. Il territorio di Salve dai primi abitanti alla romanizzazione, di Nicola Febbraro (ed. Libellula), laureato in Archeologia nel 2006, presso l’Università di Lecce. In quest’opera, l’archeologo salvese, grazie alla collaborazione di Marco Cavalera, laureato in Archeologia e di Anna Lucia Nicolì, laureata in Lingue e Letterature

Grotte nel territorio di Salve (Lecce)(seconda parte)

GROTTE  IN  LOCALITÀ  MACCHIE  DON CESARE  NEL  TERRITORIO  DI  SALVE (SECONDA PARTE)

 

  di Marco Cavalera – Nicola Febbraro
 

 

tratto iniziale del corridoio di Grotta Marzo

 

Alla cavità denominata dai fratelli Piccinno “Speculizzi IV”, distante circa 80 metri da Grotta Febbraro, è stato assegnato il nome del proprietario della particella in cui è ubicata diventando, pertanto, Grotta Marzo.

     La grotta si sviluppa nelle formazioni del Calcare di Altamura, lungo la stessa antica linea di costa sulla quale si aprono le grotte Febbraro e Montani, ad un’altitudine di 74 metri s.l.m.

L’accesso alla cavità è reso particolarmente difficoltoso dalla fitta presenza di macchia mediterranea. La sua apertura, di piccole dimensioni, presenta una regolarizzazione alla base, ottenuta mediante la realizzazione di un muro a secco. La grotta è costituita da un corridoio, dalla planimetria piuttosto regolare, così come le pareti e la volta che si caratterizzano, verso il fondo, per la presenza di concrezioni calcaree.

Un muro a secco di notevoli dimensioni separa il corridoio da un ampio cunicolo, il cui asse principale è pressoché perpendicolare al primo. La realizzazione del muro è da attribuire alla frequentazione d’età post-medievale della cavità da parte di contadini e pastori. Superato il muro si accede, con difficoltà, all’interno del cunicolo dove il notevole abbassamento della volta e il considerevole aumento del sedimento terroso (incoerente e pulverulento) consentono di procedere carponi per i primi 5 metri, dopodichè il cunicolo diviene inaccessibile. Grazie ad una

Torri costiere del Salento meridionale

 

 

Torre Pali (Salve) (ph Nicola Febbraro)

TORRI COSTIERE DEL SALENTO MERIDIONALE. INQUADRAMENTO STORICO

 

di Marco Cavalera e Nicola Febbraro

Il sistema difensivo della Puglia, a partire dalla presa di Otranto del 1480/81, si caratterizzava per una generale insicurezza e precarietà, in quanto le strutture fortificate risalivano, per lo più, alla metà del XV secolo, ossia all’assetto difensivo definito e voluto dagli aragonesi.

Nel 1484, con la ferita che aveva lacerato il Salento pochi anni prima ancora aperta, i Veneziani occuparono la penisola, dopo essere sbarcati presso Mancaversa (Taviano).

Taurisano, tra il 1522 e il 1532, venne ripetutamente saccheggiata, come attestato dal sensibile calo di popolazione registrato nei documenti storici (Cortese 2010).

Nel 1537 i Turchi, guidati dal pirata algerino Khair-ed-Din (detto il Barbarossa),  distrussero Castro, Marittima e, sul versante ionico, Ugento.

Le coste del Salento, anche negli anni successivi, subirono continue incursioni piratesche. Al 1543, in effetti, risale lo sbarco nei pressi della Marina di Morciano di Leuca, con i Turchi che si spinsero nell’entroterra alla volta di Presicce. Nel 1544, invece,  giunsero sulle coste gallipoline e, tre anni dopo, ben quattrocento pirati – condotti da Dragut – sbarcarono nei pressi dell’attuale Torre Pali da dove partirono alla volta di Salve (che non riuscirono ad espugnare) e dei paesi limitrofi. Le loro scorribande si fermarono a Gagliano del Capo dove molti cittadini radunati in chiesa furono uccisi, mentre altri vennero deportati come schiavi (Cazzato 1989).

Torre Uluzzo (Nardò) (ph Nicola Febbraro)

 

Il reggente Ferrante Loffredo, per contrastare l’incombente minaccia turca,

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